11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

mercoledì 30 aprile 2008

111


S
enza indugi, Cor-El comandò ai propri uomini di far vela verso i moli di Kirsnya, unica provincia occidentale del regno di Kofreya, il cui vasto porto si offriva in fronte alla prua della Har’Krys-Mar. Da quegli stessi moli erano salpati solo dieci giorni prima, intenzionati a compiere un lungo itinerario verso sud, comprendendo tutte le isole lungo la costa del continente, sia indipendenti sia sotto il controllo tranitha, per periodiche questioni d’affari. In effetti, non era previsto il loro ritorno in quel lido prima di altri tre o quattro mesi e ciò avrebbe sicuramente comportato qualche discussione burocratica con le autorità locali: ma il capitano ed il suo equipaggio erano ben noti ed apprezzati in quella capitale e, pertanto, avevano speranza di non ritrovare forti opposizioni al loro ingresso in porto.

Kirsnya, similmente alla maggior parte delle grandi città portuali del continente, non si offriva né libera né accogliente verso gli stranieri: al contrario, tanto via terra, quanto via mare, essa presentava alte barriere a protezione delle proprie ricchezze, dei propri territori da eventuali assalti nemici, avversari rappresentati certamente in primo luogo dai pirati, i razziatori dei mari, ma anche da tutti i regni che la politica locale aveva loro inimicato. Certamente rispetto a province come Kriarya o Krezya, poste ad oriente del regno, confinanti con Y’Shalf e in conseguenza di ciò protagoniste di una guerra priva di speranza o memoria, Kirsnya non era, in quel momento, zona focale di interesse militare. Non per tale ragione, comunque, essa poteva concedersi oziosa di fronte ai possibili pericoli offerti dal resto del mondo.
Nella ricerca continua e quasi paranoica di sicurezza, in una forma esagonale quasi perfetta che contraddistingueva lo stile culturale ed architetturale kofreyota, altissime mura racchiudevano sul fronte continentale la città, controllandola esternamente e, forse, internamente con una serie di fieri torrioni in egual geometrica forma: solo tre vaste porte consentivano in orari diurni l’accesso o l’uscita alla città, serrandosi nella notte a contenerla ermeticamente in un guscio protettivo praticamente impenetrabile. Sul fronte del mare, similmente, un’altra barriera era stata eretta nel corso dei secoli, in sfida al moto ondoso continuo che avrebbe impedito il permanere di una qualsiasi cinta muraria: trovando fondamento in una vasta serie di chiatte, una seconda ed alta cinta muraria in legno si fondeva perfettamente con le estremità della prima in muratura, estese verso il mare su due lunghi moli. In tal modo, anche a ponente, la possibilità di libero accesso alla città ed alla zona portuale risultava completamente controllata: il flusso di imbarcazioni, in ingresso o in uscita, poteva essere regolato attraverso un varco, una larga porta marittima che, parimenti alle proprie colleghe terrestri, la notte veniva serrata nella congiunzione dei propri vertici, chiudendosi simile a coppia di labbra che non sarebbero potute esser forzate. Anche lungo tale barriera in legno una serie di torri di guardia non avevano mancato di essere innalzate, più basse dei fari in muratura alle loro estremità ma non per questo meno funzionali, perennemente controllate da parte della capitaneria di porto per essere in grado di rilevare in ogni momento eventuali pericoli provenienti dal mare ed, eventualmente, provvedere repentinamente ad offrire loro un’adeguata reazione. Se oltre a tutto ciò, poi, era considerata la permanenza di due flotte appartenenti alla marina militare kofreyota, che in Kirsnya stessa vedevano il proprio riferimento logistico, nonché la scontata presenza altrettanto permanente di tre contingenti facenti parte dell’esercito, al pari di qualsiasi altra provincia del regno fatta eccezione per Kriarya, città del peccato in balia di un sistema inverso di principi sociali e civili, quella capitale portuale avrebbe potuto far vanto senza falsa modestia del proprio livello di sicurezza, capace di assicurare ai propri cittadini una vita assolutamente tranquilla nonostante i mille pericoli del mondo a loro circostante.
Chiusa in quella barriera protettiva forse inespugnabile, la capitale si era sviluppata così nel più classico stile del regno a cui apparteneva, presentando una serie di bassi edifici e di alte torri tendenti al cielo, sempre di forma assolutamente geometrica e priva di qualsivoglia arrotondamento anche laddove ci si sarebbe attesi una dolce cupola e angoli più smussati. Bianco era il principale colore della città come in ogni centro urbano kofreyota, colore del marmo e del travertino, ma su tale pallore un evidente contrasto era offerto dal legno: così come, infatti, la cinta muraria si divideva a metà fra pietra e legname, anche la maggior parte delle edificazioni sembrava voler o dover rispettare tale duplice natura, formandosi nei due materiali in egual misura e riservando, normalmente, al castano del legno il proprio versante superiore ed alla pietra le fondamenta necessariamente più robuste. Eccezioni uniche a quella moda architettonica imperante risultavano essere le torri, abitazioni e fortezze per le personalità più ricche e potenti della città, che per le proprie estensioni verticali non avrebbero potuto trovare nel legname forza idonea a reggere cotanta struttura: tali erezioni si disseminavano in maniera omogenea e non coordinata in tutto il territorio della città, senza creare in conseguenza particolari sezioni all’interno della stessa in base al ceto dei residenti. All’interno di Kirsnya, del resto, non erano molti i non abbienti. Fatta eccezione per i membri dei vari equipaggi lì in scalo, infatti, la quasi totalità dei residenti della capitale era composta da facoltosi mercanti o nobili armatori e relativi dipendenti, servitori, guardiani e galoppini: chiunque non potesse dimostrare la possessione di un ingente capitale o non fosse subordinato ad un garante che lì avesse dimora, non sarebbe stato ben accetto all’interno di quelle mura e, laddove la sua presenza si fosse protratta per più di poche ore, un efficiente servizio di sorveglianza cittadina sarebbe prontamente intervenuto a ristabilire lo status quo violato.
Un ambiente riservato a pochi, pertanto, in cui gli esuli di Konyso’M non avrebbero di certo ritrovato alcuna calorosa accoglienza, come al contrario avrebbero loro offerto in una situazione inversa.

« Capitano! » richiamò l’attenzione di Cor-El il giovane di vedetta sulla cima dell’albero maestro « Ci hanno avvistato e ci domandano le ragioni del nostro arrivo. »

Le comunicazione fra i torrioni in legno della cinta marittima e la Har’Krys-Mar era, come sempre in simili casi, garantita da un gioco di specchi, che attraverso un codice localmente riconosciuto, permetteva l’immediato scambio di messaggi anche a lunga distanza, quale ancora era quella fra la nave ed il confine cittadino.

« Rispondi loro che abbiamo incontrato una flotta di pirati che ci ha costretto a invertire la rotta. » ordinò la donna, a braccia conserte sotto al seno, in posizione eretta sul cassero di poppa, vicino al timoniere « E comunica che abbiamo necessità urgente di attraccare. »
« Ritieni che potranno crearci problemi? » domandò il di lei secondo in comando, accostandosi ad ella nel risalire dal ponte centrale.
« Assolutamente sì. » rispose il capitano, piegando appena i lati delle labbra verso il basso, in una lieve smorfia di dissenso « Sai meglio di me quanto sia xenofobo il clima di Kirsnya, soprattutto verso chi non possiede ricchezze. E noi stiamo trasportando un convoglio di profughi privi di qualsiasi possedimento fatta eccezione per i vestiti che indossano. »
« Purtroppo le nostre scorte non sarebbero in grado di mantenerci un giorno di più con tutte queste persone a bordo. » annuì l’uomo, volgendo lo sguardo verso il varco d’ingresso al porto « Altrimenti avremmo potuto cercare di raggiungere una meta più felice di questa. »
« Come fai notare non abbiamo scelta. » tagliò corto Cor-El, scuotendo appena il capo « Varcare le mura non sarà comunque un problema, dato che non possono sapere ciò che è accaduto: le grane avranno inizio una volta attraccati. » commentò concludendo « Per noi… e per loro. »

martedì 29 aprile 2008

110


A
bordo della Har’Krys-Mar, Heska ed uno dei gruppi di profughi di Konyso’M veleggiarono per quasi tre giorni prima di giungere in vista della costa occidentale del continente.
In tale tragitto i venti furono loro favorevoli ed il tempo che incontrarono si dimostrò assolutamente clemente, quasi gli dei volessero offrire loro le proprie scuse per la sciagura lasciata piombare sull’isola in un giorno originariamente fausto. Ma tutto ciò non fu sufficiente per rendere il viaggio confortevole per gli esuli.

La Har’Krys-Mar era una caracca di oltre centoventi piedi di lunghezza e quaranta di baglio, dotata di quattro alberi e due casseri: il primo a poppa, rendendo la medesima alta e tonda quasi simile ai fianchi di una fertile donna, ed il secondo a prua, in un portamento più forte ed aggressivo verso il mare con il quale si confrontava indomitamente da oltre quarant’anni. Offrendo al vento grandi e lucenti vele bianche ed alle onde una chiglia rosso fuoco, risplendente ed impetuosa nel confronto col color legno del resto della carpenteria, essa si concedeva allo sguardo sufficientemente ampia da poter assolvere ai propri compiti di natura mercantile in maniera più che efficiente e competitiva, senza, al contempo, giungere a competere con l’imponenza di grandi vascelli da guerra, di cui del resto non cercava imitazione.
A condurla attraverso le mille insidie della propria lunga esistenza, era l’azione perfetta di un vasto equipaggio formato da trentadue fra uomini e donne e comandato dall’esperienza e dal coraggio di capitan Cor-El. Donna matura ed apparentemente fredda nel proprio comportamento e nel rapporto con i propri compagni e subordinati, ella era stata per oltre vent’anni al servizio del precedente capitano della nave, iniziando come mozzo e proseguendo in una lenta ma tenace carriera che l’aveva vista giungere, prima, al ruolo di secondo in comando per, poi, ereditare il ruolo e la proprietà della caracca alla prematura dipartita del suo superiore e predecessore, secondo la consuetudine di successione comune ad ogni mare e regno. In contrapposizione a ciò che desiderava mostrare della propria emotività, del proprio animo, in un controllo completo su se stessa al pari della propria nave, ella era ben lontana dal risultare allo sguardo come gelida, priva di passionalità: il di lei corpo, nonostante la lontananza dalla fanciullezza, si concedeva allo sguardo come formoso, ricco di curve nei punti più adatti, sui seni e sui fianchi, in forme colme di una sensualità che solo nella maturità si poteva raggiungere in contrapposizione agli ancor acerbi corpi giovanili. Occhi ambrati risplendevano al centro di un viso tondo, appena segnato da poche rughe e circondato da alcuni ciuffi di capelli castano chiari, quasi biondi e bianchi, forse per effetto del sole o forse dell’età: tali boccoli, comunque, che non si concedevano nella propria integrità, coperti quali apparivano da un turbante turchese che poco o nulla permetteva di notare di essi. La di lei pelle si mostrava, poi, estremamente abbronzata, tale da farla apparire quasi una figlia dei regni centrali, del deserto, nonostante in origine essa fosse stata estremamente chiara, nell’apparenza tipica di diverse popolazioni del sud: solo i lunghi anni trascorsi sul ponte della nave, bruciando nei mille riflessi delle onde, le avevano donato quel colore, le avevano concesso quella naturale e utile protezione dagli effetti negativi del sole non ereditata dal sangue dei propri avi. Sulla stessa pelle, lungo le di lei braccia, non potevano mancare due complesse serie di tatuaggi, segno evidente della di lei esistenza votata al mare, simili eppure sempre diversi da quelli di qualsiasi altro marinaio: unici ornamenti per il di lei corpo, oltre ad essi, erano due serie di bracciali attorno ai polsi che insieme a vestiti in colori blu, suoi preferiti, completavano il semplice ma intrigante quadro da ella offerto.

Per Heska non fu il primo lungo viaggio affrontato nella propria vita: in due diverse occasioni aveva infatti avuto modo accompagnare il padre e qualche amico di famiglia fino al continente, fino ad uno dei vari porti presenti lungo il litorale. Nonostante ciò, ella era ben lontana dal potersi qualificare come esperta: nata nelle isole, sicuramente era una figlia del mare ma non per questo una marinaia adatta alla vita di bordo. Un conto, infatti, era la coesistenza con l’immensità blu delle acque nella breve navigazione a bordo di imbarcazioni di pescatori o, eventualmente, in qualche lunga nuotata seguendo le tranquille coste della propria terra, obiettivi che già per la maggior parte delle persone sarebbero apparsi irraggiungibili: tutt’altra cosa, al contrario, era vivere per giorni interi chiusi in un ambiente comunque limitato privati della benché minima intimità in ogni momento della giornata, come sarebbe stato anche quello della più vasta fra le navi. In quella particolare occasione, a peggiorare tale prospettiva non piacevole per lei come per ogni altro suo compagno di viaggio, fu l’ovvio sovraffollamento presente a bordo della nave: imbarcati in fretta e furia, con il solo pensiero di poter trovare salvezza dall’ira dei pirati, le donne ed i bambini dell’isola si erano ritrovati stipati come merci nel ventre della nave, costretti a seguire rigidi turni per poter godere della possibilità di respirare liberamente aria sul ponte della stessa. Nessuno fra loro era ovviamente prigioniero ed, in effetti, tutti i membri dell’equipaggio, a partire dal capitano fino a giungere all’ultimo dei mozzi, cercavano di dimostrare loro ma più totale cortesia ed affabilità: purtroppo, però, il ponte di un veliero non era progettato per accogliere una folla di gente loro pari e qualsiasi manovra, anche la più banale, sarebbe risultata ostacolata dalla presenza di un numero eccessivo di persone, soprattutto laddove estranee all’azione obbligatoriamente coordinata di un’affiatata squadra come solo poteva essere quella alla guida di una nave.
Tre giorni di viaggio, per quanto privi di imprevisti, furono in conseguenza di tutta quella particolare situazione decisamente stremanti e quando venne finalmente offerto il grido di « Terra! » una sensazione di gioia collettiva non poté evitare di conquistare tutti i presenti all’interno dell’abbraccio protettivo della Har’Krys-Mar.
La giovane dai capelli color del sole aveva svestito fin dalla partenza il proprio eccessivo ed ingombrante abito nuziale in favore di un completo più modesto, di foggia maschile, offertole da un giovane marinaio della nave con una taglia a lei simile. Seguendo i comandi dell’alcalde, alcuno fra loro aveva avuto la possibilità o il tempo di raccogliere i pur minimi effetti personali: ella, pertanto, avrebbe rischiato di dover mantenere quelle vesti diventate improvvisamente inutili e pesanti, psicologicamente oltre che fisicamente, se non fosse intervenuta la cortesia di un suo ospite, anfitrione a bordo di quella nave a lei sconosciuta. Ma il disagio di quell’impetuosa ed affrettata fuga dall’isola, per lei come per ogni altro abitante di Konyso’M, si dimostrò concreto solo dopo la conclusione dell’entusiasmo per l’avvistamento di un nuovo porto in cui approdare: tutti loro si sarebbero ritrovati, infatti, improvvisamente stranieri in terra straniera, privi di beni, privi di denaro. Anche considerando l’eventualità di aiuti offerti loro dall’equipaggio del veliero, approfittando ingiustamente di tutta la generosità che già stava venendo loro concessa, essi non avrebbero potuto resistere a lungo in quella situazione, non avrebbero potuto affrontare allo sbaraglio, quali a tutti gli effetti essi erano, il futuro che si parava loro di fronte: se l’idea della fuga dalla loro isola, dell’allontanamento dal pericolo rappresentato dai pirati era sembrata, nell’immediato, la migliore fra le alternative possibili, quella stessa soluzione ora sembrava a loro priva di un qualsivoglia realismo o giudizio.
Dove li avrebbe potuti condurre la diaspora, seppur speranzosamente temporanea, in cui erano stati coinvolti loro malgrado?
A quella domanda, nessuno fra loro poteva dare risposta, a quella domanda ognuno di loro temeva di dare risposta.

« Prego solo affinché Mab’Luk sia ancora in vita… » sussurrò la promessa sposa, invocando in cuor suo tutti gli dei a lei cari, perché potessero vegliare sul suo amato.

lunedì 28 aprile 2008

109


N
ei canti di eroi e liberatori, di indomiti cavalieri e guerrieri, la realtà dei fatti finiva sempre per essere distorta, per essere esaltata oltre ogni limite, facendo apparire quasi incantate anche le peggiori fra le sciagure ed evitando di elencare i particolari non propriamente gradevoli di quelle avventurose esistenze: ad esempio, da alcun bardo Mab’Luk aveva mai sentito narrare di un violento conato di vomito simile a quello che provò ritornando alla vita, ritrovando coscienza di sé al di fuori dell’oscurità in cui credeva di essersi smarrito. L’intero stomaco, per quanto praticamente vuoto, si rivoltò come un guanto, spingendo succhi gastrici e bile ad esplodere violentemente fuori dalle sue labbra, soffocandolo quasi in quel primo risveglio. Immediatamente a seguito di tale non proprio onorevole momento, il giovane si ritrovò a fare i conti con un corpo che, in ogni dove, gli offriva tremendi spasmi di dolore: tutte le ferite che, prima, l’adrenalina pompata nelle sue vene dalla frenesia dell’azione gli aveva permesso di ignorare, ora, richiedevano da lui la giusta attenzione, con sensazioni mai provate prima e che, di certo, avrebbe preferito evitare di provare.
Stringendo fra i denti il sapore sgradevole del proprio vomito, egli cercò di mantenere quel poco di lucidità che gli era stata concessa, sentendo ancora stretta fra le mani l’arma che aveva utilizzato contro i pirati: in quel tocco, oltre che nei mali che lo dilaniavano, fece subito mente locale su quanto era accaduto, rammentando l’invasione dei predoni del mare, la loro superiorità rispetto a lui ed ai suoi compagni e, soprattutto, la delirante visione finale che aveva mostrato la naufraga straniera come protagonista. E proprio ripensando ad ella, alla furia fatta carne che aveva rappresentato ai suoi occhi con letali e continui movimenti di morte per gli avversari, il quasi sposo vide le figure dell’alcalde e di altri, partiti con egli alla volta delle fregate avversarie, chine accanto a sé, su di sé e sui propri compagni.
Se loro erano lì ed egli poteva vederli, possibile che fosse morto e non se ne fosse reso conto? Possibile che quel tormento privo d’eguali fosse il riposo eterno di cui tanto aveva sentito parlare?
Ma prima che alla sua mente fosse dato il tempo di raggiungere una conclusione, fu proprio l’anziano ex-capitano a rivolgersi verso di lui, avvicinandosi ed appoggiandogli una mano sulla fronte, per trattenerlo delicatamente ma fermamente a terra.

« Non ti muovere, ragazzo. » gli consigliò con voce chiara e tono sicuro « Sei ferito ed hai perso molto sangue, ma non dovresti correre il rischio di restarci… »
« M…ma… » tentennò il giovane, non comprendendo se fosse vivo o morto.
« Zitto ora. » sorrise l’alcalde « Pensa solo a restare sveglio… o la tua promessa non ti perdonerà di averle rovinato il giorno delle nozze. »

Mab’Luk, al riferimento verso l’amata, acconsentì ad ubbidire a quegli ordini e ciò che accadde nelle ore a seguire venne vissuto da parte sua come un’esperienza quasi onirica, ritrovandosi ad essere spettatore semi incosciente di tutti i soccorsi che furono offerti ai feriti di Konyso’M da parte dei loro sopravvissuti. Senza potersi muovere, egli sentì il proprio corpo sollevato di peso sopra una lettiga e portato in un ambiente che non seppe riconoscere a primo acchito, sicuramente una bottega o un’abitazione come altre nella città: lì vide il proprio corpo spogliato dalle vesti insanguinate che rischiavano di infettare le sue ferite, e vide le gli stessi tagli ancora sanguinanti venir lavati con cura, detersi con accuratezza prima di essere fasciati, stretti in bende che lo fecero inizialmente gemere ma che gli donarono poi una sensazione di magnifica quiete.
Solo in quel momento, solo quando fu lasciato solo, con un lenzuolo a coprirne le nudità, egli comprese che il peggio era concluso e decise di abbandonarsi alla pace ristoratrice del riposo, chiudendo gli occhi e perdendo, nuovamente, contatto con la realtà.

Due furono i maggiori motivi di gioia per Hayton. Da un lato, giunto sulla spiaggia dopo il lungo percorso attraverso il mare, egli scoprì dì non essere il solo superstite del combattimento marittimo che aveva guidato, alla spedizione condotta contro le tre fregate: altri uomini, più o meno feriti, erano sopravvissuti al suo pari all’ira delle fiamme distruttrici da loro stesse scatenate ed alle offese dei loro avversari, guadagnandosi a propria volta la via verso l’isola, verso la salvezza da essa rappresentata. Dall’altro lato, emerso dal mare e raggiunto il campo di battaglia, egli ebbe modo di appurare che la maggior parte del sangue versato sulla sabbia bianca della costa non apparteneva fortunatamente ai giovani abitanti lasciati lì come ultimo baluardo per la difesa della città, quanto ai predoni che li avevano attaccati e che, come la disposizione dei loro corpi suggeriva chiaramente, avevano trovato fine certa contro la sconosciuta straniera che aveva veduto combattere da lontano.
Immediata, pertanto, fu l’organizzazione dei superstiti ancora coscienti per la ricerca ed il soccorso a tutti coloro che pur privi di sensi erano ancor aggrappati alla vita, per poter prestare loro le prime e più urgenti cure al fine di evitarne la morte. Non erano molte le braccia su cui poteva fare conto ed, al di là del numero, non vi era alcuno fra loro che non fosse ferito a propria volta o stremato dagli eventi occorsi: ma non era concesso loro di permettersi il riposo, laddove una loro indolenza avrebbe significato la morte per i loro figli, nipoti, amici. Per l’alcalde, pertanto, non furono necessarie troppe parole di incoraggiamento: tutti coloro che riuscivano ancora a reggersi in piedi si mobilitarono in maniera spontanea, separando i vivi dai morti, gli autoctoni dagli invasori, per prestare ai primi i dovuti soccorsi, ad assicurare loro un possibile futuro ed ai secondi, invece, i necessari riti funebri.

« Offrite attenzione a questa donna. » fu l’unica raccomandazione che Hayton dovette richiedere, chinandosi sul corpo privo di sensi, ma ancora vivo, della straniera.
« Chi è? » domandò un pescatore, avvicinandosi a lui « E’ una dei pirati? »
« Non credo. » scosse il capo l’alcalde, osservando con cura il volto della donna per cercare fra i propri ricordi indizi sulla di lei identità « E’ stata lei ad uccidere tutti i predoni… salvando i nostri uomini. »

Nessuno presentò dubbi alle parole della loro guida, non avendo ragione di dubitare proprio allora dell’uomo che avevano seguito senza remore e timori verso una morte certa: al contrario, in conseguenza di esse immediatamente accanto al corpo della guerriera sconosciuta venne portata una lettiga utile al fine di condurla al riparo, come già fatto per tutti gli altri abitanti feriti e privi di sensi. Quando però tentarono di staccarle delicatamente dalle mani la spada, essi ritrovarono fiera opposizione: per quanto ella fosse assolutamente ed indubbiamente svenuta, le di lei dita della mano sinistra restavano contratte al punto tale da quasi sbiancarne le nocche, nello stringere l’elsa della propria spada, lorda del sangue dei propri nemici. Così ai soccorritori non restò che caricare anche la spada sulla lettiga, per portare tanto la donna quanto la sua lama lontano da quella spiaggia di morte, ad offrirle le cure necessarie.

Sul calare del sole, al termine di quella giornata di sangue e tragedia, un’ultima coppia di roghi vennero accesi sulla spiaggia, uno per i caduti dell’isola ed uno per i morti dei pirati, offrendo così anche ai secondi un trattamento non dovuto, un onore non meritato ma che nessuno si sentì loro di negare, ritrovando altrimenti eccessivo e barbarico un risentimento tale da rifiutare loro la benché minima celebrazione. Certo, comunque, fu che le preghiere di quella notte vennero innalzate agli dei solo per le vittime di Konyso’M, per coloro i quali nell’alba precedente si erano risvegliati sognando nel termine di quella giornata l’ebbrezza dei festeggiamenti per le nozze di Heska e Mab’Luk e non, di certo, il proprio funerale.

domenica 27 aprile 2008

108


P
er un lungo istante, un breve squarcio di eternità, Hayton Kipons credette di essere morto, di aver alfine raggiunto l’appuntamento da lungo tempo rimandato: era sopravvissuto alla maggior parte degli uomini e delle donne che avevano lavorato al suo servizio, era sopravvissuto ad una moglie, era sopravvissuto a due figli ed anche ad un nipote. Il mondo attorno a lui era morto, sempre in tragiche eventualità, ma egli era andato avanti, sopravvivendo e, soprattutto, vivendo. Egli amava la vita e non cercava la morte, eppure al tempo stesso non la negava, non le desiderava sfuggire: aveva avuto un’esistenza più lunga e più appassionata di quanto la maggior parte degli uomini e delle donne al mondo avrebbero potuto vantarsi, mantenendo sempre il diritto di poter camminare a testa alta, senza vergognarsi di sé o delle proprie scelte. Nel momento in cui egli ipotizzò la fine della propria esistenza, un senso di sollievo, quasi, lo accolse in una sensazione di liberazione, di freschezza, di rinnovata e più gloriosa vita: si sentì leggero, privo di peso, forse tornato in un materno utero, nel caldo abbraccio offerto dal ventre di una madre, all’interno del quale alcun pensiero gli avrebbe offerto turbamento, alcun onere sarebbe gravato su di lui, alcun impegno avrebbe richiesto la sua attenzione. La morte non risultava essere una fine tragica, ma solo l’inizio di una nuova e più entusiasmante vita, un’esistenza forse ascesa ad un livello di consapevolezza più piena su se stessi e sull’intero universo a sé circostante. Ma quella sensazione non fu eterna, come avrebbe dovuto essere: ciò che egli aveva considerato qual utero materno era in realtà il dolce ventre del mare, all’interno del quale era stato sbalzato dopo che una freccia lo aveva colpito di striscio all’altezza della tempia sinistra. Egli era vivo, ancora legato alla realtà in cui esisteva da oltre mezzo secolo: la morte, ancora una volta, non aveva desiderato accoglierlo, non aveva voluto concedergli il riposo dei giusti.
Gli dei, evidentemente, richiedevano ancora qualcosa da lui.

« Tyareh! » esclamò il nome della signora del mare e delle sue onde, nel riemergere alla superficie, nell’inspirare nuova e fresca aria nei polmoni.

Mentre cercò di comprendere la propria situazione, per meglio valutare quali sarebbero potute o dovute essere le sue prossime mosse, l’alcalde ebbe modo di ringraziare con migliori pensieri il nome della sua dea: la marea, infatti, aveva avuto modo di trascinare il suo corpo quasi privo di sensi attraverso la spuma bianca in direzione di Konyso’M, allontanandolo fortuitamente dal rogo all’interno del quale, altrimenti, avrebbe sicuramente trovato la morte. L’incendio da loro appiccato sopra la superficie del mare ancora ardeva con fuoco vivo, lasciando intuire all’interno delle nubi nere in continua ascesa la presenza di una nave, di una fregata ormai condannata. Ma se fino a quel momento il fato era stato generoso con lui, offrendogli una possibilità di sopravvivenza, ora sarebbe stato unicamente a lui il compito di rendere onore a tale dono, dimostrare di essere degno ancora una volta della vita: a Tyareh, come ad ogni dio o dea del mare di altre culture e credenze religiose, non erano graditi i deboli, non erano cari gli ignavi ed ora che egli si era ripreso, puntualmente le correnti iniziarono a sospingerlo verso il largo, in direzione delle fiamme indomabili.
Così, scuotendosi ogni torpore di dosso, l’anziano ex-capitano dovette dare prova ancora una volta della propria forza, della propria esperienza, del proprio diritto ad essere sulla superficie dei mari e, in conseguenza, delle terre. Un giovane, con meno anni di egli sulle spalle, avrebbe sicuramente affidato alle proprie energie, alla propria possanza fisica l’arduo compito di condurlo fuori da quella mortale trappola e, nel far questo, probabilmente sarebbe morto. A nessun uomo poteva essere concesso di superare in forza il mare, di combatterlo come fosse una banale fiera da circo: al vigore indomabile delle onde, delle maree, non la violenza ma il rispetto doveva essere offerto, non la forza ma l’accondiscendenza doveva essere opposta. Anche nel caso in cui gli fosse stata concessa la forza di farlo, laddove Hayton avesse cercato di violare brutalmente il mare, di violentarne le membra, egli ne sarebbe stato poi vittima, trascinato inesorabilmente in direzione opposta a quella desiderata, gettato senza pietà all’interno dell’incendio non lontano alle sue spalle. E per questo non forza, non prepotenza, non violenza fu offerta dall’alcalde contro le onde del mare: anche nel momento in cui il timore per l’orrenda morte troppo vicina poteva spingerlo al panico, egli mantenne la calma ed il controllo, iniziando a danzare fra le vesti meravigliosamente orlate dell’abito della sua dea, in un movimento continuò e ritmico, dolce e leggero non diverso da un ballo con una cara vecchia amica o, forse, con l’unica e più fedele amante che si fosse mai concesso dopo la perdita della moglie. L’uomo non temeva il mare, non aveva ragione di farlo, ed in quell’assenza di panico, in quella consapevole ed amorevole pace verso di esso, egli trovò la sopravvivenza, la vita, guadagnandosi il diritto ad un domani, dimostrando di avere ancora un futuro davanti a sé, nonostante il lungo passato alle proprie spalle.

Quando ormai anche le fiamme, in lontananza, iniziarono a mostrare di aver esaurito il combustibile che le stava alimentando, che le stava facendo bruciare con innaturale vigore sopra la superficie del mare, Hayton raggiunse la prossimità della costa da cui era partito, del molo che aveva salutato consapevole di non poter più tornare ad esso per la missione di sacrificio a cui si era volontariamente votato insieme a tanti cari amici e compagni, alla ricerca di una possibilità di salvezza per l’unica terra che aveva mai avuto modo di chiamare “casa”. E dove una parte del suo cuore sperava di poter scorgere esultanti i giovani lasciati dietro di sé, felici per una nuova possibilità di vita loro concessa nella vittoria contro i pirati, la sua mente inorridì nel distinguere i resti di quella che era stata una vera e propria mattanza. Nonostante la lontananza, egli poté scorgere perfettamente il colore rosso del sangue che impregnava la sabbia bianca della spiaggia, non distante dalla macchia nera, ormai assorbita, di una trappola mai utilizzata: corpi apparentemente privi di vita costellavano l’intero litorale, in una bolgia informe di braccia e gambe, di torsi accatastati uno sull’altro quasi fossero legna per l’inverno.
In quel tremendo spettacolo di morte, che fece temere all’alcalde di aver perso nella propria apparente vittoria, solo poche figure umane si mostrarono vive, ancora in movimento: non più di una decina riuscì a contarne inizialmente, ma di quel numero non poté essere certo laddove i movimenti rapidi di una di tali sagome portarono alla morte le restanti. L’anziano ex-capitano non riuscì a riconoscere alcun volto noto nelle fattezze femminili dell’unica superstite, armata di una lunga lama nella mancina e di un martello da fabbro nella destra: ma, al contrario, nell’abbigliamento degli ultimi caduti sotto i di lei gesti, egli poté riconoscere chiaramente gli invasori, i predoni del mare che pensava di aver sterminato e che, invece, dovevano aver evidentemente trovato modo di giungere ugualmente sull’isola. La donna, chiunque ella fosse, si era dimostrata davanti ai suoi occhi come nemica dei pirati ed, in questo, sua alleata. Ma prima che egli potesse avere modo di continuare in quel filo di pensiero, in quelle considerazioni su ciò che si offriva al di lui sguardo, la figura rimasta unica eretta sulla spiaggia di Konyso’M lasciò cadere il martello a terra, abbandonandolo stancamente prima di crollare a propria volta sui corpi morti dei propri avversari, continuando a stringere la spada nella mano sinistra, nonostante tutto.
Alla vista di quella tragica conclusione, l’uomo riprese a percorrere con lunghe bracciate l’ultimo tratto di mare che lo separava dalla riva ormai prossima, sperando che vi fossero ancora ragioni per giungere ad essa.

« Tyareh… fa che non siano tutti morti… » sussurrò a denti stretti.

sabato 26 aprile 2008

107


« O
ra! »

Hayton, alcalde della città di Konyso’M, con quel grido dette il segnale che tutti stavano attendendo per scatenare l’offensiva finale contro l’ultima nave pirata ancora integra: in realtà ben pochi erano sopravvissuti al di lui fianco aspettando quell’ultima parola e, fra loro, molti non sarebbero stati vivi ancora a lungo. Ma a quel semplice suono, simile ad un ruggito primordiale, le lampade incendiarono il combustibile che nera aveva reso la superficie del mare, trasformando in un istante l’acqua in fuoco. Non un’esplosione seguì quel gesto quanto l’accensione di un innaturale incendio sopra le onde, che nulla avrebbe potuto soffocare e che avrebbe consumato nel proprio calore tutto ciò con cui sarebbe giunto a contatto. Più vasta di qualsiasi altra precedente nube, la fumata nera che avvolse la fregata in quell’incendio intossicò i polmoni dei predoni, ora folli nel terrore più puro per quel rogo in cui erano stati condannati: solo i più freddi e coraggiosi fra loro ebbero l’audacia di gettarsi in mare, a sfidare le inestinguibili fiamme accese sotto di loro nella consapevolezza che solo oltre la superficie avrebbero potuto trovare salvezza nell’acqua pura, ammesso ma non concesso che lì giunto sarebbero poi riusciti a nuotare fino all’esterno di quella macchia ardente trattenendo il respiro.

Sulla costa, al molo della città, tutti i presenti lì radunati osservarono con entusiasmo e con orrore quello spettacolo terribile e stupendo: la gioia di quella visione era data dalla consapevolezza che il nemico era stato quasi abbattuto e che, qualsiasi cosa fosse accaduta, il loro futuro si sarebbe deciso su quella stessa sabbia impregnata ora di pece nel momento in cui i sopravvissuti fossero giunti a riva; il raccapriccio che essa scatenava nasceva dalla comprensione del destino a cui tutti i pescatori partiti pochi minuti prima al fianco dell’alcalde si erano votati, escludendo forse qualsiasi possibilità di ritorno. A loro, ai giovani, agli ultimi baluardi della resistenza dell’isola, era in quel nero fumo affidato il compito di onorare la memoria dei caduti, nell’impedire ai predoni di portare a termine i propri piani di morte, nell’ostacolare i pirati nel loro proposito di sterminio per essi stessi, di furto per tutto ciò per cui i loro morti avevano lottato e si erano sacrificati.
Il primo ad accorgersi che la battaglia, però, era ben lontana dall’essere terminata fu proprio colui a cui sarebbe dovuto essere dedicato quel giorno, nel momento in cui, facendo ritorno verso i compagni radunati sulla costa dal centro della città, ebbe modo di scorgere qualcosa che gli gelò il sangue nelle vene: un gruppo di nove scialuppe stava raggiungendo l’isola, attraccando su un versante coperto nella visuale dal punto in cui tutti erano raccolti. Impossibile dire a quali navi essi potessero essere fuggiti o da qualsiasi altra direzione essi fossero giunti ed, in realtà, neanche importante era la consapevolezza di quell’informazione: i predoni del mare, sicuramente in misura minore di quanto essi avrebbero temuto, erano comunque giunti fino all’isola e stavano sbarcando ignorati da chiunque fra loro.

« Alle armi! » urlò il giovane, con tutta la forza che possedeva in corpo, gettandosi in corsa verso i propri compagni « Pirati! I pirati sono giunti! »

Ma come potevano più di cento giovani uomini, per quanto volenterosi, sostenere l’attacco offerto da oltre una sessantina di assassini e tagliagole della peggiore specie? Come potevano quelle nuove vittime sacrificali tenere testa ai proprio trucidatori, rimasti soli e privi di qualsiasi guida, privi di qualsiasi esperienza bellica?
Spinti solo dal proprio ardore, incapaci nella maggior parte dei casi anche solo a reggere una spada o una picca in mano, gli ultimi difensori dell’isola si offrirono ai propri avversari con ingenuità disarmante, combattendo con tutto il coraggio, tutto l’ardore che avevano in corpo, sicuramente maggiore di quanto mai quegli aguzzini avrebbero avuto, ma assolutamente inefficace al semplice fine di sopravvivere. I bucanieri, che del resto non si sarebbero fatti scrupoli a massacrarli in un panorama consueto, si avventarono contro di loro con una furia animale, selvaggia, incontrollata, facendo saettare le proprie armi di ogni origine e foggia, mutilando arti, tranciando teste, squartando ventri, scorticando corpi del tutto indifesi davanti a loro. Quella che era iniziata sulla spiaggia, lontana dalla trappola che con tanta premura gli autoctoni, non era una battaglia ma una vera e propria carneficina: come animali condotti al macello, così gli uomini di Konyso’M, vennero affrontati dai loro naturali nemici, che impietosi non concessero alcuna tregua, non permisero alcuna possibilità di salvezza.
Mab’Luk, insieme ad una dozzina di compagni ed amici, fratelli di vita da sempre, tentò di mantenersi in una posizione compatta, ad imitazione di quelle che erano i canti ascoltati da bambino e narranti le grandi guerre del continente: là dove nelle sonate e nelle leggende quei momenti potevano apparire gloriosi ed entusiastici, nella realtà concreta l’orrore era tale da non permettere neppure la possibilità di perdere i sensi di fronte ad esso, superando ogni capacità di gestione o di rifiuto, inconscio o conscio. Egli avrebbe voluto svenire, avrebbe desiderato lasciarsi andare sperando in una morte rapida ed indolore, nonostante il volto della propria amata fosse sempre davanti ai di lui occhi, nonostante ciò avrebbe significato perdere per sempre la speranza di sposarla e di vivere con ella, ma in quel momento non gli era concessa neanche quella soluzione: l’orrore che lo dominava, costringeva il suo corpo a muoversi incessante, cercando di difendersi, tentando di offendere il proprio nemico. Nessuno dei pirati davanti a lui aveva un volto o un corpo ai suoi occhi: nella follia che dominava la sua mente in quel momento, essi apparivano simili a leggendari demoni immortali ed anche laddove, per rari colpi di fortuna, le armi che reggeva fra le mani arrivavano a scalfirli, a ferirli, egli non riusciva ad accorgersene. In compenso, quello stesso orrore, quella stessa paura incontrollabile, irrefrenabile, pulsava nelle di lui vene una quantità di adrenalina tale da non permettergli di accorgersi degli innumerevoli tagli, delle sempre crescenti ferite che stavano venendo aperte sulla sua stessa pelle, facendo sgorgare abbondante il suo sangue a bagnare la sabbia bianca sotto di lui. Ma per quanto egli ed i suoi compagni potessero combattere, per quanto la paura più viva si potesse impossessare dei loro corpi spingendoli oltre ogni limite stabilito, essi non erano immortali e, soprattutto, non erano guerrieri: la violenza incessante degli attacchi da parte dei predoni non concessero loro respiro e, dopo un tempo tanto breve eppur eterno ai loro sensi, essi soccomberono di fronte ai propri avversari, crollando morenti a terra.
In quegli ultimi spasmi di vita, prima che per l’ultima volta le sciabole, le lance, le mazze dei pirati potessero essere calate sopra la sua testa, il giovane promesso sposo riuscì a scorgere, nella nebbia sanguigna che copriva i suoi occhi, una figura femminile che, simile a dea della guerra, si avventò contro i pirati, brandendo una lunga spada nella mancina ed un pesante martello da fabbro nella destra. In ella, Mab’Luk riconobbe la straniera che aveva levato dalle acque del mare e che, improvvisamente risvegliatasi, era stata richiamata alle armi, all’azione, nel momento della maggiore necessità non diversamente una figura eroica mitologica: nonostante le numerose ferite su tutto il di lei corpo, i movimenti della donna furono rapidi, precisi, efficaci, fendendo con la lama dagli azzurri riflessi l’aria e gli avversari e spaccando con il martello crani ed ossa, senza alcun sentimento di pietà, senza alcuna incertezza. Gli occhi di lei, chiari tanto da apparire simili a ghiaccio, non mostrarono debolezze, non mostrarono dubbi: una contro cinquanta, ella non offrì movimenti di ritirata, non si concesse indugi, continuando ad avanzare in quella selva di umani corpi, falciati come grano maturo, spezzati come delicati fuscelli.
Il giovane non riuscì credere a ciò che i suoi stanchi occhi gli stavano suggerendo, ai deliri che ritenne derivati dalla mente provata, dalle carni lese e sanguinanti: stava sicuramente sognando in un’ultima, inconscia ed impossibile ricerca di salvezza per sé e per i propri amici fraterni, proiettando le proprie fantasie a creare chi non poteva esistere, chi non avrebbe mai potuto giungere in loro aiuto.

« Heska… » sussurrò, sentendo le ultime forse rimastegli abbandonarlo « … perdonami. »

Ed, in quel difficile respiro, l’oblio l’accolse in un abbraccio di tenebre e pace.

venerdì 25 aprile 2008

106


M
entre la prima fregata dei predoni iniziava ad affondare fra le onde, in conseguenza dell’attacco subito, la seconda a lei vicina scagliò ogni genere di arma contro i propri assedianti, cercando di impedire loro di portare a termine lo sciagurato piano che li avrebbe visti ardere a loro volta come candele in un tempio. La pece già anneriva la superficie del mare attorno all’imbarcazione, ma Hayton gridava incessantemente di attendere con le lampade, di non dare ancora fuoco al liquido: agire con troppa fretta sarebbe stato controproducente, non ritrovando una quantità sufficiente di combustibile nelle acque per condurre a termine l’azione programmata, per condannare anche quella nave alla stessa fine della prima.
Nel frattempo, su un altro fronte erano impegnati i pescatori all’inseguimento della terza fregata, quella che a propria volta aveva rivolto la prua verso le navi trasportanti i fuggitivi esuli dell’isola di Konyso’M: entrambi i contendenti a favore di vento, si ritrovarono in un duello a condizioni quasi paritarie, laddove le vele più estese della grande nave raccoglievano una migliore spinta ma gli scafi ridotti ed agili delle imbarcazioni più piccole permettevano ai loro possessori di mantenere il passo con la prima. Forti dell’esperienza subita dai propri compagni, i pirati di quella terza ciurma avevano iniziato ad opporre una reale e seria offensiva contro le piccole barche di pescatori, consapevoli che laddove anche solo un paio fra esse fossero riuscite a raggiungerli e ad affiancarli, avrebbero potuto compiere un gesto estremo di sacrificio pur di liberarsi della loro presenza, condannandoli a morte.
Nel cielo sopra il mare incessante era l’azione di frecce ed arpioni su entrambi i fronti della battaglia marittima, per colpire, per trapassare, per uccidere gli abitanti dell’isola ormai non ritenuti più come uno sparuto branco di disperati ma come un concreto avversario, una minaccia alla loro esistenza. Laddove già in origine violenti e distruttivi erano gli intenti dei pirati, dopo l’affronto offerto da quella resistenza armata impensabile ed impensata nulla meno della morte essi avrebbero offerto agli autoctoni: se fosse stata loro concessa libertà d’azione, nell’insuccesso di quella rivolta, dell’isola principale dell’arcipelago di Lodes’Mia probabilmente non sarebbe rimasta traccia per le generazioni future, se non come ricordo sbiadito all’intero di qualche carta nautica. Per entrambe le fazioni, quella battaglia era pertanto una feroce lotta per la vita, nel corso della quale alcuna regola sarebbe valsa al di fuori della semplice sopravvivenza.

Sollevata sopra le proprie spalle la donna straniera, Mab’Luk tentò di condurla al riparo, lontano dalla costa sulla quale tutti gli altri uomini rimasti all’isola erano impegnati a preparare l’ultimo baluardo di difesa contro i pirati. Nonostante la richiesta da egli fatta, nessuno lo aiutò in quell’intento altruistico, assorti nello scopo più importante di condurre a termine i propri compiti. Comprensibile, del resto, risultava quel momento di egoismo dimostrato dagli abitanti dell’isola: nel mentre in cui la loro stessa possibilità di poter ancora godere della luce del sole e del fragore delle onde era posta in dubbio per l’arrivo dei pirati, nel mentre in cui erano tutti disposti al sacrificio per respingere l’aggressore e garantire un futuro alle proprie famiglie, ai propri cari, il destino di una naufraga sconosciuta non poteva suscitare loro interesse.

« Lascia perdere quella donna e torna ad aiutarci. » inveì, in tal senso, un ragazzo poco più giovane di lui « Non abbiamo tempo… potrebbero giungere da un momento all’altro. »
« Non siamo dei pirati. » rispose stizzito egli, portando dipeso la donna verso la piazza della città dove solo pochi prima si stava celebrando il suo matrimonio con Heska e dove si affacciavano anche le abitazioni e le botteghe delle loro famiglie « Stiamo combattendo per la difesa dei nostri valori: che senso potrebbe avere tutto questo nel momento in cui noi stessi fossimo i primi a calpestarli? »

Ma nessuno fu interessato ad offrigli risposta, disinteressandosi di egli e della sua inanimata ospite: già troppa distrazione era stata offerta verso gli incarichi loro affidati, già troppo tempo era stato perduto nei preparativi in atto, in quei pochi istanti in cui l’attenzione si era rivolta al destino di un’ignota straniera.

« Hayton… non resisteremo a lungo! » gridò un pescatore, non lontano dall’alcalde, prima di essere colpito al collo da una freccia, che lo trapassò da parte a parte.

Sotto i colpi incessanti dell’offesa nemica, il gruppo di uomini capeggiato dall’anziano ex-capitano stava vedendo le proprie fila diventare sempre più sottili, sempre più scarse: le frecce, gli arpioni, le fiocine rivolte contro di loro sembravano piovere incessanti dal ponte dell’unica nave avversaria, falciandoli senza pietà uno dopo l’altro, stroncando facilmente le loro vite. Ma in quella mietitura di umani corpi, cresceva nell’acqua anche la quantità di pece, ormai sempre più prossima alla saturazione, oltre al sangue ed ai cadaveri delle vittime, dei caduti, dei martiri dell’isola. E l’alcalde attendeva, aspettava paziente, freddo e controllato il momento giusto per agire, muovendo con rapidità il proprio corpo, le proprie membra, a reagire immediato ad ogni percezione sensoriale offerta dall’universo a lui circostante, per evadere dalla pioggia letale rivolta contro di loro, pur mantenendosi sempre in prima linea: egli non era più giovane e forte come un tempo, non era più saldo nei propri movimenti e nelle proprie azioni come poteva esserlo stato in gioventù, quando i mari sembravano un frutto maturo da mordere con avido piacere davanti alle sue labbra, ma proprio grazie all’età ed all’esperienza accumulata, Hayton sapeva come potersi spostare, come poter agire per minimizzare il rischio di essere colpiti, per sfuggire da quell’attacco incessante pur restando al centro di esso.

« Dobbiamo attendere… » sussurrò egli, a rispondere all’uomo che ormai non poteva più udirlo, all’ennesimo amico perduto « Ancora poco, ma dobbiamo attendere. »

Spronato dagli echi della battaglia ormai sempre più prossima al proprio apice, Mab’Luk iniziò a correre, fino a raggiungere la bottega della famiglia di Heska, scelta forse inconsciamente come idea di pace e sicurezza: entrato in essa, il giovane adagiò con delicatezza la donna svenuta sul bancone, per poi osservarla incerto su come agire. Da un lato il senso dell’onore, il legame ai principi di pace e di ospitalità che per tutta la vita lo avevano guidato in ogni istante della propria vita lo spingevano a voler intervenire nel prestare soccorso alla straniera; dall’altro lato, invece, era il senso del dovere che gli imponeva di tornare alla spiaggia, a continuare il proprio lavoro, ad armarsi per essere pronto ad accogliere gli eventuali pirati che, superstiti dagli attacchi marittimi, avrebbero potuto giungere fino a loro. E prima che egli potesse decidersi, l’ennesima svolta negli eventi prese per lui l’onere di quella scelta, richiedendo la sua presenza accanto ai propri compagni.

Una nuova e forte detonazione squarciò improvvisamente l’aria, attirando quasi ogni sguardo in direzione della terza nave, della fregata impegnata nell’inseguimento dei fuggiaschi: tre barche avevano raggiunto lo scafo della stessa e, nonostante le dozzine di frecce infilate nei corpi dei pescatori ai loro timoni, erano riuscite a far esplodere i mortali carichi di pece.
Nuovo fumo nero colmò l’aria, vedendo bruciare in esse le vite di molti innocenti sacrificatisi non vanamente per la salvezza dei propri cari: qualsiasi cosa fosse successa a seguito di quella giornata, sia che essi fossero riusciti a sopravvivere sia che fossero morti tutti, le donne ed i giovani di Konyso’M sarebbero stati in salvo ed, in futuro, qualsiasi altra flotta di senza legge avrebbe forse pensato a lungo prima di decidere nuovamente di far scalo nel loro arcipelago, a turbare la quiete di una vita serena. Perché in quel giorno, con quei sacrifici, essi stavano dimostrando ai propri avversari ed al mondo intero di essere disposti a tutto per difendere la loro libertà, la loro indipendenza, la loro pace: per tutti gli uomini lì rimasti a combattere quello era forse il canto di un cigno, ma non cigni essi erano quanto piuttosto y’shalfiche fenici che nel fuoco del proprio ardore bruciavano fino a morire, salvo poi rinascere a nuova e più radiosa vita.

giovedì 24 aprile 2008

105


M
ab’Luk osservò le piccole imbarcazioni dei pescatori partire rapide in direzione delle navi dei pirati, dividendosi in due gruppi per poter perseguire tanto la coppia diretta verso la stessa isola quanto quella in rotta sulla scia degli esuli. Nel contemplare l’alcalde ritto sulla prua di una di quelle barche, trasformate in armi da guerra di alto potenziale distruttivo, il giovane non poté fare a meno di ammirare quella figura: se a qualcuno fra loro fosse stata concessa la possibilità di ripensare in futuro a quel giorno, a quei momenti, con sorriso sulle labbra invece di incontrollato terrore, ciò sarebbe avvenuto solo grazie ad egli, per merito di quell’anziano ex-capitano con la pelle segnata dal sole e da una vita ricca di troppe avventure. Non concedendosi ulteriori perdite di tempo in quelle riflessioni sognatrici, il mancato sposo si scosse per unirsi a tutti i compagni rimasti ad attuare il proseguo del piano loro suggerito, iniziando a trasportare le residue scorte di pece per essere pronti a trasformare quella terra in fuoco distruttore, da opporre contro ogni ospite non desiderato che a loro si sarebbe potuto presentare.
Proprio nel trasporto di un’ennesima botte di pece, quando ormai i secondi all’inevitabile scontro fra le piccole imbarcazioni e le grandi navi dei pirati erano agli sgoccioli, lo sguardo del giovane dai capelli rossi fu attratto da una sagoma non lontana dai moli e dalla sabbia del porto: una forma vagamente umana si offriva galleggiante, come morta, sul filo dell’acqua, sospinta dalla corrente in un banco di alghe verso il bagnasciuga. Se da un lato lo sguardo di egli voleva osservare l’esito del primo scontro, capeggiato da Hayton, e da un altro lato il suo senso di responsabilità gli imponeva di non sprecare il poco tempo loro concesso nel dover prepararsi al peggio, continuando a trasportare la pece, un terzo frangente del suo pensiero lo spinse a non ignorare quell’immagine non lontana. Ammesso, ma non concesso, che fosse veramente una persona e non uno scherzo del mare, un dubbio attanagliava la di lui mente sull’identità di tale individuo. Chi avrebbe potuto essere? Un pirata, forse, giunto lì per coglierli di sorpresa? Oppure un prigioniero dei pirati che vedendo l’isola non distante poteva aver cercato la fuga e che, in tale atto, era stato forse scoperto ed, in conseguenza di ciò, ferito e lasciato a morire nelle acque del mare?
Incerto su cosa fare, il giovane si ritrovò ad essere muto spettatore dell’apertura delle ostilità nel mare non lontano.

Guidate dall’alcalde, quasi la metà delle barche di Konyso’M avevano navigato controvento e controcorrente per sospingersi verso le due fregate pirata a loro più prossime. Esse, nel vederli, avevano scatenato una blanda offensiva con arpioni e balestre, forse più per divertimento che per reale interesse a controbatterli: abituati quali erano all’inoffensività degli abitanti delle isole, i predoni non potevano avere la minima percezione degli intenti violenti che quel gruppo di pescatori desiderava loro opporre e poche, pertanto, erano le fiocine e le frecce che si stavano sprecando contro di essi, senza alcun impegno a colpirli nel mentre in cui grasse risate si levavano dai due ponti. Tale sottovalutazione, probabilmente, era stata prevista dal comandante della flotta di autoctoni il quale, senza accennare la minima difesa di fronte al leggero attacco, comandò con freddezza e controllo assoluto l’attuazione della semplice strategia ideata. Quando i pirati si poterono rendere conto di ciò che stava accadendo, dello sbaglio da loro commesso nel non considerare le potenzialità offensive delle proprie vittime, per loro fu troppo tardi: gettati in acqua molti barili di pece e dati alle fiamme nei loro contenuti instabili, grandi esplosioni videro squartati i fianchi di una delle due fregate.
L’attacco fu estremo e violento e, purtroppo, in esso non solo i predoni furono vittime ma anche gli stessi pacifici isolani che, troppo vicini ai barili da loro lì gettati, rimasero coinvolti e persero la vita: fiamme ardenti rendevano l’acqua attorno alla nave colpito simile a braciere, incendiandone il legno e le cime, a risalire verso sartie e vele, colmando nel contempo l’aria del mai gradevole odore di carne bruciata, in incalcolabili grida di dolore. Nonostante quegli eventi, però, una delle due navi si mostrava ancora praticamente illesa, con il proprio equipaggio reso più furioso che mai per l’opposizione ritrovata negli abitanti solitamente pacifici delle isole: contro di essa molte imbarcazioni di pescatori, sopravvissute alla prima ondata distruttiva, si coordinavano per spargere sopra l’acqua del mare il proprio nero carico, mantenendosi pronte alla seconda fase del triste piano di morte. La battaglia era appena iniziata.

Quasi tramortito dalla incredibili deflagrazioni, Mab’Luk osservò con terrore il fumo nero levarsi dal mare verso il cielo chiaro sopra all’isola, incespicando sulla sabbia della spiaggia: in quella nube, anche se non le riusciva a distinguere, erano bruciate e stavano ancora ardendo molte persone che egli conosceva, che egli ammirava, a cui egli era legato da vincoli d’affetto. E quel pensiero non poteva non atterrirlo.
Cercando di distogliere lo sguardo da quel dramma di morte, da quel panorama di oscura realtà, il giovane ritornò ad osservare la sagoma prima individuata, ormai arenatasi contro la sabbia del bagnasciuga a meno di trecento piedi da lui: essa era indubbiamente di natura umana e, a quanto poteva apparire, di genere femminile. Non scorgendo movimento da parte di ella, il giovane non poté evitare di avanzare in quella direzione, probabilmente spinto dal desiderio di trovare distrazione e non continuare a guardare lo svolgimento della battaglia, cercando un’alternativa al terrore che lo stava lentamente conquistando: inutile del resto era mentirsi, facendo finta di essere pronto ad affrontare tutto quello, ingannandosi nel dire di poter tenere testa a quella situazione. Egli era sicuramente pronto a morire per la donna che amava, per la sua meravigliosa sposa o quasi tale, ma il pensiero di assistere al sacrificio ed alla morte di tanti amici, tanti concittadini in una realtà tale per cui la comunità risultava essere una grande famiglia allargata, non poteva evitare di sconvolgerlo.

« Mab’Luk… dove vai? » domandò verso di lui un amico, vedendolo allontanarsi.
« C’è qualcuno sulla spiaggia… vado a controllare! » rispose egli, ormai deciso in tale direzione.

In pochi rapidi passi il giovane raggiunse la propria meta, potendo così distinguere chiaramente le forme di una donna matura, con curve generose ai seni ed ai fianchi ma, anche, una muscolatura non consueta, in spalle forti, gambe vigorose, braccia solidamente formate: il di lei complesso tatuaggio azzurro sul braccio sinistro la indicava come una figlia dei mari, proveniente dalle isole del sud, mentre il di lei braccio destro, corazzato da nero metallo lucente in rossi riflessi sembrava suggerire una natura guerriera in lei. Sul di lei corpo, oltre ad una variegata serie di escoriazioni praticamente su quasi tutta la superficie scoperta, una profonda ferita era presente all’altezza della spalla destra, priva di infezione sicuramente solo per l’azione del mare: capelli neri erano attaccati alla pelle del di lei viso, non celando una lunga cicatrice sull’occhio sinistro della donna, risalente comunque ad epoche più remote rispetto agli altri segni. Vestita da stoffe più simili a stracci che ad abiti, ella era così gettata sul bagnasciuga della spiaggia, come una bambola inanimata sospinta lì dalle correnti: solo un lieve fremito del di lei petto segnalò al giovane che ella non era morta, non ancora per lo meno.

« Vieni ad aiutarmi! » gridò verso il compagno non lontano, che ancora lo osservava per comprenderne le azioni « C’è una donna ferita, ma ancora viva! »

mercoledì 23 aprile 2008

104


I
l tempo non si dimostrò a favore di Hayton e degli abitanti di Konyso’M: l’evacuazione, per quanto fosse avvenuta rapidamente, aveva assorbito quasi ogni istante loro concesso, portando ormai le navi nemiche a distinguersi nettamente ed a dimostrarsi sempre più vicine all’isola ed al suo porto. Fortunatamente per tutti, comunque, gli stessi venti che stavano sospingendo i pirati verso quelle coste di pace e serenità offrivano energia alle vele delle imbarcazioni salpate dai moli, per allontanarsi in direzione opposta agli invasori e condurre seco le donne ed i giovani, allontanandoli dalle grinfie dei predoni: qualsiasi cosa fosse accaduta su quelle spiagge, in quella terra, nella loro città, in quella nuova occasione non si sarebbe mai ripetuto lo stesso dramma di tredici anni prima.
Non più di duecento anime erano pertanto rimaste sull’isola e di esse la maggior parte contavano un numero troppo limitato o troppo elevato di estati alle spalle per potersi dimostrare effettivamente idonei alla sfida che avevano deciso di affrontare. L’alcalde era consapevole di quella triste realtà dei fatti e delle conseguenti scarse possibilità di sopravvivenza su cui essi avrebbero potuto contare in caso di un confronto diretto con i bucanieri: al tempo stesso, quella scelta appariva ai suoi occhi quale la sola utile ad assicurare un futuro all’intera isola, principale suo compito in qualità di responsabile eletto dai propri concittadini. Se fossero rimasti tutti insieme nulla avrebbe impedito il ripetersi della tragedia passata, ma al tempo stesso se fossero partiti tutti insieme nulla avrebbe impedito ai pirati di inseguirli: il loro sacrificio, quindi, risultava necessario per la sopravvivenza del loro stesso domani, rappresentato dalle donne e dai più giovani. Ovviamente nel vecchio ex-capitano, nonostante tali pensieri fossero più che chiari, restava comunque il desiderio di non rendere vano tale ultimo atto, di non offrirsi come ignare esche per squali: se necessario sarebbero morti, ma nel morire avrebbero portato con sé il maggior numero di avversari possibili.

« Uomini di Konyso’M... » esordì con voce tuonante, sulla spiaggia in cui erano tutti radunati « Le navi nemiche sono sempre più vicine a noi e non ci può essere concesso il lusso di attenderli indolenti: i nostri affetti, le nostre famiglie sono in viaggio verso lidi più protetti, ma per loro il pericolo non è ancora passato. »

Brusii confusi accolsero ogni parola dell’uomo, non per assenza di fiducia verso di egli, ma in conseguenza della mentalità troppo innocente, troppo pacifica degli abitanti dell’arcipelago: non vi poteva essere malizia nelle loro osservazioni, malvagità nelle loro deduzioni. Loro contrario, invece, all’alcalde era stata concessa una vita decisamente ricca di eventi anche non piacevoli e tutto ciò gli permetteva, in quel momento, di poter affrontare con mente più lucida quello che sarebbe presto avvenuto.

« I nostri avversari non sono stolti: vedendo le navi allontanarsi sicuramente si organizzeranno per dividersi in due frangenti, da un lato ad inseguire esse e dall’altro a raggiungere le nostre coste. » riprese Hayton « E solo a noi è dato di offrire un ulteriore vantaggio alle nostre famiglie. »
« So che non siete abituati a ciò che sta avvenendo: ma tutti mi conoscete, sapete che morirei per ognuno di voi sette volte se necessario e, credo anche per questo, mi avete scelto come vostro alcalde, come vostro rappresentante e giudice. » continuò con tono fermo « In virtù di questo legame vi chiedo di concedermi nulla di meno di quel che domanderei ad un equipaggio, ciò che qualsiasi capitano desidererebbe dai propri uomini: assoluta fiducia in me. Situazioni estreme richiedono azioni e reazioni altrettanto estreme e ciò che vi proporrò potrà apparirvi assurdo, potrà sembrare fuori da ogni logica, ma se vogliamo assicurarci la vittoria è necessario che voi possiate seguire le mie istruzioni alla lettera. E che siate pronti a morire, perché non dobbiamo escludere che solo nella nostra morte possa essere la vita per coloro a cui teniamo. »

Mab’Luk, come tutti gli altri presenti, ascoltò con un nuovo in silenzio le parole dell’alcalde, di quell’uomo improvvisamente tanto vecchio ai loro occhi quanto forte, carismatico, imponente: egli appariva quasi simile ad un’antica divinità del mare, concedendo loro medesime promesse, speranze simili a quelle che solo un dio avrebbe loro donato: vittoria, sì, ma in cambio delle loro vite. E, per quanto il giovane temesse la morte, per quanto amasse la vita e desiderasse riabbracciare la propria amata Heska, egli comprese che quella richiesta non era ingiusta, non era priva di senno: se non avessero accettato il rischio, se non si fossero offerti in maniera completa a colui che solo sembrava poterli guidare, essi sarebbero caduti, uno dopo l’altro, inutilmente.

« Mi servono due squadre. » proclamò l’alcalde a quel punto « Tutti i pescatori al di sopra di quarant’anni si portino rapidi alle proprie barche, svuotandole di ogni carico inutile, mentre gli altri corrano ai depositi di pece: voglio un barile su ogni imbarcazione entro i prossimi cinque minuti. »

Quarant’anni: un’età quasi leggendaria per gli uomini della terraferma, per coloro che vivevano a contatto con guerre e violenze di ogni tipo, ma un’età ancora florida per gli abitanti delle isole, per chi poteva godere di possibilità di futuri di pace. Hayton stava avvicinandosi a sessant’anni ed, in questa sua anzianità che sarebbe parsa incredibile agli occhi di molte persone, egli poteva giudicarsi fortunato nel non aver rimpianti o rimorsi per la vita che aveva vissuto: se avesse avuto più tempo, se solo fosse stato concesso a tutti loro maggiore possibilità di riflessione, di azione, egli avrebbe sicuramente spiegato il proprio piano, avrebbe informato tutti i presenti della mortale azione che aveva ideato, ma le tre navi dei pirati distavano sempre meno dalle loro coste e, come previsto, stavano iniziando a dividersi, vedendo una fregata impegnarsi ad inseguire i fuggitivi, gli esuli di Konyso’M: i fuorilegge erano assetati di sangue, di violenza, di morte e nessuna possibilità avrebbero loro concesso se l’alcalde non avesse giocato quella partita fino all’ultima mossa disponibile, per quanto tragica potesse essere. L’anziano uomo dalla pelle bruciata dal sole guidò il proprio sguardo a scorrere lungo tutto il porto, seguendo le azioni di tutta la cittadinanza lì rimasta a porre in essere gli ordini ricevuti: le piccole e rapide barche dei pescatori, gusci di noce rispetto all’imponenza delle navi avversarie, si stavano velocemente radunando sui moli, venendo equipaggiate non solo con i barili di pece ma anche con lampade ad olio senza che egli avesse avuto necessità di chiederle. A quella visione, egli non poté evitare un moto di commozione: per quanto innocenti, per quanto simili a bambini nei confronti del mondo esterno alla realtà placida dell’isola, essi avevano compreso immediatamente le ragioni non spiegate, le strategie non condivise. E, tacitamente, non solo le avevano accettate ma le avevano già preparate nella loro attuazione senza che egli dovesse proporre altro.

« Quando noi saremo partiti, desidero che tutte le scorte residue di pece vengano sparse lungo la spiaggia ed i moli del porto. » comunicò, rivolgendosi a tutti i giovani che non sarebbero partiti con loro « E se uno degli equipaggi di quelle navi dovesse giungere a sbarcare, non abbiate pietà: loro non ne avrebbero nei vostri riguardi. »

Molte persone, in ogni parte del mondo, sostenevano che per diventare uomini era necessario perdere l’innocenza dell’infanzia, lo sguardo felice che solo un bambino poteva possedere verso la realtà, spesso per troppo poco tempo: quel giorno, davanti agli occhi di Hayton, tale detto venne smentito. La purezza, l’onestà, il candore che da sempre aveva caratterizzato lo sguardo di quegli uomini, giovani o anziani che essi fossero, non era scomparso neppure in quel terribile momento ma il loro valore, per tale ragione, non era assolutamente posto in dubbio e, se possibile, decuplicato: con animi immacolati, essi erano pronti a morire per difendere la propria pace, senza secondi fini, senza corruzione d’animo, di certo donandosi più di quanto mai avrebbe potuto offrire un esercito mercenario al loro posto. E per tutto quello, l’alcalde non poté che sentirsi orgoglioso di essere lì in quel giorno, in quel momento, pronto a dare la vita per quell’isola e la sua meravigliosa popolazione.

« Che le generazioni future mantengano memoria di quest’ultimo giorno del mese di Khooc. » sussurrò l’uomo, quasi a se stesso o, forse, al mondo intero « E che esso possa essere ricordato come il giorno in cui Konyso’M ha dimostrato di possedere l’onore di un’epoca perduta, il valore di tempi remoti, quand’ancora i tre continenti erano uno ed i sovrani erano uomini giusti, capaci di servire le proprie genti più che dominarle. »

martedì 22 aprile 2008

103


I
l destino non era mai apparso avverso agli occhi di Heska e Mab’Luk: fatta eccezione per la tragedia comune risalente a tredici anni prima, alla loro vita era sempre stata offerta trovato gioia, pace e serenità. Fin da bambini non avevano mai avuto preoccupazioni da affrontare, non avevano mai visto drammi incombere sopra i loro futuri: figlia di un fabbro lei e di un carpentiere lui, avevano ritrovano nelle rispettive famiglie da sempre una stabile collaborazione lavorativa ed una conseguente unione di fatto ancora prima di scoprire il proprio amore. Quando quest’ultimo, poi, era esploso in una dirompente e giovanile passione, i loro padri non avevano avuto da opporre alcuna obiezione, alcun ostacolo alla consacrazione di tale puro sentimento: al contrario, essi si erano impegnati molto più di quanto fosse loro richiesto per rendere tutto in quel giorno praticamente perfetto, per celebrare al meglio l’unione dei loro unici eredi ed in esso vedere finalmente legate due realtà che a tutti gli effetti, da oltre vent’anni, erano una sola. Ma come era noto, laddove gli uomini desideravano proporre in merito al proprio destino, solo agli dei era concesso realmente di disporre di esso: e così, la coppia di promessi sposi si ritrovò a dover accettare l’inevitabile fato, l’imposizione che esso aveva imposto sopra quella giornata da loro sperata fausta ma divenuta troppo presto tragica.

« Non voglio lasciarti… » sussurrò Heska, stringendosi con forza al marito « Non oggi. »
« Devi partire. » rispose Mab’Luk con la morte nel cuore a pronunciare quelle parole, al pensiero di allontanarsi da colei per cui sola egli aveva ragione di respirare « E quando tutto sarà finito potremo sposarci… e non ci lasceremo più. »

Come tutta la popolazione dell’isola, seguendo l’ordine dell’alcalde, anche la coppia si era mossa verso il porto, non distante a tutti gli effetti dalla piazza centrale ove erano già radunati: lì gli equipaggi delle navi straniere ormeggiate stavano compiendo tutti i preparativi del caso, per essere pronti a salpare non appena gli abitanti della città si fossero imbarcati. Ma similmente ai due giovani, anche molte altre coppie non sembravano intenzionate a separarsi, molte famiglie apparivano recalcitranti di fronte all’idea di lasciare lì i propri mariti, i propri padri, i propri figli: di fronte, però, al freddo raziocinio offerto da Hayton nessuno fra gli uomini dell’isola ebbe cuore di trattenere a sé le persone amate, proprio per l’amore che ad esse li legava.

« Ma… » tentennò ella, allentando appena la propria presa, ancora senza avere la forza di lasciarlo.
« Abbi fiducia… » sussurrò egli, accarezzandole piano il viso « Non mi accadrà nulla di male: li abbiamo già respinti tredici anni fa, quando stupidamente non abbiamo pensato di difenderci da loro. Questa volta, invece, saremo preparati. »

Heska avrebbe voluto obiettare, avrebbe desiderato ricordare all’amato che non era un guerriero, non era un combattente, non era un soldato né mai aveva avuto nella propria esistenza la necessità di esserlo: come tutti gli abitanti dell’isola, egli era una persona tranquilla, ricca di virtù, colma d’amore e lenta all’ira. Coloro contro cui, invece, si apprestava ad offrire offesa per ragioni di difesa sarebbero stati i peggiori scarti della società, gente abituata alla violenza, allo stupro, all’omicidio. Ella temeva per il compagno di sempre, aveva paura di non poterlo più riabbracciare, di non potersi più unire a lui e di vedere la gioia di una vita scomparire nel nulla, svanire come placida rugiada notturna al primo calore dell’alba.

« Ti amo… » sussurrò la donna, gettandosi contro di lui un’ultima volta, cercando ancora per un momento il calore di quelle labbra, di quell’abbraccio, di quella passione, come se da esse potesse dipendere la propria esistenza, ragione di vita qual’era lui per lei.

Mab’Luk, similmente alla maggior parte dei giovani della sua età, era ancora pieno di illusioni, pieno di ideali, pieno di sogni: la vita serena offerta dall’isola in cui era nato e cresciuto, poi, non gli aveva mai permesso di affrontare con più realismo, con più pragmatismo o, addirittura, con più cinismo la vita e questo, ovviamente, rappresentava un pericolo per lui e per la propria incolumità. Egli, comunque, non era uno stolto: comprendeva perfettamente il pericolo rappresentato dai pirati, dalla loro violenza, dalla loro bramosia di sangue e morte e non si aspettava assolutamente di poter uscire illeso da quella prova. Ma, nonostante ciò, era deciso ad affrontarla, era intenzionato a non ignorare quello che riteneva essere un suo dovere come uomo, come futuro marito della propria amata: egli voleva dimostrare a lei e prim’ancora a se stesso di essere in grado di poterla proteggere, di poterla difendere da eventuali pericoli che il mondo avrebbe potuto loro porre di fronte. E per tale ragione, per quell’ideale forse troppo romantico, egli avrebbe affrontato fieramente gli invasori, convinto di poter trovare in sé la forza necessaria a respingerli così come tredici anni prima era stato in grado di fare suo padre.

« Ti amo… » rispose egli, accogliendola con gioia, stringendola a sé con desiderio in quel bacio, a cercare fusione con lei, a cercare di trarre da quell’amore la forza necessaria per affrontare l’impresa verso cui si stava gettando.

Quando la nave dove Heska aveva trovato rifugio salpò dal molo di Konyso’M, la donna non poté evitare di sentire una parte del proprio cuore e del proprio animo morire: nell’osservare Mab’Luk salutarla con enfasi dalla spiaggia, gridando incomprensibili dichiarazioni d’eterno amore e fedeltà, ad ella parve ascoltare i lamenti lontani di un condannato a morte. All’orizzonte, sempre più visibili, sempre più distinguibili, sempre più grandi erano le navi nemiche in costante avvicinamento e con esse appariva essere la sentenza per il suo sposo, per l’uomo a cui avrebbe desiderato essere legata in eterno, desiderio forse sgradito agli dei che in quello stesso giorno, nel momento in cui le loro promesse stavano per essere pronunciate, avevano permesso una così tragica evoluzione degli eventi.
La giovane osservò accanto a sé altre donne impegnate a salutare i propri compagni, i propri mariti, non diversamente da madri che piangendo lanciavano ultimi strazianti richieste di prudenza alla volta dei propri figli: ella si senti una persona orrenda nel non riuscire a trovare la forza di levare la mano, nel non riuscire a trovare l’impulso di salutare il proprio quasi sposo, ricambiando i di lui gesti, offrendo almeno in quel gesto il proprio amore. Ma il funereo presagio di morte che anelava nel suo animo, nel suo cuore non le concedeva speranza, non le offriva entusiasmo: e salutare in quel momento il proprio amato sarebbe stato come l’estremo addio durante una cerimonia funebre, atto per cui lei non si sentiva ancora pronta, tappa a cui non desiderava ancora giungere.
E piegando il capo fra le mani, ad Heska non rimase altro che piangere, a cercare sfogo al dolore che la straziava dall’interno.

lunedì 21 aprile 2008

102


L’
annuncio dell’arrivo dei pirati sconvolse l’intera isola: quello che avrebbe dovuto essere un giorno di gioia e di felicità era improvvisamente diventato un appuntamento infausto, che avrebbe portato tragedia, dolore e, probabilmente, morte per tutti. Lontani quali erano dai periodi in cui le flotte banditesche “amiche” erano abituate a far scalo all’isola, per riscuotere le proprie tasse, a nessuno dei presenti fu offerto il dubbio sulla natura delle navi avvistate: esse non potevano che appartenere ad un’armata selvaggia ed incontrollata, contro cui non avrebbero potuto opporre alcuna difesa, non avrebbero saputo erigere alcuna protezione, ammesso che avessero avuto istinto a procedere in tal senso. Non era infatti nella mentalità di Konyso’M e dell’intera Lodes’Mia la predisposizione alla guerra, neppure per motivazioni di salvaguardia: incredibilmente rare, del resto, erano le incursioni di reali nemici, di avversari decisi ad offrire loro violenza, al punto che qualsiasi organizzazione in tal senso avrebbe perso rapidamente di significato. In effetti, nel passato remoto dell’arcipelago era la memoria di una flotta militare, una risposta volontaria e spontanea degli autoctoni ai pericoli offerti dal resto del mondo: ma, col trascorrere delle stagioni e degli anni, dei lustri e dei decenni, quel resto del mondo sembrava essersi dimenticato della loro esistenza, se non per ragioni di commercio, di pacifica interrelazione, ed in quella nuova distensione, in quel nuovo clima di pace anche il mantenimento di un esercito, di una marina militare, aveva presto perduto di significato.

« Quante navi? A che distanza? » si informò l’alcalde, facendosi spazio fra i due giovani promessi sposi per avvicinarsi al messo di una sì triste novella.
« Sono tre. » ansimò il giovane, proveniente da uno dei due fari del porto dell’isola, dove prestava servizio come tuttofare « Tre grandi fregate: montano vele bianche e bandiere nere. Sono pirati! » aggiunse, ribadendo il concetto già espresso con enfasi dettata dalla paura.

L’alcalde di Konyso’M, eletto regolarmente quattro anni prima dall’intera popolazione dell’isola, rispondeva al nome di Hayton Kipons. Originario dell’isola, egli era stato un tempo marinaio, prima, e capitano, poi, fino a quando, raggiunto un numero di inverni sulle spalle giudicato eccessivo per continuare nel proprio incarico, aveva preferito affidare a spalle più giovani e forti il compito di condurre uomini e donne attraverso i mari e le mille avventure in tali viaggi, attraccando definitivamente nel luogo in cui la sua vita aveva avuto inizio. Nella tranquillità dell’isola, priva di troppi formalismi in opposizione alla terra ferma, nulla avrebbe contraddistinto quell’uomo da qualsiasi altro vecchio pescatore: la ruvida pelle bruciata dal sole, i corti capelli ingrigiti dall’età, gli occhi chiari, il viso spigoloso e le braccia ricoperte di troppi tatuaggi lo rendevano fisicamente simile ad un uomo qualunque, e le sue vesti non gli concedevano di certo un aspetto di particolare rilievo, in una gialla camicia tenuta aperta sull’addome e bianchi pantaloni indossati sopra piedi scalzi. In quella giornata particolare di festa un particolare paramento dorato, una sorta di mantello appoggiato sopra la spalla destra, lo contraddistingueva nel proprio ruolo, nel proprio incarico d’autorità: al di là di ciò egli appariva normalmente semplice perché tale era ed era sempre stato. Un uomo pratico, privo di particolari ambizioni al di fuori di quella che egli giudicava essere l’unica importante: vivere serenamente la propria esistenza, senza permettersi rimpianti o rimorsi.

« A che distanza sono? » chiese nuovamente Hayton, cercando restare calmo mentre ormai tutta la folla lì radunata offriva segni sempre più forti di impazienza, di timore se non anche di terrore.
« Non più di mezz’ora di navigazione, continuando alla velocità attuale. » rispose il garzone, deglutendo affannosamente.

Erano trascorsi tredici anni dall’ultima incursione violenta di un’armata di bucanieri: un periodo molto lungo, troppo lungo per potersi dimostrare preparati ad affrontare il peggio, per saper immediatamente come agire, cosa fare e cosa non fare. La maggior parte dei presenti era troppo giovane per ricordarsi di tali eventi e coloro che, al contrario, ne avevano memoria avrebbero preferito poter dimenticare: Heska apparteneva a quest’ultima categoria, motivo per il quale si strinse immediatamente a Mab’Luk, in cerca di protezione. Tredici anni prima, ancora bambina, aveva visto sua madre, sua sorella maggiore e la madre del suo compagno venir prima stuprate e poi uccise insieme ad un altro gruppo di donne, salvandosi da un analogo destino di morte solo per l’intervento provvidenziale di suo padre e del padre di Mab’Luk: essi, separati come tutti gli altri uomini da loro per mano degli stessi pirati, di fronte alle grida strazianti delle vittime avevano trovato la forza di ribellarsi agli aguzzini ed in un impeto d’irrefrenabile ira avevano scoperto di possedere la forza di imbracciare delle armi improvvisate allo scopo di difendere ciò che amavano. Ma tutta la loro rabbia non era valsa ad evitare una vera e propria carneficina, nel corso della quale quasi la metà degli abitanti dell’intera isola erano stati sterminati: il ricordo di quell’infausto evento non poteva pertanto evitare di perseguitare la giovane sposa e chi, come lei, ne era stato innocente testimone.

« No… » sussurrò la giovane, stringendosi al quasi marito « Non ancora. Non oggi. » aggiunse, scuotendo il capo sull’orlo evidente di un crollo nervoso.
« Alcalde… cosa possiamo fare? » domandò il giovane, stringendola nel proporre anche la propria voce in aggiunta un coro sempre più numeroso di simili richieste.

Hayton restò per un lungo momento in silenzio, cercando di richiamare a sé tutta la propria esperienza, tutto il proprio bagaglio di ricordi di una vita vissuta sul mare, in lotta contro ogni genere di avversità. E quando prese parola, la sua voce sembrò tuonare sopra le altre, paradossalmente nel tono calmo e contenuto da egli adottato.

« Dati gli eventi funesti, mi ritrovo a richiedere la collaborazione di tutti i capitani qui presenti, certo che non vorranno abbandonare coloro che hanno da sempre offerto loro ospitalità. » esordì, passando in rassegna con lo sguardo uno ad uno tutti i volti estranei fra gli abitanti dell’isola « Le donne ed i maschi al di sotto dei quattordici anni vengano imbarcati sulle navi più grandi e più veloci: partite immediatamente, con solo ciò che avete indosso e null’altro. Non vi è tempo da perdere. »
« E verso dove dovremmo far rotta? » intervenne a domandare uno dei capitani interpellati.
« Non è importante. » rispose l’alcalde « Dirigetevi verso levante, a raggiungere un porto sicuro sul continente, oppure andate dove preferite. L’importante è che possiate portare al sicuro le nostre famiglie. »

Un movimento affermativo più o meno deciso di teste fu la risposta che venne offerta all’autorità principale di Konyso’M da parte degli equipaggi delle varie imbarcazioni: tutti figli del mare, non avrebbero concepito una risposta alternativa a quella, una negazione alla richiesta d’aiuto loro proposta da parte di coloro che avevano imparato a considerare concittadini, conterranei, essendo oltretutto loro privi di una reale città, di una precisa terra a cui fare riferimento come casa.

« E voi cosa farete? » domandò Heska, unendosi a molte altre eguali domande poste dalle donne lì presenti.
« Noi resteremo qui, a lottare per ciò che è nostro. » rispose Hayton, con voce ferma e fiera « Non saremo dei guerrieri, non saremo dei soldati… ma quest’isola è la nostra isola, queste case sono le nostre case, questa terra è la nostra terra ed a nessuno potrà essere concesso di portare nuova violenza ritrovando in noi solo la quiete del gregge condotto al macello. »
« Io non c’ero… » aggiunse rapido l’uomo, prima che qualche protesta potesse prendere voce, che qualche consiglio di arrendevolezza o di fuga potesse diffondersi nella popolazione « Io non ero qui tredici anni fa. Ma so che chi fra voi era presente, il ricordo degli orrori vissuti non può che essere vivo e forte. »
« Volete davvero offrire alle nuove generazioni quegli stessi ricordi? » continuò egli, ora quasi gridando tanto aveva alzato il tono di voce lasciandosi trasportare dallo stesso spirito con cui un tempo si imponeva sul proprio equipaggio « I nostri morti gridano ancora vendetta… vogliamo davvero negargliela? »

domenica 20 aprile 2008

101


A
ppartenente all’arcipelago di Lodes’Mia, la piccola Konyso’M era in esso la principale isola, sede del governo della repubblica marinara lì costituita. La sua superficie, di forma vagamente romboidale, era ricoperta nella sua metà settentrionale da una selva non curata di piante ed arbusti bassi e cespugliosi, adatti alla vita offerta dal terreno prevalentemente sabbioso, mentre nella metà meridionale ospitava la città, omonima rispetto alla stessa isola sua ospitante, con una popolazione non superiore al migliaio di anime. Sita nel mare di ponente, non distante dalle coste del continente di Qahr, l’isola vedeva come la maggior parte delle sue simili nel commercio e nella pesca la principale risorsa dell’economia locale: una piccola oasi di pace, in cui tutte le guerre ed i dissidi delle grandi terre emerse apparivano come problemi lontani, appartenenti ad una realtà straniera, aliena quasi.
La maggior parte dei konyso’mani nasceva, viveva e moriva all’interno dell’abbraccio protettivo offerto dall’isola e dalle altre sue pari nell’arcipelago, nutrendosi dei frutti offerti dagli dei del mare e concedendo pace e rispetto verso chiunque a loro giungesse. Ai regni di Qahr, del resto, la presenza di Konyso’M o delle altre isole di Lodes’Mia non rappresentava né motivo di disturbo né ragione di conquista: in una politica di assoluta neutralità, quelle presenze nei mari, così come ogni altra piccola isola loro simile, si ponevano solo come porti da poter sfruttare, scali in cui potersi rifugiare in ogni momento, non diversamente da quello che sarebbe stato nel caso di una dominazione diretta. Prendersi l’onere di annettere quelle realtà ad un regno avrebbe rappresentato per gli stessi regnanti solo uno spreco di risorse, non potendo ottenere vantaggi diversi da quelli di cui già essi godevano: e questa evidente verità era la miglior protezione di quelle piccole repubbliche, grazie alle quali esse potevano vivere serenamente le proprie esistenze senza preoccuparsi di nulla, o quasi.
In effetti un solo problema gravava periodicamente su Konyso’M, una seccatura comune a tutte le umane attività coinvolgenti i mari o le coste: la pirateria. I banditi dei mari, privi di qualsiasi bandiera e irrispettosi di qualunque legge sovrana, si muovevano periodicamente intorno all’intero continente, spingendosi forse anche oltre, per depredare le risorse loro offerte e vivere così in conseguenza della fatica e del lavoro di altri. La maggior parte delle flotte piratesche, comunque, raramente finivano con il ricorrere alla violenza, preferendo limitarsi alla razzia ed al ladrocinio nel rispetto delle popolazioni autoctone: ovviamente, laddove esse avessero offerto difesa alle loro azioni, l’utilizzo delle armi sarebbe stato ovviamente necessario. Tali occasioni, in realtà, raramente coinvolgevano le comunità democratiche delle isole, le quali preferivano offrirsi volontariamente ai fuorilegge, quasi come una vera e propria riscossione tributaria, piuttosto che incorrere in problemi peggiori. Nonostante questo non mancavano anche bande di pirati capeggiati da uomini o donne privi di scrupoli che per nulla erano interessati alla prosecuzione pacifica delle proprie ed altrui esistenze preferendo invece ricercare nella brutalità quasi sadica un vero e proprio sfogo fisico e psicologico ad un’esistenza per loro insoddisfacente.
E proprio durante l’avvistamento di una di queste ultime spiacevoli ed inattendibili brigate, un lieto evento stava avendo luogo nella piazza principale di Konyso’M, vedendo raggruppata quasi la totalità della popolazione locale, nonché diversi equipaggi di navi lì ormeggiate per ragioni di commercio o, semplicemente, per rifornire le proprie stive prima di proseguire la propria navigazione.

Heska e Mab’Luk si conoscevano fin da bambini: le loro famiglie, entrambe di artigiani, avevano case e botteghe adiacenti nel centro di Konyso’M ed i due, quasi coetanei, erano cresciuti insieme, affrontando con l’aiuto uno dell’altra le mille piccole insidie dell’infanzia, dell’adolescenza, della maturità. Prima amici, poi un giorno improvvisamente, o forse naturalmente, amanti, i due avevano atteso fino all’ultimo giorno del mese di Khooc per unirsi in matrimonio: la tradizione, in effetti, avrebbe richiesto di attendere il nuovo anno, con l’inizio della primavera ed il rifiorire della vita piuttosto che affidarsi all’autunno, soprattutto in una data tanto vicina al successivo mese di Tynov, considerato di malaugurio, ma la coppia appariva così perfetta, così affiata, così meravigliosa in un completamento reciproco da non essere proponibile per loro attendere ancora quattro mesi prima di consacrarsi una all’altro.


Heska, accanto allo sposo, si donava allo sguardo come una ninfa, se non addirittura una dea, dalla bellezza incomparabile. Lunghi capelli biondo chiaro, simile a raggi di sole, circondavano lisci ed ordinati un viso ovale, dalla pelle delicata e limpida, al centro del quale due grandi e luminosi occhi blu risplendevano della stessa tonalità del mare più profondo, ponendosi al di sopra di sottili labbra rese rosso corallo da uno strato di delicato trucco. Sulla cima del lei capo era posta una ghirlanda di fiori bianchi, simbolo della dea Vehnea, signora dei cieli, a cui la sposa veniva consacrata nella tradizione locale. Celeste era il di lei corpetto, ad avvolgere i seni giovani e delicati ed i fianchi sinuosi e sensuali. In bianco ed oro una corta giacchetta, utile in realtà solo a coprire le spalle e le scapole, risaliva alta attorno al tornito collo di lei, il quale si mostrava circondato a sua volta da un girocollo di pendenti cristallini in sintonia a similari orecchini ai di lei lobi. La braccia, lunghe ed affusolate, erano coperte da altra stoffa, formata in due maniche fra loro separate ma collegate da un lungo velo, a circondarle la schiena ed a ridiscendere lungo i fianchi. Agli stessi fianchi era un corto gonnellino argentato e decorato in azzurre pietre, sopra il quale si lasciava ricadere un altro velo simile a lunga veste ma risultante aperto nella sua parte anteriore. Le di lei gambe, a completare quel quadro di purezza, si concedevano avvolte in altissimi stivali bianchi, ornati in oro, intonati alla giacchetta sopra le di lei spalle.
Mab’Luk, accanto alla sposa, si presentava quale un giovane atletico, dal fisico snello e prestante. Corti ed arruffati capelli rossi, tendenti praticamente all’arancione, si ponevano a cornice di un viso poco più che adolescenziale, ornato da due occhi castani e da lieve lanugine, non ancora definibile come barba. Attorno al capo, similmente alla compagna, anch’egli presentava una corona di fiori, ma in questo caso di colore rosso vivo: quali simbolo del dio Thare, signore della terra, essi avrebbero offerto la loro benedizione sullo sposo. La parte superiore del di lui corpo era avvolta da una casacca egualmente rossa, tendente al bordeaux, lasciando parzialmente scoperte le braccia a loro volta però ricoperte da un velo traforato, del medesimo colore: nessun tatuaggio segnava la di lui pelle né si poteva intravedere su quegli arti, qual figlio di artigiani e non di marinai. La parte inferiore del corpo, similmente, si presentava con ampli pantaloni rosso chiaro, legati nel loro bordo inferiore sopra ai di lui polpacci, per lasciare libere le sue gambe fino ai piedi, dove semplici sandali ugualmente purpurei li proteggevano.

Splendidi i due sposi, circondati da parenti, amici, conoscenti ed anche totali estranei, tutti riuniti in quel gaudio giorno per festeggiare quel matrimonio, quell’unione sacra che avrebbe per sempre legato due anime, due cuori, due menti e due corpi, rendendoli uno solo: da quel momento fino alla fine dei loro giorni, le loro due vite sarebbero state una, condividendo i momenti gioiosi e quelli tristi, la forza e la debolezza, la ricchezza e la povertà. Nulla dei beni dello sposo sarebbero appartenuti solo ad egli, nulla dei beni della sposa sarebbero appartenuti solo ad ella: due famiglie, in quel matrimonio, avrebbero visti legati insieme i rispettivi futuri nell’unione dei due eredi. Ed una vita di pace ed amore sarebbe stato tutto ciò che essi avrebbero avuto, tutto ciò che essi avrebbero desiderato avere.
Ma, in quell’ultimo giorno prima del mese di Tynov, il cattivo presagio di quell’infausto periodo violò la serenità dell’evento, presentando la tragedia e la morte in tutta la propria maledetta sciagura.

« Pirati! I pirati sono all’orizzonte! »

sabato 19 aprile 2008

100


« E’
una follia! » gridò Tamos, scuotendo il capo ed aprendo le braccia, come a voler dimostrare una propria innocenza nell’offrirsi così privo di difesa di fronte a loro « Mi accusi di aver ucciso Ja’Nihr solo per il mio silenzio? Per la mia natura non espansiva in opposizione a te? E’ questo il tuo metro di paragone: chi non ti eguaglia ti è nemico? »
« Non si tratta di ciò. » scosse il capo Midda, riabbassando la voce « E lo sai. »
« Ti avevo detto che sentivo che qualcosa non andava… per quello ero strano. » tentò di spiegare, con voce carica d’enfasi, con sguardo quasi lucido per le lacrime che in quel momento resero evidente un disagio interiore, forse in conseguenza del peso di una situazione non più gestibile.
« Certo: ne avevi parlato con me e con Masva, creandoti in tal modo un alibi perfetto per proteggerti da ogni sospetto: chi avrebbe infatti accusato proprio colui che per primo aveva annunciato presagi negativi. » rispose la mercenaria « Ma tu sei stato proprio l’unico a lasciare in più occasioni il ponte, prima con la scusa recuperare alcune funi, poi offrendoti volontario per la distribuzione dell’acqua a tutti noi. »
« Non è vero… » gemette egli, non riuscendo a trovare altre parole in propria difesa.
« Ja’Nihr non aveva motivo per temerti. » proseguì intransigente la donna, stringendo i denti in quelle parole « Dimmi… ella ha avuto la possibilità di comprendere che tu l’hai tradita prima di morire? Ha avuto l’occasione di guardarti in faccia e domandarti silenziosamente “perché”? »
Nessuna risposta, ora, uscì dalle labbra del giovane, vistosamente tremante davanti ad ella, diviso da un tremendo conflitto interiore, un’incertezza che Ron-Hun, suo complice, non aveva mai dimostrato.
« Quando poi l’omicidio è stato scoperto, mentre tutti noi siamo stati attirati, e distratti, dalla vista del cadavere, tu hai avuto l’occasione ed il tempo necessario a sostituire la vela di trinchetto con una di riserva, opportunamente preparata con la filastrocca “divina”. » continuò la mercenaria, scuotendo il capo « In effetti quelle parole non erano menzognere: una condanna era stata emessa contro tutti noi… ma non da parte degli dei e non per mano di fantomatici spettri. »
« Ma… come? » balbettò Masva, sconcertata a quell’ipotesi, a quella teoria di complotto « Perché? »
« Anche tu lavori per lei, non è vero? » incalzò Midda, fissando il guercio nel suo unico occhio « Approfittando della morte del vecchio equipaggio, tu e Ron-Hun siete stati infiltrati a bordo della Jol’Ange, guerrieri dormienti in attesa di un mio ritorno per poter compiere il vostro mortale dovere. Perché sapevate che prima o poi sarei tornata al mare, che prima o poi avrei avuto bisogno di una nave e che non mi sarei fidata di altra imbarcazione al di fuori di questa. Non è vero? »

Nessuno osò muovere un singolo muscolo, nonostante l’incessante violenza della tempesta attorno a loro, nonostante le sartie si tendessero al punto tale da potersi spezzare da un momento all’altro, nonostante la furia dei venti si scatenasse contro gli alberi con una forza tale da rischiare di spezzarli di netto.
Neanche Av’Fahr, ancora chino sul corpo morto del primo traditore con il proprio desiderio di sangue e vendetta nei confronto dell’assassino di sua sorella, osò accennare un minimo gesto: quella situazione, quell’assurdo complotto sembrava troppo complesso, troppo paradossale per apparire vero, ma nelle parole della donna guerriero era una logica chiara, un’evidente analisi dei fatti.

« Tamos…? » sussurrò appena Masva, rivolgendosi al compagno « Dimmi che non è vero… »
« Tu e Ron-Hun eravate gli unici spettri di questa nave. » concluse la mercenaria, portandosi di fronte all’avversario ed alzando il viso di lui con la propria mano sinistra « Non è vero? »
Ed il giovane, a quel punto, crollò a terra, lasciandosi riversare sul ponte bagnato della nave, coprendosi il viso ed il capo con le mani, atterrito dal dolore, dal senso di colpa per le proprie azioni: « E’ così. » ammise quasi inudibile.

Una collettiva esplosione di stupore seguì quell’affermazione, quella risposta: Tamos si stava dichiarando colpevole di fronte alle accuse di Midda, stava assumendo la piena responsabilità per la morte di Ja’Nihr e per l’attuazione di quella macchinazione incredibile ai danni dell’intero equipaggio, contro coloro che fino a pochi istanti prima avevano avuto assoluta fiducia in lui, che mai avrebbero sospettato qualcosa e che, probabilmente, se lui avesse negato tutto gli avrebbero anche creduto, giudicando irragionevole la ricostruzione altrimenti perfetta compiuta dalla donna guerriero.

« La Bal’Fair… » incalzò ella, piegandosi sopra di lui, senza apparente ira, senza evidente desiderio di violenza « … è stato un caso il nostro incontro con quella nave? »
« No… » scosse egli il capo chino.
« Come è possibile? » domandò Berah, frastornata da quelle rivelazioni « Vuoi dire che… »
« L’ippocampo. » annuì Tamos, sollevando appena lo sguardo verso di loro « E’ stata opera dei nostri compagni… opera del nostro capitano. »
« Voi avreste dovuto avere un solo capitano… » intervenne a quel punto Noal, ferito dalle parole del giovane marinaio « E quello era Salge! »
« Io gli volevo bene… » gemette a quel punto il traditore « Non volevo eseguire gli ordini… ma non ho avuto scelta. Voi non la conoscete… non avete idea di ciò che ella è in grado di fare. »
« Di chi stai parlando? » domandò Av’Fahr, non riuscendo a disprezzare in quel momento il compagno di un tempo, come invece avrebbe desiderato poter fare nella consapevolezza del ruolo di egli nella morte di sua sorella « Chi è che ti ha spinto a tanto? »
« Lei è… »

Ma prima che egli potesse avere il tempo concludere quella risposta, prima che gli fosse data la possibilità di spiegare le proprie azioni, una nuova e violenta onda investì la nave, con forza stravolgente, con impeto incredibile: chiunque, presente sopra il ponte della goletta priva di controllo, fu spazzato in conseguenza della propria potenza di quella marea, trascinato senza possibilità di opposizione lontano dalla solidità, dal riparo, dalla protezione della Jol’Ange. E Midda, unica a non essere legata come gli altri all’albero maestro dell’imbarcazione, nulla poté contro quella furia devastatrice.
L’ultima immagine che alla donna guerriero fu concessa di vedere fu quella del volto di Tamos, straziato dall’orrore più puro al pensiero di colei che ne stava guidando i passi, che ne aveva condotto il cammino fino al disonore del tradimento.
Ed il resto fu solo caos… e silenzio.