11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

venerdì 20 novembre 2009

679


P
regiudizio e xenofobia, paura verso il diverso e lo straniero, sarebbero probabilmente dovute essere considerate caratteristiche comuni a molte civiltà, nazioni, popoli, forse addirittura peculiarità intrinseche della stessa razza umana, sì superficiale, sì approssimativa nel proprio, più retorico che effettivo, desiderio di integrazione reciproca, di convivenza, tale da considerare simili concetti pari all’assimilazione, all’annullamento di ogni carattere apparentemente estraneo in favore di quanto invece considerato corretto da parte della fazione al potere. Ciò nonostante, per quanto omogeneamente diffusi in ogni angolo del pianeta, presso ogni insediamento umano, tali negativi fattori, simili impietose virtù, avrebbero probabilmente potuto trovare in una città qual Kirsnya un esempio particolarmente significativo, un’esponente particolarmente importante.
In contrasto a ogni concetto, a ogni presupposto nel merito di una maggiore apertura psicologica, una migliore possibilità di comprensione del mondo e delle culture esterne alla propria che, forse, avrebbe dovuto esser propria di una tale realtà, dov’essa si poneva così frequentata, così ricca di occasioni d’incontro multietnico, qual crocevia fondamentale per qualsiasi viaggio via mare fra il versante occidentale e quello meridionale non solo della nazione, quanto piuttosto, effettivamente, dell’intero continente, il rifiuto dell’estraneo nella sola capitale portuale kofreyota era solito sfiorare i limiti del paradosso, dell’assurdo. Tale società, simile civiltà, spronata da simili fobie, si era addirittura spinta a erigere non solamente mura in pietra a protezione da eventuali minacce provenienti dall’entroterra, ma addirittura mura in legno a protezione da possibili nemici loro offerti attraverso vie marine, primi fra tutti certamente i pirati, ma, per estensione, chiunque non fosse riuscito a rispettare i loro canoni di normalità, di quotidianità. Anche per i più onesti mercanti, infatti, difficile, impegnativo e, soprattutto, costoso, era da sempre stato potersi riservare il diritto a entrare in città, a valicare le frontiere così preposte alla sicurezza dei suoi abitanti, in netto contrasto con l’estrema facilità con la quale, invece, essi stessi, anche dove già lì accettati, avrebbero potuto vedersi successivamente negato, annullato simile permesso, in virtù di un estemporaneo capriccio, di una scelta del tutto arbitraria e priva di necessità di spiegazioni. Non difficile, nel considerare simili presupposti, tale impietosa situazione, sarebbe stato pertanto comprendere la particolare condizione in cui, elementi quali Midda Bontor o Carsa Anloch, inevitabilmente avrebbero riversato agli occhi della popolazione attorno a loro, nella semplice, banale considerazione della loro semplice professione. Sebbene estremamente richiesta e sfruttata a ogni livello all’interno della struttura sociale dell’intero regno, dall’impiego privato presso le case di ricchi nobili, a quello pubblico a rinforzo delle fila del pur vasto esercito kofreyota, la categoria dei mercenari non avrebbe mai potuto essere accettata di buon grado, essere accolta a braccia aperte, al pari di un’ospite gradito, quale una presenza prediletta, fossero essi avventurieri indipendenti, fossero, al contrario, persino parte di un’organizzazione forte e in costante ascesa qual quella conosciuta con il nome di Confraternita del Tramonto. Ipocrisia, certamente, sarebbe dovuta esser considerata quella esistente dietro a tanto malanimo, a tanto pregiudizio, ma, purtroppo, pur presente e imprescindibile, inevitabile, con la quale essere obbligati a scendere a patti per poter permanere all’interno di quella città, fosse solo per pochi giorni o una singola notte.
Nell’inevitabilmente vano contrasto con simile, sicuramente spiacevole realtà, pertanto, consapevole della propria impossibilità a vincere contro la stessa, persino la Figlia di Marr’Mahew aveva dovuto chinare il capo, aveva dovuto ridurre al silenzio un proprio pur immancabile orgoglio, accettando tacitamente quel patto sociale e, con esso, l’obbligo a sopportare, accanto a rari sguardi di ammirazione, troppi colmi di disprezzo, verso i quali, in altre occasioni, avrebbe cercato aperto dialogo, un chiarimento, prevedesse quest’ultimo anche lo scontro armato e la morte dell’avversario. Diversa era, del resto, quella realtà da quella a lei più congeniale, più prossima, tipica della città del peccato, là dove, per quanto ancora pochi si sarebbero presentati gli sguardi di ammirazione, numerosi, predominanti sarebbero stati quelli di fiera sfida, di rifiuto della sua nomea, della sua bravura non tanto nel desiderio di negarle i propri meriti, le proprie imprese, quanto più per riuscire a riservarsi una ragione a giustificazione dell’incoscienza inevitabilmente necessaria nel cercare un confronto con lei, una lotta nella conclusione della quale avrebbero potuto riservarsi una possibilità di carriera, di ascesa sociale: in Kirsnya, alcuno si sarebbe mai schierato contro di lei, avrebbe rischiato la propria vita in ciò, nel tributarle quel giusto riconoscimento di valore, di forza, qual inevitabilmente sarebbe dovuto essere considerato in Kriarya, quanto piuttosto per una semplice supponenza, per l’assoluta vanità tipica di un popolo incapace di reputarsi inferiore rispetto ad alcun altro sulla faccia dell’intero pianeta, forte in tal posizione della protezione offerta dalle proprie inique leggi. Fortunatamente per lei, se tutto fosse andato come previsto, come pianificato, come organizzato, entro il mattino dopo, ella sarebbe ormai stata lontana da tutto quello, da quell’urbe inevitabilmente associata a pensieri negativi, a ricordi spiacevoli, tali da farle persino dolere il braccio destro là dove le era stato amputato, nel rimorso, nella rabbia per quanto avvenuto, per l’ingenuità della propria allora giovane età che aveva permesso, in effetti, a tutto ciò di accadere senza sufficiente ribellione, diniego, rifiuto in contrasto a tutto ciò.
Entro quelle mura, come giustamente e silenziosamente sospettato anche da Carsa, ella non avrebbe mai fatto ritorno per semplice casualità, per un banale scherzo del fato. Lì, invero, ella si sarebbe spinta solamente in conseguenza di una qualche inevitabile necessità a giustificare simile spiacevole occorrenza: necessità che, in quel particolare frangente, avrebbe dovuto essere esattamente ricercata nella condanna imposta sulla sua compagna di ventura, su quella giovane donna che, in due occasioni di incontro, era riuscita a esserle, prima, amica e, poi, nemica, e che pur, nonostante tutto, era risultata meritevole del suo sincero rispetto. Per lei, ai tempi della missione di recupero della corona della regina Anmel, Midda aveva accettato di sacrificarsi, di porre in serio azzardo il proprio stesso futuro in una prova nella quale non avrebbe dovuto poter trovare occasione salvezza e dalla quale, invece, era sopravvissuta in circostanze ancor non chiarite, per mezzo di dinamiche ancor non precisate. Per lei, più recentemente, in concomitanza con il loro scontro per il fato dell’y’shalfica fenice, Midda aveva moderato i propri colpi, aveva contenuto il vigore dei propri attacchi, là dove, probabilmente, in caso contrario, avrebbe anche potuto riuscire ad abbatterla, nella propria indiscussa superiorità guerriera. Per lei, ora, Midda si disponeva pronta ad offrire nuova sfida alla giustizia di Kirsnya, a quel sistema con il quale, dopo un decennio, aveva appena raggiunto un’occasione di tregua, e contro il quale, in tale intento, avrebbe probabilmente riaperto una faida, un dissidio probabilmente inevitabile.
Così come promesso nelle proprie ultime parole, in quelle dichiarazione tanto aperte, quasi beffarde, verso le stesse guardie preposte alla sorveglianza della propria compagna, ignare del sincero significato di tali ambigui significanti, la Figlia di Marr’Mahew non avrebbe permesso a Carsa di concedersi, al mattino seguente, qual spettacolo innanzi agli sguardi di quella città così ordinata, così apparentemente perfetta e pur sostanzialmente marcia, molto più di quanto non lo sarebbe mai potuto essere una capitale dominata da assassini e mercenari, prostitute e ladri qual Kriarya. In quella stessa notte, prima che la disidratazione avesse negato ogni energia residua alla condannata, ella l’avrebbe liberata dalle corde che la vincolavano al suolo, aiutandola a lasciare indenne quelle mura anche per lei divenute ormai sinonimo di morte.

« Midda Bontor… la pirata. Ecco qualcuno che non mi sarei mai atteso di poter ritrovare qui in giro… »

A offrire simile commento, con tono privo di volontà di scherno e, al contrario, assolutamente serio nel proprio proporsi, fu una voce non estranea alle spalle della mercenaria, tale da coglierla con maggior sorpresa di quanto ella non avrebbe voluto concedersi, non avrebbe gradito riservarsi, soprattutto in quel momento, nella consapevolezza di ciò che l’avrebbe dovuta attendere, che si era impegnata a fare nei confronti dell’amica. E, nel riconoscere immediatamente l’identità di simile protagonista, di tale figura, ancor prima di avere occasione di volgersi nella direzione del proprio nuovo interlocutore, di avere la possibilità di osservarlo in maniera diretta, esplicita, ella dovette ammettere quanto, a propria volta, non avesse ritenuto di potersi attendere l’eventualità di un tale incontro, la probabilità di quella pur imprevedibile riunione, per quanto, effettivamente, essa sarebbe dovuta essere considerata tutt’altro che improbabile, nel riferimento comune alla città di Kirsnya e, soprattutto, nel particolare legame esistente fra quell’uomo e l’urbe, alla quale aveva votato la propria vita.

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