11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

venerdì 1 gennaio 2010

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D
a sempre il mese di Phau, ultimo della stagione estiva, sembrava in grado di proporsi nel confronto con l’animo degli abitati del regno di Kofreya quale carico di una malinconia sconosciuta agli altri mesi, persino a quelli invernali pur carichi della responsabilità propria della morte della natura e della conclusione dell’anno in corso.
In tal periodo, per quanto la vita animale e vegetale si sarebbe sempre presentata ancora all’apice del proprio splendore, della propria energia, inevitabilmente l’ombra dell’imminente autunno e del successivo inverno avrebbero costretto qualsiasi mortale a un primo esame di coscienza, a una prima analisi di quanto compiuto nel corso di quello stesso anno, nel confronto con un punto di svolta tanto importante, l’inizio della discesa verso la sua stessa conclusione. Ove, quindi, pur tanta fatica, tanto impegno sarebbe potuto essere stato posto nel risalire verso quella cima tanto audace, lottando giorno dopo giorno per la propria sopravvivenza e il proprio successo, ognuno nei rispettivi campi di competenza, con l’avvento del mese di Phau e, ancor più, con il superamento della sua metà, non più possibilità di crescita, di miglioramento, sarebbero state offerte alle coscienze di tutti, quanto, al contrario, un lento e ineluttabile declivio.
Una rappresentazione quella così imposta all’attenzione di tutti dal ciclo stesso delle stagioni, dall’alternanza dei mesi, invero, non poi troppo diversa, estranea, dalla stessa vita, nella sua integrità, nella sua completezza: lunghi anni giovanili, decenni di sforzi, di fatica, sudore e sangue, spesi per raggiungere un traguardo, per conquistare una posizione, avrebbero sempre e comunque dovuto confrontarsi con la consapevolezza dell’approssimarsi della propria fine, di quell’inevitabile conclusione che, un giorno, avrebbe accomunato tutti, dal più povero al più ricco, dal più pavido al più audace, dal più debole al più forte. In conseguenza a tale parallelismo, se con sfavore sarebbero stati considerati nascite e matrimoni nei mesi invernali così come anche in quello di Tynov, ultimo della stagione autunnale, con ancor più ritrosia sarebbero state accolte le morti nel mese di Phau, per quanto non programmabili, esterne a ogni umana possibilità di arbitrio.

La morte, da sempre, era un concetto, una realtà con cui qualsiasi uomo o donna sarebbe stato costretto a confrontarsi, a porsi a rapporto, fin dalla più tenera età, là dove, in un mondo quale il loro, nel quale alla vita non era solitamente associato alcun particolare valore, alcuna reale importanza, persino la possibilità di poter assistere a una nuova alba, di poter godere di un nuovo risveglio, non sarebbe mai potuta essere considerata quale banale, quale scontata.
In quelle terre, nel regno di Kofreya così come in altri del tutto simili per quanto fossero tutti loro soliti ritenersi realtà uniche e incomparabili, agli infanti sufficientemente forti e fortunati da sopravvivere alle prime settimane, ai primi mesi dopo la loro stessa nascita, alcun premio, alcun particolare riconoscimento sarebbe mai stato offerto, neppure dalla propria stessa famiglia, dai propri genitori. Essi, infatti, anche accanto a eventuali, e tutt’altro che retorici quanto presenti, sentimenti d’amore verso la propria prole, non avrebbero potuto ovviare la consapevolezza del peso che essa avrebbe rappresentato sulle loro spalle, sul loro stesso avvenire, in un investimento che, a differenza di una semina o dell’acquisto di un capo di bestiame, difficilmente avrebbe potuto restituire loro dei risultati nel breve periodo.
Crescendo, poi, non una sorte migliore, non un fato più agiato, avrebbe atteso gli eletti sopravvissuti alle insidie della più tenera infanzia. Per ricompensare la propria famiglia del dono, o forse della maledizione, della vita, infatti, immediato sarebbe dovuto essere l’impiego dei bambini in una qualche attività produttiva, nel collaborare con i propri parenti su vie da essi già percorse o, in alternativa, nell’abbandonarli, cercando altrove la propria strada, il proprio futuro, al fine di non gravare su di loro con la propria presenza, purtroppo giudicabile quale inutile in assenza di un guadagno pratico, di un ritorno utile alla sopravvivenza di tutti. In tal senso, a tal scopo, la sola, concreta, reale alternativa al retaggio familiare, alla prosecuzione dell’attività dei propri genitori, sarebbe potuta allora essere considerata la via delle armi, la strada della guerra, nell’impegnarsi all’interno delle fila di un esercito regolare o quali soldati di ventura, mercenari privi di un legame di fedeltà ideologica a una terra, a un sovrano, quanto, piuttosto e, forse, meno ipocritamente, al proprio mecenate di turno, al padrone che avrebbe offerto loro il miglior guadagno. In verità, tanto nella scelta di una professione apparentemente più quieta, quali quelle rivolte alla terra, all’agricoltura o all’allevamento, o alla manifattura, quali quelle artigianali, tanto in quelle votate alla guerra, come combattenti in eserciti regolari o di ventura, non diversa, non migliore o peggiore, sarebbe dovuta essere giudicata la prospettiva di vita allora riservata, là dove la morte sarebbe potuta giungere in ogni giorno, in ogni ora, in ogni momento, impietosa e irrefrenabile, distruggendo in pochi istanti quanto costruito in un’esistenza intera.
Una certezza, ancor prima di una paura, quindi, quella offerta dalla morte, l’ultimo grande appuntamento di ogni uomo o donna, fosse egli o ella il più pacifico fra i servi o il più spietato fra i generali.

Nonostante simile, naturale confidenza con la morte, giunti al mese di Phau gli abitanti del regno di Kofreya, così come quelli di molti altri regni, erano pur soliti impegnare le proprie energie, le proprie volontà, al fine di ignorare tale assoluta presenza incombente su di loro, quasi evitare ogni riferimento alla stessa nel periodo che dell’anno avrebbe dovuto essere considerato apice assoluto, punto di massimo splendore, potesse scongiurare quanto pur inevitabile.
L’eventualità di una perdita, pur non arginabile, pur non contenibile nella propria ineluttabilità, avrebbe offerto sincero sconforto non solo a tutti coloro che, alla stessa, si sarebbero trovati vicini, ma, più in generale, a tutti coloro che pur ne avrebbero avuto notizia. In questo, pertanto, se la scomparsa, prematura o no, si fosse ritrovata a essere collegata ad una figura di una certa fama, di una qualche notorietà, l’effetto che la stessa avrebbe imposto sul pubblico sarebbe stato logicamente maggiore, andando a influenzare una schiera più vasta di elementi, di persone, che non avrebbero potuto ovviare a interpretare in maniera negativa, addirittura qual cattivo auspico, simile evento. Ove, poi, attorno al nome del defunto si fosse imposta, nel corso del tempo, nel corso degli anni, una celebrità tale da farlo apparire simile a una leggenda vivente, già oltre il semplice stato di umana mortalità e prossimo agli dei, il clamore che la sua morte avrebbe comportato proprio in tale periodo dell’anno, in tale particolare mese, sarebbe stato privo di eguali. E così, in Kriarya, comunemente nota quale città del peccato, capitale kofreyota di frontiera tanto con i nemici y’shalfichi, tanto con i meno belligeranti compagni tranithi, quell’anno, quel mese di Phau non poté che ritrovare l’intera popolazione, pur costituita da mercenari e assassini, ladri e prostitute, quale profondamente scossa, se non addirittura sconvolta, da un annuncio di morte che pur in molti avevano atteso per lunghi anni, che pur in molti non avrebbero mancato di festeggiare.
Impossibile, in verità, sarebbe potuto essere credere a tale eventualità, dove anche innanzi allo sguardo dei suoi più acerrimi nemici, di coloro che più l’avevano odiata in vita, ella era apparsa sempre superiore a ogni debolezza umana, a ogni limite proprio della carne e, altresì, sconosciuto agli dei. Non solo in tutta la provincia, ma anche in tutto il regno e, addirittura, in diverse terre prossime allo stesso, accanto al suo nome, già da tempo, era l’appellativo di Figlia di Marr’Mahew, che associava quella figura tanto incredibile, tanto leggendaria, a una dea della guerra propria del pantheon di un arcipelago sito a ponente rispetto a Kofreya, là dove ella aveva guadagnato tale importante tributo qual naturale conseguenza della propria forza, della propria audacia, della propria indole guerriera, tale da non poter permettere a nessuno di prendere in concreta considerazione l’eventualità di una sua sconfitta, non in conseguenza di un duello, quanto meno, sebbene in molti, continuamente, osassero porsi alla prova in tale tentativo, in simile opportunità di ascesa agli onori della cronaca.
Eppure, nonostante l’incredulità propria di quel frangente, nonostante l’incapacità ad accettare quanto giudicato quale inaccettabile, nonostante ella fosse più volte sopravvissuta ad annunci di morte certa a suo discapito, in quell’occasione, in quel particolare mese, la notizia non si poneva quale contestabile, non avrebbe permesso alcuna possibilità di negazione.

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