11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

domenica 7 novembre 2010

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I
n un folle mondo, diviso da molteplici confini fra innumerevoli nazioni, culture, etnie, erano sempre esistiti particolari comuni a ogni gente, a ogni popolo, espressioni e reazioni proprie del genere umano in quanto tale e, in ciò, indifferenti a qualsiasi credo e a qualsiasi lingua, a qualsiasi tradizione secolare o a qualsiasi caratteristica fisica abitualmente utile a discriminare con particolare superficialità, ma con incredibile efficacia, alcune persone, intere civiltà, nei confronti di altre.
Un sorriso sincero, una smorfia spontanea, uno sguardo di stupore, un lieve rossore da sempre erano e sempre sarebbero potuti essere interpretati indipendentemente dal contesto culturale all’interno del quale essi sarebbero potuti essere proposti, risultando chiari, inequivocabili nei propri significati al di là di ogni possibile significante loro associato. Non semplice, a volte, sarebbe stato riuscire a cogliere tali espressioni, riuscire a non confondere le ragioni di una in vece di quelle di un’altra, un’emozione con una a essa completamente opposta: una difficoltà, questa, non conseguente, propriamente, a un’implicita occasione di fraintendimento propria in colui o colei che di simili sentimenti si sarebbe proposto qual protagonista, quanto, piuttosto, dei suoi stessi interlocutori, di coloro che, posti innanzi a manifestazioni pur chiare delle sue emozioni più intime, del lato più profondo del suo animo, non sarebbero stati allora in grado di interpretare in maniera corretta quanto così offerto nel ritrovarsi traviati, in tal senso, dalla propria stessa autodeterminazione, dalla propria libertà di pensiero, che, spesso con egoismo ed egocentrismo, avrebbe inconsciamente preferito ignorare l’ovvio al fine di leggere in tutto ciò quanto di più gradito, di più apprezzato, di più desiderato nell’altro, generando in conseguenza di simile atto spiacevoli fraintendimenti spesso, addirittura, sfocianti in manifeste violenze, in terribili e devastanti aggressioni prevedibilmente a discapito della parte più debole. In quante occasioni, sin dagli arbori dell’umanità, un netto rifiuto da parte di una donna verso un uomo era stato frainteso come un velato invito a insistere, a proseguire in una direzione assolutamente non gradita e non desiderata, al punto da illudere l’uomo di poter procedere là dove altresì interdetto e, in ciò, giungere all’orrore di uno stupro? Un errore non derivante da una difficoltà propria nella malcapitata vittima a dimostrare la propria negazione, il proprio disinteresse verso l’altro, quanto, piuttosto, da un’incapacità propria dello stesso carnefice ad accettare tale proibizione e, in ciò, in maniera conscia o inconscia, a rovesciare il significato della stessa a proprio esplicito favore.
Accanto a più o meno evidenti espressioni caratterizzanti emozioni incredibilmente semplici nella propria stessa natura, nella propria interpretazione, ma tremendamente complesse da accettare quali tali, tuttavia, in ogni cultura, in ogni popolo, altri gesti, altri comportamenti, erano e sarebbero da sempre rimasti altresì non solo assolutamente intelligibili, chiari, trasparenti nei propri significati, ma anche, puntualmente riconosciuti negli stessi: primo fra tutti, primordiale nella propria stessa essenza, nella propria intrinseca natura, sarebbe allora stato il vagito caratteristico di un infante, quel grido puro, sincero, quella richiesta di soccorso, di attenzione, priva di qualsiasi malizia, esterna a qualsiasi ombra di dubbio in una realtà abitualmente dominata dalla falsità e dalla menzogna. Alcuno, uomo o donna, nell’essere posto innanzi a tal pianto, entro i limiti fisici della sua estensione, della sua diffusione, avrebbe potuto ignorare quel messaggio, quell’invocazione, come, al contrario, erano da sempre soliti agire gli dei, ineffabili e immensi, nel confronto con le preghiere dei propri fedeli, di coloro che, nei loro nomi, nella loro benevolenza, confidavano per la risoluzione dei propri problemi, per l’assoluzione dalle proprie colpe, per la salvezza dalle proprie sofferenze. Probabilmente anche in questo avrebbe dovuto essere considerata la differenza fra l’umano e il divino, fra l’immortale e il mortale: quella capacità propria e caratteristica degli dei di ignorare la sorte della propria progenie, il frutto del proprio atto creativo, restando indifferenti e lontani, in questo, da ogni guerra mortale, da ogni conflitto terreno, da ogni umana questione per quanto perennemente invocati, costantemente richiamati, non diversamente da un padre con il proprio figlio, da una madre con la propria figlia, e pur, differentemente da loro, mai presenti, sempre distanti, forse a rispetto del libero arbitrio pur riconosciuto alle proprie creature, forse, altresì, perché ormai dimentichi delle stesse, troppo separati da esse dalla diversità della propria stessa natura, così come solo sa essere l’eternità da un fuggevole, effimero battito del cuore. Ma ove anche, in tutto ciò, gli dei sarebbero potuti restare, allora, indifferenti al pianto disperato di uno dei propri figli, uomo o donna, giovane o vecchio, mai un genitore umano avrebbe potuto porsi in egual misura nel confronto con il vagito del frutto dei propri lombi, di quel pargolo destinato a essere, per loro, unica concreta speranza di immortalità, solo retaggio in grazia al quale neppure lo scorrere del tempo sarebbe dovuto essere temuto. E tale regola sarebbe valsa in ogni angolo dei tre continenti, di Hyn, Myrgan e Qahr, in ogni regno di quei vasti territori, in ogni provincia di quelle pur variegate regioni, comprendendo, inevitabilmente, anche i confini propri della capitale appartenente al belligerante regno di Kofreya, conosciuta con il nome di Kriarya e con l’appellativo di città del peccato.

Inderogabile, improrogabile, irrinunciabile, legato alla sua stessa natura di mortale e, soprattutto, di madre, fu l’impegno che, in una notte di fine estate, coinvolse, in una delle alte torri dell’urbe, quegli edifici così tendenti verso il cielo a voler dimostrare il potere terreno dei proprietari, dei signori di quella stessa città, una giovane poco più che ventenne, un tempo fanciulla, ora indubbiamente donna, in risposta al richiamo del proprio figliuolo, il proprio pargolo nato all’inizio di quella stessa stagione e che, per quanto ormai fisicamente separato dal ventre materno, ancora non sembrava aver accettato simile condizione, tale indesiderato esilio, richiedendo prepotentemente a sé colei entro le cui braccia, nel calore della quale, sapeva avrebbe potuto sempre e comunque trovare rifugio e protezione.
Priva di qualsiasi calzatura a coprire le piccole e armoniose forme dei propri piedi, indossando solamente da una lunga e candida camicia da notte in seta bianca priva di maniche, sopra la delicatezza della quale ricadeva disordinatamente una lunga e fluente chioma di capelli mori, particolarmente mossi, addirittura tendenti al riccio, non tanto in conseguenza della tarda ora quanto, semplicemente, per una naturale predisposizione, ella sopraggiunse con passo affrettato, quasi precipitoso, in risposta a quell’appello, per quanto al centro del suo candido viso estremamente assonnati, carichi di comprensibile stanchezza, si proponessero i suoi neri occhi, segno evidente di come, con tal grido, con simile allarme, ella fosse appena stata sottratta a un quieto riposo, a un dolce momento di pace notturna.

« Shh… sono qui piccolo mio… non temere. » sussurrò, con dolcezza, senza rabbia né impeto alcuno in contrasto a chi, comunque, le aveva appena negato requie, paziente e amorevole verso di lui in maniera istintiva, naturale, qual solo una madre avrebbe saputo essere « Calma… la tua mamma è qui, ora… » cercò di tranquillizzarlo, con una voce naturalmente melodiosa, delicatamente carezzevole, nel mentre in cui si chinò sulla culla del pargolo, per sollevarlo e condurlo al proprio seno, a quella morbidezza entro la quale, era certa, avrebbe potuto trovare il conforto desiderato « Sono qui… sono qui… » ripeté, posando un leggero bacio sul capetto dell’infante e, nel tal mentre, cullandolo con amore, in un movimento istintivo, che alcuna nutrice le aveva né le avrebbe mai dovuto insegnare, in quanto innato in lei, retaggio della propria stessa umanità e del proprio essere donna.

Subito il pianto del figlio, così accontentato dalla sopraggiunta presenza materna, trovò allora ragione di quiete, di naturale scemare, incapace probabilmente di comprendere ancora il mondo attorno a sé, la dura realtà in cui era nato e sarebbe cresciuto, eppur sicuramente in grado di apprezzare tutto l’amore così a lui concesso, così a lui riconosciuto dalla propria genitrice, da colei che, ancora ora, per lui rappresentata tutto ciò che avrebbe avuto ragione d’esser conosciuto nell’intero Creato.
Nel tempo stesso in cui il pargolo riconquistò in tal modo una condizione di assoluta pace, interiore ed esteriore, un uomo alto e possente, dai forti muscoli e dalla pelle scura per retaggio di sangue, primo fra numerosi altri dettagli somatici, in lui, che lo avrebbero potuto definire inequivocabilmente qual proveniente dai regni centrali del deserto, fece capolino, a propria volta, sulla porta d’ingresso a quella camera, indossando una pesante armatura e proponendosi armato di una lunga ed elaborata lancia dalla punta dorata.

« Lady Nass’Hya… » sussurrò, dimostrando sincera e professionale preoccupazione, per quanto, in verità, le grida dell’infante non avrebbe dovuto essere considerate effettive ragioni d’allarme per alcuno all’interno della torre, di fuori che per la stessa madre lì coinvolta « Necessiti d’aiuto, mia signora?! » si informò, pronto a sopperire a qualsiasi sua richiesta in tal senso.

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