11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

lunedì 5 novembre 2012

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I kahitii, creature generate dal dio Kah a propria immagine e somiglianza, non avevano anima. Oggettivamente, esse non erano neppure veramente vive, plasmate e non nate dalla volontà creatrice di un dio, e in questo private di qualunque intrinseco e esistenziale significato.
In quanto tali, essi non avevano avuto alcuna ragione, dal momento della loro comparsa al mondo a quello presente, di provare alcuna emozione, concetto a loro, e a loro esistere, completamente estraneo. Esattamente come l’acqua del mare, la polvere della terra e l’aria dei cieli, essi esistevano in quanto erano stati concepiti per esistere, in quanto erano stati voluti quali lì presenti, per assolvere a un compito, certo, ma senza, in ciò, meritare la dignità propria di altre creature, fossero pur semplici scarafaggi. Un apparente nonsenso, quello alla base di tale esistenza, di tanta mancanza di valore per coloro che pur si concedevano benedetti nel possesso di un potere praticamente divino, che sarebbe potuto essere, invero, giudicato qual tale solo da uno sguardo mortale, da chi estraneo, per propria stessa natura, alle logiche proprie degli dei. Perché da un punto di vista diverso, dalla posizione propria del dio Kah e, con esso, di qualunque altra divinità, rispondere all’emergenza scatenata dalla necessità di fermare un semidio con creature a esso equivalenti, sarebbe equivalso ad alimentare un fuoco con altro carbone, un incendio con altra legna, non risolvendo il problema ma, semplicemente, complicandolo ulteriormente.
Comprensibilmente troppo rischioso, infatti, sarebbe stato concedere ad altri la stessa libertà di pensiero, e d’azione, già propria di Desmair: libertà in sola conseguenza alla quale, del resto, questi aveva reso propria un’occasione di ribellione a discapito del proprio padre e dio, seppur indirettamente. Se i kahitii avessero avuto possibilità di pensiero autonomo e indipendente dalla volontà del loro signore e creatore, questi avrebbero potuto essere troppo facilmente corrotti, avrebbero potuto essere troppo facilmente vittime della stessa brama di dominio che già animava l’animo di colui per distruggere il quale erano stati creati e, in ciò, avrebbero potuto nuocere in misura persino maggiore a quanto, altresì, avrebbero potuto essere utili. Molto più saggio, quindi, sarebbe stato ridurre i pur potenti e immortali kahitii a una condizione di radicata inferiorità, fosse anche nel confronto con pur semplici scarafaggi, piuttosto che essere costretti, a posteriori, a dover creare una terza generazione di semidivinità utili a contrastare adeguatamente le precedenti.
Privati di una qualsivoglia parvenza di anima e di ogni ragione d’emozione, ridotti a uno stadio di assoluto asservimento innanzi ai capricci del loro creatore, i kahitii non avevano mai avuto possibilità di temere per la propria sorte, neppure all’idea di essere stati gettati in una guerra fratricida nel confronto con un semidio, figlio dello stesso dio a cui essi avrebbero dovuto gratitudine per la propria esistenza, se solo avessero potuto concepire un sentimento di gratitudine e, ancor più, se solo la loro avesse potuto essere considerata un’esistenza. Avevano ricevuto un ordine e, quietamente, avevano ubbidito, con maggiore quiete di quella che avrebbe potuto essere propria di un agnello innanzi alle indicazioni del proprio pastore. E, del resto, in loro era la consapevolezza di non poter essere distrutti, di non poter essere sconfitti, di non poter essere neppure arrestati, in quanto in tal modo creati per volere e fantasia del dio degli istinti primordiali, una furia elementare forse meno considerata rispetto ad altre, e pur non di meno distruttiva rispetto a un terremoto, un uragano, un maremoto o un’esplosione vulcanica. Nulla, erano certi, avrebbe potuto frenare i loro passi, così come nulla avrebbe mai potuto frenare l’incedere della tempesta o il progredire di una colata lavica: quella era la loro natura e porla in discussione era una prerogativa che non era stata loro concessa.
Per tale ragione, alcuno fra i kahitii, colossali creature sotto i cui passi avrebbero potuto essere rasi al suolo interi edifici, e non semplici stalle, quanto e piuttosto maestosi palazzi sede dei più potenti fra gli uomini del Creato, avrebbe potuto avere ragione di preoccuparsi per la comparsa in scena, fra di loro, ai loro piedi, di una minuscola creatura, più piccola di una falange di una qualunque delle loro dita, né, tantomeno, avrebbe avuto neppure di che interessarsi a tale presenza, a dispetto di qualunque possibile e giustificabile timore avrebbe potuto sussistere in tal senso. Quella donna mortale, qual tale Midda Bontor era, non avrebbe potuto allarmarli più di quanto un moscerino non avrebbe potuto porre la stessa sull’attenti. Né, tantomeno, avrebbero potuto avere effetto le sue parole di intimidazione, più simili a ronzio lontano che a un qualunque verbo meritevole della più semplice attenzione.

« Signori! » aveva esclamato ella, nel momento stesso in cui era giunta fra loro, ai loro piedi, gettando da parte una pesante pelliccia nella quale, sino a quel momento, aveva trovato riparo dal freddo proprio di quell’altitudine, ed estraendo dal proprio fodero un’ammirevole lama bastarda, di dimensioni tuttavia a dir poco ridicole nel confronto con le armi colossali impugnate dai kahitii ai quali stava osando rivolgere voce, in una pretesa non meno ridicola rispetto alla propria arma.
« Sono sinceramente dispiaciuta nell’informarvi che la festa è finita. » aveva proseguito, dimostrando apparentemente più follia che coraggio, nel pronunciare tali parole « Siete tutti invitati a far ritorno alle vostre case, o qualunque luogo possiate definire qual tale, allontanandovi in maniera ordinata ed evitando ulteriori schiamazzi. » aveva suggerito, acquisendo nel contempo di tali parole una postura di guardia, tanto ridicola quanto folle nel considerare la disparità esistente fra lei e i suoi interlocutori « In caso contrario, sarà mio sgradevole compito quello di accompagnarvi personalmente a rincontrare il vostro creatore… facendo a pezzi anche lui ove desiderasse esprimere lamentela per il mio operato. »

Asserzioni forti, addirittura blasfeme, quelle che la donna volle rendere proprie; e che pur, malgrado ciò, vennero destinate alla medesima indifferenza sino a quel momento a lei rivolta, tributata, ove un insetto, per quanto intento a gridare, difficilmente avrebbe potuto turbare l’incedere di quei giganti, di quei titani, nel loro intento bellico in contrasto alla fortezza del loro antagonista, eletto qual tale per volere del loro dio.
Anche un insetto, comunque, avrebbe saputo dimostrarsi meritevole di attenzione nel momento in cui si fosse dimostrato capace di pungere. E quell’insetto, quella donna mortale di nome Midda Bontor, non volle permettere alle proprie parole di cadere nel vuoto, alla propria presenza di restare ignorata, iniziando a pungere… e a pungere ferocemente coloro che, prima di quel momento, non avrebbero potuto supporre l’esistenza di un’arma in grado di lederli, soprattutto ove di dimensioni tanto impercettibili quale, pur, era e sempre sarebbe rimasta quella lama bastarda.

« Questo l’avete sentito! Eh, luridi cani?! » aveva sorriso ella, nel godere della reazione conseguente al proprio atto, alla propria rivalsa a loro discapito.

Rivalsa, che, nella fattispecie, avrebbe dovuto riconoscersi qual facente propria la forma e la sostanza di un enorme alluce, ben più grande di lei, separato di netto dal resto del piede a cui era appartenuto sino a quel momento. Una mutilazione tanto spiacevole, quanto imprevedibile, e ancor più repentina, che causò, nel kahitio aggredito, un’obbligata perdita di equilibrio, nel ritrovarsi negato, sottratto con la forza e con la violenza, un sì importante sostegno per la propria imponente mole; nonché una sconvolgente sorpresa, nel porsi per la prima volta, nella propria pur breve esistenza, a confronto con un’incomprensibile, e pur indubbiamente sgradevole, sensazione di dolore, ma neppure immaginata nella propria possibile esistenza.
Nel mentre in cui quella prima vittima ricadde in avanti, costretto a cercare sostegno sulla struttura della medesima fortezza da lui sino a pocanzi assediata e offesa, i suoi compagni, fratelli in quanto figli di un comune padre, concessero per la prima volta attenzione a quella figura considerata erroneamente insignificante, e pur dimostratasi in grado di ledere uno di loro, anche ove alcuna arma mortale avrebbe dovuto concedersi simile opportunità. E fu allora che, per la prima volta da giorni, da settimane addirittura, i kahitii sembrarono perdere interesse per Desmair e la sua dimora, reindirizzando ogni letale impegno verso quell’insetto che aveva commesso l’imperdonabile errore di osar pungere uno fra loro.

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