11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

martedì 30 aprile 2013

1926


Parole nuovamente rivolte a delineare un’aperta minaccia, quelle allora scandite da parte della creatura che la propria insana luce aveva proiettato, più simile a un’ombra, sopra l’intera Licsia, in quel crepuscolo che, ormai, aveva ceduto spazio a un’ancor giovane notte; le quali, per quanto, nel confronto con la riprova pratica, con l’evidenza concreta della loro serietà, qual sola avrebbe dovuto essere intesa la condanna a morte imposta a discapito della mercenaria più celebre di quell’intero angolo di mondo, avrebbero dovuto allora trovare maggiore occasione di breccia nel cuore di tutti coloro lì intenti a confrontarsi, fisicamente, psicologicamente ed emotivamente con quella scena, non sembrarono comunque e altresì in grado di cogliere la benché minima evidenza di ansia, di panico, di isteria di massa qual pur, probabilmente, egli si sarebbe atteso di ottenere.
Perché, nel confronto con lo sconvolgimento derivante da quell’evento, da quel fatto, nessuno avrebbe potuto allora essere realmente capace di lasciarsi dominare da alcuna di tali emozioni, ritrovandosi, altresì, costretto a restare in attonita contemplazione del vuoto lasciato dietro di sé dalla vittima sacrificale di quella tanto repentina, quanto inaccettabile uccisione, cercando la forza utile a scendere a patti con quanto accaduto e, da lì, arrivare poi a porsi un qualche interrogativo di sorta su quanto sarebbe alfine stato allora inevitabilmente garantito da una tanto crudele quanto letale oscenità, un abominio con il quale, probabilmente, alcuno fra loro avrebbe potuto riservare qual propria una pur flebile speranza di sopravvivenza per quanto, comunque, nessuno avrebbe accettato arbitrariamente di arrendersi, fosse anche e soltanto per rispetto nel confronto con la memoria di colei che era lì appena caduta, era lì stata pocanzi offerta in sacrificio per il loro riscatto, per la loro salvezza.

« Midda… »

Per Howe e Be’Wahr, assistere alla morte della loro sorella di vita, seppur non di sangue, rappresentò il duro confronto con un incubo già vissuto, con un orrore già affrontato e che, con la stessa ingenuità caratteristica di un infante, entrambi avevano creduto di aver vinto, di aver superato, in misura tale da non doversi ulteriormente realmente preoccupare di quanto, da parte di quell’antagonista, di quell’avversario, avrebbe potuto essere loro ancora riservato, avrebbe potuto essere loro ancora destinato.
Per entrambi, forse inconsciamente, forse e altresì coscientemente, quella straordinaria donna era stata sempre la dimostrazione di tutto ciò che sarebbe stato loro concesso di vivere e di conquistare nel corso della propria esistenza, nonché, e più profondamente, più intimamente, del perché entrambi avessero scelto di spendere la propria quotidianità in una professione qual quella che pur avevano abbracciato da ben prima di conoscerla, da ben prima di incontrarla, arrivando a riservarsi una pur minimale fama utile loro a renderli interessanti per un affiancamento alla stessa e più celebre loro collega innanzi al giudizio della mecenate che aveva combinato la loro prima cooperazione, la loro prima avventura insieme… la stessa impresa che, all’atto pratico, aveva condotto al recupero della corona perduta della regina Anmel e, in conseguenza alla quale, forse e drammaticamente, tutto quello aveva allora avuto origine. Con la propria strabiliante forza d’animo, con la propria straordinaria determinazione, con la propria stupefacente ferma volontà di indipendenza in contrasto a chiunque e a qualunque cosa ambisse a imporle sgraditi confini, insopportabili limitazioni, difficilmente, del resto, non avrebbe potuto essere così, avrebbe potuto essere diversamente, arrivando ella a incarnare, in un’epoca eccessivamente e spiacevolmente prosaica, una reinterpretazione moderna di tutti i valori propri degli eroi dei miti più antichi, quelle figure non perfette, non prive di difetti, e, non di meno, capaci di elevarsi agli stessi livelli propri degli dei non tanto malgrado la propria umanità ma, soprattutto, in grazia alla propria stessa umanità, alla propria fallibilità nel costante confronto con la quale erano in grado di trovare, nel profondo del proprio spirito, quella scintilla di incomparabile luce capace di cambiare il mondo intero… quella scintilla comunemente chiamata “speranza”.
In tutto questo probabilmente idealizzandola non di meno di quanto non fosse stato solito compiere lo stesso Seem, che a lei aveva ispirato in maniera più aperta, più trasparente e più diretta tutta la propria intera esistenza; entrambi quei mercenari, posti a confronto con la sua morte in maniera tanto repentina e, oggettivamente, così priva di significato, non si sarebbero potuto he ritrovare privati persino della speranza, di quel valore solamente appellandosi al quale, loro malgrado, avrebbero mai avuto possibilità di illudersi di poter sopravvivere alla minaccia lì rappresentata dal vicario.

« Midda… »

Per Be’Sihl Ahvn-Qa, assistere alla morte della propria amata rappresentò il duro confronto con la fine di un sogno, di un idillio durato una vita intera meno di quanto non avrebbe preferito avere occasione di godere del quale, e, ciò nonostante, quasi cinque anni in più di quanto, oggettivamente, non avrebbe potuto sperare di vivere al suo fianco. Cinque meravigliosi anni in più.
Che ella sarebbe morta, oggettivamente, avrebbe dovuto essere considerato qual un assunto, un dato incontestabile nel porre in dubbio il quale si sarebbe semplicemente posta in dubbio la sua umanità, che fra tutte le sue caratteristiche, fra tutti i suoi pregi e i suoi difetti, avrebbe dovuto essere considerata, a ragion veduta, una delle più importanti, una delle più straordinarie ragioni atte a tributarle tutti gli onori che le sarebbero dovuti essere riconosciuti per diritto acquisito, e acquisito non in grazia al sangue dei propri antenati, senza nulla voler togliere a Nivre Bontor, a suo padre e al padre di suo padre prima di lui, ma in conseguenza alle proprie gesta, a quanto da lei compiuto nel corso della propria esistenza mortale. Che ella sarebbe morta di morte violenta, altrettanto oggettivamente, avrebbe dovuto essere considerato quasi al pari di un assunto, almeno dal suo punto di vista, un dato non incontestabile e pur altamente probabile, quasi certo, proprio nel considerare tanto la sua umana natura mortale, quanto e ancor più tutte le gesta da lei compiute quotidianamente, tutte le sfide nelle quali si era sempre impegnata, a testa bassa, quasi fosse incurante del pericolo che da tutto ciò sarebbe potuto per lei derivare. Non si ingenua, tuttavia, ella avrebbe dovuto essere considerata, né egli l’aveva mai considerata nel conoscerla forse meglio di quanto ella non avrbbe potuto dire di conoscere se stessa, nel non ignorare il pericolo da lei, in tutto ciò, continuamente e insistentemente ricercato; quanto e piuttosto irrequieta e, nella propria irrequietudine, bramosa di offrire un significato alla propria stessa esistenza mortale nel compiere quanto aveva scoperto, nel corso del tempo, essere indiscutibilmente capace a compiere: infrangere ogni sorta di dogma, ogni limite imposto all’uomo dagli dei, o più sovente da altri uomini abusando del nome degli dei, per dimostrare quanto dietro al fin troppo abusato concetto di destino, di fato, di sorte non avrebbe dovuto essere considerata altro che la capacità di ogni singolo individuo di plasmare la propria vita, secondo i propri desideri o entro i confini della propria indolenza, della propria pigrizia, nell’ascolto della quale nulla sarebbe loro stato possibile.
Non un evento inatteso, quello, almeno innanzi allo sguardo di chi l’amava più della propria vita, ma non per questo un evento privo di un inevitabile carico di intima disperazione, nonché di un profondo senso di smarrimento da parte di chi, in tal modo, aveva definitivamente perduto colei che da quasi vent’anni aveva riconosciuto essere qual la parte migliore della propria vita, forse la sola ragione per la quale la propria vita avrebbe avuto ragione d’essere vissuta.

« Midda… »  gemette il povero Seem, giovane scudiero che, nella morte del proprio cavaliere, non avrebbe potuto interpretare altro che il proprio più imperdonabile, più ingiustificabile, più infamante fallimento, nell’essere venuto meno non solo all’impegno preso innanzi a lei, ma anche, e soprattutto, all’impegno preso innanzi al proprio defunto maestro d’arme, Degan, che a lui aveva insegnato tutto ciò che aveva appreso, trasformando un semplice garzone, qual prima di allora a stento era stato capace d’essere, in colui che avrebbe dovuto accompagnare degnamente una tanto straordinaria signora, vivendo per lei e, ove necessario, morendo per lei, così come, tuttavia, allora non era stato capace di riservarsi occasione di compiere « … no. No. No! » proseguì, adducendo, all’attonito e comune richiamo al nome della donna guerriero lì caduta un furente rifiuto non solo per quanto avvenuto ma, ancor più, per l’apatia che ognuno sembrava star dominando.


lunedì 29 aprile 2013

1925


L’idea che Midda Bontor potesse essere morta sconvolse tutti.
Una reazione diffusa e omogenea, per tutti coloro lì allora presenti, lì allora coinvolti qual spettatori nel confronto con un tanto tragico spettacolo, a incominciare da Be’Sihl e Seem, per proseguire con Howe e Be’Wahr, con tutto l’equipaggio della Jol’Ange e, ancora, con Nivre Bontor e ogni altro parente della mercenaria in quell’isola, che non avrebbe dovuto essere fraintesa nelle proprie origini. Non che, infatti, per ognuno di loro, il proprio personale rapporto con tale prospettiva, con simile eventualità, avesse a doversi allora considerare così fondamentalmente inedito da poter giustificare il fatto di trovarli necessariamente sorpresi, inevitabilmente stupiti. Ognuno di loro, infatti e invero, per una ragione così come per un’altra, in un’occasione così come in un’altra, si era già ritrovato a confronto con tutto ciò, a volte qual una morte semplicemente annunciata e passivamente ascoltata, in un’affrettata novella atta a considerarla già parte dei fu; altre volte, e addirittura, qual morte personalmente e attivamente contemplata, come testimoni di eventi dai quali ella non avrebbe potuto trovare opportunità di salvezza se non, addirittura, come testimoni del suo stesso cadavere, o, quantomeno, di ciò che tale era stato ancora una volta troppo frettolosamente considerato essere, anche per sua stessa complicità nell’imbastire un simile inganno.
Ciò non di meno, innanzi all’evidenza della manifestazione accecante di quel potere alieno, completamente inumano, ed esplicitamente rivolto al solo annientamento della Figlia di Marr’Mahew che, in suo contrasto, si era spinta con eccessiva audacia, con trasparente incoscienza, difficilmente avrebbe potuto restare loro la pur irragionevole speranza di non aver realmente veduto quanto visto, di non aver realmente assistito a ciò che lì era appena stato loro presentato. Purtroppo, e a prescindere da quante trascorse morti, o presunte tali, ella fosse riuscita ad affrontare fuoriuscendone puntualmente e assolutamente indenne, ciò che era stato loro lì mostrato non avrebbe potuto in alcun modo essere frainteso qual null’altro che la fine della loro amica, della loro amata, della loro sorella, della loro figlia, della loro cugina, della loro maestra e ispiratrice… nel trovarsi a essere, ognuno fra loro, a lei legato in maniera diversa, in maniera anche estremamente peculiare, unica, e pur, non di meno, comunque legato. E legato nella misura utile a restare semplicemente sconvolti innanzi a tutto ciò.

« Midda… »

Per Camne Marge, assistere alla morte di Midda Bontor rappresentò il duro confronto con un’occasione sprecata, nel rimpianto per tutto ciò che avrebbe potuto fare o dire e non aveva avuto modo di fare o dire, nell’essere rimasta sino ad allora, in maniera stolidamente timida, a distanza da colei a cui, dopotutto, doveva la propria stessa vita. Due volte.
Per ben due volte, infatti, la giovane era stata salvata dalla mercenaria dagli occhi di ghiaccio. La prima volta, quasi dieci anni prima, quando, designata vittima sacrificale all’interno di un tempio dimenticato nel cuore della palude di Grykoo, era stata da lei tratta in salvo. La seconda volta, in tempi più recenti, quando, insieme a Hui-Wen ostaggio della regina dei pirati dell’isola di Rogautt, per sua grazia le era stata nuovamente restituita la libertà.
Nonostante ciò, nonostante a lei dovesse la propria vita e la propria autodeterminazione, la propria indipendenza, nonché, indirettamente, l’occasione di aver raggiunto la propria realizzazione come donna e come figlia dei mari a bordo della Jol’Ange, qual membro di quell’equipaggio inizialmente soltanto incaricato di riaccompagnarla a casa, nell’isola di Dairlan nel lontano nord; in ogni recente occasione concessale di confronto con la propria salvatrice, con la propria liberatrice, ella si era sempre dimostrata quasi timorosa a rivolgerle voce, esitante a confrontarsi con lei, benché non avrebbero dovuto essere riconosciute particolari ragioni atte a giustificare tanta incertezza, tanta ritrosia qual quella allora dimostrata. Uno sbaglio comune, in effetti, ben più diffuso di quanto ella non avrebbe potuto ritenere, nell’erroneo preconcetto di poter avere sempre tempo sufficiente, in futuro, per chiudere questioni rimaste precedentemente in sospeso, di aver sempre possibilità, l’indomani, di scandire parole non dette, di compiere azioni non fatte, nel confronto con una persona cara, con una persona amata, salvo ritrovarsi a confronto con l’irreparabilità della morte, con l’irreversibilità propria di un fato incontrollabile, impietoso e incorruttibile, con il quale alcuno avrebbe potuto avere mai occasione di contrattare, avrebbe potuto avere mai possibilità di scendere a compromessi.
Midda Bontor era andata. E con lei era andata, per Camne Marge, ogni possibilità di ringraziarla ancora una volta per tutto quello che ella aveva compiuto, e per l’occasione che le aveva garantito di dare un senso alla propria quotidianità, in termini oggettivamente sconosciuti prima dell’incontro con lei.

« Midda… »

Per Nivre Bontor, assistere alla morte di sua figlia rappresentò il duro confronto con l’evidenza di quanto, senza alcuna ulteriore possibilità di speranza nell’indomani, in una redenzione futura, egli avesse definitivamente perduto la propria bambina, quell’infante dai grandi, immensi occhi color ghiaccio che, a lui, in occasione del loro primo, primissimo incontro, aveva rivolto uno sguardo così serio, così attento, da offrire l’impressione di star perscrutando nel profondo del suo animo, del suo cuore, così come nessun altro, neppure la sua stessa compianta sposa, era mai stata in grado di compiere.
Per oltre vent’anni, ossia per più della metà della durata dell’esistenza stessa della mercenaria, egli era stato costretto a dubitare, continuamente, spiacevolmente, tristemente, in ogni singolo giorno trascorso, del fatto che ella potesse essere ancora viva, forse già rimasta uccisa nel compimento di una qualche propria folle impresa, o, forse, impegnata nella ricerca di una nuova occasione per porre sfida a uomini e a dei e, in tal modo, rendere vano ogni sforzo compiuto sino ad allora per sopravvivere… gesta delle quali, talvolta, l’eco giungeva persino alla piccola e lontana Licsia apparentemente all’unico scopo di riservargli ulteriore ragione di incertezza, di timore, di ansia per la propria erede, per metà della propria prole. Per oltre vent’anni, in ciò, egli era rimasto in costante attesa di quell’annuncio, di quel funesto proclama con il quale sarebbe stata confermata la sua dipartita, o, parimenti e dal suo personale punto di vista non meno dolorosamente, quella della sua gemella, pregando gli dei affinché, se ciò avrebbe avuto a considerarsi inevitabile, per lo meno non avesse a concretizzarsi l’una per mano dell’altra, in maniera diretta o indiretta che potesse essere. Perché se già straziante, per il suo cuore, sarebbe stata l’idea di perdere una fra le proprie gemelle, fra le proprie bambine; probabilmente letale sarebbe altresì stata la prospettiva nella quale tale tragedia si fosse dimostrata conseguenza della volontà dell’una a discapito dell’altra.
Non che, in tal modo, egli volesse negare l’evidenza dell’odio nel quale si era mutato l’amore un tempo fra loro esistente, e del quale, almeno per quanto riguardava Nissa, aveva avuto la mesta occasione di essere diretto testimone, negli ultimi anni che ella aveva trascorso al suo fianco, avvelenandosi giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, al solo pensiero dell’esistenza in vita della sorella che l’aveva abbandonata. Semplicemente, umanamente, nel proprio ruolo di padre, egli non avrebbe mai potuto prendere in coscienza una posizione a favore dell’una piuttosto che dell’altra delle proprie figliuole, amandole entrambe oltremisura, amandole entrambe più della propria stessa vita. E se non avrebbe mai potuto fare a meno di amarle, allo stesso modo egli non avrebbe mai potuto perdonarle se si fossero alfine spinte a compiere l’irreparabile, a condannarsi così come, benché ancor privo di spiegazioni utili a comprendere le dinamiche di quanto accaduto, nel profondo del suo animo non avrebbe allora potuto che essere certo fosse accaduto. Proprio innanzi al suo sguardo.

« Midda Bontor è morta! » annunciò, non senza un fremito di soddisfazione, il vicario, primo-fra-tre, l’assassino della Figlia di Marr’Mahew, della Campionessa di Kriarya, della Vedova di Desmair, nella tardiva esecuzione di una sentenza, di una condanna, già scandita troppi anni prima « La vostra eroina è morta, uomini e donne di Licsia. » ribadì, quasi la prima asserzione non fosse stata sufficiente a trasmettere quel tanto doloroso concetto « Ma non abbiate timore… presto la raggiungere tutti quanti, in gloria ai vostri dei! »


domenica 28 aprile 2013

1924


E proprio in tal senso, malgrado fosse già stato interrotto per due volte, primo-fra-tre volle riprendere voce, scandendo la propria condanna con un tono, un incedere che avrebbe voluto far apparire freddo distacco emotivo e che, invece, nulla risultò diverso da un iracondo sfogo verso coloro che tanto gli avevano mancato di rispetto, che in tal misura avevano apparentemente rifiutato di riconoscere la minaccia da lui rappresentata…

« Se tutti voi desiderate morire… non temete: sarà mia premura accontentarvi! » annunciò, tuonando con la propria voce priva di genere, priva di reale identità, non soltanto al di sopra dei propri candidati antagonisti, quanto dell’intera isola, che, fin nelle proprie fondamenta, parve tremare nel confronto con tale proclama, con la violenza espressa da quelle poche, semplici parole.
« … io non penso! » ringhiò in replica Midda, trasparentemente disapprovando la minaccia in tanto esplicita veste rivolta a discapito di tutti coloro che, indifferenti al letale pericolo lì imperate, si erano schierati in sua difesa, a sua protezione, anche a rischio della propria stessa incolumità.

Negazione, quella allora espressa dalla Campionessa di Kriarya nel confronto con il manifesto promosso dal loro antagonista, che non si limitò a quella risposta, a quella rabbiosa reazione verbale, ma che ebbe lì modo di concretizzarsi con un repentino scatto della mercenaria in avanti, in direzione dello stesso vicario, per quanto allora fluttuante al di sopra di qualunque possibilità di essere raggiunto, di essere da lei effettivamente colpito, fosse anche in grazia al più straordinario salto che mai avrebbe potuto compiere. O, per lo meno, al più straordinario salto che avrebbe mai potuto compiere impiegando solamente le proprie forze, le proprie energie, senza ricevere alcun aiuto, alcuna collaborazione a lei esterna.
Per sua fortuna, però e infatti, ella non avrebbe dovuto allora considerarsi né sola né privata di alcuna possibilità di aiuto, di collaborazione da parte di coloro a lei circostanti. Al contrario, in quel proprio scatto, in quella propria decisa avanzata, ella aveva allora già considerato qual proprio l’aiuto di chi, era certa, non l’avrebbe mai delusa, non avrebbe né ignorato, né frainteso quanto a lei sarebbe potuto allora servire. E, a non offrirle possibilità di insoddisfazione o insuccesso in quella propria iniziativa, proprio coloro che avrebbero allora dovuto intendere, intesero… e agirono come già avevano avuto modo di agire alcuni anni prima, in un’occasione simile, in un contesto praticamente equivalente, quando, alla loro compagna, alla loro amica e sorella, era stata necessaria un’energica spinta verso l’alto dei cieli, a raggiungere una gargolla in volo, intenta ad allontanarsi da loro recando seco un prezioso ostaggio.
Fu così che, a concretizzare la negazione della donna dagli occhi color ghiaccio a discapito di primo-fra-tre, cooperarono Howe e Be’Wahr, i due fratelli mercenari che con lei avevano condiviso molteplici avventure per quasi tutta la durata di quell’ultimo decennio, intrecciando le proprie braccia, anche l’arto di inanimato metallo dorato che aveva sostituito il mancino perduto dallo shar’tiagho, per offrirle nuovamente quello stesso trampolino da lei già adoperato, già sfruttato, e che, in quel nuovo frangente, fu richiesto, e ottenuto, senza che neppure una singola voce dovesse essere spesa a tal proposito. E ben prima che chiunque, al di là dei tre protagonisti allora direttamente coinvolti, potesse intendere quanto stava per accadere, ella balzò da terra sulle braccia dei suoi due più fedeli alleati e, da lì, sfruttando la combinazione della spinta ottenuta per loro grazia e quella conseguente alla propria stessa muscolatura, si proiettò verso la volta celeste e, nello specifico dettaglio rappresentato da quel contesto, verso l’odiato bersaglio.

« Thyres… » invocò, muovendo il proprio sinistro, armato dell’immancabile spada bastarda, sopra la testa, dietro la nuca, per lì caricare tutta la proprio forza, tutte le proprie energie, nel più violento fendente che mai sarebbe riuscita a portare a compimento, entro i limiti per lei purtroppo propri in conseguenza all’assenza di una mano destra a offrirle ulteriore possibilità di supporto, di impeto « … guida la mia lama! » pregò, con tutta la fede che mai avrebbe potuto rivolgere in direzione alla propria pur amata dea, a quella divinità che sin da bambina, proprio entro i confini di quell’isola, le era stato insegnato a venerare e adorare.

Se l’intera azione si sviluppò e si concluse nell’intervallo di tempo proprio di un fremito di ciglia, di una fuggevole pulsazione cardiaca, tale da rendere il tutto potenzialmente improbabile non soltanto da seguire ma, addirittura, da percepire; incredibile e persino paradossale sarebbe stato allora constatare come chiunque, fra i testimoni lì presenti, si ritrovò ad assistere a tale spettacolo con la stessa possibilità di attenzione, di cura del dettaglio, che avrebbe potuto essere loro propria se simile evoluzione fosse occorsa in maniera incredibilmente statica, e tale da presentare, in lenta, lentissima successione una serie di quadri ritraenti esattamente quanto, allora, ai loro occhi stava venendo offerto di contemplare.
In tutto ciò, pertanto, ad alcuno poté sfuggire la dinamica del balzo per così come da lei compiuto. Né, parimenti, ebbe occasione di essere ignorato il movimento da lei condotto per posizionare la propria lama dietro alle spalle, pronta a spingersi in quel micidiale fendente in conseguenza al quale una qualunque persona, un qualunque mortale, si sarebbe ritrovato, probabilmente, spezzato in due distinte metà, senza neppure poter maturare consapevolezza del perché ciò fosse effettivamente accaduto. O, ancora, ad alcuno poté essere negata la possibilità di seguire l’inesorabile percorso di quella stessa spada bastarda, nel mentre in cui, con fermezza e con violenza, veniva spinta a ricercare occasione di contatto con quella testa volante, quel cranio, ammesso di poterlo considerare tale, che avrebbe potuto sperare di aprire quasi fosse un frutto maturo, spargendone la succosa polpa sull’intera piazza sotto di sé, in quella morte sostanzialmente benedicendo tutti coloro che, da essa, avrebbero potuto soltanto trarre occasione di vita. E, alfine e purtroppo, a tutti non poté che risultare estremamente chiaro, incredibilmente trasparente come tanto impegno nei suoi confronti, a discapito di quella terribile minaccia, non avrebbe dovuto considerarsi altro che vano, nel momento in cui, ancora una volta, il vicario ebbe quella prontezza di riflessi, quell’autocontrollo, utile a lasciar dissolvere, per un fugace istante, la propria stessa, più intima essenza, la propria carne o quanto, per lui, avrebbe dovuto essere considerata tale, in misura sufficiente a permettere a quella lama, a quella condanna, di attraversarlo senza scalfirlo, di trapassarlo senza nuocergli in alcuna misura, salvo, quasi nello stesso istante, ricomparire accanto a lei, davanti a lei, là dove ci si sarebbe attesi dovesse essere, per offrirsi pericolosamente pronto a colpirla.

« Te lo dissi già all’epoca… né Thyres né altri dei potranno venire in tuo soccorso! » parve quasi allora sussurrarle, benché la sua voce, quella sua strana e orrida voce, poté essere ancora una volta udita distintamente da chiunque lì attorno, e forse anche più in là, quasi egli avesse gridato simile avvertimento.

E ben prima che ella potesse iniziare a ricadere verso il suolo, soggetta a quella legge naturale che mai le avrebbe concesso di potersi librare in aria qual un volatile, costretta a ricercare sempre e comunque un contatto con la terra da cui ella era nata e nell’abbraccio della quale ella, prima o poi, si sarebbe ritrovata morta, forse per anzianità, più probabilmente per una prematura e violenta dipartita; la mercenaria fu costretta allora a confrontarsi con le più spiacevoli conseguenze della propria offensiva, di quell’azzardo che aveva, troppo impetuosamente, voluto rendere proprio, e che, per questo, la ritrovò a essere esposta a qualunque capriccio quell’orrido antagonista avrebbe potuto voler rendere proprio.
Un capriccio, il suo, che nella fattispecie, ebbe a concretizzarsi nella creazione di una nuova e più grossa sfera di insana energia, una sfera dall’azione della quale, a distanza tanto ravvicinata, e in una posizione così indifesa e indifendibile, non avrebbe potuto in alcun modo essere ovviata nella propria terrificante condanna, nella propria orribile sentenza di morte. Una sentenza che, allora e alfine, ebbe a palesarsi in una sconvolgente esplosione di luce, nella quale Midda Bontor, Figlia di Marr’Mahew e Campionessa di Kriarya, scomparve innanzi agli sguardi tanto accecati, quanto e ancor più attoniti di tutti coloro lì impegnati a seguire, in maniera obbligatoriamente passiva, quel tanto tragico ultimo capitolo della sua incredibilmente avventurosa esistenza.


sabato 27 aprile 2013

1923


La prima intromissione nello scontro fra la donna dagli occhi color ghiaccio e il vicario, manco a dirlo, occorse per mano dello scudiero di lei, il quale, lì sopraggiungendo di gran carriera, e per quanto consapevole della probabile… della sicura inefficacia del suo gesto, non volle risparmiarsi un attacco diretto a ipotetico discapito di primo-fra-tre, verso di lui proiettando, con ormai ammirevole maestria, uno dei suoi pugnali, con una precisione e una forza che, se solo il suo obiettivo fosse stato un comune mortale, non solo si sarebbe trovato subitaneamente in lode ai propri dei, ma, nel morire, sarebbe stato addirittura proiettato con violenza all’indietro, impossibilitato a mantenere ancora, in ciò, posizione eretta. Purtroppo per il giovane Seem, malgrado tutto l’impegno da lui oggettivamente rivolto in tale offensiva, in simile gesto, essa non avrebbe potuto essere riconosciuta nulla più che semplicemente vana, nel non poter neppure ipotizzare di raggiungere quella testa luminosa, quella stella malata, così come desiderato, così come sperato, non laddove, quantomeno, questa dimostrò sufficiente saggezza da rispondere a tale dardo, quale la lama apparve, con una delle proprie sfere d’energia, nella quale il pur pregevole metallo di quell’arma ebbe, allora, soltanto occasione di essere dissolto nell’aria, quasi allorché solida lega null’altro vi fosse stato che mera illusione, ingannevole miraggio, tale da spingere a credere che tal gesto fosse stato compiuto nel mentre in cui, altresì, non era neppure stato accennato.
Ciò non di meno, simile insuccesso, tanto palese mancanza persino d’opportunità di colpire, non parve essere d’insegnamento, essere di consiglio, a coloro che, quasi in contemporanea, sopraggiunsero a loro volta entro i confini del palco allestito per quella tragica rappresentazione bellica, per quel forse ineluttabile spettacolo di sacrificio e morte. Così, prima ancora che il pugnale potesse essere completamente dissolto all’interno di quella sfera pulsante di malata luce giallo-verdastra, un nuovo attacco venne ipotizzato a discapito del vicario, da parte di una lunga, ed elegante, lancia, scagliata con potenza e precisione dalla possente muscolatura di Av’Fahr, figlio dei regni desertici centrali che tale arma aveva ricevuto in eredità in conseguenza alla tragica scomparsa della propria amata sorella Ja’Nihr. Ma anche quella lancia, quella splendida arma che aveva affrontato uomini, bestie e mostri senza mai fallire, senza mai incontrare ragione di sconfitta, e che, se proiettata contro il petto di un qualunque uomo mortale, lo avrebbe inesorabilmente potuto vedere addirittura esplodere, tanto l’impeto proprio in tal gesto; non ebbe allora maggiore opportunità di trionfo rispetto al pugnale di Seem, sebbene, nell’evidenza di una misericordia divina, non subì il medesimo, tragico destino di annichilimento che aveva contraddistinto l’altra arma. Nel contrasto a simile minaccia, infatti, il vicario non reagì generando una nuova sfera d’energia, quanto, e più semplicemente, sublimando la propria stessa materia fisica, ammesso che tale avrebbe potuto essere considerata, per eludere la feroce traiettoria di quell’assalto, svanendo per un fuggevole istante innanzi a quella minaccia salvo, un attimo dopo, subito ritornare là dove era, subito riproporsi nella stessa, identica, posizione, quasi nulla fosse accaduto, quasi la sua stessa sparizione non avesse a doversi ritenere reale.

« Chi sono questi folli…?! » tuonò la voce di primo-fra-tre, dimostrando sincera irritazione nel confronto con quell’estemporaneo diversivo, quell’azione allora occorsa a interferire con il tenzone in atto, con la sfida in corso, in termini quantomeno inappropriati, se non, esplicitamente, blasfemi, o almeno tali considerati dal suo personale punto di vista « Come osate levare le vostre armi in contrasto a primo-fra-tre, vicario dell’Oscura Mietitrice, colei che è stata, che è, e che tornerà a essere per sanc…? »
« Dacci un taglio, vecchio brontolone! » esclamò la voce di Howe, intervenendo, in maniera tutt’altro che rispettosa, a interrompere l’ennesimo breve monologo autocelebrativo nel quale l’altro si stava lasciando coinvolgere, qual reazione indignata al loro assalto « Conosco già troppo bene questa lagna e, per quanto mi riguarda, non ho alcuna intenzione di star ad ascoltare ancora una volta i tuoi deliri di onnipotenza! »
« Chi…?! » tentò di protestare, nuovamente, il vicario, salvo essere ancora una volta interrotto nelle proprie parole, nel proprio incedere, ora dal biondo fratello di vita dello shar’tiagho che, a lui, aveva rivolto audacemente voce.
« Noi! » intervenne Be’Wahr, come sempre al fianco del compare, unito a lui sin dalla propria nascita così come, probabilmente, lo sarebbe stato anche il giorno della propria probabilmente prematura dipartita, eventualità tutt’altro che recondita nel considerare lo stile di vita e la professione che avevano eletto qual propria « I due splendidi e affascinanti mercenari che, l’ultima volta, ti hanno messo in fuga con la violenza dei propri attacchi! »

Che primo-fra-tre si fosse ritirato, in occasione del loro precedente incontro, subito a seguito di un momento di riscossa da parte della coppia di fratelli mercenari, invero, non avrebbe potuto essere negato. Che, tuttavia, tale decisione volta ripiegare fosse stata conseguente a quel loro supposto attacco, a quel loro incedere in sua opposizione, difficilmente avrebbe potuto essere considerata un’interpretazione realistica degli eventi, dei fatti per così come propostisi. Ciò nonostante, nell’intervento del biondo mercenario non avrebbe dovuto essere ricercata un qualche intento volto ad assicurare la fedeltà storica di quella memoria a quanto accaduto, quanto e piuttosto una semplice, e pur efficace, provocazione volta a sminuire il valore, l’importanza e il potere di quell’essere propostosi, allora come già in passato, qual quanto di più prossimo a una divinità tutti loro avrebbero potuto immaginare.
Tutti loro, o quasi, nell’eccezione non ovvia di chi, in contrasto a un dio, si era veramente schierata, confrontandosi con percezioni ed emozioni tali da rendere, proprio malgrado, pressoché ridicola la minaccia suggerita dal vicario, per quanto riconosciuta, nonostante tutto, qual reale, qual concreta, qual potenzialmente letale.

« Seem… Av’Fahr… Howe… Be’Wahr… ritiratevi. » comandò ella, non distogliendo lo sguardo dal proprio antagonista e pur, ciò non di meno, riconoscendo tanto il pugnale e la lancia dei primi due, al pari delle voci degli altri, in misura sufficiente a maturare l’interesse di suggerir loro un saggio allontanamento da quella scena, da quel campo di battaglia, non desiderando porre il loro futuro a rischio per una questione, fondamentalmente privata, qual voleva considerare essere quella « Quest’affare è fra me e il nostro vecchio amico. Non c’è bisogno che rischiate le vostre vite inutilmente. » argomentò verbalmente, a rendere esplicite le ragioni del proprio invito, che, in ciò, aveva assunto i toni di una preghiera allorché di un ordine.
« Non che sia mio interesse contraddirti, amica mia... » prese parola Noal, palesando a propria volta la sua presenza lì vicino, a breve distanza dietro di lei « Ma se non desideravi che rischiassimo le nostre vite, non avresti dovuto chiederci di accompagnarti fino a Rogautt. » puntualizzò, senza ironia e, piuttosto, con assoluto raziocinio, nell’evidenziare un aspetto quantomeno ovvio della questione, per così come, forse, allora sospinta dall’enfasi delle proprie emozioni, a lei stava sfuggendo di mano « Ora che siamo in ballo, non possiamo fare a meno di ballare… e, che tu lo voglia o no, questa guerra è anche la nostra guerra! »

Un plurale, quello così reso proprio dal capitano della Jol’Ange, che avrebbe dovuto includere, accanto a lui, non solo i quattro uomini già da lei citati, nell’invitarli a retrocedere, ma anche Hui-Wen, Masva, Camne e Ifra, tutti lì accorsi, armi in pugno, per affrontare il terrificante potere del vicario, in una scelta forse ingenua, forse avventata; ma, non per questo, meno che seria, meno che sincera nei propri propositi, nelle proprie prerogative, volte a condividere la sorte della loro compagna con ardimento, con coraggio, con fiducia e fedeltà, addirittura, nell’aver reso obiettivamente propria la sua missione, il traguardo da lei ricercato in contrasto non soltanto a quel mostro quanto, e soprattutto, a colei che lì lo aveva inviato.
Un traguardo, speranzosamente, di vittoria. Un traguardo che, tuttavia, alcuno fra loro non si sarebbe illuso, avrebbe potuto essere anche e tragicamente di morte.


venerdì 26 aprile 2013

1922


Per quanto alcuna particolare reazione emotiva nel vicario parve conseguire i tentativi da lei pur spesi nel desiderio di spingerlo a sbilanciarsi, a perdere il controllo sulla situazione per così come lì a lui riservata, la Vedova di Desmair non poté ovviare a cogliere quanto, comunque, egli fosse apparentemente rimasto vittima del suo esplicito intervento nella questione, nell’aver repentinamente concentrato tutti i propri sforzi, tutto il proprio interesse a discapito di quella singola figura e nell’aver, conseguentemente, obliato ogni altra possibilità di distrazione, a incominciare dall’idea stessa di distruggere l’intera Licsia, sterminando tutti i suoi abitanti, così come, inizialmente, proposto. Ovviamente, dietro a un tale cambio di priorità, dietro a una revisione così subitanea di interessi, facile sarebbe stato ipotizzare quanto, da parte sua, o, più precisamente, da parte della sua signora e mandante, non vi fosse mai stato un qualche effettivo interesse a trucidare la propria stessa famiglia, nell’isola anche per lei, o per una parte di lei, natia. Tuttavia, permettersi una simile illusione, concedersi una tale opportunità di giustificazione dietro a quelle azioni, avrebbe potuto rivelarsi estremamente pericoloso, seppur affascinante: perché se pur vero avrebbe avuto a considerarsi che, se solo ella avesse avuto ragione, la propria famiglia, proprio padre e tutti i propri parenti, non avrebbero corso rischio alcuno; altrettanto vero avrebbe avuto a doversi ritenere come, se solo ella avesse avuto torto, una qualche distensione da parte sua, il semplice abbassare la guardia innanzi a quell’antagonista fosse anche solo nella serenità di considerare salva la propria gente, avrebbe potenzialmente comportato l’occorrenza di un’immediata, e devastante, strage, con il peso sulla coscienza della tale ella non avrebbe potuto permettersi di sopravvivere né, nel caso in cui fosse fortunatamente morta, avrebbe avuto possibilità di presentarsi innanzi agli dei, allora realmente colpevole di una blasfemia oltre luogo, oltre misura, nell’essere stata causa dell’assassinio sistematico di così tante vittime innocenti.
A prevenire l’eventualità peggiore, quindi, ella ebbe sola ragione di concentrarsi su di essa, escludendo qualunque speranza, escludendo qualunque illusione di facile risoluzione di quell’impiccio per così come tanto spiacevolmente presentatosi innanzi a lei, e abbracciando, soltanto e a piene mani, quello straordinario e terribile problema, forse privo di soluzione.

« Senza offesa, testone… ma ritengo che il mio rapporto con gli dei abbia a doversi considerare una questione sufficientemente personale, per la quale non debba venire a rendere conto né a te, né ad altri… » replicò la mercenaria, a compendio dell’ultima affermazione a lei rivolta, trattenendosi dal tornare a offrire un tono eccessivamente duro, troppo severo, benché l’ironia con la quale volle caratterizzare quell’ultima presa di posizione ebbe ragione di che contrastare duramente con le parole scelte e lì scandite « Poi, se non sei d’accordo, posso sempre spedirti a confronto diretto con loro, affinché ti possano spiegare come abbiamo preferito gestire la questione sino a oggi. »

Perché, ove anche ella avesse potuto ancora godere del privilegio derivante dalla propria acquisita appartenenza alla famiglia della regina Anmel, attraverso il proprio pur forzato matrimonio con l’orrido e semidivino figlio della medesima, tale da renderla immune agli effetti dei peggiori attacchi che primo-fra-tre avrebbe potuto dedicarle; alcun indizio, alcuna risorsa le sarebbe comunque stata fornita nel merito di come poter risolvere definitivamente la questione, eliminando lo stesso vicario da quel complicato contesto, da piano sul quale quel letale giuoco stava venendo giocato.
Per quanto, infatti, le fosse stato concesso di apprendere a suo riguardo, in occasione del loro precedente scontro, del loro primo e unico confronto, quel mostro, quella creatura, sembrava offrirsi del tutto indifferente a qualunque ipotesi di offesa formulata a suo discapito, a qualunque risorsa ella avrebbe potuto ipotizzare di scagliargli contro per definire sua giusta condanna, privandolo di quell’esistenza comunque difficile da considerare vita. E sebbene ella non fosse mai stata abituata a considerare alcun antagonista qual immortale e, soprattutto, invincibile, in misura tale da dover ritenere vana ogni speranza di vittoria in sua opposizione, nell’aver, al contrario, sempre combattuto con tutte le proprie energie, con tutte le proprie forze, anche e soprattutto in contrasto a coloro che, uomini o mostri, erano ritenuti, o, addirittura, ritenevano se stessi, privi di qualunque debolezza, privi di qualsiasi possibilità di sconfitta o di morte; parimenti ella non avrebbe potuto negare quanto sovente, soprattutto in quell’ultimo periodo della propria esistenza, si fosse ritrovata posta a confronto con controparti a lei nettamente superiori, considerabili qual appartenenti a un diverso piano d’esistenza, in contrasto alle quali, sebbene sopravvissuta, non aveva altresì riportato alcuna vittoria degna di essere considerata tale. Akeri e mahkra, giusto per citare le prime due esemplificazioni a cui la sua mente avrebbe potuto offrire riferimento, creature così aliene a qualunque concetto di mortalità da non permetterle neppure di ipotizzare una qualsivoglia possibilità di trionfo in loro contrasto, a loro discapito; ma anche lo stesso Desmair, suo defunto sposo, che pur ella aveva ripetutamente cercato di uccidere, arrivando a mutilarlo e decapitarlo in più di un’occasione, e pur, non di meno, ritrovandosi sempre e comunque a confronto con la frustrazione derivante dall’impotenza, con quella sgradevole impossibilità a qualunque risoluzione definitiva, alfine raggiunta soltanto per intervento di un dio… un dio minore, qual Kah, e pur, ciò nondimeno, sempre un dio.

« Che senso ha, per me, continuare a offrir credito alla tua voce? Continuare a prestare attenzione alle tue parole?! » domandò il vicario, con incedere retorico, tutt’altro che effettivamente desideroso di scandire un qualsivoglia genere di interrogativo in quel momento, in quel contesto « E’ forse interesse del lupo ascoltare l’opinione dell’agnello? E’ forse desiderio del boia confrontarsi con la frustrazione del condannato? » insistette, esemplificando con tali metafore la propria posizione, il proprio personale punto di vista su quell’inutile, almeno per lui, dialogo « Stai per morire, Midda Bontor. Cerca di affrontare con dignità questi ultimi istanti nel regno dei vivi, dimostrando tutta la tua intelligenza, tutto il tuo buon senso, nell’accettare il fato a cui sei stata destinata qual sola e giusta conclusione per il persino eccessivamente ardimentoso cammino che hai scelto di percorrere in questi anni… e in queste ultime settimane! »

Alla luce di tali esperienze, nel confronto con tali sconfitte mascherate da vittorie, escludere ciecamente e stolidamente l’impossibilità di uccidere primo-fra-tre avrebbe probabilmente soltanto significato condannare non solo se stessa, ma tutti in Licsia, a una morte atroce e imperdonabile, il peso della quale non avrebbe mai potuto affrontare con tanta leggerezza.
Nell’escludere, però, l’ipotesi di abbatterlo, l’idea di ucciderlo, cosa le sarebbe allor rimasto? Quale risorsa avrebbe potuto lì impiegare per ovviare all’eventualità di quella strage annunciata oltre che della prematura conclusione della missione proclamata qual propria in contrasto a sua sorella Nissa e, con lei, ad Anmel Mal Toise e all’Oscura Mietitrice?
Una domanda non scontata, la risposta alla quale ella non avrebbe potuto ricercarla nella propria rapidità. Né nella propria agilità. Né, ancora, nella propria coordinazione. Qualità straordinarie, incredibili e, indubbiamente, conturbanti, le sue, che pur, forse contribuendo alla sua estemporanea sopravvivenza, innanzi a quelle offensive, a quegli attacchi, nulla avrebbero altresì potuto per partecipare alla sua vittoria e, in ciò, alla sconfitta di primo-fra-tre. Perché, ella ne era conscia, quanto in passato le aveva permesso di superare le straordinarie prove impostele dagli akeri così come dai mahkra, non era stato nulla di tutto ciò, non era stata la sua pur stupefacente forma fisica, per così come anche curata, giorno dopo giorno, attraverso sessioni di allenamento condotte con una serietà quasi religiosa; quanto e piuttosto la propria devastante determinazione, la propria sconvolgente tenacia, che, sola, le aveva permesso di non arrendersi, di non chinare mai il capo innanzi anche al destino più avverso, rifiutandole ogni ipotesi di sconfitta, negandole qualunque possibilità di resa, e costringendola a continuare a combattere, e combattere con tutte le proprie forze, fisiche e mentali, per riuscire a individuare quella forse improbabile, sicuramente celata, e pur sempre presente possibilità di concludere quella giostra letale.


giovedì 25 aprile 2013

1921


Rapida. Straordinariamente rapida.
Così Midda Bontor apparve nei propri movimenti, nei propri gesti, obbligatoriamente costretta a essere tale nella volontà di non cadere innanzi al proprio avversario, innanzi a quell’antagonista del tutto privo di qualunque barlume d’umanità, e per affrontare il quale, allor necessario, per lei, sarebbe stato rinunciare anche alla propria, lì più prossima a risultar qual debolezza che qual forza. Una velocità, quella da lei allora dimostrata, che non avrebbe potuto mancare di sorprendere suo padre, quell’uomo innanzi agli occhi del quale ella non avrebbe potuto evitare di essere ancora la bambina di un tempo, quella pargoletta incredibilmente attiva e reattiva, difficile da trattenere ferma in uno stesso punto per più di qualche istante, e pur, in quanto infante, necessariamente bisognosa del suo supporto, del suo sostegno, fisico e morale, in una misura nella quale, tuttavia, ormai egli non le avrebbe più potuto garantire, non le avrebbe più potuto concedere, al contrario, nel confronto con tanta plateale dimostrazione, egli stesso altresì bisognoso di quel sostegno, di quel supporto, da parte di quella figlia non più bambina, non più infante, qual, forse, avrebbe altresì gradito ella potesse ancora essere. Una velocità, ancora, che non avrebbe potuto mancare di sorprendere ogni altro testimone a quella scena, ove già non l’avesse vista in azione, ove già non avesse avuto l’occasione di godere di un simile spettacolo. Perché tale incredibile caratteristica, da lei, non era stata conquistata in grazia a un qualche estemporaneo sortilegio, a una qualche effimera stregoneria, ma con il sudore e con il sangue di anni spesi sui campi di battaglia di buona parte di Qahr e, soprattutto, dell’angolo sud-occidentale del vasto e ricco continente di Qahr: una velocità, infatti, che per lei si era dimostrata a dir poco indispensabile per sopravvivere a quanto era sopravvissuta, per superare ciò che aveva superato, per conquistare tutto quello che aveva conquistato, a dispetto di ogni parere in senso contrario, fosse espresso da parte di uomini, mostri o dei.

« Tutta la tua sicumera ti costerà caro, piccola mortale. » avvertì primo-fra-tre, rivolgendo in sua opposizione, a suo discapito, una rapida sequela di attacchi, di violente e certamente letali offensive, nella forma di piccole e guizzanti sfere energetiche che, fischiando nel fendere l’aria, cercarono prepotentemente occasione di incontro con le sue carni, con le sue forme, animate da una percettibile brama, da una famelicità che avrebbe potuto atterrire chiunque, ma non lei, non ove conscia di quanto, in quel frangente, lasciarsi prendere dal panico avrebbe soltanto significato condannarsi al più tragico fato « Con la morte del tuo sposo, lo stesso privilegio in grazia al quale l’altra volta hai avuto salva la vita non ti permetterà, ancora, di sfuggire al giusto destino. La tua fine è segnata, Midda Bontor. Affida la tua anima immortale ai tuoi dei, finché hai ancora tempo per farlo! »

Agile. Incredibilmente agile.
Così la Figlia di Marr’Mahew si dimostrò nel proprio incedere, tanto nel proprio ardimentoso avanzare, quanto nel sovente necessario retrocedere, animata in ciò da quel più profondo, atavico e imprescindibile istinto, la sopravvivenza, comune a ogni creatura mortale e, altresì, probabilmente sconosciuto a chi di mortale nulla era in grado di dimostrare. Costretta a confrontarsi con il potere di quella creatura, di quel vicario, nel confronto con le sfere d’energia del quale già in passato aveva avuto spiacevole possibilità di rapportarsi, ella non avrebbe potuto permettersi di essere meno che destra nel gestire il proprio pur non più giovanile corpo, rendendo proprie una scioltezza e una flessuosità che persino Masva o Camne avrebbero avuto ragione di invidiare, benché l’età avrebbe avuto a considerarsi qual dalla loro parte, a loro favore. Un’elasticità, quella da lei così promossa, che invidia avrebbe avuto modo di suscitare persino alla sua stessa rapidità, certo con tale caratteristica collaborando attivamente, con tale pur straordinaria dote impegnandosi al fine di perseguire quel comune obiettivo di sopravvivenza, e pur, ciò nonostante, apparendo quasi in competizione, quasi in antagonismo nel pur comune obiettivo di garantirle un domani, di concederle un’occasione utile a godere ancora della vita e delle proprie gioie così come dei propri dolori. Al pari della sua velocità, quell’agilità non avrebbe avuto a riconoscersi semplice dono della natura, o di una qualche soluzione mistica, quanto e piuttosto abilità forgiata nel fuoco della guerra, e di una guerra in corso da un’esistenza intera, non tanto contro uno specifico avversario, non tanto contro un particolare antagonista, quanto e piuttosto contro qualunque avversario e contro qualunque antagonista, mortale o no, materiale o no, ella avrebbe avuto occasione di incrociare i propri passi, di intrecciare il proprio cammino, la propria sorte, offrendo battaglia non tanto per un insano piacere in tal favore, quanto e piuttosto nella sola volontà di dimostrare, sempre e comunque, la propria autodeterminazione e, ancor più, la propria superiorità, cercando, in ciò, un senso alla propria stessa esistenza in vita, altrimenti apparentemente priva di valore, priva di significato.

« Non avrei mai scommesso neppure un soffio d’oro sull’eventualità che la sorte della mia anima immortale potesse interessarti, vicario. » commentò ella, ora apertamente ironizzando con lui nel merito delle parole d’avvertimento appena a lei rivolte, poc’anzi destinatele, con l’intento di mutarne il significato, fraintenderne le intenzioni, quasi egli avesse a lei rivolto sincera premura e non, piuttosto, una minaccia, una promessa di morte e, forse, di dannazione eterna « Devo forse pensare che, dopo tutto, ti stai iniziando ad affezionare a me, vecchiaccio?! » domandò poi, ancora sarcastica, nel reagire, come sua consuetudine, con umorismo dissacrante anche nel confronto con le azioni peggiori, con i momenti più drammatici, al fine di riuscire, in tal modo, a conservare un minimo di autocontrollo, laddove, altresì, avrebbe potuto rischiare di impazzire.

Coordinata. Soavemente coordinata.
Così la Campionessa di Kriarya risultò in ogni proprio singolo passo, in qualunque fremito di ogni proprio muscolo, che avesse esso a contrarsi o a rilassarsi, a tendersi o a gonfiarsi, lasciando trasparire, involontariamente ma non per questo meno affascinante in ciò, uno sconvolgente fascino, una conturbante seduzione, anche in un momento tanto delicato, in un’occasione tanto pericolosa, nel confronto con la quale la sua sopravvivenza non avrebbe potuto dirsi così ovvia, così retorica o scontata, quasi, e non volontariamente, banalizzando tutto ciò entro i termini di una danza sì magnifica, e pur priva di qualunque rischio, e, soprattutto, rischio mortale. Un’armonia, quella trasmessa dal suo corpo, da quelle membra rapide e agili, che, isolata dal contesto in cui si stava offrendo in quella particolare situazione, in quella specifica condizione, avrebbe potuto allora apparire più ispirata all’amore che alla morte, più ispirata all’erotismo che alla guerra, quasi, in quei gesti, ella stesse allor cercando di ammaliare, nuovamente, il proprio amato e, forse, con lui, qualunque altro uomo lì attorno presente, lì intento a guardarla, a contemplarla, inevitabilmente, tutti loro, quasi dimentichi della tragica condanna che soltanto l’avrebbe attesa se non fosse riuscita a mantenere assoluto controllo sul proprio corpo, qual solo si stava dimostrando allor necessariamente desiderosa di compiere. Un’armonia, ancora, per la quale, al contrario rispetto alla sua velocità e alla sua agilità, avrebbe dovuto soltanto ringraziare gli dei tutti, e Thyres, sua prediletta, in particolare, in quanto caratteristica innata, dote ricevuta in gloria alla benevolenza di un fato stranamente magnanimo, e che, per quanto sicuramente fosse stata solamente affinata nel corso degli anni, nelle troppe imprese nelle quali ella aveva avuto occasione e volontà di gettarsi a testa bassa, non le sarebbe mai stato negato neppure dallo scorrere inappellabile e impietoso del tempo.

« Se hai deciso di sprecare i tuoi ultimi istanti di vita ridendo e scherzando, stolida ostia votata al martirio… così sia. » sancì la creatura, non lasciando trasparire il benché minimo coinvolgimento nel confronto con il giuoco di lei, con la strategia di lei, quasi le provocazioni da lei a lui dedicate fossero del tutto prive di valore dal suo punto di vista, non diversamente dal lamento di una formica nel confronto con l’indifferenza del piede intento a schiacciarla, a ucciderla senza neppure coscienza di ciò « In fondo, agli dei dovrai già giustificare troppe azioni blasfeme per preoccuparti o meno di una preghiera non pronunciata prima di morire. »


mercoledì 24 aprile 2013

1920


E se in merito alla saggezza di Be’Sihl, o, persino, in merito alla stessa esistenza in vita di una creatura dal suo punto di vista del tutto insignificante qual non solo era il locandiere ma anche qualunque altro uomo o donna esistenti in Licsia e, più in generale, nell’intero Creato, primo-fra-tre non avrebbe avuto desiderio di sbilanciarsi con un qualunque genere di commento, non provando a tal riguardo il benché minimo interesse; in merito alla saggezza di Midda Bontor, unica, straordinaria eccezione lì necessariamente riconoscibile, egli ebbe di ragione di che intervenire, esprimendosi con persino eccessiva veemenza.

« E’ estremamente spiacevole constatare come gli anni trascorsi dal nostro ultimo incontro non ti abbiano in nulla aiutata a maturare, mia cara. » riprese, ora rivolgendosi esplicitamente verso di lei e, nel compiere ciò, apparentemente, mutando nelle proprie dimensioni, nella propria estensione prima incontestabilmente significativa, nel riuscire a dominare sull’intera isola, e allora, istante dopo istante, sempre più contenuta, forse allo scopo di facilitare quel relazionarsi con la figura mortale a lui tanto scortesemente rivoltasi, sino a raggiungere quelle di una semplice testa, ammesso che tale attributo avrebbe avuto ragion d’essere nel definirlo « Da stolida arroganza eri animata l’ultima volta che abbiamo avuto occasione d’incontrarci e da stolida arroganza sei tutt’ora governata nelle tue parole e nelle tue azioni, ancora incapace a comprendere l’enormità di chi ti sta innanzi, del vicario in contrasto al quale ambisci offrirti… »
« Forse colei che rappresenti, mio caro vicario, non ti ha informato come, in tempi recenti, abbia avuto occasione di scontrarmi con qualcuno ben più grosso e molto più brutto di quanto tu non possa sperare di essere o di divenire, per quanto ciò possa apparire sostanzialmente paradossale. » commentò ella, senza sorridere, senza lasciar trapelare la benché minima ironia nelle proprie parole, ma, soltanto, scandendo quell’asserzione con una freddezza e un distacco se possibile ancor più inumano di quanto non avrebbe potuto dimostrarsi il proprio comunque inumano antagonista, la propria crudele e assolutamente aliena controparte « E, se proprio vogliamo sprecarci in amor di dettaglio, non mi dispiacerebbe sottolineare quanto, in termini di arroganza, io possa avere sempre e soltanto da apprendere da parte tua… nel considerare quanto vano risultato tu sia riuscito a conseguire in passato, a prescindere da ogni reboante promessa di morte a discapito mio e dei miei compagni. »

Un azzardo, quello che ella allora consapevolmente compì nel rivolgersi al vicario, laddove proprio malgrado perfettamente consapevole delle ragioni per le quali, e soltanto per le quali, ella era riuscita a sopravvivere al proprio antagonista in occasione del loro precedente scontro, malgrado l’incommensurabile potere distruttivo da lui dimostrato; e che pur, allora, non la vide in alcun modo frenata da ciò, non la vide in alcun modo inibita innanzi alla prospettiva rappresentata allora da una sfida all’impossibile, così come, del resto, mai l’aveva veduta in passato, mai le era stata occasione d’ostacolo, ragione di resa.
Per tutta la propria vita, e, soprattutto, per tutti quegli ultimi vent’anni della propria esistenza, ella si era impegnata a ricercare singolar tenzone nei confronti del fato, e di ogni limite ritenuto sino ad allora inviolabile, con una dedizione, con un’attenzione quasi maniacale e, quasi, giudicabile trasparente di un intento suicida, un impegno volto alla ricerca di una prematura occasione di morte, benché, oggettivamente, tutto ciò non fosse mai rientrato nei suoi piani, nelle sue intenzioni, nei suoi desideri. Non che ella avesse avuto mai ragione di temere la morte, beninteso: con essa, al contrario, ella aveva da sempre intrattenuto un ottimo e sereno rapporto, offrendole lo stesso rispetto che, in contraccambio, sperava le sarebbe stato tributato. Semplicemente, e pur non così ovvio a comprendersi, ella era sempre stata consapevole di come, da tale appuntamento, presto o tardi, non si sarebbe potuta sottrarre, ragione per la quale avrebbe fatto soltanto bene a spendere ogni singolo istante della propria esistenza, della propria quotidianità, lasciandosi solo e straordinariamente animare dalla volontà di non vederlo in alcun modo sprecato, in alcun modo sperperato, per non arrivare a quel fatidico e improcrastinabile momento con il rimpianto per tutto ciò che avrebbe potuto dire o fare e non aveva, alfine, detto o fatto, preferendo, a tale eventualità, il rimorso per aver osato troppo, per essersi spinta più in là di quanto, probabilmente, non avrebbe fatto meglio a osare spingersi.

« Sbagli, o sciocca. » negò, tuttavia, primo-fra-tre, fluttuando privo di peso, quasi fosse incorporeo, sopra di lei, davanti a lei, malevola stella discesa dall’alto dei cieli non per offrire speranza, per indicare una via verso la salvezza, quanto e peggio per promettere morte, in quella fine che, loro, sarebbe solo potuta essere per suo tramite riservata « T’inganni, o mortale, se credi che l’eco della tua blasfemia non sia risuonato qual nota stridula in contrasto all’equilibrio stesso dell’universo, dell’intero Creato, nel momento in cui, in contrasto a ogni legge naturale, la tua spada si è avventata a discapito di Kah, con una folle violenza, per la difesa di uno sposo da te mai voluto, mai desiderato, ma, non per questo, disapprovato nel momento in cui i benefici derivanti dal suo rango si sono offerti utili a preservarti da pur giusta morte, qual quella alla quale io avrei dovuto condannarti con maggior semplicità rispetto a quella propria del sole ne succedere alla notte… »
« Ciò nondimeno, ora Desmair è morto. » ricordò la mercenaria, impietosa verso il marito trapassato e, soprattutto, verso se stessa, sua vedova, ponendo spiacevole accento, in tal modo, su quanto ormai ella non avrebbe potuto più godere della sua protezione, ritrovandosi costretta ad affrontare il proprio avversario, la propria controparte, soltanto e semplicemente qual donna guerriero, qual la comune mortale, e pur la straordinaria combattente, che ella era sempre stata, nell’affrontare qualunque letale minaccia, qualunque mostro e creatura le si fosse mai parata innanzi, prescindendo da quanto qualunque canzone, qualunque mito e leggenda, si fosse prodigata a sottolineare quanto, tutto ciò, non avrebbe potuto essere considerata allor possibile, non a meno di trascendere dai limiti propri della condizione umana per ascendere al rango d’eroe, personaggio, ancor prima che persona, in grado di prevalere in contrasto a qualunque sfida, qual condizione fondamentale, qual risultato obbligatorio semplicemente in quanto eroe.
E se pur, per lei, nulla era mai stato semplice, persona ancor prima che personaggio, avventuriera e non eroina; tal pensiero, simile coscienza, non sembrò ancora in grado di ostacolarla neppure in misura utile a zittirla e a evitare di vederla pronunciare un’ulteriore provocazione: « Ora siamo solo tu e io, vicario. Tu e io. E, ben presto, sarò soltanto io. »

Per quanto Be’Sihl avesse assistito in più di un’occasione a una simile strategia da parte della propria amata, a una tale scelta tattica volta a spingere il proprio avversario al compimento della prima mossa, con tutti gli oneri derivanti da una tale iniziativa; nel ritrovarsi a essere testimone, ancora una volta, di tale copione, di simile recita, volta a lasciarla apparire qual animata da una sprezzante arroganza qual, mai, in verità, le avrebbe potuta essere propria, trascendendo dal suo stesso carattere, dal suo animo, spontaneamente modesto e istintivamente paranoico, in misura tale da non vederla mai sottovalutare neppure il più imbarazzante fra i propri sfidanti; egli non poté ovviare a provare un certo senso di disagio, di ancor più vivo e intenso timore, per l’esito che avrebbe potuto contraddistinguere quello scontro, quella prova, in contrasto a un mostro caratterizzato da un potere qual quello di cui ella stessa gli aveva offerto passata cronaca, e tale da non poter perdonare alcuna leggerezza, alcuna errore di valutazione. In ciò, quindi, egli si ritrovò per un istante dominato dal dubbio, dall’incertezza nel merito di quanto la propria amata stesse allora forse osando troppo, nel confronto con una creatura che avrebbe potuto effettivamente definirne la fine con eccessiva facilità, con troppa banalità, estirpandola dal regno dei vivi senza che ella potesse avere occasione di opporsi.
Purtroppo, però, se tale pensiero fosse stato realmente giustificato, qual pur sembrava essere, nel confronto con un vicario della loro reale nemica, con un semplice rappresentante di colei contro la quale avevano pianificato l’assalto, in cosa la loro scelta, la loro decisione, non avrebbe avuto a ritenersi tragicamente suicida?


martedì 23 aprile 2013

1919


Così come Howe e Be’Wahr, come Seem, Noal e Hui-Wen, e, ancora, come Masva e Av’Fahr, anche tutti gli altri compagni di viaggio della Campionessa di Kriarya, della Vedova di Desmair, accorsero uno dopo l’altro verso di lei e verso quello che, presumibilmente, sarebbe stato il centro dell’azione, il cuore della battaglia; ognuno allora pronto ad affrontare quell’impresa con l’ardimento proprio dei guerrieri o dei marinai che essi erano, quel coraggio, sovente incredibilmente prossimo all’incoscienza tanto da confondersi troppo facilmente con essa, in misura tale da rendere difficile distinguere quanto dell’uno, e quanto dell’altro, avesse a essere considerato alla base delle loro azioni, delle loro gesta.
Ad animare tanto ardimento, così per i guerrieri, come per i marinai, avrebbe dovuto essere riconosciuto uno spirito comune, un’ispirazione condivisa e volta al rifiuto dell’indolenza, dell’ignavia nel confronto con l’impegno che, in conseguenza al proclama di primo-fra-tre, stava venendo loro richiesto, soprattutto laddove, per quanto probabilmente in maniera disperata, in termini a dir poco folli, essi avrebbero potuto essere i soli in grado di contrastare l’avversario lì presentatosi, e offerente la propria minaccia su tutta quella gente praticamente inerme che pur tanta benevola accoglienza aveva loro dimostrato, che tanta generosità aveva verso loro rivolto, nel riconoscerli, quasi, come fossero tutti loro parenti, e non solo la stessa mercenaria dagli occhi color ghiaccio che sino a lì li aveva condotti. Una questione d’onore, pertanto, qual probabilmente tale sarebbe stata descritta dalle parole di un bardo, nei versi di una canzone, e che, tuttavia, dal loro punto di vista nulla di più e nulla di meno avrebbe dovuto essere considerata che una questione di principio, nel rispetto di quelle fondamentali regole di rispetto per se stessi, in assenza delle quali difficile, per loro, sarebbe persino stato osservare il proprio riflesso, in uno specchio, in una lama o nell’acqua del mare, senza provare disgusto per quanto in ciò sarebbe stato loro proposto di osservare, di contemplare.
Perché mai un figlio del mare si sarebbe sottratto innanzi all’obbligo morale di prestare soccorso a coloro che ne avessero avuto bisogno, così come sancito dalla divina legge definita da tutti gli dei dominanti su quelle infinite distese d’acqua sin da prima dell’inizio stesso dei tempi, una legge alla quale mai avrebbero potuto trasgredire in misura non inferiore a qualunque altra legge naturale, quali quelle che impedivano loro di volare nell’alto dei cieli o respirare nelle profondità degli abissi. E perché mai, parimenti, Howe e Be’Wahr, sì mercenari, sì abituati a porre in vendita la propria stessa quotidianità concedendola al miglior offerente, e pur, innanzitutto e comunque, sempre guerrieri, avrebbero voltato le spalle a donne e bambini, soprattutto ove parenti di una loro alleata, di una loro amica, di una loro sorella, qual, oggettivamente, Midda era divenuta nelle loro vite, nelle loro esistenze, nel rispetto di un valore forse non derivante da un precetto divino ma, non per questo, meno sacro, qual solo avrebbe potuto esserlo quello intrinseco del concetto di famiglia per così come loro tramandato dai rispettivi genitori, da quelle famiglie fra loro così legate, così saldamente vincolate da un’unione persino maggiore rispetto a quella dell’amicizia o del sangue, al punto spingersi persino a reinventare tali concetti per dar vita a qualcosa di completamente nuovo.
E nel mentre in cui i suoi compagni di ventura, i suoi amici, i suoi fratelli a lei accorrevano, mossi dal desiderio, dalla volontà di esserle al fianco in quel momento, in quella prova, così come, del resto, si erano dichiarati pronti a esserlo innanzi a colei che quel mostro aveva lì inviato, Midda Bontor, non avrebbe potuto essere riconosciuta in alcuna misura, in alcun modo, in indolente attesa dell’evolversi degli eventi, qual, dopotutto, mai era stata in tutta la sua intera esistenza.
Ragione per la quale, dopo aver formulato quella propria promessa, quel proprio giuramento innanzi al padre e, con lui, a Thyres e agli dei tutti, votandosi per la salvezza di Licsia e di tutti i suoi abitanti, ella non lasciò trascorrere neppure un istante fra l’idea e l’azione, fra il proposito e l’attuazione, subito avanzando, spada bastarda in pugno, fuori dalla casa del padre, fuori dalla dimora dove era nata e cresciuta, e per lasciare la quale, ancora bambina, aveva probabilmente scelto il peggior modo, volgendo i propri passi verso un ampio spazio innanzi a sé, là dove avrebbe potuto offrirsi più che visibile all’attenzione del vicario che il suo nome aveva tanto esplicitamente chiamato in causa…

« Ehy… idiota. » esordì, scandendo tale poco cordiale saluto con tono impetuoso, non gridato ma, non per questo, tale da offrire adito a fraintendimenti, a libere interpretazioni, tanto nel proprio significante quanto e, ancor più, nel proprio significato, in tutto ciò praticamente coincidenti, nella più totale assenza di ironia a smorzare la più che percettibile tensione del momento « Sì… parlo proprio con te, dannatissima testa volante: so che mi puoi sentire e so che mi stai ascoltando, al di là di ogni tuo personalissimo delirio di onnipotenza. »
« Thyres… si farà ammazzare! » gemette Nivre, nell’ipotizzare un passo verso la figliuola, salvo essere allora prontamente arrestato nel proprio incedere dal fermo intervento di Be’Sihl, il quale gli si parò innanzi animato non da prepotenza, ma soltanto da premura, da preoccupazione per le sorti di quell’anziano pescatore, di quel padre appena ritrovato dalla propria amata e che, se solo fosse stato allora tragicamente perduto, avrebbe in lei causato un così violento sconvolgimento emotivo tale da rendere improbabile l’idea di una sua qualche speranza di ripresa futura.
« Comprendo quanto sia difficile… ma devi avere fiducia in tua figlia. » gli suggerì, a esplicitare il perché del proprio intervento, di quella propria iniziativa a suo apparente discapito e, peggio, a ipotetico discapito della donna da lui amata e con la quale desiderava convolare a, mai prima neppure sperate, nozze « Ella sa quello che sta facendo… e sa come poter uscire viva da tutto questo. » definì, con tono di voce saldo e volto a escludere qualunque altra possibilità, anche in contrasto ai propri stessi e più intimi dubbi, a quell’esitazione, a quell’incertezza dopotutto umana, che non avrebbe voluto vivere nei confronti della propria amata, e che pur, malgrado ogni raziocinio, malgrado la fermezza della logica con la quale egli era solito imporsi sugli incontrollati spasmi del proprio cuore, non avrebbe, emotivamente, potuto evitare di vivere, in quanto, comunque, creatura mortale e, per questo, intrinsecamente fallibile.

E il vecchio pescatore, che pur non escluse un moto di ribellione a discapito di chi, in tal modo, si stava frapponendo fra lui e la sua adorata figliuola, quella stessa figlia che aveva temuto di aver perduto per sempre, per lunghi anni, per decenni addirittura, e che aveva appena ritrovato; non mancò di cogliere quanto quell’uomo, quello stesso ostacolo così dispiegatosi a suo freno, si stesse profondamente sforzando al fine di mantenere la calma, di mantenere il controllo, su se stesso, sulle proprie emozioni e, soprattutto, sulle proprie paure, non quale atto di disinteresse per il futuro della propria amata, non quale dimostrazione di indifferenza per la sua salute, per la sua sopravvivenza, per il suo domani, quello stesso domani che avrebbero dovuto vivere insieme qual marito e moglie, quanto e piuttosto per quella stessa fiducia allora da lui tanto esplicitamente invocata per lei, a suo sostegno, a suo supporto.
Un disagio tanto celato quanto, per chi avesse saputo prestare attenzione, palese, quello allora del locandiere, che non poté evitare di colpire il padre della mercenaria, spingendolo, con più impeto di qualunque schiaffo, con più fermezza di qualunque presa, a riappropriarsi subitaneamente del controllo estemporaneamente perduto, su di sé e sulle proprie emozioni. Perché laddove quell’uomo, che per gli ultimi vent’anni le era stato vicino, si era preso cura di lei, l’aveva a suo modo protetta e amata, si stava dimostrando capace di dimostrarle tanto rispetto, tanta fiducia qual quella lì necessaria per non intervenire anche laddove ogni propria singola membra, il proprio cuore e il proprio spirito, gli stavano evidentemente gridando di correre da lei; egli, suo padre, non avrebbe potuto… non avrebbe dovuto essere da meno, negando alla propria erede quella maturità che, ormai, doveva accettare la contraddistingueva, la caratterizzava, anche in un momento tanto pericoloso, tanto insano e potenzialmente letale qual quello.

« Sei un uomo saggio, Be’Sihl… » annuì Nivre, arrestandosi là dove era stato trattenuto, là dove un istante prima stava spingendo nella volontà di liberarsi, nel desiderio di svincolarsi da lui, di evadere a quella presa giudicata prepotente e ignorante, volta a non considerare quanto il suo cuore di padre stesse fremendo all’idea del triste fato a cui la sua bambina stava destinandosi con tanta audacia quanta incoscienza « Forse e persino più saggio di quanto non sia io, malgrado le troppe estati da me vissute. »


lunedì 22 aprile 2013

1918


« Devo andare. Devo raggiungere la mia signora! » dichiarò Seem, non concedendosi neppure un istante di esitazione, neppure un attimo di incertezza innanzi all’orrore pur lì rappresentato e incarnato da primo-fra-tre, rifiutando di lasciarsi dominare dal panico, rifiutando di cedere a pur umani e spontanei sentimenti di timore per il proprio futuro, per la propria sopravvivenza, nel preferire altresì dedicare tutte le proprie energie, tutte le proprie forze, tutta la propria concentrazione, in tal modo, a mantenere fede al proprio giuramento, all’impegno preso con il proprio cavaliere nel giorno in cui a lei si era legato nel ruolo di scudiero, nella consapevolezza di non poter probabilmente ambire a null’altro al di fuori di quello, di non poter pretendere l’amore di quella donna, il cui cuore si era già legato a un altro uomo e, tuttavia, nell’immutata volontà di esserle accanto, almeno fino a quando gli sarebbe stata concessa l’opportunità di servirla, offrendo per lei la propria vita e, ove necessario, anche la propria morte.
« Veniamo con te… » esclamò Hui-Wen, facendo in quel momento la propria comparsa in scena, accorso in coperta in conseguenza alla comparsa di primo-fra-tre e alle sue minacciose parole, e lì, allora, sopraggiunto giusto in tempo per poter sentire quell’affermazione d’intenti da parte del giovane scudiero, da lui, allora, necessariamente condivisa.

Sebbene Hui-Wen, al pari di Camne, avrebbe potuto invero rimproverare proprio la Figlia di Marr’Mahew per il periodo di prigionia nel corso del quale erano rimasti sequestrati dalla regina di Rogautt in attesa che a riscatto per le loro vite fosse a quest’ultima consegnata una coppia di antiche reliquie in possesso della prima, gli scettri dell’ultimo faraone di Shar’Tiagh; il marinaio, sempre al pari di Camne, avrebbe potuto infatti vantare sufficiente acume, sufficiente intelletto per comprendere quanto la mercenaria loro alleata e amica non avesse invero colpa alcuna per quanto loro occorso, per il rischio di morte su loro in tal modo proiettato, a sua volta nulla di più di una semplice vittima del medesimo carnefice, che, ancor peggio, in sua opposizione, a suo discapito, aveva avuto modo di divertirsi crudelmente per molto più tempo di quanto non avrebbero entrambi potuto vantare fosse stato loro imposto. Ciò, ovviamente, senza trascurare il non banale particolare di quanto, comunque, proprio Midda Bontor, comunque indiretta responsabile della loro cattura, essendo stati fatti prigionieri nel mentre in cui si erano impegnati per cercare di liberarla, nella volontà di restituirle la libertà perduta; si fosse successivamente impegnata oltremodo non solo allo scopo di giungere a Rogautt, entro i termini stabiliti, con il riscatto richiesto ma, anche e soprattutto, si fosse dedicata, con tutte le proprie energie, e a rischio della propria stessa vita, per assicurarsi che fosse loro effettivamente restituita quella libertà estemporaneamente negata, nel rispetto di un impegno, in fondo, tutt’altro che considerabile vincolante, soprattutto da parte della regina dei pirati.
In tutto ciò, quindi, nonostante praticamente superficiale avesse a considerasi il rapporto esistente fra loro, fra Midda e Hui-Wen, questi non avrebbe potuto non considerarsi adeguatamente debitore, innanzi a lei, per la propria attuale esistenza in vita, e per la possibilità di essere libero di stringere ancora a sé il proprio amato Noal a dispetto di ogni timore in senso opposto; e, soprattutto, non avrebbe potuto non considerarsi adeguatamente creditore, innanzi a Nissa Bontor, per quanto subito nelle settimane di prigionia e, soprattutto, per il dolore conseguente alla morte di Berah, sua compagna di ventura, sua amica, sua sorella di vita a bordo della Jol’Ange, e crudelmente assassinata innanzi al proprio inerme sguardo. Una combinazione di fattori, quella in tal modo presente ad animarlo, che non avrebbe potuto evitare di spingere il marinaio a disporsi pronto alla battaglia al fianco della propria alleata e in contrasto a quella che, ineluttabilmente, era divenuta una nemica comune… e una nemica comune di tutto l’equipaggio al quale egli apparteneva, addirittura sin da prima che egli ne entrasse a far parte.

« Su questo non ci sono dubbi. » confermò e sottoscrisse, pertanto, anche lo stesso capitan Noal, benché simile intervento, da parte sua, avrebbe potuto essere considerato addirittura superfluo, avendo già espresso il suo amato quanto egli avrebbe potuto avere ragione di esprimere « Andiamo… rapidi! »

Nel mentre di ciò, abbastanza distanti da non poter essere visti dai propri compagni o da altri abitanti di Licsia, e purtroppo non così distanti da non potersi rendere conto di quanto stesse accadendo, altri due membri dell’equipaggio della Jol’Ange si posero a propria volta a confronto con la minaccia rappresentata da primo-fra-tre, seppur con un iniziale, estemporaneo, minor entusiasmo rispetto a quello allora dimostrato da Hui-Wen o da Noal, loro capitano...

« Ti prego… dimmi che non è vero… »

Una supplica, quella allora appena sussurrata dalle labbra di Masva contro la pelle di Av’Fahr, nel quale venne espresso, da parte della donna tutta la propria pur comprensibile frustrazione nel ritrovarsi a confronto con l’evidenza di come la serenità tanto faticosamente da loro conquistata avesse a doversi considerare prematuramente conclusa.
Ancora sdraiata sul corpo del compagno promosso ad amante, ancora nuda contro i suoi muscoli scolpiti, ancora desiderosa di impegnarsi, in sua compagnia, in qualche ulteriore e intensa attività fisica di natura squisitamente sessuale, almeno fino a quando le forze lo avessero loro permesso; la rossa aveva avuto occasione di udire perfettamente ogni singola sillaba scandita da primo-fra-tre, benché, affondando il volto contro il vigoroso collo del proprio complice, si fosse rifiutata di sollevare lo sguardo nella direzione di quella nuova minaccia, in una reazione quasi infantile, come se, così facendo, sarebbe stata loro concessa l’opportunità di proseguire oltre, di restare lì placidamente isolati da tutto e da tutti. Un’eventualità, invero, da lei comunque compresa qual a dir poco improbabile, ragione per la quale, in quella sua supplica, in quella sua preghiera, avrebbe dovuto essere intesa una certa, e più che motivata, irritazione per la crudeltà di un destino a loro tanto esplicitamente avverso.

« Temo di non poterti accontentare in questo, mia cara. » replicò il colosso figlio dei regni desertici centrali, con sincero rammarico non solo per la delusione che, consapevolmente, si poneva costretto a riservare alla propria compagna e amante, ma anche per la delusione che, comunque, lo vedeva in ciò egualmente partecipe, non di meno scontento, rispetto a lei, per quanto la comparsa di quell’orrido viso nel cielo sopra di loro avrebbe necessariamente significato per il loro presente e per il loro avvenire « Per un istante ho sperato ci sarebbe stato concesso più tempo da trascorrere insieme… ma, a quanto pare, gli dei vogliono nuovamente porci alla prova. »
« Dannazione a quella testa volante. Dannazione a colei che ce l’ha mandata. E dannazione agli dei tutti per averlo permesso. » imprecò e bestemmiò Masva, per sola risposta, dimostrando una certa affinità caratteriale, e non soltanto fisica, generosità dei seni a parte, con la rossa che l’aveva preceduta a bordo della Jol’Ange, niente di meno che la stessa Midda Bontor.
« Non odiarmi… ma credo che sia meglio raggiungere il resto del gruppo. » suggerì Av’Fahr, nel mentre in cui, comunque, l’altra stava già provvedendo a sollevarsi da lui, seppur con ineluttabile ritrosia, ancora furente per quanto si stavano ritrovando costretti a compiere.
« Non potrei mai odiarti, Av’Fahr. » negò allora ella, arrestandosi di colpo e tornando a volgere verso di lui, e verso i suoi occhi verdi, i propri grandi occhi blu, per trasmettergli in tal modo tutta l’evidenza del sentimento da lei vissuto per lui, dell’amore da lei allora sinceramente provato per lui, così come pocanzi concretizzatasi, in più riprese, in uno straordinario e incredibilmente appagante momento di intesa sessuale « Ma tu prova soltanto a farti ammazzare, e ti giuro che costringerò Noal e la Jol’Ange tutta a far rotta verso l’aldilà, ovunque sia, per venire a recuperarti e riportarti indietro a calci nel… »
« Ti amo anche io. » la interruppe egli, sorridendo divertito a quella minaccia e sospingendosi verso le labbra di lei per un ultimo, fuggevole bacio.


domenica 21 aprile 2013

1917


Giunto, in gloria agli dei tutti, a un’età tale per cui la morte non avrebbe più potuto rappresentare una minaccia, nel ritrovarsi a vivere ogni nuovo giorno come un giorno in più donatogli dalla sorte benevola, dal fato amico; e, nella possibilità offertagli di ricongiungersi, quantomeno, con una delle proprie due figlie perdute, nella fattispecie con colei con la quale da più tempo aveva smarrito ogni contatto, assicuratosi un’occasione di intima serenità qual, da troppi anni, gli era stata negata, un intimo senso di appagamento tale da non permettergli particolare occasione di rimpianto per quanto avrebbe potuto essere e non era altresì stato; Nivre Bontor avrebbe potuto offrirsi, nel confronto con la minaccia rappresentata da primo-fra-tre, meno inquieto, meno terrorizzato, rispetto alla quasi totalità dei suoi parenti, di tutti gli altri abitanti di Licsia, nella sola eccezione rappresentata da tutti coloro che, suoi coetanei, avrebbero potuto condividere con lui quella stessa necessaria, naturale tranquillità innanzi al pensiero della propria possibile dipartita, eventualità già da lungo tempo, del resto, accettata qual ineluttabile.
In ciò, pertanto, pur privo di una qualche particolare esperienza pregressa non soltanto con un vicario o un’altra creatura tanto potente quanto aliena, ma anche e più semplicemente con un qualunque mostro pur appartenente in maniera del tutto ordinaria alla sfera del quotidiano nel loro tanto pericoloso quanto folle mondo; il padre di Midda e Nissa Bontor non ebbe ragione per restare pur giustificatamente pietrificato nel confronto con quella minaccia, altresì reagendo e, in tal senso, avanzando al pari di Be’Sihl sino alle spalle della propria figliuola, ferma sulla porta, a osservare il cielo e a inveire contro di esso e contro l’orrore lassù presente a porre in dubbio il loro inalienabile diritto a esistere.

« Tu conosci quell’essere, figlia mia? » la interrogò, con una questione a dir poco retorica, dal momento in cui ella aveva già dichiarato e confermato il proprio livello di confidenza con la natura di simile avversario, e pur non rinunciando a proporle simile domanda non tanto nella necessità di un’ulteriore riconferma, quanto e piuttosto nella volontà di ottenere, da parte sua, qualche ulteriore informazione utile a comprendere cosa stesse accadendo e, soprattutto, perché tutto ciò stesse accadendo, e stesse accadendo proprio in quel momento, in quel giorno sino a quel momento straordinariamente felice e, ora, apparentemente destinato a tramutarsi in impietosa tragedia.
« Purtroppo sì… padre mio. » confermò nuovamente, storcendo le labbra verso il basso e maledicendo ancora una volta, silenziosamente, tanto il vicario quanto la sua mandante per la pessima scelta di tempi, tale da negarle la possibilità di offrire al padre la quieta spiegazione che pur sperava avere occasione di riservargli, e da costringerla, al contrario, a definire in maniera sin troppo brutale e approssimativa il punto della situazione, e, in tal senso, le complesse responsabilità della gemella in quanto, allora, stava accadendo « Primo-fra-tre e io ci siamo già presentati qualche tempo fa… e, personalmente, potendo scegliere, avrei fatto anche a meno di incontrarlo nuovamente. » introdusse, nel mentre in cui, pur concentrata sull’avversario e sulla necessità di individuare un qualche modo per confrontarsi con lui preservando la sopravvivenza di tutti gli abitanti di Licsia, ella non mancò di sforzarsi di trovare anche le parole migliori per comunicare la non semplice novella che, in tutto ciò, le stava venendo richiesta esigenza di riservare all’attenzione del padre « Per quanto avrei gradito avere possibilità di spiegarti certe cose in modi diversi, quel mostro serve un’oscura e potente entità malvagia con la quale mia sorella Nissa è scesa a patti in risposta alla propria brama di vendetta a mio discapito. Ed ella, in qualche modo, deve aver scoperto che sono tornata qui a Licsia, decidendo, per tal ragione, di macchiarsi le mani con il sangue di tutta la propria gente pur di colpirmi, pur di farmi soffrire così come già, negli ultimi decenni, si è sempre impegnata a compiere, uccidendo sistematicamente chiunque a me avesse commesso l’errore di avvicinarsi troppo. »

Accusa grave, ma non gratuita, quella che venne da lei allora scandita innanzi all’attenzione del padre. Accusa grave, ma non gratuita, a sostegno della quale, proprio malgrado, non avrebbero potuto testimoniare soltanto gli uomini e le donne della Jol’Ange, che per volontà della regina di Rogautt avevano perduto Salge, Ja’Nihr e Berah; ma anche Howe e Be’Wahr, il primo dei quali era stato privato del proprio braccio mancino in conseguenza a un diretto attentato della stessa; così come, e ancora, Seem, il giovane scudiero, presente in Kriarya il giorno in cui Nissa, travestita in maniera tale da risultare identica alla propria gemella anche nei più banali dettagli, aveva attentato alla vita di lord Brote, storico mecenate e alleato della Figlia di Marr’Mahew, colpendo e uccidendo, invece, la moglie di questi, nonché cara amica della sorella.
Solo alcune, forse poche, ma dal punto di vista della mercenaria dagli occhi color ghiaccio già troppe, esemplificazioni della crudeltà con la quale la propria gemella, proclamatasi sua nemesi, si era impegnata in quegli ultimi anni per rovinarle la vita, non paga di averla tanto brutalmente sfregiata; non paga di averle negato il proprio braccio destro in conseguenza a un’ingiusta condanna per pirateria, altresì a lei attribuibile; non paga, persino, di averle sottratto il figlio concepito nell’inganno con lo stesso Salge, quel figlio che avrebbe dovuto essere suo di diritto, Leas Tresand… e che, invece, era stato nutrito d’odio e di risentimento nei suoi confronti, vittima di crudeli menzogne tali da farlo risultare frutto di una violenza, di uno stupro ordito dal lei stessa e posto in atto, a discapito della medesima Nissa, da un uomo brutale e privo d’onore, del quale il suo stesso figlio non avrebbe potuto che vergognarsi di esserne l’erede se non fosse stato per l’amore che, malgrado tanto orrore, sua madre gli aveva destinato.
Tante, troppe le colpe delle quali si era resa responsabile Nissa Bontor in quegli anni, in quegli ultimi lustri, innanzi alle quali sovente, forse e persino con eccessiva indulgenza, la Campionessa di Kriarya aveva cercato ragioni utili a giustificarla, aveva cercato argomentazioni idonee a minimizzarne il dolo, arrivando, persino, ad attribuirlo a se stessa, altresì vittima e ostaggio della crudeltà della propria gemella. Tante, troppe le colpe che, ormai, avevano colmato la misura e che, sommandosi all’oscena alleanza da lei stretta con Anmel Mal Toise, non soltanto per la sua distruzione, ma per il dominio assoluto, non le avrebbero permesso più alcun margine d’errore, non le avrebbero concesso più alcuna possibilità di immunità; destinandola, altresì, soltanto a un’alfine giusta e meritata condanna, qual sola avrebbe dovuto essere considerata, alla luce di quanto compiuto, e al di là delle pur giustificabili ragioni iniziali, di quel risentimento non gratuito rivolto a discapito della propria spergiura sorella, che ne aveva tradito la fiducia abbandonandola nel cuore della notte, malgrado per ben tre volte le avesse garantito che ciò non sarebbe mai accaduto.
E Nivre Bontor, che pur avrebbe avuto ogni diritto di protestare, ogni diritto per opporsi a quanto, dal suo punto di vista, non avrebbe potuto che essere considerato allora qual semplice insinuazione, lesse negli occhi, nel cuore e nell’animo della propria figliuola quanto, purtroppo, veritiera avesse a doversi considerare simile pur affrettata esposizione dei fatti, sincera e dolorosa cronaca di quanto accaduto, scevra da ogni vana enfasi, da ogni eventuale influenza emotiva, e volta, soltanto e semplicemente, a definire il coinvolgimento della propria altra, sempre amata, erede non soltanto in tragici assassini passati, quant’anche nella volontà di completo sterminio di tutti loro, di tutti gli abitanti di Licsia, sua famiglia,  per mezzo di una creatura qual quella lì inviata a oscurare i cieli con la propria malata luce di morte.

« Cosa possiamo fare…? » domandò pertanto e alfine, ovviando a qualunque ulteriore e superflua chiacchiera e dimostrando quanto lo straordinario senso pratico della propria interlocutrice avesse probabilmente a doversi ritenere retaggio di sangue, nel dimostrarsi pronto a combattere contro quello e qualunque altro osceno avversario sarebbe stato lì loro inviato, benché, qual figlio di Licsia, di quella terra idilliaca e pacifica, ben misera esperienza di guerra avrebbe potuto allora vantare « Abbiamo qualche speranza di abbattere quel mostro prima che possa attuare la propria minaccia? »
« Thyres e gli dei tutti mi siano testimoni, padre... » replicò Midda Bontor, allor volgendo i propri occhi quasi privi d’ogni umanità verso di lui, a dimostrare in tal senso tutta la propria determinazione « Non permetterò che alcuno, qui in Licsia, possa cadere vittima innocente in questa folle guerra fra Nissa e me. Non oggi. Né mai! »


sabato 20 aprile 2013

1916


Né uomo né donna, così come suggerito dalla sua voce, estraneo probabilmente a qualunque idea di genere o di età e pur, malgrado ciò, apparentemente straordinariamente anziano, come dimostrato da una pelle oscenamente rugosa, tale da rendere quasi indistinguibile qualunque possibile tratto somatico, la principale caratteristica fisica riconoscibile in primo-fra-tre, al di là del naso e in conseguenza alla totale assenza di capelli a contornare tale spiacevole quadro, avrebbe dovuto essere indicata quale quella presentata da due piccoli, piccolissimi occhi, forse incisi all’interno della maschera di cuoio che egli… ella… esso avrebbe mai potuto definire qual proprio volto, e lì risplendenti quali perle nere, privi di qualunque possibile distinzione fra pupilla e iride, o fra l’iride e la sclera. Occhi, i suoi, che, malgrado la straordinaria luce da lui stesso emessa, sarebbero necessariamente apparsi simili a due pozzi oscuri, a due piccole, e pur straordinariamente vaste, finestre spalancate sulle tenebre della morte, di quella morte che egli, senza particolare esitazione, incertezza, dubbio, si stava proponendo rappresentare per chiunque, in quel momento, stesse inesorabilmente rivolgendo nella sua direzione il proprio inerme sguardo, ognuno da lui necessariamente terrorizzato e tutti, comunque, al contempo quasi affascinati, quasi attratti verso tale letale orrore, come falena innanzi alla fiamma.
Una testa priva di corpo, un volto laido imperante sull’intera Licsia, la cui sopraggiunta presenza non poté trovare contenti o soddisfatti Howe e Be’Wahr, i quali, al contrario, ebbero allora ragione di porre subito mano alle proprie armi e, contemporaneamente, di rivolgere una mezza dozzina di bestemmie in direzione di diverse divinità, alcune da loro neppur riconosciute quali tali, a titolo di ringraziamento per quanto, in tal modo, avevano permesso avvenisse, e per la condanna che, in tutto ciò, avevano destinato a discapito dell’intera isola e di tutti i suoi abitanti…

« Dannazione… » concluse Be’Wahr, a denti stretti « Temo proprio che Midda non sarà per nulla felice di questa sorpresa. »
« … tu dici?! » domandò sarcasticamente Howe, nel mentre in cui, obbligando il proprio corpo a reagire, i propri muscoli a ritrovare la mobilità estemporaneamente perduta, mosse un primo passo verso la direzione ove, presumibilmente, avrebbero potuto incontrare la loro amica, la loro sorella, per essere pronti, accanto a lei, a offrirle tutto il proprio aiuto in quella nuova, e probabilmente disperata, impresa.

Che Midda Bontor, Figlia di Marr’Mahew, Campionessa di Kriarya, Vedova di Desmair, non avrebbe potuto essere considerata felice per tutto quello, in effetti, avrebbe dovuto essere riconosciuto quantomeno retorico. E, in effetti, ella non solo non avrebbe dovuto essere considerata felice, quanto e piuttosto assolutamente furiosa, adirata oltremisura per l’ostilità dimostratale in maniera tanto ostinata dal fato, dalla sorte se non, addirittura, dagli dei tutti, in una scelta che forse avrebbe dovuto essere, da parte loro, intesa qual punizione per aver osato levare la mano contro uno di loro, contro lo stesso Kah, dio minore e pur sempre un dio, che ella aveva ucciso, a pareggiare i conti con lui per l’uccisione di Desmair, così come pretesa dalla di questi impietosa e crudele madre.
Impietosa e crudele madre, quella che aveva richiesto al proprio amante, nonché padre del proprio mostruoso erede, la morte del medesimo, altri non avrebbe poi dovuto essere considerata che colei sicuramente presente dietro alla ricomparsa, in quel momento, in quel luogo, di primo-fra-tre, il suo vicario, rappresentante, in sua assenza, di tutto il suo potere, di tutta la sua forza distruttiva. Impietosa e crudele signora, ancora, colei a cui primo-fra-tre offriva tutta la propria devozione, altri non avrebbe dovuto essere considerata che la medesima che, in un’epoca lontana, era stata conosciuta con il nome di Oscura Mietitrice, che aveva corrotto l’animo della regina Anmel Mal Toise e che, per suo tramite e per mezzo di un diadema maledetto, in tempi recenti era riuscita a giungere sino a Nissa, sua sorella gemella, trovando in lei terreno fertile per attecchire, per crescere e prosperare nuovamente come, probabilmente, mai in passato, nello sfruttare a proprio favore, a proprio sostegno tutto l’odio, il risentimento e il desiderio di vendetta che per lunghi anni, decenni addirittura, ella aveva covato nel profondo del proprio cuore, del proprio animo, traendo da ciò ispirazione per ogni propria scelta, per ogni propria iniziativa, per ogni propria decisione.
Soltanto animata da giusta furia e ira, pertanto, la mercenaria avrebbe potuto reagire a tutto quello, nella consapevolezza di come dietro a primo-fra-tre fosse l’Oscura Mietitrice e, di conseguenza, Anmel e, soprattutto, la propria un tempo, e forse ancora, tanto amata sorella… la sola che, del resto, avrebbe potuto indicare a quella creatura di colpirla proprio in quel momento, proprio in quel luogo, benché, volendo, non sarebbero mancate, né erano mancante nel corso di quegli ultimi mesi, altre opportunità di confronto, altre occasioni di battaglia, soprattutto nel non ritenere qual allora esistenti particolari limiti geografici alle possibilità di azione di quella creatura, di quel mostro osceno.

« Maledizione! Maledizione! Tre volte maledizione! » esclamò, imprecando verso il cielo e verso primo-fra-tre, nello spingersi sulla soglia di casa a quel suo proclama, per verificare se davvero quella voce odiosa, e purtroppo perfettamente ricordata, avesse a considerarsi allora riprova del ritorno in azione del vicario, con una pessima scelta di tempi, non solo nell’essere rientrato a far parte della sua vita proprio in occasione del suo ritorno a Licsia, quanto e peggio nell’aver fatto in tal modo irruzione proprio quand’ella stava per iniziare a cercare di spiegare a suo padre le ragioni per le quali non avrebbe potuto sottrarsi al confronto con sua sorella Nissa « Odio quella dannatissima testa volante… e solo Thyres sa quanto profondamente, visceralmente, io la stia odiando in questo istante! »
« Quello sarebbe il mostro che hai affrontato nella Terra di Nessuno, ai piedi di quella gigantesca piramide nera di cui mi hai raccontato? » domandò Be’Sihl, sopraggiungendo alle sue spalle e sentendosi incredibilmente sciocco nel formulare un tale interrogativo, benché, in quel frangente, difficile sarebbe stato dare voce a una qualunque questione, o affermazione, senza in ciò apparire comunque straordinariamente inadeguato, qual chiunque sarebbe allora stato innanzi a simile aliena dimostrazione di potere.
« Purtroppo sì… » confermò la donna guerriero, rivolgendo occhi quasi ciechi verso il proprio avversario, nell’aver, al loro interno, smarrito quasi completamente le proprie nere pupille, in parte per il confronto con la luce giallo-verdastra da lui emessa, e in parte per le forti emozioni da lei lì vissute.

A negarle, comunque, una pur vaga possibilità di rasserenamento in tale confronto, innanzi a un simile avversario, fondamentalmente mai sconfitto e che, ella temeva, improbabile sarebbe stato ancora da abbattere, o Nissa non sarebbe stata tanto sciocca da spedirlo in suo contrasto, in sua opposizione; fu lo stesso vicario a volersi riservare una nuova opportunità di intervento, atta a meglio chiarire il perché della terrificante condanna appena formulata a discapito dell’intera Licsia e di tutti i suoi abitanti, senza che potesse essere loro concessa la pur minima possibilità di appello…

« Non abbiate paura, non abbiate timori, uomini e donne mortali. » tentò di rassicurare il proclamatosi carnefice, risultando, invero, ben poco credibile in tale asserzione, per più che ovvie ragioni « Non abbiate a rifuggire spaventati innanzi alla prospettiva che, per conto della mia signora, io sto riservando a voi, ai vostri figli e ai figli dei vostri figli, abitanti di Licsia. Perché dall’alto del proprio equo senso di giustizia, l’Oscura Mietitrice non intende imporvi ragione di sofferenza, non intende destinarvi maggiore pena di quanto già la vita non ve ne abbia donata in questi anni. » sancì, in quello che avrebbe potuto essere considerato un macabro senso dell’umorismo se non fosse stato compreso quale, da parte sua, una semplice e sincera esposizione della propria posizione, della propria interpretazione dei fatti « Sua, infatti, non abbia a giudicarsi brama di sangue, o volontà di vendetta nei vostri confronti, povere vittime innocenti, ostie offerte in sacrificio sull’ara della propria gloria; quanto e piuttosto occasione per avvertire, e colpire, colei che, sciagurata, desidera offrir battaglia a chi era al Principio di ogni cosa e sarà alla Fine di tutto, con la stessa arroganza che l’ha caratterizzata in tutta la sua orgogliosa esistenza… Midda Bontor! »