11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

sabato 5 ottobre 2013

2059


Piccola parentesi dedicata agli usi e costumi locali.
Definire “cibo” quello con cui Duva ritornò dopo meno di un quarto d’ora, dal mio personalissimo punto di vista, avrebbe avuto a doversi considerare un imperdonabile abuso del termine o, forse, un subdolo errore di traduzione nel riadattamento dei nostri due lessici, fra loro del tutto alieni. Perché, primitiva o meno che io avessi e abbia a dovermi considerare, soltanto qual blasfema avrebbe potuto essere accolta l’idea che, dopo otto ore di lavoro in miniera, a picconare contro una parete apparentemente inviolabile, tutto il nutrimento di cui si potesse avere necessità fosse racchiuso in una barretta di dubbia provenienza, né carne, né pesce, né tantomeno verdure, avvolta in un involucro argentato… accompagnata, giusto per la gioia del palato, da una bevanda di un inquietante colore fluorescente, fosse esso azzurro, giallo, verde o, addirittura, viola.
Come, però, avevo già avuto modo di scoprire nei giorni trascorsi in infermeria, presso quel complesso carcerario, soltanto il direttore avrebbe potuto permettersi il lusso, di tanto in tanto, di godere di un pasto degno di essere definito tale, nel mentre in cui tutti gli altri, detenuti in prima linea, ovviamente, avrebbero dovuto accontentarsi di quelle barrette proteiche e di quelle bevande isotoniche, come dopo qualche tempo ebbi conferma si chiamassero, non tanto per questione di costi, quanto e soprattutto per questioni di trasporto e immagazzinamento. Gestire quelle scorte, estremamente ridotte nelle proprie dimensioni e fondamentalmente prive di ogni possibilità di marcire, a dispetto di qualunque alimento fresco, sarebbe stato molto, molto più semplice che ipotizzare qualunque altro genere di dieta. Ragione per la quale, appunto, barrette proteiche e bevande isotoniche per tutti, prigionieri e secondini che essi fossero.
E per chi se lo stesso domandando, con morboso interesse, le prime, all’atto pratico, avrebbero dovuto essere considerate degli aggregati del tutto innaturale di quanto, qualcuno, aveva deciso avrebbe dovuto essere considerato il fabbisogno giornaliero nutrizionale di un uomo o di una donna, con buona pace dell’aspetto godereccio di un pranzo degno di essere definito tale; mentre le seconde, non meglio, avrebbero dovuto essere riconosciute quali composti altrettanto innaturali di quanto, qualcun altro, aveva deciso avrebbe dovuto essere ritenuto utile a contrastare gli effetti della disidratazione durante un impegno di natura squisitamente fisica qual quello lì a noi richiesto. Con buona pace di un sicuramente più sano pezzo di carne secca e un sorso d’acqua, mio abituale pasto in viaggio, o, ancor meglio, un’abbondante colazione o una gustosa cena preparatami dal mio amato Be’Sihl, e accompagnate, magari, da una coppa di vino o di una pinta di birra, bevande con le quali, per quanto non fosse mia abitudine indugiare eccessivamente, avrei indubbiamente gradito in misura maggiore deliziare il mio tanto grezzo palato, così incapace ad apprezzare le delizie di quel nuovo mondo.
Fine della piccola parentesi dedicata agli usi e costumi locali.
Sulla base di quanto sopra, sono certa mi si potrà comprendere, al di là della cortesia dimostrata da Duva nei miei confronti, nel ritornare a me conducendo seco non soltanto il suo pranzo ma anche la mia razione, non avrei potuto considerarmi particolarmente entusiasta per tutto ciò. Così come, temo, il mio viso offrì impietosa evidenza, tale da stuzzicare un nuovo intervento nella mia interlocutrice in termini che, obiettivamente, si dimostrarono straordinariamente azzeccati nel comprendere le ragioni di quella mia ritrosia, di quella mia assenza di eccitazione innanzi a tale offerta…

« Evitare quella faccia da cane bastonato, ti avverto, sarebbe un buon modo per ringraziarmi. » commentò, porgendomi la mia barretta e la mia bevanda, quest’ultima di un azzurro tanto brillante da rammentarmi le pozioni venefiche di alcuni alchimisti per la prematura morte dei quali non avrei mai avuto ragione di rimproverarmi… anzi.
« Io… non credo di aver molto appetito. » tentennai, esitante ad allungare la mano verso quell’offerta, gesto che avrei compiuto, allora, soltanto per gratitudine verso la mia controparte ancor prima che per un qualche, effettivo, interesse nei confronti di quanto lì presentato « Se ti va, ritieniti libera di mangiare anche la mia razione… » suggerii subito dopo, aprendo sul mio viso il più ampio sorriso di cui mi sarei potuta dire capace, per quanto, probabilmente, sornione come l’espressione di un gatto innanzi alla propria preda prediletta.
« Mangia. » mi ordinò, senza troppi giri di parole, spingendomi in seno il bicchiere di carta con l’isotonica e la barretta nel suo perfetto involucro argentato « Forse, nel mondo da cui vieni, sei una straordinaria superdonna capace di affrontare quaranta giorni di digiuno nel mentre in cui combatti per il destino dell’umanità… ma qui sei soltanto una prigioniera come altre e, considerando tutto il lavoro che ancora ci aspetta, non posso permetterti alcun capriccio. » argomentò, con tono serio e volto a escludere qualunque possibilità di replica da parte mia « E se è vero che questo cibo fa fondamentalmente schifo, è altrettanto vero che è tutto ciò che ci potremo mai attendere di mangiare fino a quando resteremo intrappolate su questa dannatissima luna. Quindi… azzanna! »
« … despota… » sbuffai, agguantando l’offerta nella mancina e, ciò non di meno, non risparmiando a quel pasto il peggiore sguardo avrei mai potuto rivolgergli.
« “Nespola”…? » esitò, per un istante confusa « Ah… despota! » mi corresse o, per meglio dire, corresse il mio traduttore automatico « Assolutamente. » annuì poi, alfine concedendomi un sorriso divertito « E anche peggio, come scoprirai conoscendomi meglio. »

A nulla valsero, dopo questo scambio di battute, i miei tentativi volti a cercare di far sparire in maniera indolore la barretta proteica, sia adducendo scuse volte a rimandare a un secondo momento quel pasto, sia sostenendo la tesi di quell’inappetenza che pur, obiettivamente, mi aveva colto in conseguenza al lavoro di quelle ultime otto ore. E ritrovandomi a scartare l’involucro argentato con i denti, nell’aver rifiutato, dal canto mio, ogni scusa volta a posticipare l’incontro con le chimere; fui alfine costretta a spizzicare quella barretta, in tal senso ponendo in gioco il minor entusiasmo che fui in grado di dimostrare, nel mentre in cui, avvertendo sotto i denti la consistenza irreale di quel prodotto, mi ritrovai a pregare affinché la mia gola non avesse un moto di rifiuto nei confronti dello stesso.
Una situazione fondamentalmente paradossale, quella di un tanto fermo rifiuto da parte mia nei confronti di quell’ipotetico cibo, soprattutto ove posta a confronto con quanto, obiettivamente, mi sia mai spinta a mangiare in passato, nutrendomi, nel corso delle mie avventure, con quanto, di volta in volta, offertomi dalle circostanze e, in tal senso, spingendo i miei denti al di sopra della più variegata qualità di carni e non solo. Ciò non di meno, se la carne di cerbero o di scultone, a conti fatti, non si erano rivelate poi per nulla malvagie, una volta adeguatamente arrostite; nulla avrebbe potuto convincere la mia mente, e le mie papille gustative, a considerare accettabile il sapore sintetico di quell’alimento, per quanto, ipoteticamente, studiato nei propri ingredienti al fine di apparire addirittura gustoso.

« … non è male, dai. » cercò di incoraggiarmi Duva, accompagnandomi, come promesso, lungo il cunicolo che ci avrebbe portato verso l’area riservata al gruppo di chimere incrociate nel corso di quella mattina « Sa di pollo, se ci fai caso. » soggiunse, tentando di minimizzare l’impatto psicologico della questione.
« Diamine. Anche da queste parti, per tutto quello che non si riesce a capire di cosa sappia, si dice che sa di pollo…?! » osservai, aggrottando la fronte a quella nota « Ogni volta che sento questa frase mi viene il dubbio nel merito di cosa sappia veramente il pollo. Benché, in questo momento, darei il mio braccio nuovo per poter affondare i denti in quella sua morbida carne bianca, magari dopo averla arrostita cosparsa di finocchietto selvatico. »
« Credo che il traduttore stia facendo fatica a trovare idonei riferimenti lessicali nel merito di questa tua trasognante brama culinaria… » commentò ella, dopo non aver inteso buona parte delle mie parole e, soprattutto, il riferimento finale a quella da me sempre adorata spezia, ingrediente segreto utile ad arrostire la maggior parte della cacciagione braccata nel corso di un viaggio, qual valida alternativa al ricorso alle scorte di carne secca « … però il concetto, a grandi linee, è passato. E, accidenti a te, rossa, mi ha fatto venire l’acquolina in bocca! » ammise, gettando uno sguardo di rimprovero non tanto verso di me, quanto e ancor più verso gli ultimi bocconi della sua barretta, verso la quale, evidentemente, non stava più riuscendo a provare tanta simpatia.


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