11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

sabato 30 novembre 2013

2115


Il primo a morire, a differenza di quanto i più potrebbero ipotizzare, non fu per effetto di una carezza della mia mano in metallo cromato. Come del resto da sempre era stata mia abitudine anche nel rapporto con la più grezza precedente, in nero metallo dai rossi riflessi e animata per effetto della stregoneria, anche alla mia nuova protesi, alimentata dalla straordinaria energia dell’idrargirio, delegai infatti un ruolo volto alla protezione della mia già sufficientemente provata integrità fisica, muovendola con rapidità, decisione e assoluto controllo a impossessarsi dell’arma stessa della mia prima vittima, per distruggerla al fine di ovviare agli effetti negativi di un qualche nuovo colpo accidentale. Così, nel mentre in cui le instancabili, potenti e pur affusolate dita di questa mia nuova, e più che apprezzata, estremità, si richiusero attorno alla canna di qualunque cosa avesse a doversi identificare la minaccia lì allora presentatami, per frantumarla senza il benché minimo sforzo sotto l’azione di piccoli e straordinari servomotori; alla mia mancina delegai l’onere di porre fine a quell’esistenza, senza troppe possibilità di giuoco, senza alcuna particolare e sadica possibilità di distrazione e di dilunga mento, ma solo, e semplicemente, agendo a intrappolare, sotto la punta delle mie dita, l’intera gola della mia preda, affondando con freddo autocontrollo nella sua carotide, così come nella sua giugulare, e tutto strappando di quanto riuscii ad afferrare, con un gesto deciso, in conseguenza al quale, addirittura, neppure ebbe sostanziale possibilità di impegnarsi a gridare.
Con le dita della mancina grondanti sangue e altra linfa vitale, strappata a forza dalla sua gola insieme all’esistenza stessa di quel malcapitato, e quelle della destra ancora serrate attorno ai resti di un’arma ormai inutilizzabile nelle proprie capacità di fuoco e, ciò non di meno, ancora perfetta in quanto oggetto contundente, mi rigirai rapida verso due nuove prede, ignorando, andando contemporaneamente a colpire, con un montante mancino diretto al plesso solare, colui che avevo deciso di mantenere per ultimo, al fine di porlo fuori giuoco, nel mentre in cui, con la destra, infransi, letteralmente, il cranio di un altro disgraziato, con impeto tale, nell’ancor non piena confidenza con la forza del mio nuovo arto, che, quasi, lo ebbi allora a decapitare di netto, ancor più che, semplicemente, a infrangergli le ossa. E se, nel compiere tale azione, avrei potuto esporre, sciaguratamente, le mie compagne a possibili ritorsioni, fu premura di Duva, già al momento della mia prima ribellione, scaraventarsi contro Lys’sh per sollevarla quasi di peso da terra e spingerla via, insieme a sé, cercando rifugio in un angolo della galleria, e lasciandomi, in tal modo, via libera ad agire nei termini che più mi sarebbero potuti essere congeniali, per così come, del resto, avevo loro implicitamente richiesto di avere possibilità di compiere.
Forte di un conteggio di due vittime alle spalle e un terzo comunque posto, volontariamente, fuori gioco, e tutto ciò nel tempo di un mero battito di ciglia, mi avventai, pertanto e senza esitazione, sui tre altri agnelli condotti al macello, ponendoli a confronto con l’evidenza di cosa avrebbe potuto significare avere a che fare con una donna guerriero proveniente, mio pari, da un mondo considerato barbaro e primitivo. Perché ove anche, in quel gruppo, tutti loro avrebbero avuto a doversi considerare combattenti esperti, forse e probabilmente persino dei mercenari mio pari; l’essere nati e cresciuti in una realtà tanto distante dalla mia, e, a modo suo, contraddistinta da regole tali per cui un certo genere di violenza non sarebbe neppure potuta essere concepita, se non in termini puramente ipotetici, li aveva privati della possibilità di confrontarsi effettivamente alla pari con me e, soprattutto, con l’orrore che avrebbe potuto derivare dalla brutalità di uno scontro qual quello che io stavo loro in tal modo concedendo.
E se anche, di quei tre, uno ebbe maggiore autocontrollo e prontezza di riflessi utile a sollevare la propria arma e prendere la mira, puntando dritto al mio capo, quando il fascio laser ebbe a concretizzarsi non mi trovò più innanzi a sé quanto, e più precisamente, sotto di sé, lì sospintami in una repentina genuflessione, intenta, con colpo della mia improvvisata mazza, sempre più informe, a distruggere, di netto, le sue ginocchia, facendole letteralmente deflagrare nella violenza del mio attacco. Mancato il proprio obiettivo e dolorosamente privato delle proprie gambe, quel poveraccio ebbe occasione di godere della mia pietà nel ritrovarsi, una volta caduto al suolo, con il collo repentinamente spezzato, e spezzato nel mentre in cui, con una capriola sopra il suo stesso quasi cadavere, mi lasciai rotolare in avanti, per cambiare nuovamente posizione e sorprendere, gli altri due, non più là dove avrei potuto essere un istante prima, quanto e piuttosto alle loro stesse spalle.
In ciò, pertanto, quando entrambi ebbero possibilità di comprendere ove io mi trovassi, fu per loro già troppo tardi. E tardi nella misura in cui, dalla mia nuova posizione, potei sollevarmi di colpo per colpire, con un nuovo montante della mancina, uno dei due, questa volta non mirando al diaframma quanto, e peggio, al viso e, in particolare, al setto nasale, che respinsi di netto dritto nel cervello della mia quarta vittima; nello stesso istante in cui, ebbi la premura di richiamare a me il suo compagno, abbracciando il suo collo con la violenza propria del mio destro e stringendolo, allora, al duplice fine di ucciderlo e, al contempo, di mantenerlo, fra me e la luce, qual improvvisato scudo, utile a sperare di ovviare a possibili, e spiacevoli, contrattacchi da chi, là dietro, ancora celato. Tuttavia, nel considerare come il tutto ebbe a consumarsi in minor tempo di quanto me ne sarebbe servito per bestemmiare il nome della mia dea, a colui, o a coloro, là dietro ancora in una supposta posizione di riparo, non fu concessa la benché minima possibilità di elaborare l’assurda immagine in tal modo lui, o loro, concessa dai propri occhi, né, tantomeno, di comandare ai propri corpi un’adeguata reazione.
Ragione per la quale, a conclusione di quella giostra, non mancai di gettare, quasi fosse un proiettile balistico, quel quinto cadavere contro la sorgente stessa di quella luce accecante, affidando alla violenza di quel gesto, nella disumana forza del mio destro, il compito di travolgere qualunque minaccia avrebbe potuto lì’ essere celata. Minaccia che, proprio malgrado, ebbe lì a doversi riconoscere qual un unico altro antagonista, quello con il quale, sino ad allora, avevamo dialogato, e che, atterrito psicologicamente dalle immagini delle quali si era ritrovato a essere muto testimone, e fisicamente da quell’attacco, non poté fare altro che piombare pesantemente al suolo, emettendo soltanto un gemito privo di qualunque possibile significato… un verso primordiale atto a dimostrare quanto, lì, così come nel mondo barbaro e primitivo da cui provengo, la sola reazione utile innanzi a tanto raccapricciante spettacolo non avrebbe potuto essere altro che un’improvvisa regressione spirituale a un’epoca remota, un’epoca in cui alcuna cività avrebbe potuto considerarsi ancora sorta e l’umanità stessa avrebbe avuto difficoltà a distinguersi da qualunque altra bestia del Creato.

« Vedi… per me non è gradevole essere definita una vacca da monta. » argomentai, senza ironia, senza sarcasmo nella mia voce, quanto e piuttosto ancora con il gelido distacco con il quale avevo contraddistinto ogni mio singolo gesto sino a quel momento « So che potrebbe apparire arrogante da dire… ma nel mio mondo mi sono abituata a essere definita figlia della dea della guerra. E per quanto non mi aspetto che alcuno, qui, possa conoscere il nome di Marr’Mahew, non posso che gradire, ugualmente, un minimo di rispetto. » esplicitai, raggiungendolo, disarmandolo con un calcio e chinandomi su di lui, nel bloccarlo, alfine, al suolo con una morsa della mia mancina attorno al suo collo « Lo comprendi… vero?! »
« … s-sì…. » piagnucolò in risposta, improvvisamente privo di tutta l’arroganza che lo aveva contraddistinto un istante prima.
« Ottimo. » annuii, con soddisfazione.

E, giusto per non offrire torto a tutti coloro che, prima di lui, avevo appena ucciso, lasciai allora piombare, pesantemente, il mio pugno destro proprio al centro del suo volto, trapassando l’intero cranio da parte a parte e andando a schiantare, sostanzialmente, le mie nocche cromate sul suolo sotto di lui, in un macabro rimbombo che, non diversamente dal suono di una campana rotta, sembrò comunque voler decretare la fine di quella breve, ma intensa, battaglia, al termine della quale, ancora una volta, la dea Marr’Mahew, di cui io ero stata onorificamente appellata qual Figlia da coloro che mi avevano visto similmente combattere contro un’ottantina di pirati, tutti uccidendoli, aveva ottenuto il proprio legittimo tributo di sangue e di morte.

venerdì 29 novembre 2013

2114


« Chi siete…? » volle concedersi opportunità di domandare Duva, anche laddove, obiettivamente, non si sarebbe mai attesa qualche possibilità di replica da parte loro « … cosa volete?! » insistette immediatamente, incalzando con quella seconda, e forse ancor più importante, questione, anche laddove, probabilmente, non avrebbe ottenuto maggiore soddisfazione rispetto alla precedente.
« Silenzio! » impose la voce da dietro la luce, replicando né più, né meno, come sarebbe stato ampiamente prevedibile accadesse « Non parlate… non fiatate nemmeno. » proseguì, a migliore definizione del proprio ultimo ordine « Non ci interessa quanto potete aver a dire. Non per ora, quantomeno. »

Mi permettete un nuovo giochetto dei presupposti, come poco fa? E’ divertente!
Presupposto uno: a bordo del treno, tutta quella vicenda aveva avuto origine da un invito, rivolto alla sottoscritta, a evitare scherzi di sorta, perché tanto avrebbe dovuto essere considerato chiaro, palese, evidente quanto fosse a me richiesto in quel frangente. Che poi, all’atto pratico, non avessi la benché minima idea di quanto ciò avrebbe dovuto concretamente significare, avrebbe avuto a doversi considerare un particolare di secondaria importanza, almeno dal loro personalissimo punto di vista.
Presupposto due: pur avendoci appena imposto il silenzio, i nostri interlocutori… il nostro interlocutore, ove sino a quel momento soltanto uno aveva realmente preso la parola, aveva appena lasciato intendere, e senza richiedere in tal senso un particolare sforzo in termini di sensibilità o, peggio, di perspicacia, quanto da parte nostra sarebbe stata attesa una qualche dichiarazione, tale per cui, al tempo presente, avremmo dovuto tacere ma, probabilmente di lì a breve, una volta rese palesemente inoffensive, sarebbe stato necessario, per noi, accontentarlo, raccontando ciò nel merito del quale desiderava avere da noi chiarificazioni.
Presupposto tre: eravamo ancora in vita. Magra consolazione? Mera retorica? Assolutamente no. No, soprattutto, nel considerare quanto tutt’altro che ovvio, ben lontano dal considerarsi scontato, potesse essere per noi, allora, poter vantare ancora ottima salute… ferita al laser al di sotto del rene della sottoscritta esclusa. Fosse stato, infatti, interesse di quel gruppo di cacciatori, chiunque essi fossero, accopparci, avendo la possibilità di sorprenderci, così come avevano ampiamente palesato aver avuto in quel frangente, non avrebbero dovuto rendere proprie particolari ragioni di freno, tali da sottoporci a quel teso rituale di imprigionamento al quale, lì, chiaramente desideravano destinarci.
Presupposto quattro: ero ferita. E in quanto tale, sofferente. E, per questo, indubbiamente pericolosa nel non aver voglia di concedere particolare tolleranza ad alcuno. Non tanto a un alleato… figurarsi a un avversario.
Conclusione: dati i presupposti uno, due, tre e, soprattutto, quattro… beh… c’è davvero bisogno che sia io a trarre le somme?!

« Ora alzate lentamente le mani e portatele dietro la testa. » riprese la voce, nel proseguire con forzata serenità in quelle istruzioni, del tutto ignaro nel merito di quanto, in cuor mio, egli avesse a doversi considerare già morto o, probabilmente, avrebbe ostentato meno sicurezza, a meno di non volersi dimostrare del tutto disaffezionato alla propria stessa vita « E niente gesti bruschi, mi raccomando. »

Con occhi ineluttabilmente lacrimanti per effetto di quella luce ancora fissa contro il mio viso, e pur, ormai, già capace di riconoscere i profili delle mie due compagne innanzi a me, nell’iniziare ad abituarmi a quella nuova condizione, offrii per prima apparente ubbidienza a quella richiesta, iniziando a muovere con gesti lenti e controllati le mani verso l’alto,  a confermare in tal modo la mia più quieta resa.

« Forza! » insistette il nostro antagonista, nel confronto con l’immobilità dimostrata da parte delle mie sorelle di fato che, così come anche io potei notare, ancora sembrarono rifiutarsi di accennare il benché minimo movimento e, soprattutto, la benché minima accettazione di quella sconfitta, di quell’imprigionamento così come, apparentemente, pur non ci sarebbe potuta essere concessa alternativa utile sulla quale operare « Se credete che ci possa essere, da parte nostra, qualche remora a uccidervi soltanto perché siete delle donne, avete sbagliato i vostri calcoli… »
« Fate come dice… » suggerii, con voce non serena, non tranquilla, ma neppure agitata o inquieta, nell’offrire, anzi, totale gelo a contorno di quell’invito, di quel sostegno alle parole del nostro antagonista, con la mia mente e con il mio cuore già rivolta alla battaglia che di lì a breve sarebbe esplosa e, in tal senso, già privatami di ogni emozione, di ogni sentimento e, con essi, di ogni preoccupazione, al di là della ricerca del sangue di quegli sciagurati.
« Stai zitta, razza vacca da monta. » venni rimproverata, con sempre ben minimale originalità nella scelta degli appellativi a me destinati, che, nel mio mondo come in ogni altro, sembravano comunque e ostinatamente ruotare intorno alle mie forme e proporzioni, ancor più che a ogni altro dettaglio della mia pur, spero, affascinante personalità « Non ho bisogno del tuo aiuto! »

Bisogno o meno che egli potesse avere, nell’udire la mia voce e, soprattutto, nel riconoscere il tono da me allora adottato, Lys’sh e Duva superarono ogni esitazione, ogni ritrosia e, con la lentezza pretesa, iniziarono a sollevare ambo le mani, per condurle, a propria volta, al di sopra delle proprie teste, in attesa di quanto, avevano ormai compreso, presto sarebbe occorso.
Soltanto quando tutte e tre fummo in posizione, con le mani levate dietro il capo, un gruppo di altre sei figure comparve dalle tenebre dietro la luce, con armi spianate nella nostra direzione, a dimostrare quanto, da parte loro, non avrebbe dovuto essere riconosciuta alcuna volontà rivolta al giuoco, allo scherzo, e, ciò non di meno, in movimento verso di noi, là dove, allora, non avrei potuto che desiderare giungessero.

« Attenti alla chimera… ha già steso i ragazzi del primo gruppo. » suggerì la solita voce, ora rivolgendosi al nostro indirizzo, quanto a quello dei suoi stessi compagni, di coloro che, indistinti nella luce che pur non stava smettendo di accecarci, si stavano a noi approssimando; invitandoli, in tal senso, a concentrare la propria prudenza in direzione di Lys’sh, responsabile, obiettivamente, di un bel successo a loro discapito.

In tre, quindi, si chiusero attorno all’ofidiana e, colpendola dietro alle ginocchia, la costrinsero a inginocchiarsi a terra, probabilmente al fine di riservarsi maggiore  serenità nel confronto con lei e con la minaccia da lei rappresentata. Con straordinaria dimostrazione di autocontrollo, in tutto quello, la mia amica si costrinse a non reagire, a non concedere loro provocazione, dimostrando, ancor più che timore nei loro riguardi, fiducia nei miei, e, in particolare, in quelle poche, semplici parole che, ella era consapevole, erano da parte mia state pronunciate con la medesima solennità di una promessa, e di una promessa volta alla nostra salvezza, al nostro trionfo, se solo mi fosse stata concessa libertà di agire così come, in tal senso, stava dimostrando volermi garantire.
Nel contempo di ciò, altri tre, nel gruppo dei nostri antagonisti, proseguirono verso Duva e la sottoscritta. E fu soltanto in quel momento che un’altra voce, in quel compatto dispiegamento di forze, ebbe a levarsi, per riferire un messaggio a chi, ancora, non si era mosso da dietro la luce puntata contro i nostri volti…

« Ehy… la rossa è stata colpita! »

Un’osservazione, quella in tal modo scandita, che da parte mia non avrebbe potuto che essere accolta con una certa benevolenza di fondo, e che, in tal contesto, in simile situazione, alla luce di quanto avevo già stabilito sarebbe accaduto, non poté che lasciar guadagnare, a colui che potei identificare come il responsabile per quell’asserzione, il diritto a morire per ultimo… anche dopo il suo compagno che, vigliaccamente, si stava ancora tenendo a distanza di sicurezza da noi.

giovedì 28 novembre 2013

2113


« Nei guai… io?! » contestò la voce dell’ofidiana, imponendosi inaspettatamente non tanto qual proveniente dalle spalle di Duva, e quindi innanzi a me, ma dalle mie, e, pertanto, da dietro di me, là dove non avrei avuto ragione di presumerne la presenza « Per chi mi avete presa, donne di poca fede…? »

Presupposto uno: dopo aver trascorso una vita intera così come ho trascorso la mia, posso in tutta onestà vantare dei sensi particolarmente affinati e in grado di concedermi ben poche occasioni di sorpresa nel confronto con il mondo a me circostante e con eventuali pericoli in agguato. Perché quando, come me, si è costretti ad abituarsi a dormire con entrambi gli occhi aperti, e se non letteralmente… quasi; veramente difficile diventa per un qualche possibile antagonista sopraggiungere con discrezione sufficiente da sorprendermi e disorientarmi.
Presupposto due: a dispetto del presupposto uno, Lys’sh si è da sempre dimostrata in grado di spiazzarmi, riuscendo a muoversi con leggerezza tale da sorprendere, persino, i miei sensi particolarmente affinati. Anche in pieno giorno. Anche in piena luce. E dire che, a sentire lei, non ha neppure a doversi considerare particolarmente più discreta rispetto alla media della propria razza… informazione che, a ben vedere, non potrebbe evitare di inquietarmi. E di inquietarmi in termini oltremodo giustificati, non concedendomi più quella pur superficiale, pur effimera sicurezza con la quale, malgrado tutto, mi sarei potuta dire confidente per concedermi qualche breve momento di quieto riposo.
Presupposto tre: in quelle gallerie, imperavano, allora, delle tenebre così fitte quali, obiettivamente, soltanto sottoterra ci si potrebbe attendere di ritrovare, lontani da qualunque bagliore, da qualunque pur piccola e fioca stella in grado di concedere un’impressione di speranza per il cammino innanzi a sé.
Conclusione: dati i presupposti uno, due e tre, fondamentalmente impossibile sarebbe stato per me riuscire a percepire il movimento della mia amica ofidiana nel momento in cui ella, da innanzi a noi, aveva scelto di spostarsi alle nostre spalle e di muoversi, per così come alfine avevo intuito, incontro a un gruppo di nostri avversari, di nostri antagonisti che, in quelle sue parole, aveva in tal modo appena confermato aver eliminato… se non fisicamente, quantomeno in qualità di effettiva minaccia.

« E, comunque, complimenti per la recita… » soggiunse, passandomi accanto e superandomi, per ritornare alla propria posizione iniziale, ad aprire quella nostra breve colonna e a concederci, in ciò, possibilità di riprendere il cammino da dove allora fondamentalmente interrotto, benché Duva fosse stata abbastanza abile da proseguire senza eccessiva dimostrazione d’incertezza all’interno di quella coltre di tenebre « I nostri amici erano così intenti a seguire il vostro battibecco che non si sono accorti di nulla fino a quando non è stato troppo tardi. Lo ammetto: se non vi conoscessi, avrei creduto anch’io che il vostro fosse un vero litigio! » esplicitò poi, con una serena allegria che, ancor più di ogni altro chiarimento, sarebbe stata utile a escludere l’eventualità che vi fosse ancora qualcuno sulle nostre tracce, almeno nel gruppetto da lei annientato.
« Ma chi stava recitando…?! » obiettò la mia altra compagna, pur allora lasciando conquistare la propria voce da un tono indubbiamente più sereno e divertito rispetto a quelli precedentemente resi propri « Avessi avuto una pistola fra le mani, avrei veramente sparato a questo lamento ambulante! » confermò, cercando di non lasciar risuonare troppo palesi le propria risa a contorno di quell’affermazione « “Cosa vuol dire che ci siamo perse…?”, “… mi sono ritrovata troppo impegnata a farmi sparare contro…”, “Il peso eccessivo dei miei seni mi sta spaccando la schiena!” » mi scimmiottò, almeno nelle prime due frasi, aggiungendo di propria iniziativa quella terza argomentazione da parte mia del tutto inesistente.
« Gran brutta cosa l’invidia… l’ho sempre detto! » sorrisi, non concedendole possibilità, in tal senso, di provocarmi in misura maggiore rispetto a quanto non avesse compiuto in precedenza, nella volontà di sottrarmi al suo giuoco.
« Invidiosa dell’erinni al disco che quei due meloni ti stanno sicuramente facendo spuntare in mezzo alla spina dorsale? Io…?! » si concesse opportunità di obiettare, con annesso errore di traduzione, salvo poi, comunque, lasciar cadere il discorso per riportare l’attenzione a all’altra nostra comune compagna e a quanto da lei appena compiuto, in certa di maggiori dettagli « Piuttosto… quanti erano, Lys’sh? »
« Tre… » replicò l’ofidiana, con tranquillità « Uno era già fra i tizi che ci hanno circondate sul treno, ho riconosciuto il suo odore… mentre gli altri due erano nuovi. »
« Accidenti a loro… spuntano come maledetti funghi. » osservò Duva, per tutta risposta « Solo per curiosità: li hai uccisi o…? »
« O. » confermò la giovane donna rettile, con tono tale per cui, in tutta franchezza, la prima alternativa enunciata non avrebbe per lei causato ragione d’angoscia, motivo di disturbo, benché, allora e a conti fatti, non fosse stata ritenuta necessaria « In effetti avevo pensato anche di trascinarcene uno dietro, per poterlo interrogare con più calma. Ma rischiavano di essere un ingombro eccessivo per me o per te… e Midda è ferita. » specificò, in riferimento al fatto che, con l’ausilio del mio arto meccanico, farmi carico di uno fra loro, probabilmente, non avrebbe comportato particolare sforzo, in condizioni migliori rispetto a quelle in cui io stavo allora riversando, mio malgrado.
« In effetti… » concordò la prima, con un’inflessione di voce per la quale fu semplice immaginarla intenta a scuotere il capo con fare carico di disappunto per quella situazione, e per quanto da essa in tal modo derivante « Sapessimo almeno cosa vogliono da noi. » questionò, retorica, e, in tal senso, neppure sprecando un tono interrogativo, ove, chiaramente, la risposta a tale domanda non avrebbe potuto essere ritrovata in alcuna fra noi.
« Non fossi appena arrivata da queste parti, potrei anche comprendere che qualcuno ce la possa avere con me… » riconobbi, con assoluta onestà intellettuale « … ma non penso di aver fatto già in tempo a farmi dei nemici, nel considerare come sia stata subito arrestata e trasferita in carcere non appena giunta. »

Ma se pur, nel dar voce a quell’asserzione, mi resi conto di quanto la soluzione fosse, potenzialmente, intrinseca in quelle medesime parole, nel ripensare agli eventi che avevano condotto al mio arresto, evidenza innanzi alla quale anche Duva e Lys’sh avrebbero allora potuto giungere insieme a me, nel conoscere, perfettamente, la mia storia recente; alcuna fra le tre ebbe possibilità, nell’immediato, di poter approfondire in tal senso. Non, quantomeno, nel dover rispondere all’allarme derivante da un fascio accecante indirizzato direttamente contro i nostri stessi volti e tale, nostro malgrado, non soltanto di coglierci di sorpresa, ma anche, e peggio, di privarci estemporaneamente della vista e di ogni speranza di comprendere quanto stesse lì avvenendo…
… non che ci sarebbe stato bisogno della descrizione accurata di un cantore per riuscire a comprendere quanto, oltre a essere inseguite, evidentemente, dovevamo anche essere state precedute, per quanto tutto ciò avrebbe avuto a doversi considerare non semplicemente spiacevole e inquietante, ma anche, e incredibilmente, fastidioso.

« Ferme! » tuonò una voce, provenendo da dietro il fascio di luce e, in ciò, offrendosi allora del tutto priva di corpo, almeno nel confronto con il nostro senso primario, in tal maniera posto fuori giuoco « Un solo movimento e vi riduciamo a un ammasso di carne informe e fumante! »

E benché, innanzi a un simile invito, il mio istinto mi avrebbe costretto a qualunque possibile scelta tranne che all’immobilità, l’evidente situazione di inferiorità tattica in cui, disgraziatamente, le mie amiche e io ci eravamo venute e ritrovare, non avrebbe lasciato particolare spazio di manovra ad alcuna alternativa diversa da quella di accettare l’invito rivoltoci e, nostro malgrado, arrestarci completamente immobili e in attesa di ulteriori ordini da parte del nostro nuovo carceriere, chiunque egli fosse.

mercoledì 27 novembre 2013

2112


Nel mondo dal quale io provengo, esiste un tempio sotterraneo diverso da ogni altro delubro in cui io abbia avuto occasione di sospingere i miei passi nel corso di un’esistenza comunque e obiettivamente estremamente avventurosa, e tale da condurmi in luoghi per lo più addirittura dimenticati qual esistenti e, comunque, semplicemente inaccessibili ai più.
Tale santuario, l’ingresso al quale è stato riportato alla luce dopo molti secoli dalla follia di un uomo troppo malato, troppo vecchio, troppo ricco, ma anche troppo stupido per arrendersi all’ineluttabilità del proprio fato, così come del fato di qualunque mortale, nel lasciarsi animare dalla brama volta alla conquista dell’immortalità, ha rappresentato per me la prima occasione d’incontro con quella stessa creatura, semplicemente straordinaria, e ben oltre ogni concetto non soltanto di mortalità ma, probabilmente, persino di immortalità, per solo tramite della quale mi è stato concesso, un giorno, di abbandonare i confini del mio stesso pianeta, dell’unico pianeta che avessi mai conosciuto e che avessi mai avuto occasione di considerare qual esistente, per sospingermi attraverso le immensità siderali. E di tale santuario, per quanto sito ai confini della nostra stessa realtà, in un inquietante punto di congiunzione fra il nostro universo e un’infinità di altri mondi, sopra a tutti i quali la stessa incredibile entità da molti conosciuta banalmente con il nome di fenice è solita distendere le proprie ali protettive e il proprio sguardo carico d’amore, e per questa ragione privo di una reale architettura, non diversamente da come avrebbe un tempo potuto vantare essere il palazzo nel quale era stato imprigionato per secoli il mio semidivino sposo; io rammento perfettamente ogni corridoio, ogni anfratto, ogni dettaglio, per quanto così straordinariamente mutevole, per quanto mai identico a se stesso, in una misura tale per cui, obiettivamente, persino folle avrebbe a doversi considerare il semplice pensiero di avventurarsi entro i suoi percorsi sotterranei.
Al pari del tempio della fenice, poi, nella mia mente è ben impresso il ricordo di ogni altra sfida da me affrontata, ogni altra architettura da me esplorata nei più svariati angoli del mio mondo, a volte, in esse, trascinandomi stremata, ferita e sanguinante in termini tali che persino miracolosa avrebbe a doversi riconoscere la mia semplice, e pur ancora attuale, esistenza in vita. Fossero semplici edifici, maestosi complessi, così come labirinti oscuri, ove necessario, potrei riportare ora puntuale descrizione di ogni singolo passo da me mosso al loro interno. E ciò, in verità, non tanto in grazia a un qualche intelletto superiore o a una supposta e straordinaria capacità mnemonica, tale da rendere simile sforzo, tale impegno, persino banale, così come so che è per alcune, straordinarie persone, in grado di imprimere nella propria mente, alla perfezione, i più minuscoli dettagli di un’immagine anche solo in conseguenza a un fuggevole sguardo. No. Niente di tutto questo, per quanto mi concerne. Perché tale mia capacità, se così si volesse descrivere, altro non ha da considerarsi derivata se non proprio dall’estenuante confronto con simili sfide, e dalla conquista al loro interno, passo dopo passo, piede dopo piede, del mio diritto alla vita, e a poter dichiarare, con l’assordante silenzio delle mie azioni: « Io sono! »
Quanto, in tutto ciò, per me ha a doversi considerare qual un’esperienza insolita e, persino, inquietante, può essere quindi facilmente inteso nell’incapacità, in questo momento, di riuscire a offrire una qualche descrizione, dettagliata o meno, del tragitto che Lys’sh, Duva e io compimmo all’interno di quelle gallerie sotterranee, nel tentativo di liberarci degli uomini alle nostre spalle. Perché, proprio in quell’occasione, e per la prima volta nella mia esistenza, almeno per quanto ne riesca ad avere memoria, la strada che in quelle tenebre mi ritrovai a compiere non soltanto non venne da me decisa, ma, neppure, posta in discussione, nell’accettare in maniera quietamente passiva qualunque scelta abbracciata dalle mie due compagne, dalle mie due sorelle d’armi.
Nessuno si possa quindi attendere di leggere, in questa mia testimonianza, un puntuale resoconto di quante volte svoltammo a destra, quante a sinistra, e, obiettivamente, neppure per quanto tempo continuammo a correre: dal mio personale, personalissimo punto di vista, infatti, con disarmante candore e sconvolgente ingenuità non avrei potuto evitare di affermare quanto, obiettivamente, entro quelle tenebre avrei avuto a dovermi considerare del tutto smarrita, privata di qualunque punto di riferimento e, peggio, di qualunque speranza volta a riconquistare un pur minimale punto di riferimento. E se pur, ove anche necessariamente inquieta nel confronto con qualcosa di nuovo, con quel mio nuovo, personale approccio alla questione, per quanto ormai a un’età nella quale sempre più difficile avrebbe avuto ipotizzare di rimettersi in tal modo completamente in giuoco, con nuove regole e nuovi trucchi da apprendere; non mi concessi neppure per il più fuggevole istante di dubitare delle scelte compiute da Duva o, tantomeno, da Lys’sh, costringendomi a essere sicura di quanto, qualunque cosa fosse successa, non avrei avuto ragione di muovere il benché minimo rimprovero ad alcuna delle due per tutto quello.
... o, per lo meno, così mi sarebbe piaciuto restare saldamente convinta.

« Cosa vuol dire che ci siamo perse…?! » esclamai, non riuscendo a trattenere un’inflessione nella mia voce che ebbe a risuonare, purtroppo, vagamente caustica… e, mi piace pensare, in sola conseguenza al dolore per me allora derivante dalla ferita riportata.
« Perdute… smarrite… disperse: ti serve qualche altro sinonimo per meglio apprezzare il concetto?! » obiettò Duva, nel non sapersi dimostrare fondamentalmente più soddisfatta di quanto non avrei potuto essere io, in quello stesso frangente, benché, forse, e allora, più irritata in conseguenza alla critica implicita nella mia retorica che, effettivamente, all’evento occorso, per così come avvenuto « Ti avviso che questo sarebbe un pessimo momento per ritrovarsi con il traduttore automatico guasto… quindi, anche se fosse, non dircelo! »
« Non è mio interesse apparire polemica… » replicai, sincera e, per certi versi, persino mortificata da quell’insinuazione, atta a disegnarmi qual una pessima complice, benché il mio orgoglio personale mi avesse sempre sospinto a considerarmi, al contrario, straordinaria sotto tale profilo « La mia era semplice sorpresa innanzi a un evento del tutto imprevisto. »
« Anche il sopraggiungere dei tuoi amici, sul treno, non potrebbe considerarsi propriamente previsto… ma non mi sembra che, innanzi a loro, tu ti sia concessa certi toni! » contestò, con fare forse eccessivamente piccato, in misura tale per cui ebbi immediatamente a domandarmi quanta onestà vi fosse in quella risposta e quanto, invece, non si stesse proponendo volutamente forzata, per un ben diverso scopo che, pur, nelle mie allora attuali condizioni, non avrei potuto avere lucidità sufficiente per cogliere.
« Forse perché mi sono ritrovata troppo impegnata a farmi sparare contro, per avere tempo di polemizzare con loro. » battibeccai, più d’istinto che in conseguenza a un’effettiva riflessione a tal riguardo, al di là di quanto, pur, il suo comportamento non si stesse dimostrando allora facile da comprendere nelle proprie ragioni e nelle proprie dinamiche.
« E’ un peccato, allora, che non abbia un’arma con me… o potrei provare anche io a spararti per impegnarti un po’ il tempo. » rimbalzò ella, incalzando in quel crescendo oltre limiti che, chiunque, avrebbe potuto considerare persino minacciosi e che, per tale ragione, non ebbi allora la benché minima esitazione, a benché minima incertezza a considerare qual di avvertimento ancor prima che di minaccia « Del resto, poco fa, hai detto che il tedio dell’indolenza ti uccide… no?! »
« Certamente! » riconfermai, imponendo in quelle mie parole tutta la foga di cui mi sarei potuta considerare capace, nel voler trasmettere allarmi a compagna quanto, al di là del nostro apparente battibecco, avessi ben compreso il senso di quanto stesse accadendo e, soprattutto, di quanto ella avrebbe desiderato in tal modo comunicarmi « E se desideri mettermi alla prova, non hai che da chiedermelo chiaramente, senza troppi giri di parole! »
« Spero per te che non ve ne sia bisogno. » concluse, alfine, la mia controparte in quel dialogo a metà strada fra un litigio e una recita a soggetto, per la straordinaria riuscita della quale Duva e io avremmo avuto diritto al plauso del pubblico, se solo ve ne fosse stato lì presente « Perché in tal caso, vorrebbe dire che Lys’sh è nei guai! »

martedì 26 novembre 2013

2111


« Perché mai dovrebbe essere colpa mia…? » protestai scherzosamente, o forse neppure poi troppo scherzosamente, sforzandomi di non gemere nello scandire quelle parole in risposta alla mia amica, come pur non avrebbe allora potuto riconoscersi, per me, tanto facile compiere « Stai forse suggerendo che io abbia un pessimo carattere…?! »
« Lys’sh…? » cercò conferma nella nostra terza compagna, in un tono che, tuttavia, non parve volersi ancora riservare occasione di scherzo, possibilità di giuoco, nello scadere in una serietà che avrebbe potuto persino spaventarmi, se non fosse stato che, in tale atteggiamento, non avrei potuto che riconoscere una mia mera immagine riflessa, un’anima a me del tutto affine, non semplicemente simile ma, a tratti, persino coincidente, in misura tale per cui neppure una lontana esperienza con altre sei versioni di me stessa, provenienti da sei diversi universi alternativi al nostro, era stata sostanzialmente in grado di offrirmi.
« Sì… » annuì la giovane ofidiana, senza smettere di correre e, per mia fortuna, senza neppure rallentare, nell’aver evidentemente non soltanto riconosciuto quanto, di lì a un istante, avrebbe esplicitato, ma anche le ragioni alla base del mio silenzio in tal senso, volte a non concedere al nostro gruppo di essere posto in difficoltà o, peggio, in pericolo, da tutto ciò « … sento odore di carne bruciata e avverto un’alterazione chimica nella sua sudorazione. E’ stata colpita. »
« Miseria… » imprecò Duva, ora concedendosi persino di apparire apertamente contrariata da tale notizia, per quanto, probabilmente in conseguenza all’inflessione di dolore risultata involontariamente trasparente per mezzo della mia voce, doveva aver già sospettato qualcosa « Cosa aspettavi a dircelo, Midda?! »

Paradosso: nel contempo in cui, in quelle parole, in quella domanda retorica, altro non si stava celando che un rimprovero a mio discapito, pur derivante da un sentimento di preoccupata premura da parte della mia amica nonché mecenate, o, forse, dovrei dire ufficiale in comando; le azioni non vollero, comunque, concedermi opportunità né di tregua, né di compassione, tacitamente riconoscendo il valore del mio sacrificio, e in ciò non desiderando vanificarlo, addirittura nell’imporci, raggiunta la conclusione del lungo treno, un salto giù dalla banchina, nell’oscurità dei binari, entro la quale, speranzosamente, ci sarebbe stata concessa un’ancor migliore opportunità di fuga da lì, di evasione dai nostri inseguitori, chiunque essi fossero.
Altro paradosso: nel contempo in cui una parte del mio animo, la metà guerriera, alimentata dal dolore e dall’adrenalina, e che mai si sarebbe arresa, mai si sarebbe concessa occasione di lamento o di pena, e, ancora, mai avrebbe accettato alcuna dimostrazione di compassione, non da loro, non da altri, non poté che essere grata a Lys’sh e a Duva per quell’iniziativa, per quella scelta, volta, quantomeno, a non contrariare le ragioni alla base del mio precedente silenzio; l’altra metà del mio spirito, quella più umana, ottusa ed egoista, al punto tale da risultare persino masochista in termini tali per cui, nel ritrovarsi torturata, allora, da quella sofferenza, avrebbe soltanto desiderato un’occasione di tranquillità utile a dare libero sfogo a tutto il patimento in violente grida, non poté evitare di odiarle, e di odiarle profondamente, per quanto così prepotentemente impostomi, senza il benché minimo riguardo per la mia situazione, per così come, invero, divenuta mia soltanto nella ricerca di un’occasione di salvezza per loro.
Forse… probabilmente… sicuramente anzi, nell’ammettere tutto ciò, con la franchezza che pur da sempre mi ha contraddistinta, come può testimoniare chiunque abbia avuto occasione di conoscermi, il mio mito personale, la leggenda attorno al mio nome potrebbe avere a che risentirne, laddove, abitualmente, fondata soltanto sulla metà guerriera del mio spirito e non su quella umana, e, in ciò, volta a mostrarmi qual un’eroina impavida e priva di ogni debolezza, priva di ogni più semplice possibilità di esitazione. Ma, francamente, questo pensiero, l’idea che attorno al mio nome possa essere anche associata una figura più consueta, più umana e, in conseguenza, fallibile, non potrebbe né turbarmi, né tantomeno interessarmi, dal momento in cui, obiettivamente, non è mai stata mia brama permettere ad alcuno occasione di tramutarmi da persona reale a personaggio immaginario, da donna guerriero, con la mia forza, sicuramente, con la mia follia talvolta mascherata da coraggio, indubbiamente, ma anche con tutti i miei limiti, in una sorta di semidea, se non, addirittura, dea della guerra, infallibile e inarrivabile. Anche perché, se realmente così io fossi, non avrebbe neppure significato per chiunque dovesse leggere questa mia testimonianza proseguire oltre, nel non potersi riservare opportunità alcuna di incertezza nel merito allo sviluppo della vicenda, e alla mia tutt’altro che straordinaria vittoria finale che, in tal senso, sarebbe resa al pari di un atto dovuto nel confronto con la mia intrinseca superiorità. E questo, obiettivamente, sarebbe un paradosso ancor più assurdo rispetto ai due precedenti… un paradosso che, tuttavia, tale non fu allora né mai sarà, essendo io nata qual donna e mortale ed essendo io, comunque e, soprattutto, ben volentieri, destinata a vivere, e un giorno perire, qual donna e mortale.

« Mah… un po’ di tempo libero, magari?! » replicai con ironia, benché, forse, il mio apparve anche particolarmente prossimo a sarcasmo, alimentato, in tal direzione, dalla fitta di dolore conseguente al salto impostomi e che, per un attimo, non mi privò soltanto di respiro ma, persino, del senso stesso della vista, così come di ogni altra facoltà percettiva, annichilendomi all’interno di un’abbagliante splendore nel quale tutto parve svanire, il mio stesso corpo incluso « Ultimamente ho avuto un po’ da fare… con tutti questi nuovi amici… » soggiunsi, riprendendo la definizione utilizzata da Duva stessa per definire i nostri inseguitori.

Inutile, per chi se lo stesse domandando, sarebbe stato da parte delle mie commilitoni, informarsi nel merito del mio stato di salute o della gravità della mia ferita, ragione per la quale né loro presero in esame tale ipotesi, né io ebbi, razionalmente, ragione di muovere loro rimprovero o di indirizzare il discorso in tal direzione.
Qual veterane di guerra, sopravvissute a molteplici battaglie, sia Duva sia io, infatti, eravamo più che confidenti con un semplice, banale assunto che, a chi, diversamente da noi, non aveva mai avuto trascorsa occasione di combattere, avrebbe anche potuto sfuggire: finché ancora mi restava forza per muovermi, per correre e, soprattutto, per parlare, la mia situazione non avrebbe dovuto essere considerata qual sì pessima da rappresentare un problema… non, per lo meno, sino a quando altre ben peggiori questioni si fossero impegnate al fine di pretendere la nostra comune attenzione. E dove anche, ancora, non mi sarei potuta dire effettivamente confidente con eventuali trascorsi bellici della nostra compagna ofidiana, anche Lys’sh aveva dato più volte riprova di aver avuto passata occasione di affrontare la vita qual un soldato, forse priva di una formazione specifica a tal proposito ma, non per questa, priva, proprio malgrado, di quella psicologia propria di chi aveva avuto necessità di guardare in volto il peggiore degrado di ogni concetto di civiltà, sopravvivendo a esso e, in conseguenza, egualmente apprendendo, nel modo peggiore, nei termini più duri, quella lezione alla quale, obiettivamente, nessun maestro d’arme, per quanto abile, per quanto straordinario, avrebbe mai potuto formare… non di certo, per lo meno, nella serenità propria anche del più severo e impietoso addestramento.

« Se hai necessità di bestemmiare il nome di qualche tua strana divinità, sentiti pure libera di farlo… » mi autorizzò, quindi, Duva, qual unico ulteriore atto di caritatevole premura nei miei riguardi, continuando a guidarmi nelle tenebre innanzi a noi, a sua volta, in verità, guidata in esse dai sensi particolarmente affinati dell’ofidiana, senza i quali, nel non aver ancora avuto occasione di concedere ai nostri occhi possibilità di adeguarsi all’oscurità, saremmo state sostanzialmente prive di qualsivoglia possibilità di riferimento « Temo che avrai da aspettare ancora un po’ prima di poterti riservare del tempo libero! » argomentò, rievocando gli stessi termini da me pocanzi utilizzati, allo stesso modo in cui io avevo appena compiuto con lei.
« Per fortuna direi! » approvai, ancora ironicamente… e sempre più sarcasticamente, simile notizia, pur sforzandomi di non rallentare minimamente il passo, né, parimenti, di essere di peso per le mie due amiche « Il tedio dell’indolenza, generalmente, mi uccide… »

lunedì 25 novembre 2013

2110


« Che accade? » protestò qualcuno, attorno a me, invocando retorica spiegazione nel merito degli eventi che potevano aver condotto a quella situazione d’emergenza.
« C’è stato un incidente?! » ipotizzò qualcun altro, non tanto in risposta al primo interrogativo, quanto e piuttosto qual sviluppo del tutto autonomo e indipendente dal medesimo.
« Probabilmente il solito dannato suicida… ormai ce ne è almeno uno alla settimana di questi idioti. » argomentò una terza voce, dimostrandosi meno incuriosita e decisamente più arrogante, in una misura tale per cui, non lo nego, se non avessi avuto già i miei problemi, come un buco nel fianco, sarebbe stata sicuramente mia premura intervenire con qualche dolce parola volta all’invitarlo ad andare lui stesso a suicidarsi in contro al prossimo treno, dal momento in cui, chiaramente, anch’egli avrebbe avuto a doversi considerare un idiota per permettersi di parlare in tal maniera.
« Qualcuno ha sparato?! Mi è parso di vedere sparare! » suggerì un altro, fra il nostro pubblico, dimostrando, nostro malgrado, maggiore attenzione rispetto a tutti gli altri.
« Ehy… ma questo tizio è morto! » intervenne l’ennesimo, cogliendo, malgrado l’oscurità lì predominante, la presenza di un cadavere a bordo, impossibile a dirsi quale dei due… o forse tre?... da noi già prodotti.
« Muoviti, dannazione… da questa parte. »

L’ultima frase, che mi raggiunse fra le molteplici di un frastuono nuovamente crescente, al crescere delle ipotesi, e del panico, che di istante in istante si stava diffondendo fra tutti i presenti, non avrebbe avuto a doversi considerare qual scandita tuttavia da una voce a me estranea, quanto e piuttosto da quella sempre apprezzata di Duva, la quale, afferrandomi con fermezza per il mio mancino, mi trasse di lato, trascinandomi per un istante in maniera quasi inconsapevole, nel disordine di quella situazione.
… capiamoci.
In quel momento, oltre alla difficoltà propria del comprendere cosa fosse accaduto, e, soprattutto, perché ciò stesse accadendo, in una perdita di controllo sulla situazione a me circostante alla quale non avrei potuto considerarmi abituata, nell’essere, piuttosto, solita mantenere sempre massima padronanza sulla realtà al centro della quale mi ritrovo a operare, anche nelle situazioni più caotiche; stavo facendo i conti con la mia prima ferita d’arma laser, la quale, benché non sanguinante, nella cauterizzazione immediatamente imposta dal medesimo colpo sulle mie carni, non avrebbe potuto né evitare di impormi un dolore a dir poco lancinante, né, parimenti, evitare di garantirmi, comunque, in tempi più lenti ma non meno inesorabili, la morte dalla quale ero ipoteticamente scampata nel momento stesso in cui, allorché tranciare la mia colonna vertebrale, il fascio si era limitato ad attraversarmi le budella. Perché, e di ciò ne ero mio malgrado già consapevole, se non avessi ricevuto quanto prima adeguate cure, il tessuto circostante quel foro avrebbe iniziato a necrotizzarsi e, nel contempo di ciò, a rilasciare in circolo all’interno del mio corpo delle tossine che, fondamentalmente avvelenandomi, mi avrebbero comunque condotto alla gloria dei miei dei… o, quantomeno, a scoprire quale dio o dea mi stesse effettivamente attendendo dall’altra parte.
In tutto ciò, quindi, il fatto che non avessi reagito con straordinaria prontezza di riflessi, né assoluta predominio sul mio corpo, oltre che sull’intero ambiente lì confusamente presente, non avrebbe avuto a doversi considerare qual una mancanza, da parte mia, realmente ingiustificabile, benché, ciò non di meno, avrebbe avuto a doversi riconoscere comunque qual imperdonabile nel momento in cui, da parte mia, fosse stata sprecata l’occasione utile a cavarmi fuori da quell’impiccio, per così come, altresì, allora offertami dall’operato delle mie compagne, oltre che dal sacrificio stesso del mio addome.
Forte di tale consapevolezza, ossia della necessità a cavarmi, quanto prima, fuori da quello sgradevole impiccio e da tutto ciò che esso non avrebbe potuto evitare di comportare a mio discapito, non opposi ovviamente alcuna protesta in conseguenza alle maniere spicciole adottate dalla mia compagna, benché, a denti stretti, non potei evitare, ancora una volta, di imprecare il nome della mia dea, per le dolorose contrazioni addominali che, in conseguenza anche ai più semplici movimenti, mi stavano allora venendo imposte, con mio ineluttabile rammarico. Un’imprecazione che, tuttavia, ebbe a perdersi nel frastuono nuovamente crescente della folla attorno a noi, e che, per questo, non permise né a Duva, né tantomeno a Lys’sh, già più avanti rispetto a entrambe, di apprezzare la mia allora attuale condizione. Non che, in verità, qualunque loro interesse in tal senso avrebbe potuto mutare lo stato delle cose, limitandosi, forse e peggio, a fornire loro una ragione di preoccupazione che, invece di permettere a quegli eventi di volgere a nostro vantaggio, avrebbe condotto, al contrario, a un generale rallentamento del nostro progredire, della nostra fuga, in misura tale da risultare, alfine, per noi complessivamente compromettente.
Sforzandomi, quindi, di offrire riprova non soltanto di quanto, a prescindere, la soglia del dolore di noi donne abbia a doversi abitualmente considerare superiore a quella di qualunque uomo, ma anche, e ancor più, quanto io avessi a dovermi comunque riconoscere non qual una donna comune, ma qual un guerriero, e un guerriero formatosi in un numero tanto vasto di battaglie tale per cui anche il confronto con un po’ di dolore… un po’ tanto, nella fattispecie, non mi avrebbe comunque posta fuori gioco; mi lasciai condurre il più silenziosamente possibile dalle mie compagne, attraverso la folla del vagone e, ben oltre a essa, nella galleria all’esterno del medesimo, là dove fuoriuscimmo da una porta aperta, provvidenzialmente, dal un nuovo intervento della giovane ofidiana su un altro pulsante, interruttore, leva o quant’altro nel merito dell’esistenza del quale, ancora, io non avrei potuto vantare confidenza. E laddove, quando alfine uscite all’esterno del treno, e ritrovateci a correre lungo una stretta banchina d’emergenza segnalata da poche, fioche luci, avrei probabilmente avuto ragione di sentirmi autorizzata a informare le mie compagne nel merito della mia condizione fisica, non tanto per invocare da parte loro un qualche sentimento di compassione, quanto e piuttosto per condividere con entrambe la necessità, non trascurabile, di trovare al più presto occasione utile a curarmi, prima che le mie condizioni potessero divenire spiacevolmente irreversibili; il guizzare, attraverso l’aria attorno a noi, di nuovi, e fortunatamente imprecisi, colpi di laser, mi convinse della necessità a trattenere ancora il fiato, e a concentrarmi sul dolore che già stavo provando, e sull’adrenalina che da esso stava per me derivando, al fine di non permettere a nuove, sgradevoli, fenditure, di aprirsi lungo la mia schiena, in quello che, altrimenti, da semplice errore umano, avrebbe potuto tramutarsi in un imperdonabile vizio, nei termini del quale, pur, non avrei potuto vantare alcuna masochistica volontà.

« Diamine… i tuoi amici hanno il grilletto facile, vecchia mia! » commentò Duva, cercando di sdrammatizzare la faccenda, nel mentre in cui, malgrado l’evidenza di tale offensiva, non contemplò neppure per un istante l’idea di rallentare il passo, per concedersi occasione di meglio analizzare la questione, incalzando, ulteriormente, il già rapido procedere di Lys’sh innanzi a lei e trascinando, parimenti, la sottoscritta, sempre dietro di lei « Si può sapere a chi altro hai pestato i calli in tempi recenti?! »

Dal momento in cui stava risultando sufficientemente evidente quanto alcuno di quei bei tipi alle nostre spalle fosse intenzionato a intavolare un qualche sereno dialogo con noi, preferendo prima sparare e poi concedersi, eventualmente, occasione di parlare; la scelta promossa all’unisono dalle mie compagne avrebbe avuto, allora, a doversi considerare la migliore, soprattutto nel confronto con l’evidenza di quanto, nostro malgrado, avessimo per inciso avuto a doverci considerare purtroppo disarmate.
Oltre a questo, poi, nella scelta compiuta da parte dei nostri antagonisti di compatte, e pur letali, armi laser, in luogo a più ingombranti armi al plasma o soniche; la precisione di tiro pretesa da una simile classe di fuoco non avrebbe potuto che volgere a nostro vantaggio nel momento in cui non avessimo concesso alle nostre stesse controparti occasione utile a concedersi un colpo accuratamente mirato, così come già, in quello stesso inseguimento, li stavamo costringendo a rinunciare, e così come già, nel crescere frenetico di raggi sempre meno prossimi alle nostre carni, alle nostre forme, si stava chiaramente dimostrando avvenire… per nostra fortuna!

domenica 24 novembre 2013

2109


« Sono… un esecutore… dell’ufficio dell’accusatore Pitra Zafral. » rispose l’altro, con una certa esitazione che, obiettivamente, avrebbe potuto essere imputata alla spiacevole condizione in cui si era venuto a ritrovare e alla sorpresa per la medesima, ma che pur, all’attenzione più esperta di Duva, almeno con quel particolare genere di questioni, venne a essere interpretata in altri termini… e in termini utili, allora, a permetterle di muovere obiezione innanzi a quell’affermazione, così come, sono sincera, io non avrei avuto cognizione di causa per potermi riservare opportunità d’azione, nel non avere neppure idea, in quel frangente, di cosa accidenti avrebbe potuto essere un esecutore.
« Menti! » contestò, quindi, la mia compagna, nel mentre in cui, in reazione a quell’accusa, gli artigli di Lys’sh fecero discreta comparsa alle estremità delle sue mani, spingendosi a far sentire la propria presenza sul braccio del nostro interlocutore, nell’affondare delicatamente nelle sue carni appena sopra al gomito, in misura sufficiente a strappargli un lieve gemito, oltre a un quasi impercettibile sussulto, dimostrazione di come, malgrado tutto, egli avesse a doversi riconoscere come qualcuno addestrato a fronteggiare un certo genere di situazioni e, soprattutto, le possibilità di dolore da essere potenzialmente derivanti « Un esecutore è costretto a identificarsi con nome e numero di matricola prima di procedere a un arresto… »
« … e tu non ti sei identificato in alcun modo. E continui a non farlo. » sussurrò l’ofidiana, stringendosi maggiormente a lui, tanto da concedersi la possibilità, oltre che attorno al suo braccio, di insinuare furtivamente i propri artigli anche a contatto con la sua schiena, a un’altezza pressoché equivalente rispetto a dove, poco prima, mi era stata proposta la sua ormai inutilizzabile arma.

Volendo essere obiettivi, sinceramente non so valutare per quanto, ancora, le mie compagne e io avremmo potuto permetterci di spingerci in là in quell’improvvisato interrogatorio senza attirare inopportune attenzioni da parte di eventuali testimoni, a dozzine lì attorno comunque presenti.
Ciò non di meno, alla Storia non è dato di conoscere come i fatti avrebbero potuto in tal direzione evolversi, dal momento in cui, nostro malgrado, quell’inchiesta non poté riservarsi alcuna opportunità di proseguire nei termini che, forse, ci avrebbero portato ad attrarre qualche attenzione di troppo da parte di qualcuno fra i presenti. Non laddove, con un nuovo colpo di polso, allora metaforico ancor prima che fisico così come era stato un attimo prima, per parti ebbero a doversi considerare ancora una volta invertite, nel vederci ritornare a essere, da predatrici a prede, e da inquisitrici a inquisite, da assedianti ad assediate, nell’avvertire, ognuna fra noi e simultaneamente, un corpo estraneo al centro della schiena… una nuova arma da fuoco lì premuta, nell’estremità della propria canna, allora non soltanto contro di me, ma anche a discapito delle mie compagne, le quali, pur, non erano state prese precedentemente in considerazione.

« A questo giuoco siamo capaci di prendere parte anche noi… » suggerì un’altra voce maschile, ancora una volta sopraggiungendo da dietro le mie spalle, là dove, il mio nuovo candidato carceriere aveva dimostrato sufficientemente ingenuità a porsi, soprattutto nel confronto con quanto pocanzi accaduto al proprio compagno.
« Se tutto ciò non avesse a doversi considerare particolarmente imbarazzante, potrebbe essere riconosciuto quasi divertente… » obiettò Duva, aggrottando la fronte e, nel compiere ciò, cercando di cogliere il mio sguardo con il proprio, per indirizzarlo verso un obiettivo che, evidentemente, dal suo punto di vista avrebbe avuto a doversi considerare importante, e che pur, almeno in quel primo istante, io non riuscii ad apprezzare qual tale, neppure ove in tal maniera quietamente servitomi « O, forse, solo grottescamente ridicolo…  »
« … chi siete?! » domandò Lys’sh, nel mentre di tale domanda pretendendo qual propria l’attenzione non soltanto dei nostri interlocutori ma, più che altro, di entrambe noi altre, Duva e me, facendosi carico di rispondere all’invito della nostra compagna e, in ciò, di accentrare allora su di sé, volontariamente, il compito che pur avrebbe dovuto essermi proprio, e nel confronto con il quale non mi ero pur dimostrata pronta, non difettando, in tal senso, di buona volontà, quanto e semplicemente, mio malgrado, di competenza e, nel dettagli, di competenza utile a comprendere il messaggio che avrebbe dovuto essermi in tal maniera destinato « … cosa volete da noi? » insistette a chiedere, nel mentre in cui, a mia imitazione, in quello stesso frangente tu lei che iniziò a scandire il tempo con il movimento delle proprie ciglia, in tre, perfettamente misurati, battiti.

Pur io stessa ancora ignorando, di preciso, cosa avrei dovuto attendermi al termine di quel conto, non mancò di essere mia premura quella volta a preoccuparmi dell’incolumità di Lys’sh allorché della mia, fosse anche, in quel frangente, qual giusto prezzo da pagare in cambio della disponibilità da lei resa propria a operare là dove io, pur, non ero arrivata a comprendere di dover operare.
Così, quando il conteggio si spinse al terzo battito, e con esso all’inizio di una nuova, fulminea, azione; con la mia destra non mi spinsi alla ricerca dell’arma puntata contro di me, quanto, e piuttosto, al cranio dell’ipotetico boia della mia compagna e amica, sul quale feci piombare tutta la violenza del mio pugno ben prima che egli potesse anche soltanto prendere in esame l’idea di aprire il fuoco. Un’idea che, altresì, non mancò di coinvolgere il mio nuovo, potenziale, carnefice, il quale, dimostrando meno autocontrollo di quanto non era stato in grado di compiere il proprio collega, premette il grilletto della propria arma, la quale fece fuoco rendendomi, dolorosamente, edotta nel merito della sua effettiva natura. E se, oggi, sono ancora qui, a offrire resoconto e testimonianza di quegli eventi, allorché innanzi al cospetto dei miei adorati dei, sempre ammesso di non essermi da sempre sbagliata in merito a questioni di ordine teologico, lo debbo, obiettivamente, soltanto al mio stesso gesto rivolto a preoccuparmi della salute della giovane ofidiana, e, parimenti, all’assassinio, senza esitazione alcuna, senza la benché minima incertezza, del suo possibile assassino; gesto in conseguenza al quale, il mio intero busto ebbe a traslare lateralmente, sottraendosi alla bocca di quell’arma quanto sufficiente da permettere al laser che da essa fuoriuscì, di limitarsi ad aprirmi un doloroso, dolorosissimo buco appena sotto il rene sinistro, allorché esattamente nel centro della spina dorsale, là dove, senza alcuna possibilità di sofferenza, si sarebbe semplicemente limitato a stroncarmi.

« Thyres! » imprecai, non trattenendomi dal gridare e neppure ipotizzando di trattenermi dal gridare.

E se, nell’esplodere di un cranio per effetto di un pugno di metallo abbattutosi come una mazza sul medesimo, nonché nel fuoco di un colpo di arma laser che, oltre ad attraversare la sottoscritta, si premurò anche di trapassare il centro nel petto del nostro primo ostaggio e, più in alto ancora, il soffitto del vagone su cui stavamo viaggiando, già sufficienti ragioni avrebbero allora dovuto essere per scatenare il panico fra la folla a bordo del treno; il risultato dell’opera di Lys’sh ebbe, paradossalmente, a coprire parzialmente gli effetti più disastrosi di quello scontro, nel distrarre l’attenzione di tutti nell’imporre su ognuno una ben diversa ragione di agitazione. Perché quanto io non avevo colto, né avrei potuto cogliere neppure nel momento in cui Duva si fosse impegnata a indicarmelo con un’enorme freccia disegnata su un cartello, avrebbe dovuto essere identificato, come scoprii allora ed ebbi possibilità di meglio comprendere soltanto in seguito, in un grosso pulsante rosso d’emergenza, volto a imporre l’arresto immediato del treno.
Un arresto che, secondo dinamiche a me del tutto, e ragionevolmente, sconosciute, ma con le quali le mie due amiche, invece, dovevano avere un minimo d’esperienza, utile a giustificare la loro immediata intesa sotto tale frangente, comportò non soltanto una brusca frenata, che, quasi, sbalzò ogni passeggero a gambe all’aria, ma, ancor più, l’immediato spegnimento di ogni traballante luce artificiale all’interno di quegli spazi, in favore di una serie di altri faretti minori posti in corrispondenza di ogni uscita disponibile, a migliore identificazione delle medesime per permettere, almeno nell’idea dell’inventore di tale sistema, una più semplice evacuazione del mezzo laddove necessario.

sabato 23 novembre 2013

2108


Se qualcuno inizia a considerarsi confuso sulla connessione esistente fra gli ultimi eventi narrati e i precedenti, in realtà temporalmente successivi; possa essere di rassicurazione sapere come, dal canto mio, io stessa ebbi a restare a lungo confusa sul reale significato da attribuire a tali accadimenti e al loro, eventuale, collegamento. Perché, se da un lato non avrei potuto vantare, a posteriori, la benché minima consapevolezza nel merito di quanto Milah Rica Calahab potesse desiderare da me; dall’altro non avrei potuto neppure considerarmi, neppure a posteriori, effettivamente conscia delle ragioni per le quali, da quel giro a bordo del treno sotterraneo, gli eventi iniziarono a precipitare a una velocità sempre crescente, sino a condurmi al cospetto di quella sadica ragazzina che tanto diletto ebbe a trovare nell’impegnarsi a uccidermi… e uccidermi più volte consecutivamente.
Possa quindi essere considerata la rissa in quel locale qual semplice preambolo utile a introdurre, né più né meno, questo viaggio nel treno sotterraneo, momento nel corso del quale, se non ebbe effettivamente ad avvenire qualunque cosa accadde per porre in moto l’intera questione, incidentale o meno che tal cosa avesse a doversi considerare, indubbiamente ebbe a essere, da parte mia e delle mie compagne, maturata la consapevolezza di essere state coinvolte in qualcosa di estraneo al nostro sì minimale, e pur già ricco programma per la giornata. Una consapevolezza che, personalmente, ebbi modo di apprezzare nel momento in cui avvertii un corpo estraneo, metallico e pur non affilato, premere prepotentemente contro la mia spina dorsale, non riuscendo, da parte mia, a essere immediatamente identificato nella propria natura, e, ciò non di meno, nel concedersi con tanta arroganza da non suggerire, comunque, nulla di buono. E anche laddove, all’epoca di quegli eventi, la mia confidenza con le armi da fuoco avrebbe avuto a doversi considerare ancora estremamente ridotta e superficiale; ciò non di meno non ebbi a dovermi sforzare particolarmente per riuscire a ipotizzare di averne una non semplicemente puntata, ma addirittura quasi conficcata, al centro della mia schiena.

« Sa cosa voglio… quindi, niente scherzi. »

Poche parole, quelle di avviso in tal modo scandite dal mio avversario, che vennero allora pronunciate con tono di voce incredibilmente contenuto, perfettamente misurato, in maniera tale da potersi addirittura smarrire nel frastuono collettivo pur sopraggiungendo, ineluttabilmente, al mio udito, posto allora in necessario allarme in conseguenza alla pressione appena imposta da quella minacciosa presenza. Poche parole che, probabilmente, l’uomo che le aveva appena scandite non aveva neppure preso in esame potessero lì essere recepite da altri al di fuori di me e che pur, nella propria particolare formulazione, anche laddove ciò fosse avvenuto, difficilmente avrebbero potuto creare una qualche situazione di panico generale. Perché, in quel momento, in quel particolare contesto, la calca all’interno del vagone era tale da trovare tutti ammassati contro tutti, tutti premuti contro tutti, conoscenti o estranei che essi potessero essere, in termini tali che, obiettivamente, ogni dettaglio avrebbe potuto perdere di concreto valore, ogni gesto, ogni parola pronunciata, avrebbe avuto a smarrirsi nella confusione lì imperante, includendo persino la presenza di un’arma abilmente celata dietro a un cappotto, sotto a un soprabito, e non sollevata, non distesa lontana da sé, così come, altresì, avrebbe potuto anche essere colta… seppur, magari, non immediatamente.
Al di là di tale contesto a contorno, per mia fortuna, per mia buona sorte, quanto il mio aggressore non aveva tenuto conto avrebbe dovuto essere considerato un trittico di fattori utili non soltanto a vanificare completamente ogni suo ipotetico sforzo, ma, anche, a porlo, proprio malgrado, nei guai.
Quali?!
Fattore primo: me stessa. Dopo essere stata minacciata da ogni genere di lama, e non solo, l’idea di ritrovarmi una pistola puntata dietro la schiena, sinceramente, non mi avrebbe potuto inquietare in misura maggiore rispetto all’idea di una qualunque altra arma, bianca o da fuoco che essa fosse. E, anzi, nel percepirne di preciso la posizione, mio avrebbe avuto anche a doversi riconoscere un certo, piacevole vantaggio tale per cui, proprio malgrado, il mio antagonista non avrebbe potuto che rimproverarsi aspramente, nell’ipotesi che egli avrebbe avuto, effettivamente, ancora qualche possibilità di muoversi critica alla conclusione di quel momento d’incontro e di scontro per così come da lui ricercato.
Fattore secondo: Lys’sh. Perché se pur, un orecchio umano, avrebbe potuto distinguere a stento quella minaccia e il tono proprio della medesima, a parte, ovviamente, per chi come me allora attratta nel proprio interesse, nella propria attenzione, da una solida ragione; nel confronto con l’udito ofidiano anche quel sussurro avrebbe avuto a doversi considerare perfettamente intelligibile. Tanto, quantomeno, da porre immediatamente la mia amica in allarme e da vederla, in ciò, rivolgermi immediatamente uno sguardo di preoccupata ricerca di chiarimento, al quale, semplicemente, risposi con un lieve annuire che, all’attenzione del mio ipotetico predatore, avrebbe comunque potuto essere interpretato qual un consenso in risposta alla sua quieta richiesta.
Fattore terzo: Duva. Perché, laddove né Lys’sh, né io, avremmo avuto a doverci considerare delle educande alla loro prima uscita all’aria aperta, tantomeno in tal misura avrebbe avuto a doversi confondere la nostra altra compagna, il completamento di quella nostra compatta, e pur già collaudata, squadra d’azione, alla quale non fu allora necessaria altra spiegazione al di fuori di un tocco delicato della mano di Lys’sh attorno al proprio polso, insieme a poche, semplici sillabe che il mio traduttore non ebbe possibilità di riadattare in alcuna parola nota, probabilmente perché neppure effettivamente pronunciate, e che pur, in un attimo, la informarono di tutto quanto ella avrebbe avuto necessità di sapere.
Tutto ciò che, quindi, mi fu necessario compiere, fu scandire un breve conteggio con le mie stesse palpebre, scandendo tre quieti battiti come segnale utile a sincronizzarci tutte quante, prima di agire… e di agire quasi, allora, avessimo a doverci considerare una sola, unica entità. Così, ben prima che al mio antagonista potesse essere concessa opportunità di elaborare quanto stava avvenendo, il tutto era già accaduto, ritrovandolo non soltanto intento a impugnare un’arma resa del tutto inutilizzabile da una tutt’altro che delicata pressione dei servomotori delle dita della mia nuova mano destra, che ne accartocciarono, completamente, la medesima estremità un istante prima piantatami nella schiena; ma anche, e ancor più, repentinamente circondato su ogni fronte da noi tre: io, rigiratami e a lui, allora, frontale; e Duva e Lys’sh mossesi, malgrado la folla, con straordinaria agilità sino a posizionarsi l’una alla sua destra e l’altra alla sua sinistra, leggermente arretrate.

« Innanzitutto… no… non so cosa vuoi. » commentai, qual replica innanzi alla richiesta precedentemente rivoltami, nel confronto con la quale, obiettivamente e sinceramente, non mi sarei potuta dire in alcuna misura confidente… persino meno che con l’uso della terza persona qual assurda forma di cortesia nei confronti di persone estranee, così come, da parte di quell’individuo, era avvenuto un attimo prima nei miei stessi confronti e nel mentre stesso della minaccia rivoltami « In secondo luogo… temo che tu abbia scelto la donna sbagliata da infastidire con il tuo bel gingillo. Che, per inciso, ha bisogno di essere portato a riparare. »
« … quindi, niente scherzi. » completò la voce di Lys’sh, quasi sibilandogli all’orecchio le medesime parole da lui prima pronunciate, a renderlo probabilmente in ciò edotto nel merito dello spiacevole errore di valutazione che si era concesso stolida possibilità di compiere.
« Chi sei…? Per chi lavori…?! » incalzò Duva, prestando a sua volta attenzione a evitare di alzare eccessivamente la voce, dal momento in cui, sino ad allora, nessuno attorno a noi sembrava essersi accorto di quanto stesse accadendo e, per quanto ci avrebbe potuto competere, ciò avrebbe avuto soltanto a considerarsi un risvolto positivo, nel concederci di mantenere il più possibile non soltanto l’anonimato, ma anche la discrezione che, a seguito anche dei troppo recenti eventi dei quali Lys’sh e io eravamo state protagoniste, avrebbe avuto a doversi considerare per noi non soltanto utile, ma addirittura indispensabile.

venerdì 22 novembre 2013

2107


« Immagino che tu non abbia ottenuto risultati migliori dei nostri, quindi… » ipotizzai, in replica a quelle parole che pur, obiettivamente, non avrebbero potuto trovarmi particolarmente sorpresa.

A differenza di ogni mio precedentemente sviluppato senso della misura, atto a suddividere il Creato in tre continenti, i continenti in un numero variabile di regni, e i regni in un numero ancor più variabile di province, con poche, grandi città al loro interno e un’infinità di cittadelle, paesini e insediamenti privi di nome ulteriormente sparsi nel territorio; il nuovo e decisamente più ampio concetto di Creato lì… qui offertomi ha a dover veder suddiviso l’universo in sistemi, i sistemi in pianeti e i pianeti… boh… non credo di aver ancora trovato una regola comune. Riferendomi a Loicare, pertanto e ciò non di meno, non stavo in alcuna misura volgendo la mia attenzione a una città o, persino, a un singolo regno, quanto e piuttosto a un pianeta intero. Un vasto pianeta, incredibilmente popolato, all’interno del quale, in qualche modo, avrei dovuto sperare di individuare il mio compagno, senza alcun riferimento su dove poterlo cercare.
Una passeggiata, nevvero?!
In effetti, almeno un piccolo riferimento, all’inizio di quella ricerca, ancora speravo di averlo. E speravo di averlo nella misura in cui volevo forzatamente considerare il mio amato Be’Sihl qual non mossosi dalla città nella quale, solo qualche settimana prima, era stata la fenice stessa ad abbandonarci, nudi, nelle vicinanze di un locale frequentato da marinai un gruppo dei quali, proprio in quel momento, avevano deciso di concludere la propria serata e, trovandomi innanzi a loro priva d’ogni velo, avevano ipotizzato di potersi approfittare dell’occasione a proprio piacimento, sicuramente complice una certa disinibizione alcolica.
Del resto, egli mi conosce. Obiettivamente è una delle persone che meglio mi conosce al mondo. E più di chiunque altro, pur posto in quel particolare frangente, pur ritrovandosi solo in un pianeta a sé completamente alieno, non avrebbe potuto negarsi solida consapevolezza di quanto, a costo di porre a ferro e fuoco l’intero Creato, nella propria concezione più ampia, presto o tardi, sarei tornata da lui. Perché, in vent’anni che ci conoscevamo, in vent’anni che avevamo affrontato insieme, prima come amici, poi, più o meno, come coppia, io ero sempre tornata da lui, qualunque cosa mi fosse successa, qualunque nemico mi si fosse parato innanzi. E così sarebbe stata anche quella volta. Così sarebbe nuovamente avvenuto. Ogni volta. Almeno sino a quando, ovviamente, egli non si fosse stancato di attendermi… eventualità che, necessariamente, non ero disposta neppure a prendere in considerazione. E che, obiettivamente, non sono neppure ora, né sarò mai disposta a prendere in considerazione.
Al di là, tuttavia, di quanto egli potesse essere allora in mia attesa, e di quanto impegno io avrei potuto rivolgere nel cercarlo, anche e soltanto riducendo l’area utile a quella città, a quell’immensa città ben più vasta di qualunque altra avessi avuto occasione di visitare nella mia intera esistenza, avrei potuto impiegare mesi, forse anni, nel tentativo di ritrovarlo. Motivo per il quale, per quanto avrei avuto ragione di che maledirmi per tale ammissione, non potei evitare di giungere a una resa di ordine psicologico, nel dichiararmi, mio malgrado, bisognosa della collaborazione dell’ultima fra tutte le creature, nell’universo intero e in ogni altro universo oltre al nostro, avrei avuto piacere di definirmi bisognosa…

« Inizio a credere che senza mio marito non riusciremo mai a trovarlo… » sospirai, nel mentre in cui, seguendo Duva e Lys’sh, ero salita a bordo di uno dei carri di quella strana carovana definita, in senso generico, qual treno, in effetti più qual azione passiva che scelta attiva, nel non poter ovviare a tale movimento una volta sopraggiunta su quella banchina, a meno di non voler commettere una strage in contrasto a tutte le persone che, nell’urgenza di sfruttare tale mezzo di locomozione, si stavano lì accalcando in maniera a dir poco asfissiante e claustrofobica « … e, sinceramente, non so cosa mi fa più ribrezzo fra l’odore di rancido proveniente dalle ascelle del tizio qui accanto o questo pensiero. » soggiunsi, con tono opportunamente moderato, più come battuta in favore della mia amica ofidiana che perché in qualche modo realmente colpita dalla puzza di sudore stantio lì presente, in fondo non più sgradevole di molti altri odori con i quali mi ero ritrovata ad avere a che fare nel corso della mia esistenza.
« Non conosco tuo marito… ma dubito che possa essere peggio di questo. » replicò ella, ovviamente sottovoce, e con una mano posta innanzi al volto, a cercare di proteggere, seppur vanamente, il suo particolarmente sviluppato senso dell’olfatto che, in quel momento, non avevo dubbi, la stava torturando in misura tutt’altro che banale « C’era meno fetore nelle gallerie sotterranee della prigione sulla terza luna di Kritone, rispetto a qui… »
« … perché lì, quantomeno, una doccia al giorno se la facevano tutti. » si concesse occasione di ironizzare, insieme a noi, anche Duva, aggrottando la fronte « E per quanto riguarda il discorso di tuo marito, benché ancora mi risulti complesso accettare quanto ci hai raccontato, sei sicura di non riuscire in alcun modo a contattarlo?! »

Paradossale, in verità, avrebbe avuto a doversi considerare quel mio sentimento di bisogno nei confronti di Desmair, soprattutto nel considerare per quanto tempo mi fossi altresì impegnata a cercare di eliminare ogni qual genere di rapporto fra noi.
In effetti, anche soltanto nel nominarlo, una parte della mia mente avrebbe avuto a doversi considerare già rassegnata all’idea di scorgerlo innanzi a me, ossessiva immagine spiacevolmente presente sotto al mio sguardo nei momenti meno opportuni, e pur, dal suo punto di vista, necessari a ricordarmi quanto non mi sarei mai potuta realmente liberare della sua presenza, quanto non mi sarei mai potuta realmente emancipare da lui e dal giuramento che a lui mi aveva legato, scioccamente, nel giorno del nostro matrimonio, il peggiore errore di valutazione della mia vita. Ciò non di meno, e probabilmente proprio perché consapevole di quanto, allora, stessi attendendo tale manifestazione, egli si premurò ancora una volta con attenzione dal mostrarsi a me, deludendo l’unica, folle aspettativa che mai avrei potuto riservarmi in merito al suo rientro nella mia esistenza quotidiana.

« … non ho mai avuto necessità di contattarlo. » ammisi, quindi, in replica a Duva, scuotendo appena il capo per scacciare dalla mia mente quell’emozione di insensata delusione all’idea di non essermi ritrovata a confronto con il suo brutto muso all’interno di quel già sin troppo affollato vagone « Né, sinceramente, ho mai avuto intenzione alcuna in tal senso… » precisai, storcendo le labbra verso il basso a contorno e completamento di simile asserzione « … in effetti, l’unica volta che mai l’ho cercato, è stata al fine di sospingermi alla resa dei conti con lui. Salvo poi ritrovarmi da lui coinvolta in una personale battaglia contro il suo poco adorabile padre e tutti i peggiori mostri dei quali la sua pur scarsa fantasia gli aveva permesso di circondarsi. »
« Sai… a volte tendo a dimenticarmi da che razza di pianeta tu provenga… » rispose la mia compagna, non negandosi l’opportunità di inarcare un sopracciglio, in destro, con fare critico a mio discapito nel confronto con quell’ultima mia asserzione, in direzione del ricordo del defunto dio Kah « E quando, alfine, me lo rammento, rimembro anche per quale motivo io preferisca evitare di ricordarmelo. »
« Rammentare, rimembrare e ricordare… diamine! Il traduttore sta facendo gli straordinari oggi! » non potei evitare di sorprendermi, nel confronto non soltanto con una serie di traduzioni apparentemente esatte, o che, per lo meno, tali ora sovvengono alla mia memoria, ma anche, e soprattutto, per una tal varietà di sinonimi, in termini tali da suggerire una sempre migliore integrazione con la mia lingua natale, la sola sulla quale, da quando ero stata posta a confronto con una tale tecnologia, mi ero impegnata a parlare, per evitare di creare maggiori difficoltà a quel già non sempre efficiente, e pur mai meno che straordinario, dispositivo.
« Evidentemente i crediti che abbiamo pagato a quel topo da laboratorio di Farco non sono stati poi spesi del tutto inutilmente… » sorrise, cercando, mio pari, di cogliere qualche risvolto positivo, tale da non permetterci eccessiva occasione di facile depressione, innanzi a tutto il resto « Almeno questo! »

giovedì 21 novembre 2013

2106


« Maledizione, Midda! »

Permettetemi di presentarvi, per coloro che già non la conoscessero, l’affascinante Duva Nebiria: mia amica e, formalmente, mio nuovo datore di lavoro, mecenate avrei detto un tempo, nell’avermi permesso di essere assunta a bordo della Kasta Hamina, nave di classe libellula per metà di sua proprietà, qual capo della sicurezza dell’equipaggio agli ordini di capitan Lange Rolamo, il suo ex-marito, nonché proprietario dell’altra metà della succitata… per quanto tutto ciò potrebbe risultare particolarmente complicato da gestire.

« Che c’è, questa volta…?! » commentai, non negandomi l’occasione, addirittura, di sbuffare innanzi a lei, riservandomi persino sufficiente faccia tosta da risultare quasi credibile in quell’interpretazione da inconsapevole vittima delle circostanze.
« Mi avevi promesso che avremmo evitato problemi, questa volta…! » replicò, facendomi il verso e, in ciò, ponendo inevitabile e legittimo accento su quella mia garanzia concessale in maniera forse eccessivamente ottimistica, innanzi all’evidenza di quanti problemi, pur, non avessi mancato di creare, nell’intreccio di corpi, in effetti comunque ancora tutti vivi se pur non in ottima salute, che avevo prodotto al termine di quell’acceso diverbio in merito alla possibilità di Lys’sh di poter entrare, o meno, all’interno del locale.

Non fossimo state allora impegnate a correre, e a correre nella folla di una delle molteplici e sempre caotiche vie della città, nella speranza di far perdere le nostre tracce prima che le forze dell’ordine di Loicare potessero individuarci e riconoscerci per quello che ci avrebbero considerato essere, sarebbe stata mia premura ironizzare in qualche modo sulla necessità di fermarmi un attimo a prendere un appunto sulla necessità di non impegnarmi in ulteriori, e troppo generose, promesse volte a escludere, da parte mia, qualunque nuova occasione di guai, o problemi, o, anche e soltanto, scaramucce che dir si volesse.
Purtroppo, in quel momento, in quel frangente, ove le nostre identità fossero state riconosciute dalle autorità locali, a dir poco ineluttabile sarebbe stato tramutare quella questione minore, qual pur quella lite non avrebbe potuto che continuare ad apparire ai miei occhi, benché già fossi stata una volta incarcerata per la medesima ragione, in un problema di ordine decisamente maggiore, per non dire preoccupante. Perché, obiettivamente, neppure con il massimo impegno a fingermi ingenua e inconsapevole nel merito della realtà a noi circostante, avrei potuto ignorare quanto, allora, le forze dell’ordine di quel pianeta bigotto avrebbero colto, nell’osservarci: tre evase, ricercate e latitanti, da catturare con ogni mezzo, fosse anche, e soltanto, per una questione di principio, nella necessità di dimostrare quanto alcuno avrebbe potuto opporsi al potere dell’omni-governo lì imperante.

« Non è stata colpa mia… » mi limitai quindi a tentare di obiettare, senza in verità porre particolare impegno in tal senso, continuando a muovermi con passo rapido e deciso  in coda la nostra comune compagna ofidiana, chiudendo la nostra piccola colonna « Hanno iniziato loro aggredendo Lys’sh. E io, come capo della sicurezza, non avrei mai potuto permettere a un membro del tuo equipaggio di restare ferito per il sollazzo di una banda di… »
« Punto primo: su questo pianeta siamo delle ricercate. Punto secondo: abbiamo ancora da recuperare i tuoi effetti personali, a cui tanto tieni, e il tuo compagno, a cui spero che tu altrettanto tenga. Punto terzo: ho già dovuto litigare non poco con quel vecchio brontolone di Lange per riuscire a concedere a te e a Lys’sh un periodo di prova, arrivando persino a giocarmi la carta del cinquanta per cento di proprietà della nave. » riassunse, interrompendomi, a beneficio collettivo, ma soprattutto mio, benché alcuno di quei concetti avrebbe potuto considerarsi per me ignoto « Posso comprendere, e lo sai che è così, ogni ragione da te addotta… ma l’ultima cosa che ci serve, ora, è rischiare di ritrovarci con ogni dannato militare di questo pianeta impegnato a darci la caccia. Soprattutto per colpa di un diverbio da bettola di infimo ordine! »
« In verità quel posto non mi sembrava poi così male… frequentazione a parte. » insistetti nell’ironizzare, per quanto, forse, a totale sproposito, soprattutto innanzi a quello che, chiaramente, avrebbe avuto a doversi considerare qual un momento di rimprovero a mio discapito.
« … Midda! »
« Per quello che vale, ogni responsabilità di Midda è anche mia. » intervenne Lys’sh, cercando di difendermi e dimostrandomi, ancora una volta, tutta la propria fiducia e amicizia, benché, a conti fatti, non avrebbe avuto alcuna ragione per farsi gratuito carico di quella responsabilità e pur, in tal senso, probabilmente operando per le medesime ragioni che avevano sospinto me a prendere le sue parti in precedenza « Oltre a esserne stata indirettamente la causa, anche io ho preso parte alla rissa. »

Trattenendosi dal concedersi una grassa risata probabilmente in sola conseguenza alla necessità di proseguire senza distrazioni in quella concitata corsa, la nostra inquisitrice, che pur, in altri contesti, aveva dimostrato di essere non meno rissosa e interessata a ricercare rogne rispetto a noi altre, forse la sola persona che, sotto tale profilo, avessi avuto l’occasione di incontrare nella mia intera esistenza qual obiettivamente considerabile al mio pari; Duva si era lì limitata a concederci un fuggevole sorriso nel mentre in cui, scuotendo il capo, ci aveva parimenti invitate a lasciar perdere la questione o, quantomeno, a non insistere in quella direzione che pur non ci avrebbe condotto ad alcun risultato degno di lode.

« Conservatevi le giustificazioni per la lavata di capo che arriverà a tutte noi una volta ritornate a bordo della Kasta Hamina. » ci suggerì alfine, nel mentre in cui, ridiscendendo lungo un’affollata gradinata, si diresse verso quello che avevo scoperto essere un mezzo di trasporto sotterraneo particolarmente utilizzato in quella città e, più in generale, in quel mondo, benché, in conseguenza ai limiti del traduttore automatico nel ritrovare delle parole idonee all’interno del mio vocabolario, non ne avessi ancora compreso di preciso il nome comune, l’appellativo idoneo con il quale a esso rivolgermi « Ora quello di cui dobbiamo preoccuparci sono dei primi due punti. E se, nel merito del secondo, non stiamo avendo troppo successo… nel merito del primo rischiamo di ritrovarci anche in una situazione peggiore. » si volle quindi concedere occasione di riordinare le nostre priorità, anche soltanto a livello formale laddove, in termini sostanziali, non vi fosse ragione di dubbio in tal senso né da parte di Lys’sh, né, tantomeno, da parte mia.

Che la ricerca di Be’Sihl si stesse dimostrando meno semplice del previsto, soprattutto nel considerare quanto, fra me e lui, avrebbe dovuto essere ritenuta qual esistente la mediazione offerta dal mio mai adorato sposo Desmair, era una verità purtroppo palese.
Una verità palese che, in effetti e non senza una giusta ragione di irritazione, avrebbe dovuto essere riconosciuta qual tale proprio e innanzitutto in conseguenza all’assenza di collaborazione da parte del mio stesso mai adorato sposo Desmair. Perché egli, dopo avermi dato il tormento in maniera quasi costante per tutto il periodo in cui, insieme a Duva e a Lys’sh, ero rimasta spiacevolmente ospite del già citato campo di lavoro nel quale, almeno innanzi al giudizio dell’omni-governo di Loicare, avrei ancora dovuto essere rinchiusa, per le succitate ragioni; sembrava aver deciso di interrompere ogni comunicazione con me… in una scelta che, nel migliore dei casi, avrebbe dovuto essere giudicata qual volta semplicemente al fine di potermi indispettire nel mantenermi a distanza dal mio compagno o, peggio, di poter guadagnare tempo utile a concedersi la possibilità di divenire, all’interno della sua testa e del suo corpo, una personalità preponderante. E anche laddove egli stesse solamente cercando di indispettirmi, mi spiace doverlo ammettere, ci stava indubbiamente riuscendo. E riuscendo bene.

mercoledì 20 novembre 2013

2105


« Ora… cosa?! » intervenni, fiondandomi dritta in contrasto a colui che, in tal maniera, stava allora esprimendosi « Avanti… spiegamelo, perché sono davvero curiosa. »

Parentesi esplicativa.
Il fatto che, poc’anzi, abbia premesso e sottolineato la superiorità, fisica e morale, di Lys’sh a tutto quello non ha a doversi considerare una mera cortesia in suo favore, a difenderne preventivamente il valore malgrado successivamente vi sia stato, da parte mia, il massimo impegno al fine di trattenerla estranea a quello stesso conflitto, al di fuori di quella rissa, per così come anche, ora, potrebbe essere fraintesa la mia volontà. Perché tanta pur sincera dedizione, tanta pur indubbia e devolta volontà in sua protezione, a sua tutela, a sua difesa, avrebbero allora avuto a doversi considerare sotto un profilo di ordine squisitamente pratico: quello atto a preservarla da inutili e pericolosi coinvolgimenti che, in maniera persino troppo sbrigativa, l’avrebbe vista esposta a una possibile posizione di torto anche laddove, obiettivamente, alcun torto le avrebbe potuto essere allora suggerito se non quello di essere lì giunta, proprio malgrado, nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Che ella potesse essere in grado di sbrigarsela da sola, a confronto con quegli imbecilli, non avrebbe avuto a doversi considerare posto in dubbio. Che ella avesse da essere lasciata sola a sbrigarsela a confronto con quegli imbecilli, altresì, avrebbe avuto a doversi considerare il mio più sincero interesse in quel momento. Perché non sempre il poter compiere un gesto ha a doversi considerare legittimazione utile a compierlo. E non sempre la consapevolezza che una propria amica possa essere in grado di compiere un gesto ha a doversi considerare legittimazione utile ad abbandonarla nel confronto con esso, disinteressandosi delle conseguenze del medesimo. Forse ella avrebbe potuto avere ragione di che rimproverarmi per l’eccessiva libertà che mi ero riservata nel volermi a lei anteporre, sollevandola in maniera più o meno esplicita da ogni onere di sfida con quella banda di idioti. E, forse, effettivamente, ella mi avrebbe poi effettivamente mosso critica per tale ragione, benché ora non sia mio interesse anticipare quanto accadde per non rovinare il piacere della scoperta. Ma in quel momento, in quel frangente, e nel considerarmi sua amica, e per questo interessata al suo bene ancor prima che al bene del suo orgoglio personale, null’altro avrei potuto riservarmi che quell’ingerenza, quell’intromissione, sicuramente a sproposito, e pur volta alla tutela dei suoi interessi e della sua libertà, nel nome dell’affetto che, pur conoscendola ancor da troppo poco, già provavo nei suoi riguardi.
Fine della parentesi esplicativa.

« Ora… cosa?! » intervenni, quindi, decisa ancora una volta a frappormi fra qualunque suo possibile antagonista e lei, ovviandole ogni necessità di ingaggio con tutti loro « Avanti… spiegamelo, perché sono davvero curiosa. »

E malgrado l’invito così formulato, non fu mio interesse concedere né a quell’individuo, né ad alcun altro dei suoi compari, la benché minima opportunità di esprimersi in termini più approfonditi, impegnandomi a porli a tacere prima che, con la propria stolidità, potessero conquistarsi l’occasione di irritarmi più del dovuto e, in tal senso, convincermi dell’inutilità a volgere loro una qualsivoglia premura nel non negare comunque loro la speranza di una nuova alba.
Anticipando, pertanto, qualunque genere di replica a quel mio incitamento, mirai dritto al volto dell’interrogato con un gancio che, non per vantarmi, avrebbe avuto ragione di restare impresso a lungo nella sua storia personale, nella perfezione del tragitto per così come tracciato nell’aria e, ancora, nella precisione assoluta della scelta del punto d’impatto. Ciò non di meno, proprio in conseguenza a tal gesto, ben poca possibilità di memoria nel merito del medesimo avrebbe potuto essere conservata dalla mia controparte, la quale, proprio malgrado o, più probabilmente, propria fortuna, ebbe allora a piombare in maniera rapida e decisa fra le braccia del proprio dio del sonno, qualunque fosse il suo nome.

« Avanti il prossimo! » incalzai, decisa a proseguire a oltranza almeno sino a quando mi fosse stato garantita della materia prima con cui operare.

Materia prima che, nel dettaglio, ebbe immediatamente la premura di offrirsi nelle sembianze di un altro sprovveduto, al mio sguardo non diverso dai propri compagni, e che pur, evidentemente, volle giudicare se stesso attribuendosi maggiori speranze di quante non avessero visto qual proprie tutti gli altri, a partire da quello che, probabilmente, ritenne un corpo più robusto, meglio piazzato di coloro che già erano stati da me pur delicatamente, e caritatevolmente, abbattuti, per quanto non uccisi. Ma se pur, forse, nel confronto con i canoni lì presenti, quell’individuo avrebbe avuto ragione di considerarsi più grosso e intimidatorio di altri; innanzi all’evidenza di coloro con i quali io avevo avuto precedente occasione di confronto, fosse anche in semplici risse da osteria nel mio pianeta natale, egli avrebbe avuto a doversi considerare ben scarna minaccia, innanzi alla quale non concedermi neppure una pur minimale ipotesi di agitazione…
… non che, in effetti, me ne sarei concessa neanche nel confronto con qualcuno ancor più imponente di lui, così come, del resto, non me ne ero mai riservata nemmeno innanzi alle trecentotrenta libbre per sette piedi di altezza del mio sposo.
Definito ciò, quindi, in conseguenza al tentativo di arresto che egli mi volle imporre, cogliendomi alle spalle e chiudendo una coppia di forti braccia attorno al mio busto, ancora una volta fu mia premura quella di offrire uno scontro quanto più possibile onesto nel non ricorrere alle potenzialità del mio arto in chiaro metallo cromato, ma nel limitare ogni mia reazione a quanto avrei potuto compiere anche in assenza di simile beneficio. Come, per mera esemplificazione pratica, in deciso movimento della nuca verso il suo naso, troppo generosamente espostosi, in tal ravvicinata presa, a ogni mia possibile aggressione. E laddove, non diversamente da menare un pugno, anche tirare un simile colpo avrebbe avuto a doversi considerare un’arte, soprattutto nel riuscire a imporre danno senza, paradossalmente, riportarne di peggiore; negli anni trascorsi a combattere in ogni angolo del mio mondo natio, avrei potuto considerarmi formata a un’ottima scuola, tale da avermi concesso esperienza artistica sufficiente a potermi esprimere in molteplici stili differenti. Motivo per il quale, pertanto, anche laddove da parte mia non vi fu alcuna ragione di ingiuria, risultato ben diverso fu per quell’audace aggressore, il quale venne in tal pratica maniera istruito ai pericoli conseguenti ad approcci eccessivamente poco ponderati nei propri sviluppi, nelle proprie conseguenze, qual, chiaramente, anche quello era stato, nel condurlo a un’abbondante, e pur non irrimediabile, perdita di sangue dal naso e su tutto il viso e parte del proprio busto, nonché a uno spavento invero anche maggiore, e tale da costringerlo a vanificare l’impegno sino a quel momento dimostrato, nel liberarmi, repentinamente, dalla morsa impostami, quasi fossi allora e improvvisamente divenuta simile a un tizzone incandescente, impossibile a trattenersi un solo, ulteriore istante.

« Il prossimo! » pretesi nuovamente, invocando a gran voce il proseguo di quello scontro, con chiunque fosse stato abbastanza impetuoso da rispondere immediatamente a quel mio invito, a quella mia provocazione, in tal direzione sospinto più dalla propria pancia che dalla propria testa, in una metafora probabilmente grezza e alla quale, pur, non mi sento di associare, obiettivamente, alcun riferimento all’istinto o all’intelletto, laddove, se di istinto si sarebbe voluto lì disquisire, sarebbe stato istintivamente opportuno, per tutti loro, ritrarsi a giusta distanza, allorché continuare a gettarsi ciecamente in mio contrasto « Forza, che non ho tempo da perdere… il mio compagno mi sta aspettando! »

martedì 19 novembre 2013

2104


« Questa ce la paghi, rossa! »

Nota a favore del gruppo di sprovveduti.
Malgrado ogni sacrosanta ragione utile a garantirmi la possibilità di malmenarli, a differenza dei più, della maggior parte di tutti coloro gli altri che, nel corso della mia esistenza, si erano, e si sono ancora dopo di loro, posti in mio contrasto, quell’assemblea di miei estemporanei antagonisti non si era sbilanciata a definirmi con epiteti poco cordiali, quali cagna, vacca o altre declinazioni simili, limitandosi a fare riferimento a me a partire dal colore dei miei capelli. Quello stesso colore che, dopo troppi anni forzatamente condotto ad apparire forzatamente qual nero corvino, per tentare di distinguermi dalla mia gemella, aveva allora recentemente ritrovato la propria naturale tonalità, assumendo, fra l’altro, un taglio decisamente più ordinato rispetto al consueto ammasso con il quale, un po’ per pigrizia, un po’ per comodità, mi ero da sempre mostrata, nel mostrarsi corti, estremamente corti, sicuramente penalizzando, in parte, la mia femminilità, e pur concedendosi, parimenti, particolarmente comodi e pratici, non soltanto da mantenere ma, anche e soprattutto, da recare seco in una battaglia, nel non offrire appigli di sorta a proprie eventuali controparti.
Al di là di quanto, tuttavia, avrebbero potuto anche conquistarsi, alla luce di tutto ciò, la mia simpatia; il pregiudizio dimostrato a discapito di Lys’sh, in effetti esteticamente fin troppo simile a molti dei mostri a cui, sul mio pianeta natale, ho dato la caccia e ho ucciso, e che pur, ciò non di meno, si era già dimostrata meritevole di tutta la mia stima e della mia fiducia, non avrebbe potuto garantire loro, da parte mia, alcun genere di benevolenza. Così, rossa o cagna che fossi allora chiamata, io agii. E agii allo scopo di impartire loro una profonda lezione di umiltà e, ancor più, di apertura d’animo innanzi a ogni qual genere di diversità, nell’affidare alle azioni, ancor prima che a caratteristiche di mero ordine fisico, ogni giudizio sul proprio prossimo, fosse questi umano o, ancor più, non umano… o, quantomeno, non del tutto.

« Venite a presentarmi il conto… »

Il primo a confrontarsi con tale mio insegnamento, e con il particolare metodo utile a impartirlo, ebbe a doversi riconoscere un ragazzo nel confronto con il quale i miei quarant’anni mi fecero sentire, se possibile, ancor più vecchia di quanto già non mi sentissi essere, nel poter vantare, a conti fatti, un’età persino inferiore a quella che, all’epoca, avrebbe dovuto essere conteggiata quella del mio scudiero, di quel ragazzo che, per conquistarsi il diritto di affiancarmi nelle mie imprese, era stato capace di rimettere in giuoco la sua intera esistenza e che, con un sorriso nostalgico, non avrei potuto che ricordare con un affetto se non materno, comunque sororale. Ma, sebbene quel ragazzo, praticamente poco più di un bambino, almeno al mio sguardo, non avrebbe potuto ovviare a rievocare in me l’immagine del mio scudiero, fosse anche e soltanto per la propria giovane età, non per tale ragione si vide concessa maggiore clemenza rispetto a quanto non ne avrebbe potuta attendere dimostrando un diverso grado di maturità, laddove, da parte mia, non vi fu la benché minima esitazione a distinguerlo chiaramente da chi, del resto, mai aveva avuto trascorsa ragione di aggredirmi o, anche e semplicemente, di mancarmi di giusto rispetto, al contrario, persino, esagerando eccessivamente in tal senso nel continuare ad appellarsi a me qual sua signora.
In ciò, ove una sedia in metallo venne sollevata dal mio primo, audace e forse eccessivamente impetuoso antagonista, al solo scopo di impiegarla qual arma a mio discapito, e, probabilmente, in decisa opposizione al mio arto metallico con il quale non avrebbe potuto evitare di prevedere mi sarei difesa, mi sarei protetta a fronte di tale forse scarna strategia, ma non per questo potenzialmente meno efficace; la mia stessa nuova protesi cromata non poté negarsi occasione di soddisfare simile attesa, non schierandosi, tuttavia, semplicemente quale scudo sopra la mia testa, quale barriera fra quell’oggetto contundente, quella clava improvvisata e il mio cranio, preferendo, addirittura, concedersi occasione di afferrarla nel mentre della propria ricaduta e, in ciò, trattenerla saldamente a sé, garantendomi, nel contempo di tutto ciò, possibilità utile a direzionare il mio pugno mancino dritto alla base del plesso solare del mio ancor unico avversario, per privarlo di fiato e, in ciò, probabilmente di ogni ulteriore possibilità di intervento in una questione che pur non lo avrebbe dovuto considerare qual positivamente, ulteriormente coinvolgibile.
In tal modo colto in contropiede, e in una certa misura persino sconcertato per quanto accaduto, al ragazzo non poté essere istintivamente suggerito null’altro che l’abbandono di quell’improvvisata arma e, subito dopo, la ricerca di un’occasione di respiro, per come pur, allora, non avrebbe potuto sentirsi addirittura a disagio compiere.

« … » volle tentare, egualmente, di muovere le labbra, non producendo probabilmente nessun suono che il mio traduttore automatico fosse in grado di comprendere, o, quantomeno, fosse in grado di offrire alla mia attenzione qual un commento effettivamente intelligibile, soprattutto in una lingua a me nota e apprezzata.

Nel contempo di ciò, forse in tal senso animato dalla speranza che la mia attenzione fosse distratta da tale sviluppo, o forse in tutto ciò semplicemente sospinto da un’ispirazione estemporanea, volta a caricarmi nella maniera più stolida, barbara e primordiale, ignorando, proprio malgrado, quanto pur io avrei dovuto essere giudicata, fra tutti loro, indubbiamente più primordiale e, forse, anche più barbara di quanto mai avrebbero potuto scioccamente sperare di dimostrarsi; altri due astanti tentarono di giocarsi la carta della superiorità numerica nel cercare di prendermi, l’uno da destra, e l’altro da sinistra, non tanto per un’effettiva aggressione, quanto e piuttosto per impormi una sorta di blocco, una morsa, utile a garantire ai propri compagni di completare l’opera sotto un profilo probabilmente più pratico. E benché finanche troppo semplice sarebbe allora potuto essere per me sfruttare il mio nuovo arto destro, quella protesi capace di straordinaria forza e, in quel frangente, persino generosamente ornata dalla presenza non sgradevole e non priva di potenziale utilità della sedia generosamente donatami dal mio primo supposto avversario; scelsi di concedere loro una pur minimale, probabilmente illusoria e pur mai gratuita speranza di successo, forse qual inconscio compenso per la mancanza di facili volgarità a mio discapito, sebbene si fossero parimenti guadagnati tutta la mia più sincera condanna per il pregiudizio rivolto all’indirizzo della mia amica. Così, allorché spazzarli dal mio cammino con la stessa indifferenza che avrei potuto rivolgere a dei moscerini fastidiosi, nel poter contare su una forza utile a sollevare in tutta tranquillità almeno mille tonnellate di peso e nel non conteggiare, fra i presenti, alcun bisonte forte di una simile, sproporzionata massa, di una tanto eccessiva mole; appoggiai la sedia a terra e, nel momento stesso in cui essi mi furono contro, la impiegai come punto d’appoggio per proiettarmi in aria, improvvisata scaletta per spingermi verso il soffitto sopra le nostre teste, in un agile balzo carpiato che, malgrado la mia non più giovane età, riuscì a essere condotto a compimento con tale eleganza da non suscitare, semplicemente, lo stupore delle mie controparti, ma anche un moto di esultanza da parte della mia alleata e, persino, di qualcun altro fra il pubblico lì attorno pur presente e pur impegnato, passivamente, a seguire l’evolversi della vicenda.
Non contro di me, in conseguenza a tale scelta, ebbero a schiantarsi i due di cui sopra, ma l’uno dritto contro l’altro, addirittura inciampando nella sedia da me lasciata alle mie spalle e, in ciò, ruzzolando rumorosamente e grottescamente al suolo, anche se lesi ancor più nella propria dignità, nel proprio orgoglio, che nei propri corpi. E se l’effetto comico ebbe a doversi considerare persino innaturale, tanto ebbe a in tal maniera a trovare naturale enfasi; il risvolto tragico sembrò, comunque, essere promesso qual presente subito dietro l’angolo, nella collettiva disapprovazione di tutta quella schiera di facinorosi a discapito dell’entusiasmo dimostrato da Lys’sh in mio favore…

« Maledetta chimera… non soltanto ti nascondi vigliaccamente dietro la tua amica ma, anche, ti prendi giuoco di noi?! » si concesse occasione di protestare una voce nel gruppo « Se pensi che il tuo brutto muso verde ti salverà da noi, puoi anche scordartelo… » minacciò insistendo « Avresti dovuto strisciare fuori da qui finché ancora ne hai avuto l’occasione. Perché ora… »