11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

sabato 30 novembre 2013

2115


Il primo a morire, a differenza di quanto i più potrebbero ipotizzare, non fu per effetto di una carezza della mia mano in metallo cromato. Come del resto da sempre era stata mia abitudine anche nel rapporto con la più grezza precedente, in nero metallo dai rossi riflessi e animata per effetto della stregoneria, anche alla mia nuova protesi, alimentata dalla straordinaria energia dell’idrargirio, delegai infatti un ruolo volto alla protezione della mia già sufficientemente provata integrità fisica, muovendola con rapidità, decisione e assoluto controllo a impossessarsi dell’arma stessa della mia prima vittima, per distruggerla al fine di ovviare agli effetti negativi di un qualche nuovo colpo accidentale. Così, nel mentre in cui le instancabili, potenti e pur affusolate dita di questa mia nuova, e più che apprezzata, estremità, si richiusero attorno alla canna di qualunque cosa avesse a doversi identificare la minaccia lì allora presentatami, per frantumarla senza il benché minimo sforzo sotto l’azione di piccoli e straordinari servomotori; alla mia mancina delegai l’onere di porre fine a quell’esistenza, senza troppe possibilità di giuoco, senza alcuna particolare e sadica possibilità di distrazione e di dilunga mento, ma solo, e semplicemente, agendo a intrappolare, sotto la punta delle mie dita, l’intera gola della mia preda, affondando con freddo autocontrollo nella sua carotide, così come nella sua giugulare, e tutto strappando di quanto riuscii ad afferrare, con un gesto deciso, in conseguenza al quale, addirittura, neppure ebbe sostanziale possibilità di impegnarsi a gridare.
Con le dita della mancina grondanti sangue e altra linfa vitale, strappata a forza dalla sua gola insieme all’esistenza stessa di quel malcapitato, e quelle della destra ancora serrate attorno ai resti di un’arma ormai inutilizzabile nelle proprie capacità di fuoco e, ciò non di meno, ancora perfetta in quanto oggetto contundente, mi rigirai rapida verso due nuove prede, ignorando, andando contemporaneamente a colpire, con un montante mancino diretto al plesso solare, colui che avevo deciso di mantenere per ultimo, al fine di porlo fuori giuoco, nel mentre in cui, con la destra, infransi, letteralmente, il cranio di un altro disgraziato, con impeto tale, nell’ancor non piena confidenza con la forza del mio nuovo arto, che, quasi, lo ebbi allora a decapitare di netto, ancor più che, semplicemente, a infrangergli le ossa. E se, nel compiere tale azione, avrei potuto esporre, sciaguratamente, le mie compagne a possibili ritorsioni, fu premura di Duva, già al momento della mia prima ribellione, scaraventarsi contro Lys’sh per sollevarla quasi di peso da terra e spingerla via, insieme a sé, cercando rifugio in un angolo della galleria, e lasciandomi, in tal modo, via libera ad agire nei termini che più mi sarebbero potuti essere congeniali, per così come, del resto, avevo loro implicitamente richiesto di avere possibilità di compiere.
Forte di un conteggio di due vittime alle spalle e un terzo comunque posto, volontariamente, fuori gioco, e tutto ciò nel tempo di un mero battito di ciglia, mi avventai, pertanto e senza esitazione, sui tre altri agnelli condotti al macello, ponendoli a confronto con l’evidenza di cosa avrebbe potuto significare avere a che fare con una donna guerriero proveniente, mio pari, da un mondo considerato barbaro e primitivo. Perché ove anche, in quel gruppo, tutti loro avrebbero avuto a doversi considerare combattenti esperti, forse e probabilmente persino dei mercenari mio pari; l’essere nati e cresciuti in una realtà tanto distante dalla mia, e, a modo suo, contraddistinta da regole tali per cui un certo genere di violenza non sarebbe neppure potuta essere concepita, se non in termini puramente ipotetici, li aveva privati della possibilità di confrontarsi effettivamente alla pari con me e, soprattutto, con l’orrore che avrebbe potuto derivare dalla brutalità di uno scontro qual quello che io stavo loro in tal modo concedendo.
E se anche, di quei tre, uno ebbe maggiore autocontrollo e prontezza di riflessi utile a sollevare la propria arma e prendere la mira, puntando dritto al mio capo, quando il fascio laser ebbe a concretizzarsi non mi trovò più innanzi a sé quanto, e più precisamente, sotto di sé, lì sospintami in una repentina genuflessione, intenta, con colpo della mia improvvisata mazza, sempre più informe, a distruggere, di netto, le sue ginocchia, facendole letteralmente deflagrare nella violenza del mio attacco. Mancato il proprio obiettivo e dolorosamente privato delle proprie gambe, quel poveraccio ebbe occasione di godere della mia pietà nel ritrovarsi, una volta caduto al suolo, con il collo repentinamente spezzato, e spezzato nel mentre in cui, con una capriola sopra il suo stesso quasi cadavere, mi lasciai rotolare in avanti, per cambiare nuovamente posizione e sorprendere, gli altri due, non più là dove avrei potuto essere un istante prima, quanto e piuttosto alle loro stesse spalle.
In ciò, pertanto, quando entrambi ebbero possibilità di comprendere ove io mi trovassi, fu per loro già troppo tardi. E tardi nella misura in cui, dalla mia nuova posizione, potei sollevarmi di colpo per colpire, con un nuovo montante della mancina, uno dei due, questa volta non mirando al diaframma quanto, e peggio, al viso e, in particolare, al setto nasale, che respinsi di netto dritto nel cervello della mia quarta vittima; nello stesso istante in cui, ebbi la premura di richiamare a me il suo compagno, abbracciando il suo collo con la violenza propria del mio destro e stringendolo, allora, al duplice fine di ucciderlo e, al contempo, di mantenerlo, fra me e la luce, qual improvvisato scudo, utile a sperare di ovviare a possibili, e spiacevoli, contrattacchi da chi, là dietro, ancora celato. Tuttavia, nel considerare come il tutto ebbe a consumarsi in minor tempo di quanto me ne sarebbe servito per bestemmiare il nome della mia dea, a colui, o a coloro, là dietro ancora in una supposta posizione di riparo, non fu concessa la benché minima possibilità di elaborare l’assurda immagine in tal modo lui, o loro, concessa dai propri occhi, né, tantomeno, di comandare ai propri corpi un’adeguata reazione.
Ragione per la quale, a conclusione di quella giostra, non mancai di gettare, quasi fosse un proiettile balistico, quel quinto cadavere contro la sorgente stessa di quella luce accecante, affidando alla violenza di quel gesto, nella disumana forza del mio destro, il compito di travolgere qualunque minaccia avrebbe potuto lì’ essere celata. Minaccia che, proprio malgrado, ebbe lì a doversi riconoscere qual un unico altro antagonista, quello con il quale, sino ad allora, avevamo dialogato, e che, atterrito psicologicamente dalle immagini delle quali si era ritrovato a essere muto testimone, e fisicamente da quell’attacco, non poté fare altro che piombare pesantemente al suolo, emettendo soltanto un gemito privo di qualunque possibile significato… un verso primordiale atto a dimostrare quanto, lì, così come nel mondo barbaro e primitivo da cui provengo, la sola reazione utile innanzi a tanto raccapricciante spettacolo non avrebbe potuto essere altro che un’improvvisa regressione spirituale a un’epoca remota, un’epoca in cui alcuna cività avrebbe potuto considerarsi ancora sorta e l’umanità stessa avrebbe avuto difficoltà a distinguersi da qualunque altra bestia del Creato.

« Vedi… per me non è gradevole essere definita una vacca da monta. » argomentai, senza ironia, senza sarcasmo nella mia voce, quanto e piuttosto ancora con il gelido distacco con il quale avevo contraddistinto ogni mio singolo gesto sino a quel momento « So che potrebbe apparire arrogante da dire… ma nel mio mondo mi sono abituata a essere definita figlia della dea della guerra. E per quanto non mi aspetto che alcuno, qui, possa conoscere il nome di Marr’Mahew, non posso che gradire, ugualmente, un minimo di rispetto. » esplicitai, raggiungendolo, disarmandolo con un calcio e chinandomi su di lui, nel bloccarlo, alfine, al suolo con una morsa della mia mancina attorno al suo collo « Lo comprendi… vero?! »
« … s-sì…. » piagnucolò in risposta, improvvisamente privo di tutta l’arroganza che lo aveva contraddistinto un istante prima.
« Ottimo. » annuii, con soddisfazione.

E, giusto per non offrire torto a tutti coloro che, prima di lui, avevo appena ucciso, lasciai allora piombare, pesantemente, il mio pugno destro proprio al centro del suo volto, trapassando l’intero cranio da parte a parte e andando a schiantare, sostanzialmente, le mie nocche cromate sul suolo sotto di lui, in un macabro rimbombo che, non diversamente dal suono di una campana rotta, sembrò comunque voler decretare la fine di quella breve, ma intensa, battaglia, al termine della quale, ancora una volta, la dea Marr’Mahew, di cui io ero stata onorificamente appellata qual Figlia da coloro che mi avevano visto similmente combattere contro un’ottantina di pirati, tutti uccidendoli, aveva ottenuto il proprio legittimo tributo di sangue e di morte.

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