11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

www.middaschronicles.com
il Diario - l'Arte

News & Comunicazioni

E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

martedì 31 dicembre 2013

2146


Ma laddove per Desmair, tale potere, avrebbe avuto a doversi considerare espressione di un effettivo e mistico predominio negromantico su tali, disgraziate creature, ombre di uomini e donne che un tempo furono prima di essere, in tal misura, da lui maledetti; quale oscuro segreto avrebbe mai potuto giustificare l’influenza che, parallelamente, Milah era in grado di esercitare sui propri servi? E, ancora, quale oscuro segreto avrebbe mai potuto giustificare il più completo distacco psicologico da lei impostosi nei miei confronti, e come me, sicuramente, nei confronti di chiunque, prima di me, si fosse ritrovato rinchiuso all’interno di quella stessa stanza, convocato coercitivamente al suo cospetto per soddisfarne qualunque desiderio, qualunque volontà, a seconda dell’occasione e del momento?!
Ove, però, la risposta a simili domande avrebbe avuto a doversi considerare più prossima alla soddisfazione di una curiosità ancor prima che all’effettiva individuazione di una risorsa per me utile ad agire, e ad agire alla volta di una mia liberazione dai vincoli entro i quali mi ponevo allora costretta; l’esser riuscita a caratterizzare, o, quantomeno, a ipotizzare di caratterizzare, il mio anfitrione sotto una luce non dissimile da quella nella quale, ormai da anni, avevo imparato, mio malgrado, a conoscere il mostro che avrebbe potuto fregiarsi del titolo di mio sposo, mi avrebbe potuto concedere, ancora, un barlume di speranza in sua opposizione, a suo discapito. Giacché, in tal senso, per contrastare quella donna sarebbe stato allor sufficiente agire esattamente come mi ero concesso occasione di agire allor scopo di contrastare l’ego smisurato di mio marito, sfruttandolo e suo stesso svantaggio, a sua stessa condanna.
Ovviamente, per procedere in tal senso, avrei dovuto dimostrarmi capace di attendere il momento giusto e, con esso, la migliore possibilità per tradurre quell’idea in opera e quell’opera in una vittoria per me e per la mia causa. E, fra tutti, il momento giusto sarebbe necessariamente dovuto essere riconosciuto quello in cui, dalla mia, avrei potuto ancor vantare sufficiente lucidità per pensare, e sufficiente controllo e adeguata coordinazione per muovermi, non traballante vittima della foga distruttiva dei miei carnefici, qual, mio malgrado, mi ritrovavo a essere nell’ampia maggioranza dei casi in cui Milah valutava più opportuno raggiungermi, per rivolgermi le proprie domande e, in ciò, pretendere una risposta. Nella prospettiva di trovarmi già sufficientemente piegata, e speranzosamente collaborativa nei propri riguardi, difficilmente la mia ospite prendeva parte alla quotidiana apertura dei giuochi, preferendo lasciar i propri collaboratori liberi di porre in essere le proprie indicazioni senza alcuna supervisione e, in ciò, limitandosi ad attendere un messaggio in grazia al quale essere informata del termine dei lavori a mio discapito, frangente da lei ritenuto più opportuno, più adeguato, per passare a offrirmi il proprio quotidiano omaggio, il proprio irrispettoso saluto, osservandomi precipitare sempre sulla soglia dell’oltretomba salvo, all’ultimo, comandare il mio recupero, il mio soccorso e, ancor più, il mio ripristino… il ripristino del mio corpo e della sua operatività così come, comunque, indispensabile sarebbe stato ai suoi scopi, per l’attuazione del suo piano volto a ripetere quella pratica potenzialmente sino alla fine dei propri giorni.
Nell’attesa di tale momento, di simile traguardo, pertanto, mi premurai di alimentare la mia determinazione, la mia tenacia e, con esse, la mia salute mentale e il mio equilibrio psicologico, con il pensiero di tutti i modi in cui, a tempo debito, mi sarei potuta riservare l’opportunità di ricambiare il favore a discapito della stessa giovane sadica allora così votatasi a ottenere da me quanto ricercato e, sino ad allora e, speranzosamente per sempre, almeno da parte mia, non ancora ottenuto. Poiché, se pur non avrei desiderato potermi promuovere qual una persona crudele e sanguinaria, non avrei neppure potuto essere sì ipocrita da negare di credere nel valore della vendetta, soprattutto ove, soltanto in sua grazia, avrebbe potuto essermi concessa occasione di soddisfazione, di appagamento, in risposta a tutti gli orrori che, mio malgrado, ero stata allora costretta a subire sulla mia stessa pelle, sulla mia stessa carne, più e più volte letteralmente macellata negli esperimenti da Milah promossi e ordinati. E se pur, come già detto e ripetuto, non sarei in grado di definire quante volte fui pressoché uccisa e successivamente resuscitata, in quell’incubo assurdo, quanto avrei invece ben potuto definire, e ancora sono in grado di citare, sarebbe stato il numero di modi in cui contemplai di porre in essere la mia vendetta, secondo dinamiche che, se pur all’inizio mi volli illudere avrebbero potuto sorprendere la mia desiderata preda e allor, soltanto, predatrice, fu questione di poco e mi ritrovai pressoché certa non avrebbero avuto comunque nulla da insegnarle. Nulla, quantomeno, al di fuori del dolore.
Prima di poter avere occasione di ritrovarmi a confronto con lei, quindi, dovetti aspettare di elaborare ben centoventisette diverse alternative per dare corpo alla mia vendetta. Centoventisette diversi modi per seviziarla, scuoiarla, smembrarla, eviscerarla, farla a pezzi e ancor molto altro, in un elenco così ricco e variegato che, obiettivamente, ella avrebbe avuto già sufficiente ragione d’orgoglio da vantare, soprattutto nella consapevolezza di come, prima di allora, alcun altro mio antagonista, non la mia gemella, non il mio sposo, si fossero guadagnati così tanto letale interesse da parte mia, così tanto mortale impegno da parte della mia mente in direzione della loro morte e della loro morte nei modi e nei termini più atroci possibili. Centoventisette diversi modi per ottenere la mia riscossa nei suoi confronti che, nel considerare una media di circa tre diverse alternative elaborate nel corso di ogni mio periodo di riposo, fra una tortura e l’altra, avrebbero potuto stimare il totale dei miei decessi, o quasi, nell’ordine della quarantina o, addirittura, della cinquantina. Insomma… una quota comunque sufficientemente elevata, in un arco di tempo che non avrebbe potuto essere valutato inferiore al mese, nel confronto con l’evidenza della quale, anch’ella, alla fine, si riservò l’opportunità di spingersi a offrirmi un sincero tributo d’onore, arrivando forse e persino a riconoscersi una certa, assurda possibilità di stima nei riguardi della resistenza che avevo dimostrato e che, ancora, stavo dimostrando, verso di lei e verso la sua pur incontrastabile volontà.

« Salute a te, mia cara… » esordì, concedendomi una ragionevole possibilità di sorpresa nell’avanzare anche lei all’interno della stanza insieme a coloro che ne avrebbero dovuto attuare le crudeli volontà, e, in ciò, alterando quell’apparentemente immutabile rito nel confronto con il quale avrei dovuto iniziare, obiettivamente, a temere la totale inapplicabilità del mio piano, della mia strategia per così come concordata con la mia stessa testa, con il mio semplice intelletto « Spero che tu abbia riposato adeguatamente e che, in ciò, ti possa considerare pronta a ricominciare, ancora una volta, tutto da capo. » proseguì, risultando in tale asserzione qual priva di ogni falsità ad animarne la voce, a contraddistinguerne l’incedere, dal momento in cui, obiettivamente, non avrebbe avuto ragione di sperare null’altro al di fuori di quello e del fatto che, in tutto ciò, io avrei avuto nuova e migliore occasione per soffrire « Stavo riflettendo sul fatto che, ormai, inizia a essere parecchio tempo che tu dimori in questa casa… inizi quasi a essere una di famiglia, al punto tale che, sinceramente, potrebbe anche dispiacermi separarmi da te e rinunciare, in ciò, a questi nostri appuntamenti quotidiani, a queste nostre corroboranti occasioni di confronto. Non che tu, sino a oggi, ti sia in verità sforzata di parlare parecchio. Al contrario… »

Silenzio.
Allor da parte mia. Nella volontà di non concederle, innanzitutto, occasione di comprendere quanto, dietro a una replica eccessivamente affrettata, avrebbe anche potuto celarsi, da parte mia, qualche spiacevole volontà, qualche negativo interesse nei suoi riguardi, così come, effettivamente, si avrebbe dovuto riconoscere qual fortemente presente nel mio cuore, nella mia mente e nel mio animo, non dissimile da un marchio a fuoco, tanto il dolore che, in conseguenza a simile impronta, mi era stato riservato e che, ancora, mi avrebbe accompagnato a lungo, ricordandomi di impormi sufficiente prudenza per non vanificare quella rara occasione. E silenzio, anche e ancora, nella necessità di soppesare adeguatamente ognuna delle parole da lei pronunciate e, in esse valutare quanto, ancora, la tattica che pur a lungo avevo accarezzato, avevo contemplato nell’intimità dei miei pensieri e delle mie fantasie, avesse a doversi considerare idonea a quel contesto e agli sviluppi che, da esso, avrebbero potuto derivare.

lunedì 30 dicembre 2013

2145


Alfine, eccomi pertanto esattamente là dove ho iniziato: prigioniera di Milah Rica Calahab; vittima di ogni più perversa e violenta fantasia della medesima; e soprattutto del tutto inconsapevole delle ragioni alla base di un simile, spiacevole sviluppo della mia esistenza.
Inutile negarlo. Inutile tentare di nascondermi dietro l’effimera protezione propria di una palese menzogna, capace di celare l’evidenza delle cose in misura minore rispetto a quanto non sarebbe stato in grado un dito. Per diversi giorni, nel mentre in cui in innumerevoli occasioni, il cui calcolo preciso non mi è stata mai concessa occasione di elaborarlo, di computarlo neppure a posteriori, fui sostanzialmente uccisa e resuscitata in maniera continua, costante, folle e ossessiva, mi ritrovai prossima a perdere la fiducia in me stessa, nelle mie capacità e, soprattutto, nelle mie possibilità di sopravvivere a tutto quello. Perché, laddove pur la tortura non fosse per me un’esperienza nuova, quella giovane e mordace cagnetta si volle lì dimostrare capace di raggiungere nuove vette, nuove concezioni per me prima addirittura inimmaginabili, tali da spingermi, realmente, sulla soglia della follia e, forse, da farmela oltrepassare senza che, neppure, mi fosse stata offerta la possibilità di comprenderlo, di elaborare, effettivamente, quanto ormai non avessi più a potermi considerare padrona della mia stessa mente, del mio stesso intelletto.
Priva, infatti, di qualunque limite fisico, di qualunque restrizione nei miei riguardi, nell’altrimenti consueta necessità sì di infliggermi dolore e, ciò non di meno, di mantenermi in vita sino a quando non fossi stata pronta a parlare, a rivelare quanto da lei desiderato; Milah fu in tutto ciò in grado di trascendere persino la differenza fra una tortura fisica e una psicologica, in misura tale da rendere ancor più terrificante il pensiero di una nuova resurrezione rispetto a quello stesso di nuovi, e sempre più accattivanti metodi utili a infliggermi dolore… e infliggermi dolore oltremodo, oltremisura. Perché anche se il dolore, per quanto terrificante, avrebbe potuto essere affrontato, il pensiero della costanza interminabile del medesimo, in quel ciclo continuo e incessante di morte e rinascita, non avrebbe avuto a potersi considerare altro che in tutto e per tutto paragonabile a una punizione divina, a una crudele sentenza emessa dagli dei stessi al fine di soddisfare la propria sete di vendetta e di sangue.
Così, nel momento in cui ella si concesse occasione di dichiarare frasi come quella già riportata al principio di questo mio resoconto…

« Perché, ti posso assicurare, che, davanti a me, altre donne e altri uomini, chimere e umani, soldati e mercenari, sicari della peggior specie, hanno sempre alfine ceduto, non limitandosi, semplicemente, a concedermi ogni informazione loro richiesta… ma ancora molto più, nel supplicarmi di chiedere loro altro, di individuare altri modi per soddisfare ogni mia curiosità nei loro riguardi, pur non di non essere ancora una volta torturati. E torturati a morte. »

… non avrei potuto riservarmi dubbio alcuno nel merito della veridicità  di simili asserzioni, provando un sincero moto di pietà per tutti coloro che, prima di me, erano caduti nelle grinfie di una tale sadica.
In uno scenario qual quello così descritto, qual quello così definito, mi piacerebbe poter ora riservarmi l’opportunità di un piacevole colpo di scena atto a reintrodurre in azione il mio sposo, il quale, con gradevole semplicità, quasi banalità, dopo qualche scambio di piccate battute necessario e reciproco tributo atto a ricordare a entrambi le fondamenta del nostro rapporto, mi potrebbe concedere una semplice via di fuga, facendo intervenire in mio soccorso le sue schiere di spettri e spazzando, come già una volta in passato, ogni mio nemico, ogni mio avversario, senza rendere per me necessario menare un solo, singolo colpo.
Purtroppo, benché in simile espediente, di sicuro effetto e di indubbia efficacia, potrebbe ritrovare entusiasta qualcuno fra i miei possibili lettori o ascoltatori, fra i testimoni indiretti di tali fatti in grazia di queste mie stesse parole; ancora una volta tale espediente, simile risoluzione, non potrebbe in alcun modo trovare un qualche genere di riscontro nel confronto con la realtà dei fatti per così come occorsero e che, rinunciando probabilmente a un certo livello di spettacolarità, pur, alfine, mi permisero di sopravvivere. E di sopravvivere quanto sufficiente per essere qui, ora, a scriverne, riportandone memoria.
Ritrovatami, pertanto, esattamente nelle condizioni ben riassunte dalla mia sempre meno cordiale ospite, nuda e disarmata, nonché costantemente incatenata, se non al tavolo, comunque al muro, o al suolo, o, anche e peggio, al soffitto, in termini tali da non concedermi neppure la possibilità di ipotizzare di ricorrere, come già in passato, alle gambe per spezzare l’osso del collo del mio boia… dei miei boia, in quel contesto specifico, e, dopo di che, impegnarmi a trovare una qualche possibile via di fuga con maggiore quiete di quanta, allora, non me ne sarebbe potuta essere garantita; ogni mia, trascorsa esperienza in situazioni assimilabili si ritrovò a essere fondamentalmente inutile, ogni mio già collaudato espediente si dimostrò del tutto inapplicabile. Addirittura, e a titolo esemplificativo, neppure il mio stesso corpo, che, malgrado la mia non più fanciullesca età, è abitualmente oggetto di lascivi desideri da parte della quasi totalità degli uomini che incontro, nonché di qualche donna, in quel frangente ebbe a dimostrarsi un fattore del tutto inapplicabile all’idea di un qualche, eventuale, impiego volto a sedurre uno dei miei carcerieri per indurlo a liberarmi e, in ciò, a riservarsi la fine propria del maschio di una mantide religiosa; giacché, tutt’altro che stolida, tutt’altro che sprovveduta, la mia antagonista si volle premurare di fornirmi sempre e soltanto compagnia del tutto disinteressata alle mie grazie, o, comunque, maggiormente timorosi di quello che ella avrebbe potuto loro imporre rispetto a quanto mai avrebbero potuto concedersi eccitati all’idea di quanto mai io avrei potuto loro concedere, nella certezza, indiscussa e inoppugnabile, di quanto l’universo non si sarebbe dimostrato sufficientemente amplio per permettere a qualcuno di loro di rifuggire all’ira della loro padrona, ove tradita.
Anche da questi particolari, ben distanti dal potersi considerare retorici o banali, tutto ciò che ebbi possibilità di compiere, in quei miei giorni di prigionia, fu delineare un profilo della mia avversaria, nella speranza, così facendo, di riuscire a individuare un fronte debole sul quale potermi riservare l’opportunità di colpirla, e di colpirla con tutte le mie energie, nella consapevolezza di quanto solo così facendo, forse, mi sarebbe stata concessa opportunità utile a sopravvivere, di superare quella prova così come ogni altra propria del mio passato. E in tale impegno, quanto ebbi occasione di comprendere, fu come la signorina Calahab fosse ben distante dall’essere la semplice ricca e annoiata figlia di famiglia benestante che, schernendo mie possibili deduzioni, ella aveva avuto occasione di asserire.
Nata e cresciuta, nonché sempre vissuta, in un mondo ove monarchia e aristocrazia hanno a doversi considerare mere consuetudini e dove, altresì, diverse forme di governo o di struttura sociale hanno a doversi riconoscere qual vere e proprie eccezioni, nonché impiegatami, da vent’anni, qual mercenaria al servizio soltanto di chi capace di stuzzicarmi con sfide in grado di mettere sempre a maggior prova la mia abilità guerriera, nonché di chi capace di ripagarmi più che adeguatamente per la mia effimera fedeltà; non avrei potuto considerarmi estranea né alla mentalità aristocratica, né tantomeno alle più o meno eccessive crudeltà di chi in possesso di potere, per propri meriti così come, più diffusamente, per vana discendenza di sangue. E benché, nel corso della mia esistenza, avessi già avuto occasione di conoscere molti sadici pervertiti, capaci di godere del dolore delle proprie vittime, difficilmente in qualcuno di loro avevo mai colto quanto, altresì, mi venne lì offerto non soltanto nello sguardo della stessa Milah, ma anche di tutti gli uomini e le donne al suo servizio, ai suoi ordini: fredda e controllata determinazione nella prima; quieta e rassegnata fedeltà in tutti gli altri; in termini che non sarebbero stati tributati a un sovrano neppure dai propri più viscidi cortigiani.
Chiunque avrei potuto successivamente scoprire essere Milah Rica Calahab, qualunque significato avesse avuto a doversi ricercare celato dietro al suo nome, già evidente mi si impose la consapevolezza di quanto il suo potere, e il suo potere basato sul terrore ancor prima che, banalmente, sulla ricchezza o sul proprio lignaggio, avesse a doversi considerare straordinariamente simile a quello che il mio stesso sposo, Desmair, avrebbe potuto vantare nei confronti dei propri spettri, primi fra tutte le sue vittime e, ciò non di meno, primi fra tutti i carnefici al suo servizio, in un legame che alcuno fra essi avrebbe potuto spezzare, in un vincolo che alcuno fra essi avrebbe mai potuto violare.

domenica 29 dicembre 2013

2144


Come passare da torturatrice a torturata: istruzioni pratiche per l’uso. Prendete una giovane psicopatica. Offritele inconsapevolmente una ragione utile a torturarvi. Godetevi, si fa per dire, il risultato.
Non so se quella avesse a doversi considerare una risposta divina all’eccessivo incedere del messo della tortura da me impiegato a discapito di ben due prigionieri nel corso di quelle ultime ore, oppure, semplicemente, una vendetta poetica da parte dell’universo intero per la medesima ragione, oppure, e ancor più banalmente, mera casualità. Quanto ebbe allora a dimostrarsi, ciò non di meno, reale, fu l’evidenza di come, improvvisamente, da torturatrice, o presunta tale, mi stessi ritrovando a essere catapultata nel ruolo di torturata… senza, purtroppo, molte possibilità di presunzione nel confronto con l’evidente e incontestabile certezza di tale, nuovo, ruolo. E se, come pur potrei ora risultare poco credibile, nel confronto con l’idea di imporre a qualcuno torture di tipo fisico non mi fossi mai sentita personalmente a mio agio; ancor meno avrebbe trovato in me ragion d’approvazione, di condiscendenza, l’idea di subire torture di tipo fisico, ben memore di ogni occasione nel corso della quale, mio malgrado per più di una volta, mi ero già ritrovata a essere similmente vittima.

« Non per apparire ingrata nel confronto con questa tua gentilissima offerta… ma sinceramente non credo che resterò quieta e tranquilla in attesa che tu possa divertirti a mio discapito. » commentai, decisa, allora, a non concederle un istante di più della mia attenzione, del mio interesse, così come sino a quel momento ero stata sin troppo cortese a fare, e, in ciò, a porre in azione il mio nuovo braccio destro, nella cui forza, nella cui energia potenzialmente in grado di sollevare senza sforzo alcuno più di mille libbre di peso, difficile sarebbe stato per qualunque vincolo oppormi adeguata resistenza, effettivo ostacolo così come, pur e ipoteticamente, le catene impostemi avrebbero dovuto assicurarsi possibilità.

Ma quanto ebbi allora a scoprire, con spiacevole stupore, con negativa sorpresa, fu come, mio malgrado, non stessi apparendo più in grado di muovere il mio arto destro, quella protesi robotica impiantatami soltanto poche settimane prima e con la quale avevo già sviluppato un gradevolissimo rapporto, basato su sentimenti di stima e di fiducia nel confronto con la sua, ai miei occhi, straordinaria eleganza, nel riprendere puntualmente le forme e le proporzioni del mio mancino, pur capovolgendole in maniera speculare, e con la sua indubbia potenza, per così come qui sopra espressa. E se, nel merito dell’effettivo funzionamento di quel piccolo e pur straordinario miracolo, obiettivamente, mi ero interessata in maniera estremamente superficiale, confidente con quanto difficilmente la mia mentre avrebbe potuto scendere a patti con argomenti di un simile livello di complessità senza, prima, un’adeguata istruzione utile a colmare l’assurdo divario esistente fra tutto ciò che per me, fino a prima di quel viaggio al di fuori dei confini del mio mondo, era stato l’intero Creato e ciò che, invece, avevo allora compreso esserlo; non fu comunque difficile per me comprendere cosa fosse accaduto, anticipando in ciò ogni possibile replica da parte del mio ben poco cortese anfitrione e, soprattutto, riservandomi, allora, occasione più che giustificata di imprecare, e di imprecare a denti stretti, tutto il mio disappunto.

« Thyres… » ripresi, rendendomi conto di essere, mio malgrado, in trappola e di non poter sperare in una facile occasione di fuga così come, forse ingenuamente, mi ero illusa sino a quel momento.
« Non ho idea di che genere di insulto abbia a dover essere considerato quello da te appena scandito. Ma se è un modo estremamente conciso per dire “non ho via di scampo, dal momento in cui, mentre ero svenuta, hanno pensato bene di scaricare il nucleo all’idrargirio della mia grezza protesi”… beh… sì, sono d’accordo con te… » mi volle canzonare Milah, in tutto ciò ben riassumendo quanto, purtroppo, avevo già inteso fosse accaduto « … Thyres! » soggiunse e concluse, cercando di ripetere esattamente il nome della mia dea, senza neppure sapere cosa stesse allora dicendo e, ciò non di meno, non negandosi la possibilità di scandirlo, nel non riservarsi, sostanzialmente, alcun interesse ad approfondire la propria conoscenza a tal riguardo, a simile proposito.

Se c’è una cosa che ho imparato in tanti anni di vita vissuta, e di battaglie combattute, avversari abbattuti e imprese conquistate, è quanto errato avrebbe avuto a doversi considerare l’eventualità di concedere al proprio antagonista di turno consapevolezza nel merito di un suo successo, di un suo risultato positivo nei propri confronti; in termini tali da garantirgli, oltre a un vantaggio pratico innanzi alla possibilità di una propria vittoria, anche un vantaggio di ordine psicologico a proprio stesso discapito. Vantaggio che, al contrario, anche innanzi al peggiore dei risvolti, delle evoluzioni di qualunque conflitto, sarebbe stato opportuno conservare sempre qual proprio, sempre minimizzando l’importanza di qualunque, pur evidente, predominio fisico, in termini utili a sperare, al momento opportuno, di poter ribaltare la situazione, invertendo delle parti apparentemente inalterabili, una diseguaglianza ipoteticamente incolmabile.
Per questa ragione, benché la mia poco sobriamente vestita padrona di casa avesse, indubbiamente, riservato qual proprio un vantaggio a dir poco preoccupante, almeno dal mio personale punto di vista; mi sforzai di non concederle soddisfazione alcuna in termini di reazioni emotive innanzi a tale scoperta, imponendomi il volto e il tono più freddo e distaccato che avrei mai potuto vantare qual miei propri in un contesto simile, in una situazione qual quella nella quale mi ero venuta a trovare, per poi rivolgermi al suo indirizzo non qual una persona ormai sconfitta, una controparte ormai piegata, qual probabilmente avrebbe gradito scoprirmi, quanto e piuttosto qual chi, allora, avrebbe potuto anche scegliere consapevolmente di strapparsi quel braccio di metallo dal corpo, soltanto allo scopo di avere un’arma contundente da rivolgerle in contrasto.

« Ascoltami bene, ragazzina… » scandii lentamente ogni singola sillaba, pregando in cuor mio, nel contempo di ciò, che il traduttore automatico non mi tradisse, laddove, in tal caso, l’effetto finale di quel mio tentativo, di quel mio azzardo, sarebbe stato quantomeno ridicolo ancor prima che speranzosamente efficace sotto un qualunque profilo volto a concedermi una qualunque ipotesi di salvezza « Io non ho idea di chi tu sia, di dove tu mi abbia fatta trascinare o del perché tu mi abbia qui condotta. Però ho chiaramente in mente quanto finirai per farti male se solo non mi lascerai andare immediatamente, restituendomi i miei vestiti, le mie armi, l’energia al mio braccio e tutto il resto. E lo so perché ci hanno provato tanti altri prima di te… non sai quanti. E nessuno, oggi, è qui per potertelo raccontare, mentre io sì. »

Ancora silenzio. Silenzio nel mentre in cui i suoi occhi di un intensa tonalità di verde si fissarono su di me, nuovamente intenti a valutarmi, a soppesare la mia figura e, quasi, a sezionarla già con lo sguardo, a ponderare in quanti modi potersi divertirmi a farmi a pezzi. Dove, così come, soltanto successivamente, ebbi possibilità di scoprire, l’impiego di tali termini non avrebbe avuto a doversi intendere qual semplice metafora, qual puro proposito privo di concrete possibilità di espressione, quanto e piuttosto impegno reale, una ferma consapevolezza volta a ottenere da me le informazioni, o chissà cos’altro, desiderate, senza riservarsi alcuna preoccupazione nel merito di quanto dolore e quanto sangue avrebbe dovuto da me nel contempo cavare, per riuscire non soltanto a far breccia, quanto e piuttosto a distruggere, attraverso la sofferenza del mio corpo, la mia psiche, che, in tutto ciò, si stava dimostrando, evidentemente, meno debole, e meno collaborativa, rispetto a quanto ella non avrebbe potuto gradire.
In conseguenza a ciò, quando Milah riprese a parlare, non mi volle concedere alcuna soddisfazione atta a comprovare il successo di quel mio breve intervento intimidatorio. E, al contrario, rivolse tutta la propria premura al solo fine di ribadire il proprio scherno a mio discapito.

« Riepilogando… » sorrise, con espressione sardonica qual poche avevo avuto occasione di incontrare, prima di allora, nel corso della mia avventurosa esistenza « Sei disarmata. Nuda. Incatenata a un tavolo operatorio. Sostanzialmente priva di un braccio. E stai cercando di suggerire, in maniera incredibilmente perentoria, quanto sarebbe per me opportuna la resa. » elencò, scandendo ogni elemento di quell’elenco sulla punta delle proprie dita « Sono la sola a trovare tutto ciò paradossale… o stai soltanto cercando di apparire totalmente folle, nella speranza che io rinunci all’idea di farti parlare?! »

sabato 28 dicembre 2013

2143


Che io non sia morta, non credo abbia a considerarsi ragione di sorpresa. Se così fosse stato, difatti, questa stessa narrazione non potrebbe avere luogo e la stessa consapevolezza che, ora, qualcuno fra voi possa starsi illudendo di leggere queste mie parole potrebbe dare spazio a spiacevoli dubbi nel merito delle leggi basilari alla base della stessa realtà per così come, in fondo, tutti la conosciamo, e tali da non prevedere possibilità di ritorno dalla morte.
Perché io non sia morta, invece, potrebbe rappresentare un’occasione di interessante riflessione. Benché, come credo di aver già avuto occasione di accennare, le armi al plasma hanno a dover essere considerate fra le più distruttive esistenti, capaci di annichilire in un sol istante la materia stessa lasciando desolante vuoto sul proprio cammino; in mani sufficientemente capaci, e con calibrazioni adeguate, esse possono infatti, anche e soltanto, limitarsi a scaricare su un obiettivo, su un bersaglio, energia sufficiente a tramortirlo, e giustappunto ad abbrustolirlo leggermente, senza in ciò, necessariamente, causarne la morte. Ed esattamente in questa casistica minoritaria, in questo fortunato versante, avrebbe avuto a doversi allor riconoscere quanto avvenne, quanto mi coinvolse, per così come ebbe occasione di coinvolgermi.
In sola grazia a una corretta calibrazione dell’arma che esplose il colpo in mio contrasto, e all’abilità del suo possessore nel saperla in tal modo tarare, quindi, là dove di me avrebbero potuto restare, forse e soltanto, due mozziconi bruciati vagamente riconoscibili qual i miei piedi, all’interno dei loro stivali, io ebbi ciò non di meno occasione di sopravvivere. E di sopravvivere quanto sufficiente a permettermi di risvegliarmi esattamente là dove, spero che non sia già stato obliato, questo racconto ha avuto inizio: non in una struttura governativa, non in una camera di interrogatorio innanzi al volto sornione di qualche accusatore, e neppure in un campo di prigionia eretto su una luna distante miliardi di miglia da quello stesso mondo; quanto, e meno comprensibilmente, nella dimora di colei che, di lì a breve, ebbe a presentarsi a me con il nome di…

« … Milah Rica Calahab. » si presentò, altera e superba, con un incedere tanto composto e tanto elegante che, certamente, non sarebbe mai stato ignorato da parte di un qualche interlocutore maschile, a contorno di un aspetto che, per inciso, avrebbe potuto sostenere perfettamente il ruolo, di una bellezza estranea a ogni possibilità di dubbio o di argomentazione, e che pur, allora, non avrebbe potuto attendersi da parte mia alcuna reale, concreta possibilità di reazione, qual conseguenza di ciò « Il mio nome ti dice nulla, sgualdrina? »

Ammetto che, quella volta, notai l’assenza della terza persona di cortesia. In un genere di società nel quale persino un uomo posto innanzi alla minaccia di una tortura non sembrava essere in grado di ricorrere all’impiego di un più affabile “tu”, ne preferire sempre e comunque quell’assurdo “lei”, il fatto che la signorina Calahab non si fosse riservata opportunità alcuna di ipotizzare il ricorso a una simile composizione idiomatica, al nostro primo incontro, avrebbe potuto rappresentare in maniera sufficientemente evidente il suo carattere, il suo atteggiamento, il suo modo di porsi innanzi al mondo, al suo mondo, e con esso a tutti gli abitanti del medesimo. E benché, nei limiti di quanto avessi avuto sino ad allora occasione di intendere, in Loicare non esistessero aristocrazie di sorta, non esistessero privilegi connessi a un retaggio di sangue in conseguenza, magari, a meriti conquistati nella notte dei tempi da un lontanissimo antenato; quello della giovane donna, poco più che una fanciulla, che mi si presentò innanzi in quel momento, in quel frangente, avrebbe avuto a doversi descrivere soltanto qual un comportamento da nobildonna… e nobildonna della peggiore specie, di coloro educate, sin dalla più tenera età, a considerarsi migliori, a considerarsi superiori, a considerarsi elette in grazia di un mandato divino a comandare, pur con arroganza e assoluta mancanza di qualunque forma di rispetto, su chiunque attorno a loro.
Tutto questo mi fu immediatamente chiaro dall’assenza di quella per me pur mai compresa terza persona di cortesia. Da ciò e, in effetti, dal fatto che mi avesse appena appellata con il termine di sgualdrina, dopo avermi fatta rinvenire legata nuda a un freddo tavolo metallico al centro di una piccola stanza bianca fortemente illuminata, in un ambiente tanto incontaminato e pulito da offrire l’impressione di poter essere definito qual asettico. E, forse, effettivamente tale.

« Ehm… dovrebbe…?! »  domandai, in verità senza neppure ricorrere all’impiego di eccessivo sarcasmo, dal momento in cui, obiettivamente, il mio dubbio avrebbe avuto a doversi considerare più che lecito, nel partire dalla consapevolezza di quanto superficiale avesse a doversi considerare la mia confidenza con quel mondo e con, eventualmente, le sue figure di maggior rilievo, tale da spingermi persino a ignorare l’identità di quella donna fosse ella stata persino a capo dell’omni-governo di Loicare stessa « Non per volerti contraddire ma… sono decisamente nuova da queste parti e credo mi abbiano a mancare alcune fondamentali nozioni di base tali da concedermi di sorprendermi, o stupirmi, o spaventarmi, o qualunque altra cosa dovrebbe mai occorrere alla tua presenza. »

Silenzio. Un silenzio atto a permetterle di meglio valutare quanto le avevo appena replicato e, soprattutto, in che maniera avesse a doversi considerare più opportuno, per lei, rispondere a quella che avrebbe potuto essere considerata una provocazione e che pur, altresì, tale non era, non desiderava essere e non avrebbe obiettivamente potuto essere, nella mia reale, concreta, sincera e sostanziale ignoranza per così come anche apertamente ammessa, dichiarata, denunciata. Un silenzio nel quale, nel mentre in cui ella, presumibilmente, ebbe a definire una qualche strategia nei miei confronti, al contempo io ebbi a concedermi la non ovvia, mai retorica, possibilità di meglio studiare la mia antagonista e, attraverso il quadro offerto dal suo aspetto, ipotizzare in che termini avrebbe avuto a doversi considerare più opportuno interfacciarmi con lei, rapportarmi con lei.
In occasione di quel nostro primo incontro, ebbi modo di osservare, ella non stava già indossando il medesimo, elegante abito da sera con il quale mi sono riservata opportunità di accennarla descritta all’inizio di questo mio resoconto, pur non rinunciando, malgrado dei vestiti meno formali, né a promuovere il proprio stato sociale, né, tantomeno, a mettere in gratuito risalto le proprie forme. E, al di là di ogni possibile accusa di ipocrisia, io mi ritengo più che abilitata a qualunque genere di critica in tal senso, nel non aver mai confuso una sana e totale indifferenza a qualunque genere di pudore, tale da potermi permettere, addirittura, di presentarmi nel centro di una battaglia, nel cuore pulsante di un conflitto, nuda o pressoché tale; con la più semplice ed evidente mancanza di buon gusto, caratteristica della quale Milah sembrava essere più che carente e, in ciò, per ciò, addirittura palesemente soddisfatta. Così, al mio sguardo, ella palesò il proprio elegante e slanciato corpo, giovanile nelle proprie forme e proporzioni, sempre in bilico su vertiginosi tacchi a spillo e vagamente fasciato all’interno di un sottile corpetto di pizzo bianco, che dei suoi piccoli ma sodi seni era in grado di mostrare rispetto molto più rispetto a quanto avrebbe potuto vantare di essere capace di coprire, accompagnato, allora, da pantaloni in pelle rossa tanto stretti e aderenti, attorno alle sue tornite gambe e ai suoi alti glutei, da apparire quasi come se tale pelle altra non fosse che la sua stessa, per l’occasione dipinta in tale brillante tonalità.
Insomma. Lungi da me voler giudicare una persona dai suoi abiti, dopo una vita intera trascorsa ricoperta, abitualmente, da pochi stracci consunti e polverosi… ma sottolineare quanto, da quella scelta, avrebbe dovuto risultar palese tutta la tracotante sicurezza della mia ospite, potrebbe risultare persino retorico.

« Come desideri… » scosse il capo e con esso una lucente cascata di lunghi capelli nero corvini, non dissimili dalla tonalità con la quale io stessa ero stata solita tingere i miei per oltre vent’anni, in quel gesto dimostrandosi in effetti più intenzionata a minimizzare l’importanza di quella mia replica che a offrire un qualche diniego di sorta « Se è in questo modo che preferisci gestire il giuoco, per me non ci sono problemi. Tanto, alla fine, riuscirò a ottenere quello che voglio. » argomentò, storcendo appena le proprie carnose labbra verso il basso « Oh, sì… ti assicuro che, ben presto, mi supplicherai per poterti dimostrare maggiormente collaborativa nei miei confronti. »

venerdì 27 dicembre 2013

2142


« Oh… mia… dea… » scandii, dimentica, nella concitazione del momento, degli effetti propri di un’arma sonica e, in ciò, concedendomi pieno e vivo stupore nel confronto con quanto occorso.

Perché, quella da me in tal modo scelta, per fatalità ancor prima che per una qualche, reale, consapevolezza nel merito delle sue possibilità, avrebbe avuto a doversi considerare un’arma sonica, un cannoncino sonico, nel silenzioso attacco del quale un’impetuosa onda era stata generata in contrasto non tanto a un singolo obiettivo, quanto all’intera schiera dei miei inseguitori. Ed essi, pur non riportando danni permanenti in conseguenza a tale impatto, alla violenza di quel corpo non mortale, ebbero allora a ritrovarsi letteralmente gambe all’aria, proiettati all’indietro senza alcuna pur minima possibilità di autocontrollo, di opposizione o di reazione a quella carica, travolgente qual la violenza propria di un fiume in piena.
Formalmente avrei potuto vantare una possibilità su tre di trovarmi, fra le mani, un’arma di quel genere, di quella tipologia, in alternativa a quelle laser e a quelle al plasma. A livello pratico avrei potuto scommettere su una percentuale estremamente inferiore, essendo le armi soniche, fra tutte, quelle meno rivolte alla facile distruzione, al semplice annientamento, all’immediata morte dell’avversario e, in quanto tale, quelle, abitualmente, più trascurate. Ciò non di meno, in uno scenario qual quello in cui, in tal modo, mi ero spiacevolmente ritrovata a essere, non avrei potuto sperare in una risorsa migliore, più adeguata allo scopo e più efficace nelle proprie prerogative, tale da consentirmi, con un solo, semplice attacco, di riservarmi tempo utile, allora, ad ampliare la distanza fra me e i miei inseguitori, così come soltanto avrei potuto lì definire, per me, non semplicemente necessario, ma addirittura indispensabile.
Alla luce di tale, insperato, successo, a quanto mi ero appena ripromessa non avrei più trascurato di condurre meco nelle mie escursioni al di fuori della Kasta Hamina, non avrebbe potuto evitare di essere soggiunta una seconda regola, un secondo principio fondamentale nel confronto con il quale, da quel giorno in avanti, difficilmente mi sarei riservata opportunità di elusione, possibilità di indifferenza, tale da spingermi a escluderlo o, peggio, a ignorarlo, certa, malgrado ciò, di non avere successiva occasione di rimpianto, di non poter avere nulla di cui rimproverarmi a posteriori.

« E sia! » commentai, voltandomi e riprendendo a impegnarmi nella mia fuga, trasferendo il cannoncino sonico dalla mancina alla destra, per lì riporlo, per in tal modo disimpegnare il mio arto sinistro, pur mantenendo l’arma attiva e in fase di energizzazione nella prudenza necessaria al confronto con l’eventualità di un nuovo bisogno, di una nuova necessità d’intervento « Questa è l’ultima volta che lasci la nave senza una sacca con tutto quello che ti può occorrere e, soprattutto, senza un arma sonica al tuo fianco… giusto perché non si sa mai. »

Al di là dello straordinario successo da me riportato con un singolo attacco, con un solo, semplice, colpo, ben tre hanno da essere considerate le ragioni alla base di una fondamentalmente scarsa predilezione, da parte del vasto pubblico, in favore delle armi soniche.
La prima compete la sua fondamentale inutilità in ambienti al di fuori dell’atmosfera di un pianeta, nel vuoto siderale, là dove, obiettivamente, la pur silenziosa onda sonora emessa dall’arma non potrebbe trovare materia prima sulla base della quale fondare il proprio stesso funzionamento. La seconda, poi, riguarda la difficoltà d’impiego in relazione a bersagli specifici e in maniera letale, laddove, per lo più, tali generi di armi nascono proprio per il medesimo scopo per il quale io stessa, allora, l’avevo pur inconsapevolmente adoperata. La terza, infine, è in relazione, purtroppo e spiacevolmente, a tempi di recupero particolarmente lenti… molto più, per lo meno, di un’arma laser che, nella repentinità degli attacchi innanzi ai quali mi ero ritrovata a essere sgradito bersaglio, avrebbe potuto dimostrare una disponibilità pressoché immediata a un secondo colpo, e a un terzo, e a un quarto, laddove, altresì, pericolosamente lunga avrebbe avuto a doversi considerare l’attesa per la disponibilità di un nuovo attacco sonico.
In tutto ciò, pertanto, ebbe a giustificarsi la mia scelta di trasferire la pur non propriamente leggera arma dalla mancina, in carne e ossa, alla destra, in lucente metallo cromato, la quale avrebbe potuto farsi carico della medesima senza particolare impegno, senza concreto sforzo, nei tempi che sarebbero stati più opportuni a permettere a quella dannata spia luminosa di tornare a brillare. Purtroppo per me, i miei antagonisti non avrebbero avuto a doversi considerare tanto cordiali, nei miei confronti, da concedersi una quieta opportunità di attesa per simile evento, ragione per la quale, ben prima di quanto non avrei potuto gradire, una nuova sventagliata di laser attentò alla mia integrità, solcando l’aria al di sopra della mia testa, così come quella attorno a me, a distanza tanto ravvicinata che, addirittura, in più di un’occasione ne avvertii il calore sulla mia pelle, tanto da farmi temere l’eventualità di nuove, spiacevoli cicatrici sulla mia candida epidermide già sufficientemente provata da molti, forse anche troppi, ricordi di una vita intera dedicata alla guerra.
E a rendere maggiore il mio disappunto per tutto ciò, non avrebbe avuto a doversi dimenticare quanto, purtroppo, la mia gamba ferita mi stesse ostinatamente rallentando, negandomi la prospettiva di poter evadere, in maniera semplice e scontata, a tanta avversione dimostratami.

« Dannazione… ma questa gente non si stanca mai?! » protestai, iniziando a offrirmi, in verità, io stessa decisamente stanca, qual solo non avrei potuto evitare di essere nel considerare quanto, dall’inizio di quella giornata, era già accaduto e quanto, ancora, mi stava venendo richiesto di essere in grado di compiere, malgrado le mie avverse condizioni fisiche, nel confronto con l’evidenza delle quali l’unica meta che avrebbe avuto senso di essermi consigliata sarebbe stata quella propria di un sanatorio, o di qualunque altra corrispettiva struttura in quel momento neppure immaginavo effettivamente avrebbe potuto esistere in quel nuovo concetto di realtà per così come mi stava venendo presentata.

Fu in immediata conseguenza di quell’imprecazione che, quasi a volermi concedere soddisfazione, quel minuscolo indicatore luminoso di carica ebbe a tornare acceso, comunicandomi la disponibilità a sparare. E se pur, allora, l’arma stava venendo mantenuta dalla destra, allorché dalla mancina che sola avrebbe avuto sensibilità utile a impiegarla; sol questione di un fugace istante fu quella che venne richiesta per vederla passare da una all’altra mano, venendo saldamente impugnata e, in un gesto deciso, sospinta nuovamente all’indietro, ancor senza alcuna ipotesi di mira, nell’alfine maturata consapevolezza di quanto, obiettivamente, non avesse a doversi considerare necessaria.
Ma se pur, in un nuovo, leggero fruscio, una seconda onda sonora ebbe a esplodere, travolgendo ancora una volta i miei inseguitori e, in grazia di ciò, concedendomi qualche prezioso istante di vantaggio, qual solo sarebbe per me stato vitale nel considerare la mia andatura necessariamente ridotta, rallentata, incespicante quasi a ogni singolo passo; a dimostrarmi, mio malgrado, quella che forse avrebbe avuto a doversi ritenere contrarietà da parte degli dei stessi nei miei confronti, nei confronti di quella mia impresa per così come, probabilmente, con troppa poca cura era stata da me pianificata, intervenne a manifestarsi la presenza di un secondo gruppo di antagonisti, che, non alle mie spalle, ma dritti innanzi a me, si schierarono, armi in pugno e sguardo serio, tal da non promettermi alcuna possibilità di argomentazione.
E laddove, nella concitazione di quegli effimeri istanti, la mia mente ebbe appena possibilità di elaborare il concetto di quanto, mio malgrado, quel nuovo gruppo non avrebbe avuto a doversi riconoscere in relazione al precedente, non indossando la medesima divisa che pur contraddistingueva le guardie del complesso governativo; al mio corpo non poté essere concessa alcuna possibilità di replica, di reazione a quell’imboscata, qual, a tutti gli effetti, avrebbe avuto a doversi considerare, prima che una lucente scarica avesse a esplodere dalla bocca di quella che, non mi fu concessa neppure il tempo di riconoscerla, avrebbe avuto a doversi considerare un’arma al plasma, nel confronto con il potere distruttivo della quale soltanto inappellabile morte sarebbe stata su di me sentenziata.

giovedì 26 dicembre 2013

2141


Probabilmente, la cosa migliore che potrei scrivere ora è sottolineare come, osservando le dita della mia destra intrise di sangue e di residui di materia grigia, non potei che provare un moto di repulsione all’idea di quanto accaduto e delle dinamiche di come ciò fosse allora occorso. Ciò, credo, contribuirebbe a ovviare almeno in minima parte all’eventualità che, in conseguenza a questa mia testimonianza diretta, io abbia a essere considerata al pari di una violenza psicopatica, fiera crudele assetata di sangue e di morte.
Tuttavia, e non posso dire “purtroppo” qual, ancora una volta, sicuramente risuonerebbe meglio, così come ho già ribadito più di una volta, sangue e morte sono da molti anni per me divenuti una professione, ancor prima che una sfortunata eventualità. E lo sono divenuti non per una scelta del fato, al quale eventualmente rivolgere accuse e imprecazioni, sul quale poter scaricare responsabilità e colpe, alleggerendo, ancora una volta, la mia personale posizione nella questione, quanto e piuttosto soltanto per una mia iniziativa, per una mia esplicita volontà, che a questo genere di vita, alla vita del marinaio e dell’avventuriera, prima, e della mercenaria e ancor dell’avventuriera, poi, ho voluto votarmi, nella ricerca di realizzazione e felicità. In tutto ciò, ho ucciso molte persone, e molte più di quante potrei elencare o ricordare con precisione, in un impossibile conteggio che, forse, sarebbe nobilitante poter considerare semplice qual gravante sul mio animo e sulla mia coscienza come dolorose cicatrici che non incontreranno mai occasione di redenzione e di rimarginazione, ma che, onestamente, mi ritrovano fondamentalmente indifferente, nella consapevolezza di come, obiettivamente, in un’esistenza qual quella che io ho abbracciato, ho reso mia, non dissimile da quella di un soldato di carriera pur senza un sovrano a cui offrire la mia fedeltà per semplice partito preso, sangue e morte hanno a doversi considerare elementi fondanti, che siano i propri o che, parimenti, abbiano a considerarsi quelli dei propri avversari.
E a coloro che, sospinti da qualche strano moralismo, avessero a domandarmi cosa, in tutto ciò, io abbia a distinguermi dai miei antagonisti, dai miei nemici, i “cattivi” delle mie avventure troppo sovente trasformate in una sorta di aulica narrazione, o persino di fiaba, dall’enfasi di troppo appassionati cantori; soltanto una risposta sono fermamente cosciente di poter riservare: il fatto che io sia ancora viva, mentre loro no. Perché se, a esistere, può essere una canzone di Midda, delle cronache di Midda, o quant’altro, ciò non ha da considerarsi merito di qualche elevato valore morale in me intrinseco, a rendermi migliore di altri… ma soltanto, e banalmente, il fatto che io, a differenza di altri, sono sopravvissuta, e continuo, ostinatamente, a sopravvivere, a discapito di ogni mio avversario.
Ho ucciso in passato? Certo.
Continuerò a uccidere in futuro? Certo. Almeno finché avrò voglia di continuare a vivere.
Sono un’assassina? Certo. E sono anche una ladra. Sono una predatrice di tombe. Una guerriera. Una mercenaria. E, soprattutto, sono estremamente brava in ciò che faccio.
Pertanto… osservando le dita della mia destra intrise di sangue e di residui di materia grigia, non provai alcun moto di repulsione all’idea di quanto accaduto e delle dinamiche di come ciò fosse allora occorso. Sebbene, ciò non di meno, ebbi a rimproverarmi per essermi concessa l’imprudenza propria dell’espormi tanto quanto mi ero esposta, in modi che lì mi avevano spiacevolmente condotto, ancora una volta, a essere ferita e, in conseguenza alla natura di quella ferita, di poter nuovamente rischiare di morire negli stessi, identici modi dai quali ero appena scampata. E, ancor più, ebbi allora a rimproverarmi di non essermi preoccupata a mantenere con me un qualche equipaggiamento medico, qual allora avrebbe potuto servirmi a rimediare, nuovamente, alla questione, nell’averne minimizzato l’importanza e nell’aver affidato il trasporto dello stesso soltanto alla mia amica Lys’sh.

« Stupida… stupida idiota! » sbottai a mio stesso discapito, affrettandomi a risollevarmi da terra e, zoppicante, a tentare di allontanarmi da quel luogo, prima di ritrovarmi circondata dai colleghi delle due guardie che avevo appena spedito in gloria ai loro dei, ammesso che credessero effettivamente in qualche divinità o altro concetto assimilabile « Questa è l’ultima volta che lasci la nave senza una dannata sacca con tutto quello che ti potrebbe occorrere… » scossi il capo, nello stabilire, in tal modo, la prima di una nuova serie di regole con le quali, mi piacesse o meno, avrei dovuto scendere quanto prima a patti, nella volontà di non permettere a qualunque pistolero dal grilletto facile di crivellarmi di colpi così come, in troppe poche ore, era già accaduto un paio di volte.

Onestamente: qualcuno, fra coloro che leggeranno questo mio resoconto, ha mai provato a correre con un pezzo di polpaccio in meno?
Perché, se correre con un buco nell’addome non avrebbe avuto a doversi considerare propriamente piacevole o galvanizzante, correre in quelle condizioni avrebbe avuto, soltanto e sgradevolmente, a doversi ritenere un vero martirio. E, purtroppo e peggio, anche una vera follia.
In un simile contesto, inevitabile fu, quindi, un terribile, e peggiorato, déjà vu con quanto già vissuto soltanto poche ore prima nei cunicoli sotterranei della ferrovia metropolitana: una corsa scomposta, e incespicante, in una direzione del tutto sconosciuta e imprevedibile nei propri risvolti, con una grandinata di colpi sparati alle proprie spalle, da un numero imprecisato di inseguitori. Déjà vu reso terribile, ovviamente, dalla porzione di polpaccio negatami e, parimenti, peggiorato dall’assenza, al mio fianco, in mio sostegno, fosse anche e soltanto psicologico, delle mie due compagne, nell’essere lì, mio malgrado, sola. Ferita e sola. E, forse, destinata a morire in un pianeta a me alieno, priva della mia spada, priva del mio compagno, priva della mia famiglia e, soprattutto, priva della consapevolezza di aver compiuto ciò per cui ero stata pronta ad abbandonare il mio mondo e, con esso, la vita per come l’avevo conosciuta sino a prima di quel viaggio sulle ali della fenice.
Thyres… non avrei mai potuto accettarlo!
A pesare ai miei fianchi, allora, mi ricordai essere presenti una coppia di armi da fuoco sottratte al gruppo di mercenari abbattuti nella galleria interrata, armi nel merito del valore e dell’importanza delle quali, sino a quel momento, devo essere sincera, non mi ero particolarmente importata, non mi ero realmente interessata, nell’estraneità delle medesime alle mie logiche, ai miei processi mentali. Ciò non di meno, da necessità non avrei potuto evitare di trarre virtù, ragione per la quale, pur continuando a correre, in assenza della mia spada non mi negai la possibilità di allungare, allora, la mia mancina verso una delle due, neppur ricordando, di preciso, qual genere di fuoco avrebbe prodotto, e, malgrado questo, impugnandola e attivandola, per avviarne il processo di energizzazione, in attesa del segnale luminoso che mi avrebbe garantito la possibilità di sparare.

« Avanti… bello. » lo incitai, quasi pregandolo così come se avesse avuto una propria volontà, un proprio interesse, una propria coscienza, tale da poter decidere in autonomia in che modi e in che tempi soddisfare quella mia richiesta, favorendomi o sfavorendomi in base a un proprio eventuale giudizio di merito, che avrebbe saputo dimostrarsi a mio supporto così come, eventualmente, a mio ostacolo, a mio discapito, a mio esclusivo svantaggio, se solo non mi fossi dimostrata a esso sufficientemente gradita « Ho bisogno di spazzare via un po’ di gente, prima di finire spazzata via io stessa… » soggiunsi, ad argomentare le mie ragioni, le mie motivazioni, in termini che, ero confidente, non si sarebbero potuti riservare ambiguità alcuna e che avrebbero reso la mia posizione più che condivisibile.

Nell’istante stesso in cui la spia relativa alla disponibilità di fuoco dell’arma si accese, non mi voltai neppure e premetti il grilletto, nella speranza, se non, in tal modo, di colpire qualcuno, quantomeno di sorprendere il gruppo di inseguitori con quella risposta al loro fuoco, spingendoli a dimostrare maggiore prudenza nei miei confronti. E quanto ottenni, più per concreta e inoppugnabile fortuna che per effettiva abilità, ebbe sinceramente a sorprendere non soltanto i miei antagonisti ma, ancor più, anche la stessa sottoscritta, costringendomi, addirittura, a rallentare il mio zoppicante incedere per voltarmi e osservare gli effetti di quel mio attacco, di quel mio unico colpo.

mercoledì 25 dicembre 2013

2140


A beneficio comune, mi si conceda di tentare di tirare brevemente qualche somma su quanto qui testimoniato sino a ora.
Punto primo: Be’Sihl e io eravamo stati separati. Punto secondo: Desmair si stava comportando in maniera particolarmente poco simpatica nei miei confronti, non concedendomi di ovviare alle problematiche relative al punto primo. Punto terzo: Duva, Lys’sh e io eravamo considerate delle evase e delle ricercate. Punto quarto: in probabile conseguenza al punto terzo, qualcuno aveva deciso di porre una considerevole somma sulla mia testa. Punto quinto: al momento dell’acquisita consapevolezza nei riguardi del punto quarto, ero ancora senza la mia spada e senza il mio bracciale dorato. Punto sesto: qualcuno ha mai davvero creduto, fosse anche e soltanto per un istante, che sarebbe stata mia opportunità reimpossessarmi della mia arma e del mio monile consacrato?!...

« Altolà! » mi intimò una voce, sorprendendomi a minor distanza di quanto non mi sarebbe piaciuto ritenere accettabile, nel mentre in cui un colpo laser, esploso a evidente scopo intimidatorio, attraversò guizzante l’aria al di sopra del mio capo, per andarsi a impattare, silenzioso e letale, contro il muro al quale avevo bloccato il mio prigioniero, nel volermi riservare l’opportunità di operare quietamente con lui… su di lui.
« Dove è la mia spada?!... » roteai ulteriormente, e ora con impetuosa foga, la mia lama nella sua gamba, per costringerlo a offrirmi risposta e a offrirmela in fretta, nel ben comprendere quanto il mio tempo avesse a doversi ormai considerare pressoché scaduto « Parla! »
« Si fermi! » mi ordinò, un’altra volta, la voce di pocanzi, con evidente dispetto in conseguenza alla mia assenza di interesse innanzi al suo primo tentativo a mio riguardo, nella mia direzione, da me pressoché ignorato quasi neppure avesse aperto bocca « Mani sopra la testa e niente scherzi… o il prossimo colpo non mancherà il bersaglio! » soggiunse, offrendo chiaro riferimento al primo attacco volutamente rivolto a vuoto e che pur, mi concessi occasione di rapida riflessione, nel costringermi a ricordare con qual genere di armi avessi allora a che fare, non avrebbe potuto essere altrimenti, nella certezza che il laser avrebbe trapassato il mio corpo e nel rischio, comunque troppo elevato, che esso avrebbe potuto, in ciò, andare a freddare, oltre la sottoscritta, anche la mia vittima, cui interesse collettivo avrebbe avuto a doversi considerare quello di liberarla.
« La mia spada! » insistetti, cavando, in conseguenza alla crudeltà imposta a quel malcapitato, addirittura un alto spruzzo di caldo e viscoso sangue, segno di quanto, ormai, l’arteria dovesse essere stata lesa, che ebbe a colpirmi il volto e parte del busto e innanzi al quale, ciò non di meno, non ebbi a provare il benché minimo ribrezzo, abituata, mio malgrado, a ben di peggio, in troppi anni trascorsi a combattere, e a combattere senza l’ausilio di armi tanto sofisticate e “pulite” quali avrebbero potuto essere considerate quelle pistole e quei fucili laser, così come il mio addome avrebbe potuto dolorosamente testimoniare « … dove si trova?! »
« Non è qui…! » pianse, letteralmente, accompagnando simile replica a inevitabili grida di straziante dolore e, non di meno, a una nuova sequela di insulti che, per sua sfortuna, vennero nella maggior parte del loro annovero censurati per effetto del traduttore automatico « Non è qui… l’hanno riscattata… praticamente subito… »

Ho sempre amato pensare che, in grazia di anni trascorsi a combattere nei più disparati angoli del mio mondo e, in effetti, non soltanto lì, mi fosse stato concesso di sviluppare una sorta di senso aggiuntivo, una percezione del pericolo del tutto indipendente dalla mia consapevolezza nota, dal mio controllo cosciente, e facente riferimento a quell’istintività primordiale volta ad assicurare salvezza anche nelle condizioni più disperate, volta a concedere possibilità di sopravvivenza anche ove, altrimenti, non ve ne sarebbe stata. In grazia a tale istinto, del resto, ero sovente riuscita a eludere aggressioni che, altrimenti, non mi avrebbero concesso opportunità di salvezza, attacchi violenti dai quali non sarei altrimenti potuta scampare in alcun modo. E che ciò avesse a doversi considerare un dono degli dei o meno, un benevolo riconoscimento per quanto ero riuscita a ottenere in conseguenza alle mie imprese, alle mie gesta sempre estranee a ogni senso di ordinarietà; quanto, piuttosto, una mera conseguenza di un estremo sviluppo degli altri sensi, in misura tale da permettermi di poter cogliere anche quanto ai più sarebbe sfuggito, con ovvia eccezione della mia amica Lys’sh; obiettivamente, non mi era né mi sarebbe mai importato granché. Perché, in fondo, sono sempre stata una persona semplice e, in conseguenza a una rara svolta positiva nella mia disordinata vita, non mi sarei mai posta troppi dubbi, troppe domande.
Quanto, purtroppo, non avrei mai potuto supporre sino a quel giorno, sino a quel momento di crisi, sarebbe stato come il mio senso addizionale, così particolare e utile, non avrebbe sortito effetto alcuno nei confronti di una di quelle nuove armi, l’effettiva minaccia delle quali, ancora, non doveva essere stata, malgrado tutto, acquisita in maniera consapevole dal mio corpo e dal mio subconscio e inconscio… non, per lo meno, laddove, per la seconda volta nel giro di poche ore, mi ritrovai a essere sforacchiata, poco gradevolmente, da un colpo laser, accuratamente mirato, a scanso di spiacevoli effetti collaterali per il mio prigioniero, in direzione della mia gamba destra e, in particolare, lì del mio polpaccio.

« Thyres… » fu il mio turno di gridare, quasi di ruggire il nome della mia dea, invocandola in diretta conseguenza alla sofferenza in ciò impostami.
« Signora! Si fermi o… » cercò di giustificare il proprio atto la voce a cui, ancora, non avevo associato un volto, nel concedermi, evidentemente, ancora occasione di resa, prima di destinarmi un terzo, e allor necessariamente definitivo, attacco.

Suo malgrado, tuttavia, per quanto il mio sesto senso non fosse intervenuto per tempo, a evitarmi quella nuova, e spiacevole, ferita, l’adrenalina conseguente al dolore impostomi ebbe ragione di scatenare il fronte più violento e selvaggio del mio carattere, invocando da me brama di sangue e, in ciò, trovandomi più che desiderosa di soddisfarla, di esaudirla, e di provvedere, in tal senso, nei tempi più brevi che avrei mai potuto riservar allora qual miei propri.
Così, prima ancora che la sua ultima asserzione potesse trovare occasione di completamento, la lama del pugnale di cui mi ero impossessata, e che sino a quel momento aveva scavato nelle carni del mio prigioniero, venne da esse sottratta e proiettata, con precisione e forza nel bel mezzo del collo di quel mio nuovo antagonista, di quel mio inatteso aggressore, negandogli non soltanto la possibilità di parlare ma, anche e ancor più, quella di vivere… e di sopravvivere alla stolidità del suo gesto, di quell’attacco a me rivolto non con l’intento di uccidermi, quanto e soltanto di costringermi alla resa.

« … o… cosa? Cosa, dannatissimo figlio d’un cane?! » sbraitai, tentando di resistere al desiderio di contorcermi per il dolore conseguente a quel nuovo buco all’interno delle mie carni, nella consapevolezza di non poter avere a disposizione troppo tempo da perdere futilmente prima che un nuovo processo di necrosi si sarebbe riservato l’opportunità di completare quanto il precedente aveva mancato.
« … fa male, non è vero…? » domandò, ridacchiando, il mio primo interlocutore, il mio prigioniero, non comprendendo quanto sagace avrebbe avuto a intendersi, da parte sua, in quel particolare momento, mantenere assoluto silenzio, fingendo magari di essere già morto nella speranza che io potessi avere occasione di dimenticarmi di lui.

Ciò non di meno, come già dimostrato, la sagacia non avrebbe avuto a doversi considerare propriamente la sua virtù maggiore, ragione per la quale, così esprimendosi, ebbe solo a conquistarsi la mia ira e, con essa, una carezza della mia nuova mano destra, nell’impeto della quale il suo volto venne, letteralmente, spalmato contro il muro alle sue spalle, insieme alla sua materia celebrarle e alle ossa del suo cranio, in un atto tanto repentino che, probabilmente, non gli fu neppure concessa occasione di comprensione a tal riguardo… per sua grazia.

« … non lo so! » replicai in direzione del suo cadavere, ancora ringhiando non dissimile da belva ferita, qual, a tutti gli effetti, allora ero « Dimmelo tu, intelligentone! »

martedì 24 dicembre 2013

2139


« Il fatto che “lei” sia Midda Bontor rappresenta un ostacolo o un aiuto, nel contesto specifico del mio specifico bisogno?! » domandai, non risparmiandomi dell’ironia gratuita, del facile sarcasmo nel confronto di quella particolare forma di cortesia ancora una volta adottata nei miei riguardi, e tale, almeno alle mie orecchie, alla mia attenzione, da far apparire tale asserzione qual rivolta non tanto in mia direzione, quanto verso un’altra persona, verso un ben diverso soggetto, tale da dovermi, addirittura, imporre dei dubbi nel merito della mia stessa identità.
« Come…? » esitò l’altro, riservandosi una certa difficoltà nel comprendere quanto io desiderassi asserire e, nella fattispecie, i toni propri di quel mio ultimo interrogativo, a intendersi tutt’altro che serio, tutt’altro che, in qualche misura, effettivamente motivato se non dalla volontà di minimizzare l’importanza del mio nome in favore del ritorno a un concreto interesse in direzione del mio scopo.
« Per quanto abbia sicuramente a dovermi considerare onorata per il fatto che tu sia stato in grado di riconoscermi, gradirei comprendere se questo fatto può essere considerato d’aiuto, o meno, all’inalterata prospettiva della necessità, per me, di recuperare la mia spada. » mi sforzai di esplicitare con maggiore calma, con concreto impegno in direzione del mantenimento di freddo distacco, tale da non imporgli necessità di doversi anche sospingere a dover interpretare, o meno, le mie parole per così come allora scandite « Comprendi…?! »
« Sì. Certo. Certamente. » annuì, apparendo desideroso di ritrovare a sua volta il controllo perduto e, ciò non di meno, continuando a guardarmi quasi gli fossi appena apparsa innanzi allo sguardo e, sino a quel momento, non avessimo avuto precedente occasione di confronto, così come pur il suo costato superficialmente ferito avrebbe potuto chiaramente testimoniare fosse occorso « Avrei dovuto comprenderlo che era lei. » riprese poi, ancora perdendo di vista la tematica principale per smarrirsi nell’inseguimento di quella questione per me secondaria « Centomila crediti… dannazione! » sbofonchiò subito dopo, scuotendo il capo e, ciò non di meno, in tal modo, lasciandosi sfuggire, forse involontariamente, un particolare per me sino a quel momento rimasto inedito e, che pur, avrebbe allora potuto presumibilmente mettere in luce un aspetto della questione sino ad allora rimasto in ombra e, ciò non di meno, indubbiamente meritevole di attenzione da parte tanto mia, quanto e sicuramente anche delle mie compagne.
« Cosa vuoi dire…? » domandai, osservandolo con severità, desiderosa, in ciò, di costringerlo a proseguire, allora, in quella direzione nella quale, pur, si doveva essere impegnato per mera fatalità « Centomila crediti per cosa…?! » lo inquisii, benché, per quanto avessi a dovermi considerare aliena e primitiva, difficilmente l’idea intrinseca in simile somma avrebbe avuto a doversi considerare per me inintelligibile nel proprio reale significato.
« La sua spada… so dove si trova, se ancora la desidera. » tentò di distrarmi, in maniera sufficientemente goffa, in conseguenza all’evidenza di essersi concesso di parlare un po’ troppo, nel merito di questioni attorno alle quali, probabilmente, avrebbe fatto meglio a tacere « Mi liberi… e la condurrò da… »

C’è soltanto una cosa che mi può infastidire più dell’essere ritenuta idiota in diretta conseguenza alla sviluppata estensione della mia circonferenza toracica: l’essere ritenuta idiota… a prescindere.
Così, senza neppure concedergli di condurre a termine la frase con la quale stava allora cercando di imbonirmi, lasciai roteare un’altra volta il pugnale all’interno della mano, per cambiare il verso della lama dal fronte superiore a quello inferiore. E, senza riservarmi né incertezza, né occasione di ripensamento, conficcai la lama del medesimo all’interno della sua muscolosa coscia destra, premendolo con tanta foga da sospingerlo a trapassarla da parte a parte e, in ciò, persino, a conficcarsi nel terreno sottostante. Un gesto rapido, deciso, e pur perfettamente misurato, nel quale mi concessi occasione di ovviare al rischio di trapassare non solo l’arteria lì in mezzo celata, ma anche la vena e l’osso, nel limitarmi, in ciò, a ledere semplicemente la muscolatura in un atto che, pur ineluttabilmente doloroso, così come ebbe a dimostrare l’improvviso grido che si levò verso l’alto del cielo, non avrebbe avuto a doversi considerare né mortale, né causa di danni permanenti, qual pur, volendo, avrei potuto allora imporgli.
Fosse stata, tuttavia, mia volontà ucciderlo, non mi sarei rivolta né alla sua coscia, né al suo addome, preferendo puntare più esplicitamente alla sua gola o al suo cranio, come pur, ancora, non mi ero riservata opportunità di compiere nella sola volontà di riuscire, in tutto ciò, a ottenere una risposta realmente degna di attenzioni da parte mia, qual pur, sino a quel momento, ancora non mi aveva concesso…

« Parla! » esclamai, a denti stretti, quasi ringhiando in suo contrasto, nel mantenere ferma la mancina sull’impugnatura del pugnale e nell’imporre una leggera, quasi impercettibile, pressione in senso rotatorio sulla medesima, quanto sufficiente, ciò non di meno, a  imporre una viva reazione di dolore a discapito del mio prigioniero « Centomila crediti per cosa…?! »
« Dannata vacca! » imprecò egli, egualmente a denti stretti, sebbene per un’altra ragione, per un’altra motivazione, nel cercare di trattenere un secondo grido che pur, di lì a un istante dopo, fui in grado di strappargli dalla gola « Per te… per te! » rispose, cercando di non contorcersi eccessivamente sotto l’azione della lama del pugnale, nella consapevolezza di quanto, così facendo, non avrebbe fatto altro che peggiorare la propria situazione e il danno impostogli « Centomila crediti sulla tua testa… »
« Da parte di chi…?! » insistetti, non concedendomi alcuna possibilità di sorpresa a quell’annuncio, laddove, del resto, simile verità avrebbe avuto a doversi allora considerare più che attesa, più che preventivata, sin dal momento in cui quella somma in crediti era stata tanto inopportunamente scandita in quello sventurato commento fuori controllo « Chi è pronto a pagare tanto per la mia morte?... » incalzai, ancora imponendo una leggera pressione su quella lama, nel mentre in cui essa, rigirando all’interno delle sue carni, lo costrinse a concedermi un nuovo grido, nonché una lunga sequela di improperi molti fra i quali neppure riuscirono a trovare una qualche occasione di corrispondenza attraverso il traduttore automatico, il quale dovette, in tal modo, arrendersi all’evidenza di non poter fare null’altro che censurare quei contenuti… non che, nella loro perdita, avrei avuto di che elevare rimpianto.
« Non conosco il suo nome… non lo conosco! » gemette il mio interlocutore, alfine concedendomi una qualche risposta dopo tanto sbraitare, dopo tanto agitarsi in conseguenza al quale, tuttavia, da parte della sottoscritta non era stata intrapresa alcuna azione volta a dimostrargli pietà, atta a riconoscergli una qualche umana compassione per la sofferenza in tal modo dimostrata, per la pena in tutto quello promossa qual propria « Ho solo sentito la notizia... non si parla di altro, fosse anche soltanto come semplice chiacchiera… sta viaggiando rapida… centomila crediti cambierebbero la vita di chiunque! » argomentò, in spiegazioni tanto deboli, così effimere sotto ogni profilo di difendibilità, da risultare paradossalmente oneste, sincere, laddove alcuna scusa, pur inventata da una mente priva di originalità e fantasia, sarebbe stata similmente palese nella propria più semplice mancanza di concretezza.
« Centomila crediti sono una promessa inutile se non sai da chi poterli esigere! » osservai, ciò non di meno, costantemente critica e severa a discapito di quel mio possibile boia, animata, in tal senso, dalla ferma consapevolezza di quanto, se solo egli ne avesse avuto la possibilità, di certo non mi avrebbe mostrato particolare generosità… anzi, di certo avrebbe approfittato dell’occasione per poter pensare di riservarsi, qual propria, quella somma « Vuoi davvero che io creda che, nel momento in cui mi avessi catturata o uccisa, ti saresti ritrovato incapace di ipotizzare a chi indirizzarti per poter pretendere la tua ricompensa?! » lo provocai, forzando ancora di poco la lama e, in ciò, iniziando tuttavia a spillare un certo riflusso di sangue dalla sua coscia, segno di quanto, ormai, la ferita avesse a doversi considerare in eccessiva espansione e, forse, prossima al rischio di ledere qualcosa di più di semplice massa magra.
« … dannazione… » gridò, in compagnia di molteplici altre imprecazioni « Basta, vacca! Basta! » supplicò, rantolando quella richiesta in toni probabilmente non proprio eleganti, e, ciò non di meno, comprensibili nel contesto in cui stavano venendo allora adottati « Non ho mai preso neppure in considerazione l’idea di poterti incontrare… figuriamoci catturarti o ucciderti… »

lunedì 23 dicembre 2013

2138


« Ripetilo un’altra volta e ti prendo a schiaffi… » lo minacciai, in tal senso concedendomi di apparire più scherzosa che seria, laddove, volendo esprimere un’effettiva minaccia, avrei dovuto scegliere ben diverse parole rispetto a quelle lì allora valutate qual utili allo scopo « Sì. Una spada. » confermai, per l’ultima volta « E se ti può sembrare tanto assurdo che io possa rischiare di oppormi al potere dell’omni-governo solo per una spada… cosa dovrei dire di te, che ti stai dimostrando pronto a morire in nome dell’omni-governo solo per una spada?! »

Un concetto già espresso, quello, e che pur, se pocanzi era stato utile a permettere il raggiungimento di un diverso equilibrio in quel dialogo, assestando un primo colpo in contrasto all’imperturbabilità del mio prigioniero, allora permise un ben più evidente successo, nel sospingere quella guardia a maturare consapevolezza nel merito di quanto ineluttabilmente assurdo, ben più folle di quanto io non mi sarei mai potuta proporre essere, sarebbe stato da parte sua sacrificarsi così come, pur, si sarebbe potuto dimostrar lì pronto a compiere sotto l’azione del suo stesso pugnale. E dove anche, ogni sua convinzione, ogni suo principio, avrebbero avuto a doversi considerare forse inespugnabili nel confronto con l’idealismo che, necessariamente, gli doveva essere stato richiesto per essere assunto in quel ruolo, a difendere quell’immensa armeria dalle mire di chiunque, altrimenti, ivi avrebbe potuto facilmente rifornirsi; tanta dedizione, tanta fermezza, non avrebbe potuto ovviare a incrinarsi e a crollare nel confronto con l’evidenza di quanto superfluo, superficiale e stolido sarebbe stato lì accettare la morte per ovviare alla scomparsa di una singola, semplice spada, qual quella da me in tutto ciò invocata.
E così…

« D’accordo… d’accordo… si fermi! » sospirò l’uomo, arrendendosi e, in tali parole, accettando l’idea di scendere a patti con me, riconoscendo quanto, se pur tradimento il suo sarebbe stato, esso avrebbe riguardato soltanto una semplice spada… e nulla di più, nulla di peggio qual, sicuramente, da quelle mura avrebbe potuto fuoriuscire « Cosa desidera da me… di preciso?! » mi interrogò, tornando a imporsi un certo autocontrollo e, in grazia di ciò, riprendendo ancora una volta le distanze da me, nel rivolgersi nella mia direzione con quella particolare declinazione di cortesia che, come non mi stancherò mai di ribadire, non ero sinceramente in grado di comprendere, non tanto nella propria forma, quanto e piuttosto nelle proprie ragioni, non comprendendo quale accidenti di formalità potesse essere supposta qual necessaria innanzi a chi si sta apparentemente impegnando allo scopo di torturarti e ucciderti, così come io avrei dovuto essere allora lì riconosciuta intenta.
« Ti prego… non mettere in dubbio la tua stessa intelligenza con domande così stupide. » obiettai, aggrottando la fronte e, ciò non di meno, nel contempo, ritraendo appena la lama dalle sue carni, per concedergli una possibilità di respiro e dimostrare, in tal senso, tutto il mio interesse a riconoscergli ancora occasione di sopravvivenza, se soltanto si fosse impegnato adeguatamente a collaborare, come atteso, come richiesto, come ricercato sin dal principio « Mi serve il tuo aiuto per riuscire a comprendere dove diamine sia finita la mia arma in questo vostro colossale deposito… non ho intenzione di spendere qui i prossimi dieci anni della mia vita per ispezionare ogni singolo angolo di ogni singola stanza di questo complesso. » esplicitai, a non concedergli possibilità alcuna di dubbio a tal riguardo « A costo di sbagliarmi, credo proprio che potrei aver di meglio da fare. »
« Avremo bisogno di un terminale a cui connetterci… » commentò, non con il tono di chi desideroso di offrire spiegazioni, nell’esprimere semplicemente un dato di fatto, un’osservazione dal suo punto di vista assolutamente banale, persino retorica, e che pur, tale, non avrebbe mai potuto risultare nel confronto con la visione del mondo a cui io ero abituata e ad allontanarmi dalla quale stavo pur lì sinceramente sforzandomi di fare, per adeguarmi a tutto ciò che, allora, mi stava circondando, nel quale mi ero ritrovata, volontariamente e pur, forse, inconsapevolmente, immersa fino al collo e ben oltre ancora « E del codice di pratica del suo… arresto. » esitò, quasi, nello scandire quell’ultima parola, nel confronto con la quale non avrebbe potuto evitare che scendere a un psicologico compromesso con l’idea di star allora aiutando una ricercata, qual, necessariamente, non avrei potuto che essere nel considerare la particolarità di quella mia richiesta di restituzione del maltolto.
« Il codice di pratica…?! » ripetei con incertezza, nel tentare di elaborare quella richiesta non tanto nel suo significato, alla comprensione del quale sarei potuta pur giungere autonomamente, quanto e piuttosto nell’effettiva risposta che, nel confronto con la stessa, era da me attesa, benché, nella mia memoria, non vi fosse alcun ricordo, alcuna pur vaga impressione di aver mai avuto coscienza di una simile informazione, forse mai comunicatami, forse presto dimenticata, o, forse, neppur recepita, complice il filtro censorio che, talvolta, il traduttore automatico rappresentava nel confronto con quanto mi veniva rivolto laddove non era incontrato un corrispettivo adeguato all’interno dell’esperienza da esso già sino ad allora maturata con la mia lingua natale « Potrebbe essere un problema il fatto che io non lo sappia…? » domandai per tutta replica, purtroppo comprendendo quanto, spiacevolmente, la risposta avrebbe dovuto essere considerata già implicita nell’interrogativo stesso.
« Non sono propriamente un archivista, signora… ma senza un codice di pratica a cui offrire riferimento, l’idea di ricercare la sua spada all’interno di questo complesso con o senza l’ausilio di un terminale, o del sottoscritto, temo non le riserverà sostanzialmente particolare differenza. Anzi… » esplicitò, confermando purtroppo soltanto quanto già stavo attendendo di ascoltare da parte sua in diretta conseguenza alla mia ultima questione « Però, se ricordasse il nome del suo accusatore, forse incrociando tale informazione con i suoi dati anagrafici, ci permetterebbe di restringere il campo delle alternative… » soggiunse poi, dimostrandosi decisamente più collaborativo di quanto avrei potuto attendermi si sarebbe potuto concedere, soprattutto in conseguenza all’imperturbabilità iniziale.
« Pitra Zafral. » risposi, senza incertezza alcuna, ben ricordando quell’incontro e, in parte, non negandomi un certo desiderio in direzione di una nuova opportunità di confronto con il medesimo, per cercare di chiarire una parte dei malintesi creatisi in occasione di quel mio esordio su Loicare « E il mio nome è… »
« … Midda Bontor! » mi anticipò il mio prigioniero, ove possibile sgranando maggiormente gli occhi rispetto a quanto già non aveva compiuto poc’anzi e, ove possibile, rivolgendomi uno sguardo persino più sorpreso, più stupito rispetto a quando non aveva scoperto quanto, alla base di tutto il mio operato, di tutto il mio impegno, non vi fosse altra volontà al di fuori di quella del recupero della mia lama « Lei è Midda Bontor! »

Lo ammetto. Se già scoprire che i dettagli della mia vicenda avevano iniziato a diffondersi presso un certo genere di ambienti, qual quello nel quale mi ero sospinta a pescare una possibile informatrice a cui offrire riferimento, mi aveva colta in contropiede, non credendo che quanto accaduto avrebbe potuto riservarsi tanto marcato valore; l’idea che, addirittura, il mio nome iniziasse a essere così distintamente noto anche dall’altra parte della barricata non avrebbe potuto rendermi particolarmente entusiasta od orgogliosa. Non, per lo meno, sino a quando non mi fossi concessa una qualche reale occasione di integrazione con quell’ambiente, con quel contesto per me ancora troppo nuovo, ancora eccessivamente sconosciuto nelle proprie più pericolose sfumature.
Se, infatti, giunti a un certo livello, a un certo grado di esperienza, non soltanto inevitabile, ma persino necessaria e apprezzabile ha a doversi considerare fama e nomea, tale da potersi risparmiare, quantomeno, troppe spiegazioni talvolta tediose e ripetitive, soprattutto ove altrimenti da ripetersi, necessariamente e puntualmente, in ogni nuovo contesto affrontato; prima di tale soglia, prima del raggiungimento di un simile punto di svolta, un qualunque eccesso di notorietà non può che essere considerata altresì e sgradevolmente dannosa, nell’esporre il soggetto, e nel qual caso la sottoscritta, a troppe attenzioni ancor non volute, ancor non desiderate e, soprattutto, non ricercate… attenzioni fra le quali, a quel punto, non potei evitare che censire anche quelle rivolte a me e alle mie amiche in quelle ultime ore.

domenica 22 dicembre 2013

2137


« Come desideri… » gli concessi, pertanto, con un lieve movimento d’assenso del capo, nel garantirgli, in ciò, quanto mi stava silenziosamente domandando, quanto mi stava implicitamente richiedendo, pronta a compiere tutto quanto sarebbe stato allora necessario « Però, permettimi un ultimo commento, prima di iniziare. » soggiunsi subito dopo, nel mentre in cui mi riassestai cercando una migliore posizione, una più idonea postura al suolo, per essere più comoda nel confronto con quanto, allora, avrei dovuto compiere « Sebbene non possa che ammirare il tuo spirito di sacrificio, il tuo coraggio innanzi a quanto sta per occorrere, non posso che essere, sinceramente, dispiaciuta dalla tua evidente mancanza di acume, dal momento in cui dovresti aver già ben compreso quanto, morto tu, non mi mancheranno di certo alternative verso le quali destinare i miei sforzi, rivolgere i miei impegni, scegliendo con tranquillità un altro a caso fra tutti i tuoi colleghi e, in ciò, offrendogli la tua stessa alternativa. » argomentai, nel contempo di tali parole trasferendo, per un istante, il pugnale nella destra soltanto allo scopo di poter rivolgere la sensibilità propria della mia mancina, della punta delle mie dita affusolate, alla tesa muscolatura di quello sventurato, quasi a concedermi, in tal modo, occasione per meglio studiarla, per meglio valutare la direzione entro la quale spingere il mio impegno da torturatrice.
« E… vedi. Ove anche il secondo, e il terzo, e magari anche il quarto, potranno dimostrarsi tenaci quanto te, fedeli tuo pari all’omni-governo anche innanzi all’idea di una terrificante morte; sono matematicamente certa che, forse il quinto, o il sesto, o piuttosto il settimo, accetteranno alfine di collaborare, nel dimostrarsi più affezionati alla propria vita, e alle proprie prospettive di futuro, allorché a una semplice paga… » esplicitai, scuotendo allora appena il capo, lì con un gesto di commiserazione, ancor prima che di mero diniego, nel confronto con quanto, da tutto ciò, sarebbe allor derivato per lui, con l’evidenza di quanto inutile, ineluttabilmente, avrebbe avuto a doversi ritenere il suo sacrificio e, con lui, il sacrificio di tutti coloro che lo avrebbero accompagnato al patibolo da me, in tal modo, eretto « La vera domanda che dovresti porti, quindi, è: vale davvero la pena sprecare la mia vita per una sola, semplice e innocente spada?! Perché è di questo che stiamo parlando, sia chiaro: una spada. »

“Fortuna”: dirà qualcuno. “Forse”: risponderò io. O forse no. Non desidero ora disquisire nel merito di quanto ciò che ebbi a compiere, la scelta che, in quelle parole, mi riservai, avrebbe avuto a doversi obiettivamente considerare frutto di una ben precisa tattica, ancor prima che di mera casualità, benevolenza divina utile a ispirarmi le parole giuste al momento giusto. Anche perché, nell’impossibilità a condurre un reale dialogo con tutti coloro che saranno testimoni di queste mie parole, di questa mia cronaca, retorica risulterebbe qualunque dissertazione. Ciò non di meno, non voglio neppure negarmi una certa confidenza, del resto già sopra ribadita, con il genere di individuo che, in tutto ciò, avevo eletto a mio prigioniero. E, soprattutto, con l’assurdità che, necessariamente, avrebbe avuto a doversi valutare, al confronto con il suo pensiero, l’equazione che avrebbe visto posti su due livelli equivalenti la sua vita, e la vita di molti altri, per una semplice spada.
Che poi, per la sottoscritta, quella non avrebbe avuto a doversi considerare una semplice spada e che, obiettivamente, per riaverla, sarei stata più che ben disposta a compiere la carneficina annunciata… ciò ha da intendersi qual un altro discorso, qual un altro tema, di alcuna pertinenza con quello attualmente al centro del dibattito.

« … una spada?! » prese voce, per la prima volta, il mio interlocutore, sgranando gli occhi e, in ciò, esprimendo tutta la propria sorpresa, tutto il proprio stupore per quella che, dal suo punto di vista, avrebbe avuto a doversi considerare una mera assurdità, soprattutto nel considerare quanto già mi ero spinta a compiere nel dichiarare, in tal modo, guerra all’omni-governo di Loicare « Mi crede davvero così idiota da accettare l’idea che lei stia rischiando tanto per una semplice spada, signora…?! » commentò poi, nel rendersi conto di aver, per un istante, concesso alla propria glaciale e imperturbabile apparenza di risultar tutt’altro che gelida e distaccata, ragione per la quale avrebbe dovuto correre ai ripari, nella speranza di poter, ancora, recuperare.
« Non è mio interesse spingerti ad accettare nulla di quanto sto dicendo… » scossi ancora una volta il capo, a minimizzare, in tal gesto, l’importanza di ciò e trasferendo, nuovamente, la lama dalla destra alla mancina, per prepararmi all’intervento, con la più assoluta indifferenza nei riguardi di quel piccolo successo appena riportato nell’averlo convinto a prendere voce « Sentiti libero di morire per ciò che credi. E di credere ciò che vuoi, morendo. » lo invitai, concedendogli assoluta libertà di pensiero e opinione, in ciò « Parimenti, io mi sentirò libera di fare altrettanto… e, soprattutto, di uccidere chiunque si dovesse frapporre fra me e la riconquista della mia spada. »

Apparentemente interminabili, in diretta conseguenza a quelle mie ultime parole, furono gli istanti che seguirono e che mi videro predispormi alla prima incisione sulle sue carni, sui suoi muscoli, atto al quale, come ormai spero non vi siano dubbi di sorta, non desideravo assolutamente spingermi, soprattutto nella consapevolezza di come, da esso, non avrei potuto obiettivamente ottenere null’altro che un cadavere, o pressoché tale, e non, di certo, il coatto collaboratore nel quale, pur, allora speravo. Interminabili per me, invero, così come sicuramente e necessariamente anche e ancor più per lui, che, in tutto ciò avrebbe allora rappresentato tale cadavere, o quanto di più simile avrebbe avuto a ridursi essere.
Ciò non di meno, una conclusione alfine ebbe a giungere. E giunse, prevedibilmente, nel mentre in cui, una porzione infinitesimale della sua pelle, tesa al di sopra dei suoi gonfi muscoli, venne lievemente incisa dalla punta del pugnale, in un taglio sì lieve da non veder provocata neppure, obiettivamente, una perdita di sangue degna di nota e, ciò non di meno, sufficiente ad alterare gli equilibri allora raggiunti in quello scontro, in misura tale per cui, il mio restio candidato collaboratore non ebbe più esitazione alcuna a prendere nuovamente voce e a invocare, in tutto ciò, una qualche, reale, possibilità di intendimento nel merito di quanto fosse accaduto… o di quanto, per lo meno, dal mio, per lui probabilmente incomprensibile, punto di vista, avesse a doversi considerare accaduto.

« Aspetta! Dannazione, aspetta! » esclamò, quasi gemette, nel cercare di sottrarsi all’azione della sua stessa lama e, nella foga del momento, persino abbandonando l’uso della terza persona con la quale, pur, un attimo prima, a me aveva rivolto le proprie uniche parole « Non puoi star facendo tutto questo per solo una spada… »
« E invece sì! » obiettai, arrestandomi nel mio incedere soltanto per tornare a osservarlo e a ricercare, allora, il dialogo al quale egli, sino a quel momento, si era rifiutato di offrire collaborazione alcuna « Perché, a differenza di questo tuo giocattolino, così come di qualunque altra arma con la quale tu e i tuoi amici siete equipaggiati, la mia spada non è qualcosa che si può trovare in offerta al mercato… non è semplice attrezzatura perfettamente intercambiabile con qualunque altro strumento egualmente prodotto in serie. E ci tengo veramente a riaverla. » espressi, allora a lui concedendo soltanto massima trasparenza, effettiva sincerità in tal spiegazione, non avendo ragione per mistificare quella verità, pura e semplice, sola ragione per la quale, del resto, avrei avuto ragione di essere lì in quel momento.
« … una spada?! » ripeté per la terza volta, quasi a cercare di scendere a patti con simile idea, con tale concetto, con quel pensiero che, dal suo punto di vista, non avrebbe potuto incontrare significato alcuno, e dal quale, ciò non di meno, iniziava a comprendere sarebbe allora dipesa la sua stessa sopravvivenza, almeno in quel momento, in quel particolare contesto, in quel frangente che, folle o meno che io potessi essere ritenuta, ero pur la folle che manteneva, letteralmente, il coltello dalla parte del manico.

sabato 21 dicembre 2013

2136


« Qualcuno potrebbe dirti che possiamo farlo in due modi. » premessi, piegando appena il capo di lato nell’osservare il mio interlocutore con atteggiamento curioso, nel mentre in cui egli, apparentemente impassibile, mantenne il suo sguardo fermo su di me, con atteggiamento di impietosa condanna per tutto ciò che, evidentemente, rappresentavo innanzi al suo sguardo « Io non sono mai stata di vedute tanto ristrette e fidati di me se ti dico che possiamo farlo in molti modi… almeno due o tre dozzine, giusto per iniziare. Ma alcuno di questi ti piacerà. Quindi, per favore, scegli di collaborare di tua spontanea iniziativa e questo, forse, ti concederà di uscire da questa avventura non dico illeso, ma quantomeno vivo, e privo di menomazioni sì gravi da impedirti di condurre una vita sufficientemente dignitosa. »

Mi ero concessa quasi un’ora di tempo per studiare il perimetro del complesso e, in esso, di scorgere un qualche, possibile, anello debole nella catena preposta alla sua vigilanza, alla sua custodia, una guardia più giovane, e meno esperta, da eleggere a mio poco entusiasta collaboratore in quell’iniziativa, in quell’impresa.
Mio malgrado, però, da tale preambolo, da simile, pur impegnato sforzo volto a simile delimitazione, a tale definizione e, con essa, all’individuazione del candidato ideale, non avevo ottenuto alcun risultato soddisfacente, tale da confermare, del resto, le aspettative per così come anche suggerite dalla mia informatrice, per solo tramite della quale sino a lì avevo potuto cogliere occasione di spingermi. Per tale ragione, in conseguenza a un così scarso ventaglio di opportunità, l’unica scelta che avevo potuto abbracciare, l’unica alternativa alla quale avevo potuto rivolgere la mia attenzione, si era alfine dimostrata essere quella destinata a compiere tale estrazione, simile sorteggio, affidandomi completamente al caso, senza perdere ulteriormente tempo e allungando le mani, o, per maggior amore di dettaglio, la mano… la destra, ovviamente, ad afferrare colui che, in quel momento, si era offerto a me più vicino, per impegnarmi a convincerlo a offrirmi il proprio supporto, il proprio aiuto.
Non tutto il tempo speso in quell’ultima ora, ciò non di meno, era stato comunque vano e privo di significato. Al contrario. Proprio nel dedicarmi, con tanta cura del dettaglio, a quella scelta, a quella valutazione, non potei ovviare a individuare come, a tutela della sicurezza di quel luogo, non avessero a doversi considerare semplicemente coloro lì presenti, ma anche chi celato dietro ai numerosi occhi tecnologici sparsi lungo tutto il perimetro del deposito giudiziario, sensori costantemente dedicati al solo scopo di ovviare a ogni genere di minaccia a quella fenomenale armeria sulla quale, indubbiamente, molti, anche troppi, sarebbero stati i desideri di possesso che, potendo, non avrebbero mai esitato a esprimersi.
… dopotutto, anche tale cura del dettaglio avrebbe rappresentato il mio impegno a un’intima crescita psicologica. O no…?!

« Io lo so cosa stai pensando… » sodalizzai con il mio prigioniero, donandogli un quieto sorriso, nel mentre in cui, per ragioni opposte, mi concessi di lasciar roteare agilmente fra le dita della mancina, le uniche che avrebbero potuto assolvere a tale compito nella sensibilità della loro carne, un pugnale di foggia militare, con un fronte affilato e l’altro seghettato, a lui stesso sottratto e, in ciò, da me impiegato non diversamente da una sorta di passatempo… un passatempo, invero, consciamente minaccioso nei suoi riguardi, a suo potenziale discapito « Te lo leggo negli occhi. » soggiunsi, a sostegno della mia precedente affermazione per così come appena scandita « Vedi… ti potrà sembrare presuntuoso da parte mia, ma ho trascorso gli ultimi vent’anni della mia vita ad avere a che fare con gente come te, ragazzoni dal fisico ipertrofico convinti di poter soggiogare il mondo intero, e qualunque avversario, con un semplice sguardo. Oltre che con la silenziosa minaccia in esso espressa dal vigore delle vostre membra, dei vostri muscoli tanto gonfi dall’imporvi, spesso e volentieri, addirittura delle sagome grottesche… prive di grazia, prive di eleganza, prive, insomma, di qualunque utilità. »

Parole non del tutto gratuite le mie, analisi non completamente improvvisate, quelle a lui destinate, dal momento in cui, obiettivamente, nella supposta barbarie del mio pianeta natale, del mondo in cui io sono nata e cresciuta, simili individui affollano abitualmente le strade di una città in misura non inferiore ai ratti… e in misura non inferiore ai ratti anche riservandosi una qualche, ipotetica, utilità.
Parole che, prevedibilmente, non parvero in alcun modo riuscire a scalfire imperturbabilità del mio interlocutore, il quale, quasi a seguire un copione da me già per lui letto, mantenne il silenzio e lo sguardo fisso nel mio, là dove, purtroppo per lui, non avrebbe mai potuto scorgere il benché minimo barlume di soggezione, ma soltanto, e semplicemente, indifferenza. Glaciale indifferenza, nella fattispecie.

« Quello che, vostro malgrado, tutti voi sembrate soliti ignorare, trascurare, nell’impegnarvi a esporre, in maniera tanto ostentata, i vostri muscoli, le vostre membra, è quanto, così facendo, non rendiate altresì che più semplice, più facile, quasi accademico, il compito di qualunque torturatore… non imponendogli alcuno sforzo di memoria nei riguardi dei propri studi anatomici, della propria conoscenza atta a concedersi la possibilità di aggredire, di volta in volta, il corpo della propria vittima in maniera assolutamente controllata, e tale da non rischiare di compromettere, involontariamente, l’esito finale, l’obiettivo di tanto impegno, qual solo non potrebbe che essere sempre considerato quello volto all’ottenimento di collaborazione. » proseguii nella mia argomentazione, lasciando danzare un’ultima volta il pugnale fra le dita prima di interrompere il gioco in tal modo in atto, per impugnarlo correttamente e, con la sua lucente punta, con la sua affilata estremità, avvicinarmi al petto del mio interlocutore, accarezzandolo con una leggera e, pur, ben ponderata pressione, utile a inciderne le vesti e, ciò nonostante, a lasciarne intatte le carni lì sottostanti, pur parzialmente scoprendole in corrispondenza, non casualmente, del suo capezzolo sinistro « Giusto per intenderci… » proseguii, appoggiando di piatto la lama dell’arma sul capezzolo stesso, osservandolo inturgidirsi in conseguenza al freddo contatto con la stessa « … una persona particolarmente ignorante e brutale, in questo momento, volendo ottenere la tua collaborazione potrebbe pensare di agire, che ne so, in questo stesso punto, privandoti di questo simpatico bottoncino di carne sospinto dalla consapevolezza dell’idea del dolore che da ciò potrebbe per te derivare. »
« Io, però, non sono una persona brutale… e, credimi, non ho alcun interesse nei riguardi dei tuoi capezzoli. Non che non sia solita giocare con quelli del mio compagno, beninteso. Ma nei confronti dei tuoi non ho davvero alcun interesse. » incalzai, lasciando scivolare lentamente la lama verso il basso e, in ciò, scoprendo un’ulteriore sezione del suo addome, del suo costato, e con esso una lunga fila di muscoli addominali obliqui e trasversi che avrebbero fatto invidia a molti dei bruti da me conosciuti nel corso della mia vita, seppur non a tutti e, certamente, non a quel grottesco orrore più che ipertrofico del mio semidivino sposo « Discorso diverso, invece, potrebbe essere quello nei riguardi di queste membra… che con tanta passione, con tanta convinzione, ti sei adoperato per sviluppare in maniera tanto appariscente senza pensare a come, in tutto ciò, non avresti fatto altro che semplificare l’opera di chi, come me, avrebbe mai potuto pensare di tagliuzzarti un pochetto, per conquistare la tua collaborazione. »

Devo riconoscerglielo: ancora alcuna reazione, benché, in passato, avessi visto molti cedere alla disperazione senza neppure spingermi a dover realmente impugnare, in loro contrasto, una qualche lama, così come, invece, lì, in quel mentre, non soltanto mi stavo dedicando a compiere; ma anche mi stava vedendo intenta a operare a discapito delle sue vesti.
Ciò nonostante, arrivata a quel punto, non avrei potuto riservarmi molte opportunità alternative e, che la cosa mi potesse piacere o meno, avrei dovuto insistere quanto sufficiente a piegarlo oppure, eventualmente, a spezzarlo se si fosse dimostrato ostinatamente inutile nel confronto con le mie necessità.

venerdì 20 dicembre 2013

2135


« Mi serve una di quelle scatole! » esclamai, quasi, al termine del percorso mentale che mi permise, in maniera non propriamente naturale, né, appunto, immediata, di giungere a simile consapevolezza « Di certo, avranno ordinato all’interno di una qualche lista l’intero inventario… e lì non potrà che esserci anche una qualche indicazione utile a individuare la mia spada! »

Terrificante senso di frustrazione. Laddove, infatti, personalmente non mi fossi mai concessa troppe opportunità di dipendere, nella mia quotidianità e nella quotidianità delle mie imprese, da terzi, lottando, al contrario e da sempre, per la definizione della mia più totale indipendenza, della mia autonomia innanzi al mondo o, in quel caso, all’universo intero; nel confronto con la semplice idea di quella macchina, oltre che delle sue informazioni scritte in un linguaggio da me del tutto ignoto e, ancora, del tutto impossibile ad associare a qualunque genere di traduzione, non fu necessario molto per comprendere quanto non avrei mai potuto ritenermi effettivamente autonoma, non avrei mai potuto illudermi di considerarmi realmente indipendente almeno fino a quando non avessi nuovamente conquistato, con l’impegno e l’applicazione, e, soprattutto, con la conoscenza, tale stato.
Quasi fossi improvvisamente ritornata a essere bambina o, anche, quasi fossi divenuta improvvisamente analfabeta, infatti, ebbi a dovermi ammettere del tutto impossibilitata a gestire in autonomia quella situazione, a districarmi indipendentemente in quello scenario, qual conseguenza dell’assenza di una formazione, di un’educazione, tanto palese da non poter essere minimamente né disconosciuta, né difesa, a meno di non voler risultare io stessa allora brutalmente fiera della mia ignoranza. E se, per un fugace istante, in me fu un moto di ribellione psicologica all’idea di dover realmente sottostare alla schiavitù di quella conoscenza per poter continuare a essere la donna guerriero che ero sempre stata, giustificandomi intimamente con il pensiero di non aver, in alcun modo, avuto il benché minimo bisogno, la benché minima necessità, in passato, di tale genere di nozioni per poter svolgere adeguatamente la mia professione, per poter sgozzare chi fosse necessario sgozzare e conquistare quanto fosse necessario conquistare; fu sufficiente un attimo per maturare consapevolezza di quanto, così pensando, non stessi facendo altro che spingermi allo stesso livello di deprecabile soddisfazione, in conseguenza a un pur innegabile, e mai negato, stato di analfabetismo, che contraddistingue un’ampia maggioranza della popolazione del mio mondo, e la quasi totalità della popolazione mercenaria del mio mondo; adducendo a mia difesa, a mia tutela, le stesse, identiche argomentazioni che, più di una volta, avevo sentito volte in riferimento alla più totale assenza di confidenza con la capacità di leggere, scrivere o far di calcolo. Conoscenze, queste, che, probabilmente, qualcuno fra coloro che un giorno mi leggeranno potrebbe avere ragione di giudicare elementari, al punto tale da non meritar, neppure e realmente, di essere considerabili meritevoli di attenzione, e che pur, sono pronta a testimoniarlo per iscritto innanzi alla mia dea prediletta, non avrebbero mai potuto essere effettivamente ritenute tali, quanto, e piuttosto, persino il più elevato livello di formazione a cui, ai miei tempi, si avrebbe potuto ambire sperare… nella confidenza con il quale, fondamentalmente, ci si sarebbe dimostrati quasi al pari di un gigante in terra di nani.
Rimproverandomi, pertanto, per la banalità con la quale mi stavo per concedere di liquidare tanto banalmente la mia ignoranza, crogiolandomi in essa, non potei fare a meno di prendere nota mentale di quanto, fra i nuovi trucchi che quella vecchia cagna che io ero, e sono, avrebbe avuto a dover imparare, sicuramente non sarebbe dovuto mancare un nuovo periodo utile a concedermi un pur minimo livello di alfabetizzazione, anche a costo, in ciò, di poter rischiare di commettere errori peggiori rispetto a quelli compiuti da parte del medesimo traduttore automatico. Traduttore automatico che, obiettivamente, avrebbe persino avuto, in tal contesto, nel confronto con simile consapevolezza, a doversi giudicare più negativo che positivo, più di un qualche danno che di una qualche utilità, nel concedermi una terrificante giustificazione atta a permettermi di restare tranquillamente celata nella mia ignoranza, e, senza ombra di dubbio alcuno, a essere fiera della medesima, quasi se, il mio dipendere da esso per riuscire a comprendere a a farmi comprendere persino dalle persone che giudicavo, e giudico tutt’ora, mie amiche, avesse a doversi ritenere, non so definire secondo quale criterio di valutazione, una qualche ragione di vanto.

« D’accordo… mi serve una di quelle scatole. E mi serve, anche, un’interprete! »

In tal senso, pertanto, mi concessi opportunità di correggere la mia precedente affermazione, nel ben riconoscere i miei limiti e, in ciò, speranzosamente, nel concedermi una possibilità di crescita nel confronto con gli stessi, applicando, anche a quella sfida, lo stesso criterio da me sempre riservato a ogni sfida della mia vita, a ogni traguardo mai conquistato, per quanto arduo, per quanto ritenuto impossibile. Giacché, come ho sempre sostenuto innanzi a coloro che mi conoscono e dell’amicizia dei quali amo fregiarmi, quanto io sono certa abbia, sino a oggi, sempre contraddistinto in positivo ogni mio successo, ogni mia vittoria, non ha a doversi ricercare tanto nell’aver rivolto il mio interesse, la mia attenzione, verso nuove, gloriose imprese da compiere; quanto nell’aver sempre destinato tutto il mio impegno, tutta la mia foga, alla comprensione dei miei stessi limiti e, maturata simile consapevolezza, al superamento degli stessi, troppo sovente scoprendoli ancor prima mentali che fondamentalmente fisici, ancor prima ipotetici che altresì e sostanzialmente concreti. E così, obiettivamente, non avrebbe avuto che a doversi considerare anche quella volta, non essendoci, dopotutto, nulla che potesse impedirmi l’impiego di quelle nuove risorse in mio sostegno, a mio vantaggio, in supporto alla mia missione…
… nulla, quantomeno, al di fuori dei limiti che io stessa mi sarei potuta, eventualmente, più o meno consciamente imporre.

« Fammi comprendere… » mi costrinsi a riflettere, in quel forse folle monologo con me stessa, benché, obiettivamente, non più insano di molti altri intrapresi in passato, e non sempre in unico rapporto con colei il volto della quale avrei potuto ritrovare riflesso nello specchio « … non ti sei mai fatta problemi ad affrontare zombie e negromanti, a combattere contro gargolle e stregoni, e neppure a contrastare degli angeli o, persino, un dio. E, ora, davvero vuoi creartene nel confrontarti con questo genere di cose… tecnologiche?! »

Illogico, certo, simile titubare da parte mia. Ma nell’essere nata e cresciuta in un mondo nel quale la negromanzia e la stregoneria avrebbero avuto a doversi considerare normali, consuete, persino comuni, realtà con le quali, presto o tardi chiunque sarebbe entrato a confronto, mai volentieri, mai felicemente, e pur, quasi ineluttabilmente, forse necessariamente, persino obbligatoriamente, fosse anche nell’ottica di dover combattere con le unghie e con i denti contro la stessa per guadagnarsi il proprio diritto a esistere o, quantomeno, a mantenere libera la propria anima immortale, non condannandola all’eterna dannazione nella quale, per effetto di oscuri riti, avrebbe potuto ritrovarsi a essere ghermita; negromanzia e stregoneria avrebbero avuto a doversi riconoscere quali scenari per me più consueti, più familiari, forse e persino più consoni con la prospettiva che avevo avuto modo di maturare nei confronti dell’intero Creato. Al contrario di tutta quella nuova sfera per me ancora non soltanto da scoprire e da esplorare, quanto, e ancor più, persino da concepire… da riuscire a comprendere qual realmente esistente e appartenente, in misura altresì non inferiore e non minoritaria, al Creato rispetto a ogni altra cosa.
Così, animata da tale proposito, nel confronto con l’evidente necessità di simile crescita, non mi volli concedere ulteriore intervallo d’incertezza, di indolente dubbio, scegliendo di agire e di agire in maniera più risoluta e immediata possibile al solo scopo di rendere mio un estemporaneo, improvvisato e, sicuramente, non collaborativo, non volontario mentore, con il supporto del quale, ciò non di meno, mi sarei posta nella posizione utile di ottenere quanto, allora, desideravo.