11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

giovedì 2 marzo 2017

RM 060


Quattro piani. Quindici metri circa, spanna più, spanna meno, rispetto al suolo.
Da quando la giovane aveva iniziato a frequentare la propria versione alternativa, da quando aveva iniziato ad apprendere da lei molto più della mera arte della guerra, di una serie di tecniche di combattimento, quanto, e piuttosto, una filosofia di vita, scoprendo, per suo tramite, quella parte della propria identità che da sempre era rimasta repressa nel profondo del suo animo e che, solo in quell’ultimo anno, aveva trovavo occasione di essere scoperto e di manifestarsi, molto della propria maestra, di quel proprio modello, era stato da lei, più o meno consciamente, assorbito e assimilato, non soltanto a livello caratteriale, quant’anche, seppur ovviamente contraddistinto da minor valore, a livello espressivo, tanto nel linguaggio non verbale, quanto in quello verbale. E se, in tutto ciò, alcune gestualità, alcune abitudini proprie della mercenaria tranitha erano finite per divenire anche sue gestualità e abitudini, anche senza una reale intenzione in tal senso; parimenti alcune esclamazioni, parte del suo particolare gergo era stato da lei adottato, a incominciare dal richiamo, anche in quello stesso istante immancabilmente rivolto, alla divinità signora dei mari della religione del regno di Tranith… la dea Thyres. Definire, in tutto ciò, se quell’invocazione avesse a doversi considerare vuota abitudine verbale quanto, e piuttosto, dimostrazione di un qualche, reale, intento di fede, obiettivamente sarebbe stato difficile da parte sua, giacché, anche prima di quell’ultimo anno, nel corso della propria intera esistenza, il suo rapporto con la religione, e con qualunque concetto di divino, avrebbe avuto a doversi riconoscere quantomeno controverso. Ciò non di meno, che esistesse realmente un Dio unico, o uno stuolo di divinità, che avesse a chiamarsi in un modo, piuttosto che in mille altri, anche in quel suo controverso rapporto con la fede, e con il sacro, ella non volle allora impegnarsi in quella coppia di sillabe con il mero intento di colmare un momento di silenzio con un verso, con un suono a caso.
Quattro piani. Quindici metri circa, spanna più, spanna meno, rispetto al suolo.
Chiunque, in quel momento, esistesse a vegliare su di lei, dall’alto dei cieli, piuttosto che dalle profondità del mare, avrebbe dimostrato pietà di lei, graziandola di fronte a una simile prova? Le avrebbe concesso quanto, in tutto quello, ella desiderava?
E, a scanso d’ogni equivoco, in quella fugace preghiera, in quel gesto di fiducia neri riguardi di qualunque entità più grande di lei potesse esistere, non avrebbe avuto a dover essere frainteso qual una banale richiesta di grazia. Poiché, ritrovandosi posta a confronto, per un interminabile attimo, per un infinitesimale frazione di eternità, con quell’abisso, in sospensione sopra di esso, ad accompagnare in quel drammatico volo la propria feroce avversaria, Maddie non ebbe a temere per la propria sorte nell’eventualità della propria morte o, persino, per il dolore che avrebbe potuto esserle riservato nel momento in cui, altresì, fosse riuscita a sopravvivere a tale salto, ove, ineluttabilmente, terrificante sarebbe quindi stata la condizione nella quale ella si sarebbe ritrovata a dover affrontare il resto della propria esistenza, probabilmente ridotta in un’infermità persino maggiore rispetto a quella della propria gemella. Quanto attanagliò, altresì, concretamente, fermamente, ossessivamente il suo pensiero, fu allora l’idea della possibile futilità di quel gesto, di quell’atto sicuramente estremo, e, in conseguenza al quale, tuttavia, alcuna garanzia di successo avrebbe potuto esserle mai riservata, avrebbe potuto esserle mai promessa, dal momento in cui, al contrario, se in quella caduta non fosse riuscita a distruggere la creatura, ineluttabilmente la partita si sarebbe conclusa con la sua sconfitta, la sua morte e, molto probabilmente, l’ancor non esclusa morte di tutti coloro a lei più cari.
Quattro piani. Quindici metri circa, spanna più, spanna meno, rispetto al suolo.
Quell’altezza sarebbe stata sufficiente a uccidere il mostro? Sarebbe stata adeguata a concedere, al corpo straziato, e in tal modo oscenamente stuprato, della propria defunta mentore, occasione di requie così come, ancora, non aveva avuto possibilità di sperare? Oppure, e tragicamente, il morbo cnidariano sarebbe stato in grado di rigenerarne le membra, curarne le ferite, e rimetterla in piedi con la medesima ovvietà già dimostrata nel confronto con le ferite prima subite all’interno dell’auto?

In quell’istante scolpito per sempre nell’inarrestabile corso del tempo, che pur, in tutto ciò, dal suo personale punto di vista parve, addirittura, essersi fermato, a restituire ogni possibilità di pensiero, di riflessione, che pocanzi ella si era negata nel preferire, altresì, agire; la giovane dai capelli color del fuoco ebbe la possibilità di osservare, in una folle anteprima, tutto quello che da lì in avanti sarebbe potuto occorrere, sarebbe potuto avvenire, nel seguire, quasi al rallentatore, il corpo un tempo appartenuto a Midda Bontor precipitare, inesorabilmente, verso il suolo. Terzo piano: sorpresa, sconcerto nel realizzare quanto stesse accadendo, nel comprendere come, dall’essere appena entrata all’interno dell’appartamento, dopo averne abbattuto la porta, la creatura si fosse ritrovata improvvisamente catapultata oltre, verso il cielo della sera e, da lì, in sfumature sicuramente meno poetiche, verso l’oscura solidità del manto stradale sotto di loro. Secondo piano: rabbia, furia espressa da un movimento incontrollato delle devastanti fauci di quell’essere, ad azzannare il vuoto davanti a sé, l’aria che sferzava sul suo corpo, nel mentre in cui un ruggito di contrarietà sorgeva dalla sua gola, a esprimere in maniera assolutamente chiara, intelligibile per chiunque, quanto dolore avrebbe voluto imporre alla propria antagonista per quanto, lì, aveva appena compiuto. Primo piano: paura, inquietudine, in prossimità ormai al termine di quell’orrida caduta, per quanto avrebbe potuto avvenire, per l’evidente mancanza di certezza, anche da parte sua, della propria capacità a sopravvivere, a superare la prova lì riservatale, in termini che, ineluttabilmente, non avrebbero potuto ovviare a confortare la giovane guerriera, offrendole la speranza di quanto, in fondo, tutto quello non avrebbe avuto a doversi considerare vano. E, infine, l’impatto…
… l’impatto al suolo, con un suono difficile da descrivere, difficile da definire, nell’aspettativa, probabilmente, di qualcosa di diverso, nell’idea che un corpo schiantato a terra dopo una simile caduta, dopo un tale volo, sarebbe potuto risultare qualcosa di più dall’apparire un banale tonfo, assolutamente privo dell’enfasi che, in tutto ciò, ci si sarebbe potuti attendere.
Sarebbe stato sufficiente? No… non nel momento in cui, malgrado il terribile impatto, la devastante frantumazione di un numero spropositato di ossa, quell’osceno mostro ancora appariva in grado di muoversi, ancora pareva vivo, o qualunque cosa esso fosse, e, forse, di lì a breve avrebbe raccolto energie sufficienti per rialzarsi e per riprendere là dove lasciato in sospeso.
Tutto sarebbe risultato vano? No… non nel momento in cui, forse qual espressione della divina benevolenza alla quale Maddie si era appellata, il 13 sopraggiunse, rendendosi conto del corpo presente esattamente lungo la traiettoria dei binari troppo tardi: troppo tardi, per un tranvai, per potersi frenare, troppo tardi per poterlo risparmiare, troppo tardi per evitare di travolgerlo in pieno, squartandolo sotto il proprio devastante peso, fra le ruote metalliche e i binari.

« E tu… che ti lamentavi del suono del tram sotto casa… » cercò di ironizzare una voce a lei ben nota, sopraggiungendo alla sua attenzione e, in ciò, sorprendendola.

Non una semplice, folle proiezione della sua mente, ella ebbe allora occasione di comprendere, avrebbe avuto a doversi riconoscere tutto quello, il volo a cui aveva assistito, l’impatto al suolo e, successivamente, il colpo di grazia inferto dal sistema di trasporto pubblico, mai come allora amabile nella propria presenza tanto ravvicinata. Perché, al di là del proprio gesto suicida, del proprio impeto volto al sacrificio senza in ciò porre la benché minima esitazione, riservarsi la pur minima possibilità di freno, la giovane guerriera si trovava ancora a quei quattro piani di altezza, a quei quindici metri circa, spanna più, spanna meno, rispetto al suolo, da dove avrebbe avuto a dover incominciare la propria caduta, lì sospesa, in un eterno attimo scolpito nel tempo, non per una bizzarra percezione rallentata degli eventi, quanto, e piuttosto, per una grossa mano che, saldamente, ne aveva miracolosamente afferrato la caviglia all’ultimo minuto, trattenendola, in ciò, appesa a testa in giù oltre il limitare della terrazza… una grossa mano color ebano che rispondeva al nome di Eliud.

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