11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

venerdì 10 marzo 2017

RM 068


Il secondo intervento chirurgico a cui ella venne sottoposta, in ottemperanza alle sue richieste, seguì il giorno del suo risveglio di poco meno di una settimana, nel rispetto dei tempi tecnici per poter realizzare una coppia di protesi adatte allo scopo.
In un altro mondo, in un contesto meno periferico rispetto a quello proprio del sistema di Ae-Mlich’Cras, un braccio e una gamba come quelle che, alfine, impiantarono alla donna, secondo le sue disposizioni, sarebbero stati probabilmente pronti in meno di due giorni, giacché, allora, non fu suo interesse quello volto a riacquistare sensibilità su quegli arti o, anche e solo, banalmente, offrire loro un aspetto esteticamente piacevole, qual avrebbe potuto esserle garantito attraverso perfetti surrogati artificiali della pelle in grazia ai quali, dall’esterno, la perdita di entrambi gli arti sarebbe stata appena intuibile giusto nell’osservarla completamente nuda, nel punto di congiunzione fra la natura e l’artefatto. Al contrario, per lei, quanto ebbe a dimostrarsi di interesse avrebbe avuto a doversi considerare il mero riacquisto della propria libertà di movimento perduta, così come richiese attraverso due impianti che avrebbero fatto invidia, nel migliore dei casi, giusto a un’ergastolana condannata ai lavori forzati: un braccio e una gamba in mero metallo, ricalcati, nelle proprie dimensioni e proporzioni, dal braccio e dalla gamba a lei rimasti, in maniera tale da non privare di grazia, di armonia, la sua figura, e resi in tutto e per tutto in grado di rispondere ai suoi comandi così come sarebbero stati i propri arti originali, e, ciò non di meno, privi di qualunque possibilità di essere scambiati per essi e, soprattutto, privi della possibilità di permetterle di afferrare un semplice bicchiere di vetro senza correre il rischio di ridurlo a pezzi, nella forza disumana che pur li contraddistingueva. Una soluzione, quindi, rapida, e sufficientemente utile al suo scopo, in grazia alla quale ella avrebbe potuto uscire di lì in tempi brevi, per incominciare quanto prima ciò che, allora, l’avrebbe attesa.
In quel pianeta, in quella città, tuttavia, ottenere anche due semplici protesi grezze ebbe a richiedere comunque il doppio del tempo, aspettativa che sarebbe, ineluttabilmente, triplicata per un prodotto migliore.  Tempo, quello che ella fu ineluttabilmente obbligata ad attendere, che, da lei, non venne tuttavia impiegato, o sprecato così come l’avrebbe altresì giudicato, in favore dell’idea di un ulteriore intervento volto all’eliminazione delle numerose cicatrici che, in maniera assolutamente eterogenea, ne avevano deturpato completamente il corpo: un’operazione semplice, persino banale, quella che le avrebbe permesso di cancellare ogni segno evidente del martirio che aveva subito, e che pur non la vide minimamente interessata, laddove, piuttosto, in quei giorni preferì impegnarsi in ben altro genere di attività. Attività, nel dettaglio, volte a giocare in anticipo in merito al proprio immediato futuro e, nella fattispecie, a non risparmiare credito alcuno nel contrattare l’acquisto di una vecchia nave cargo classe Scarabeo, con la quale assicurarsi la possibilità di poter lasciare quel pianeta il giorno stesso in cui sarebbe stata dimessa, senza perdere ulteriore tempo, e, allora, nell’ordine delle settimane, se non dei mesi, nell’attendere l’arrivo, da quelle parti, in una qualunque nave mercantile dalla quale ottenere un passaggio.
Così, dopo sette giorni dal suo risveglio, Midda Bontor, Guerra, poté tornare ad alzarsi dal letto in maniera autonoma, e a muoversi liberamente, in grazia del suo nuovo braccio destro e della sua nuova gamba destra. E quello stesso giorno, dopo aver ringraziato tutti i medici che l’avevano seguita in quel percorso, nonché i propri soccorritori, che tanto si erano impegnati a restarle vicini, offrendole, a tempo perso, il proprio aiuto persino nell’acquisto della nave; senza aggiungere altro, salì a bordo della scialuppa che l’avrebbe condotta fino all’orbita, là dove, quasi abbandonato alla deriva, l’avrebbe attesa la sua nuova casa.
Prima, tuttavia, di dirigersi verso lo spazio, ella ebbe a impostare rotta verso la propria precedente, ultima dimora, la casa che aveva contribuito a costruire e laddove, per dieci anni, aveva vissuto insieme a suo marito Brote. Una tappa che ella volle considerare necessaria, se non, addirittura, obbligatoria, non tanto per ragioni sentimentali, non per nostalgia del passato o per piangere i propri morti, quanto, e piuttosto, ancora una volta per motivazioni concrete, pratiche, razionali, così come tutte erano state quelle che l’avevano mossa fino a quel momento: non che ella fosse priva di emozioni, o non sentisse esigenza di potersi lasciar sopraffare dalle stesse, piangendo tutto il proprio dolore per quanto accaduto, ritrovatasi a essere vedova dall’oggi al domani senza una reale ragione, senza una concreta motivazione a giustificarlo, in un evento tanto tragico, quanto imprevedibile, che avrebbe avuto a doversi considerare persino assurdo se posto a confronto con il suo passato, con tutto quello che, un tempo, Brote e lei avevano affrontato insieme, con tutte le volte in cui avevano contemplato il volto della morte, ciò non di meno sopravvivendo a simile prova. Un giorno, certamente, quella donna si sarebbe concessa occasione di affrontare il proprio lutto, di fronteggiare la devastante perdita che aveva subito e tutto il dolore che, da essa, sarebbe derivato, piangendo, gridando, bestemmiando il nome di qualunque divinità a lei nota e domandando il perché di tale, assurda, fatalità…
… ma, quel giorno, sarebbe arrivato soltanto dopo che i suoi figli, Caian e Pares, fossero stati ritrovati e salvati, e solo dopo che, comunque, tutti i responsabili di quegli eventi fossero morti e morti, atrocemente, per sua mano. Fino ad allora, prima ancora del dolore, prima ancora del lutto, altre sarebbero state le sue priorità, altri i suoi obiettivi, per perseguire i quali avrebbe avuto necessità di mantenere il controllo assoluto su di sé, sul proprio corpo, sul proprio spirito, sul proprio cuore e, soprattutto, sulla propria mente, imponendo loro di lavorare in perfetta sinergia per compiere tutto ciò che sarebbe stato necessario, avesse questo anche significato rivoltare l’intero Creato da cima a fondo, non fermandosi innanzi a nulla.
Tornata alla dimora di quegli ultimi dieci anni, pertanto, ella non si concesse occasione di contemplare l’orrore ancora impresso all’interno del chiostro, fra quelle mura e quelle colonne, su quei pavimenti, là dove suo marito, e tutti coloro che, a modo loro, erano stati parte della sua famiglia per circa un quarto della propria intera esistenza, erano tragicamente caduti. Con passo deciso, anzi, ella attraversò l’intero cortile, entrò nell’edificio centrale ove erano collocati i loro appartamenti, e scese nello scantinato, un ambiente buio e polveroso ove, al parti di qualunque altro luogo simile, erano stati accumulati, nel corso degli anni, tanti vecchi oggetti non più in uso, considerati non più necessari. E addentrandosi nel profondo di quello scantinato, nella parte più lontana dall’ingresso e, in questo, più antica, nei due lustri di storia di quell’edificio, ella raggiunse l’area dove, un decennio prima, lei e suo marito avevano abbandonato la loro precedente vita, dismettendo gli attrezzi propri del mestiere della guerra per accogliere, piuttosto, quelli dell’agricoltura, dell’allevamento e, soprattutto, dell’essere genitori.
Strappando, con la propria nuova mano destra, il lucchetto arrugginito lì posto, con il quale non avrebbe avuto tempo da perdere, e aprendo il vecchio baule, coperto da quasi un centimetro di polvere e terra, che esso teneva sigillato, Midda Bontor ebbe a ritrovarsi a confronto con tutto il proprio passato, con tutta quella parte della sua vita che, dopo tanti anni, anche nei suoi ricordi aveva iniziato ad assumere toni simili a quelli di un mito lontano, di una leggenda ascoltata in gioventù, ancor più che di qualcosa di realmente vissuto, e di vissuto sulla propria pelle. E sopra a ogni altra cosa, sopra alle uniformi tattiche e all’equipaggiamento militare, sopra ai fucili laser da cecchino e ai cannoncini al plasma ad ampio spettro, sopra alle granate soniche e sopra a un’amplia varietà di lame da lancio e non, queste ultime armi bianche preferite dal proprio defunto sposo, quanto ebbe a salutarla furono, in particolare, due oggetti: la sua spada bastarda, compagna di molte avventure, arma straordinaria, di incredibile pregio e di rarità, nell’essere stata forgiata da un unico blocco di lonsdaleite secondo un’antica tecnica di tradizione elberichiana, tale da rendere quella lama qual sostanzialmente indistruttibile, per quanto, esteticamente, non simile a un blocco di cristallo scolpito; e, forse ancor più importante, una vecchia fotografia, ritraente, attorno a una lunga, allegre, e molto alcolica, tavolata, tutta la sua squadra d’un tempo, formata da una dozzina di uomini e di donne, umani e chimere, che, nel corso degli anni, si erano affiancati a lei nel combattere le stesse battaglie che ella aveva combattuto, nell’affrontare le stesse guerre che ella aveva affrontato, ultimo fra i quali, per semplice ordine cronologico, proprio il compianto Brote.
Quegli uomini e quelle donne, ella non lo aveva mai dubitato, erano i migliori guerrieri dell’intero universo. E così come, in passato, non avrebbe mai voluto avere nessuno di diverso da loro al proprio fianco, così, in quel drammatico presente, li avrebbe rintracciati e avrebbe chiesto il loro aiuto per un’ultima missione insieme.

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