11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

venerdì 26 maggio 2017

RM 145


« Allora è un vizio… »

Dopo aver preso nota di un numero utile per contattare il Grosso e lo Smilzo nel caso di necessità, e dopo averli osservati allontanarsi non senza prima aver chiesto loro di voler essere tanto generosi nei suoi confronti da pagare il conto anche per lei; Midda aveva aperto la busta gialla, per gettare uno sguardo curioso tanto ai soldi, quanto alle informazioni sul caso. Purtroppo per lei, però, apparve subito evidente come sua sorella Nissa doveva aver evidentemente già fatto scuola, giacché, accanto ai sempre graditi, e per l’investigatrice privata quasi sempre rari, biglietti verdi, dentro la busta non avrebbe avuto a dover essere riconosciuto alcun fascicolo e, all’occorrenza, neppure un semplice fogliettino ripiegato con qualche confusa annotazione a mano, quanto, e piuttosto, una più comoda, moderna, e, dal suo personalissimo punto di vista, estremamente scomoda, memoria USB, non dissimile rispetto a quella che già Nissa le aveva fornito nel merito del suo altro caso.
Al di là di ogni facile ironia da parte della sua gemella, invero ella non aveva, né avrebbe mai, vantato un qualche ostracismo nei confronti della tecnologia, di internet, dei social media o di qualunque altra dimostrazione di modernità: non era una luddista, né, francamente, tale le sarebbe mai interessato divenire, così come anche dimostrato dal suo telefono cellulare, la cui mera presenza, e la presenza nelle fattezze non di un pur comodo, comodissimo, e praticamente infrangibile modello degli anni ‘90, ma di un moderno, complicato, e fragile cellulare con applicazioni, connessione dati e tutto il resto, avrebbe potuto comprovare la sua quieta rassegnazione di fronte al progresso, pur concretizzandosi in un modello di seppur di fascia economica. Più semplicemente, ella riteneva ancor estremamente scomoda la lettura dei documenti da un monitor, soprattutto laddove, trattandosi di lavoro, difficilmente un qualunque documento avrebbe potuto restare illeso dopo essere passato dalle sue mani, avendo ella mantenuto, sin dai tempi della scuola, l’abitudine a evidenziare parti interessanti, aggiungere commenti e annotazioni ai margini delle pagine e, talvolta, all’occorrenza, applicare persino qualche foglietto adesivo colorato, per tentare di creare ordine dal caos in un processo che chiunque, osservandola all’opera, avrebbe potuto scommettere con assoluta sicurezza volto in assoluto favore di un risultato diametralmente opposto.
Così, come già anticipato, come sin da subito lamentato, ella ebbe a dover passare da una copisteria, al fine di riprodurre quelle informazioni digitali in un formato per lei più accettabile. E solo quando, finalmente, ebbe fra le mani due cartellette colorate, una bordeaux e una smeraldo, con al loro interno, opportunamente separati, i due fascicoli informativi consegnatile, l’investigatrice poté sentirsi appagata nel proprio feticismo cartaceo, decidendo di dirigersi verso uno dei suoi punti di ritiro preferiti in quella zona: le panchine di legno di fronte alla statua di Balto, a Central Park.

« Ehilà, vecchio mio… » salutò il monumento, con un cenno della mano « Come va oggi? Tutto bene…? » domandò, senza la benché minima ombra di ironia nella propria voce, laddove, su tutto avrebbe potuto scherzare, ma non su Balto.

Premesso che il lungometraggio di animazione del ’95 avrebbe avuto a doversi riconoscere qual uno dei suoi preferiti di sempre, la statua di quel cagnone dal volto felice era sempre stata capace di metterla di buon umore. E, nel corso degli anni, di oltre vent’anni per la precisione, da quando, appunto, aveva visto per la prima volta il film al cinema, e aveva scoperto che le vicende lì narrate, con tutte le necessarie fantasticherie del caso, avrebbero avuto a doversi considerare pur ispirate a eventi storici; quella statua aveva iniziato ad assumere una propria individualità ai suoi occhi, la dignità di un vero e proprio amico fedele, dimostrandosi sempre lì presente per lei, per ascoltare i suoi problemi e aiutarle a trovare una soluzione agli stessi.
“Resistenza, Fedeltà, Intelligenza”: parole volte a omaggiare lo spirito di tutti i cani da slitta, quelle lì sotto riportate, e che, ai suoi occhi, erano da sempre risultate simili a un’incitazione, uno sprone nel confronto con il quale soltanto un vile avrebbe avuto il coraggio di tirarsi indietro. Senza vergogna, addirittura, ella avrebbe potuto persino dichiarare, in fede, che la sua stessa decisione volta a iscriversi all’accademia, avrebbe avuto a dover essere riconosciuta anche conseguenza di quelle stesse parole, di quel motto, in fondo non dissimile da quello della polizia della città di New York: “Fedeli sino alla morte”.
Raggiunto, quindi, il buon vecchio Balto, Midda si accomodò al suo solito posto e, accavallando comodamente le gambe per crearsi un pur modesto piano d’appoggio, iniziò a leggere le informazioni a lei concesse, dando ovviamente la precedenza, per questioni di priorità morale, al caso Anloch.

Carsa Anloch, trent’anni, figlia di immigrati mediorientali ma nata e cresciuta negli Stati Uniti d’America, era una donna di rara bellezza, almeno per quanto, con estrema onestà intellettuale, l’investigatrice aveva potuto constatare dalle foto fornite dal padre della stessa, il suo cliente, nel giorno in cui l’aveva assunta con l’incarico di ritrovarla.
Fino a tre settimane prima, Carsa Anloch era impiegata presso la “Y.S.H. Ltd.”, un’agenzia di marketing di medie dimensioni inserita qual sussidiaria all’interno del vasto ecosistema proprio delle “Rogautt Enterprises”. Tre settimane prima, uscita di casa alle sette di mattina come di sua consuetudine, Carsa Anloch non si era presentata al lavoro, in un evento alquanto insolito per una persona della precisione e della puntualità che ella aveva sempre offerto riprova di essere. E, da quel giorno, nessuno aveva avuto più notizie di lei.
A denunciare la sua scomparsa, manco a dirlo, era stato proprio suo padre, il quale, per primo, si era preoccupato nel non vederla rincasare alla sera. Ufficialmente, le indagini a tal riguardo, da parte della polizia, avrebbero avuto a doversi considerare ancora in corso ma, trascorse due settimane dall’accaduto, e senza ancor riuscire a scorgere un qualche barlume di speranza, il signor Anloch aveva deciso di ingaggiare un privato, nell’illusione di poter ottenere un risultato migliore. Suo malgrado, però, il signor Anloch non avrebbe potuto essere considerato propriamente benestante e, in ciò, pur non volendo badare a spese per ritrovare la sua bambina, aveva dovuto fare i conti con la dura realtà del capitalismo moderno, tale da non garantirgli possibilità di aiuto da parte di qualche grande agenzia investigativa: motivo per il quale, alla fine, era giunto a prendere contatto con la “Thyres Investigazioni”.
Per Midda Bontor, in verità, quello di Carsa Anloch avrebbe avuto a doversi considerare il primo caso di scomparsa, non soltanto quale investigatrice privata ma, anche, quale ex-detective di polizia. Un caso a confronto con il quale, quindi, ella avrebbe avuto a doversi in ineluttabile soggezione, soprattutto all’idea di quanto devastante avrebbe avuto a dover essere considerata la disperazione propria del suo cliente: un caso innanzi al quale, tuttavia, ella non aveva avuto il coraggio di tirarsi indietro, proprio nel ritrovarsi a confronto con la disperazione di quell’uomo, quell’uomo il quale non poteva evitare il pensiero di vedersi sua figlia restituita all’interno di un sacco mortuario e, ciò non di meno, il quale non voleva sinceramente arrendersi, non allo sconforto, non all’inazione per così come pur pazientemente richiestagli dalla polizia.
Così, ella si era azzardata in quel metaforico salto nel buio, con la speranza di poter risolvere il caso, di poter ritrovare, viva o morta che fosse, Carsa Anloch: non tanto per se stessa, per il suo orgoglio personale o per la parcella che avrebbe potuto richiedere al proprio cliente, quanto e soprattutto per offrire occasione di pace all’animo tormentato di quel disgraziato, al posto del quale, pur non avendo progenie, era certa che non si sarebbe mai voluta ritrovare.

« Vediamo un po’ cosa la mia elegante sorellina ha trovato su di te, giovane Anloch… » commentò fra sé e sé, aprendo il fascicolo bordeaux.

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