11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

giovedì 5 ottobre 2017

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A prescindere dal mondo, a prescindere dal sistema solare, per una qualunque persona interrogata a tal riguardo, facile sarebbe stato indicare, fra le peggiori invalidità che mai avrebbe potuto temere, quelle relative alla privazione della vista o dell’udito, certamente i due sensi più inflazionati nel loro uso, e persino abuso, quotidiano. Un giudizio così retorico, addirittura banale, nel confronto con il quale qualunque argomentazione sarebbe stata ritenuta addirittura superflua, a definire il perché di una simile definizione: per chi in possesso di vista e udito, spaventoso, orrendo, sarebbe stata l’idea di poterne essere privato, in quella che, ineluttabilmente, avrebbe giudicato essere qual una devastante barriera a separazione fra se stessi e il resto del Creato, nell’impossibilità, in ciò, di poter godere della bellezza stessa delle forme e dei colori della Creazione o, anche e soltanto, dei suoi suoni, della sua musica, imprigionato in un mondo, in un universo di tenebra o di silenzio.
Paradossale, in tutto questo, sarebbe stato constatare, quindi, come in molti mondi, in troppi sistemi solari, per la maggior parte delle persone, e di quelle persone inserite all’interno di un contesto tecnologicamente avanzato, ogni soluzione ipoteticamente volta a migliorare l’interazione con la realtà a sé circostante, e con le altre persone, avesse finito ineluttabilmente per agire in senso contrario, giustificando un osceno e volontario isolamento dallo stesso Creato che tanto avrebbero rimpianto se solo fosse stato loro negato in conseguenza a una qualche invalidità. Monopolizzati, nei propri interessi, nella propria attenzione, da sempre nuovi meccanismi utili a dirottare ogni senso dal confronto con la realtà a sé circostante al rapporto con un altro, fasullo, piano di esistenza altresì presentato loro qual sempre più affascinante, sempre più conturbante, sempre più importante rispetto alla prima; uomini e donne, giovani e vecchi, umani e chimere, giorno dopo giorno avrebbero continuato ad accecare il proprio sguardo attraverso i più variegati dispositivi elettronici che il mercato avrebbe loro proposto, e a assordare il proprio udito dietro a cuffie e altri dispositivi auricolari ricolmi di musica, effetti sonori e quant’altro, rimpiazzando la propria quotidianità con qualcosa di completamente diverso, e destinato, proprio malgrado, ad alienarli.
Facile, in tutto questo, a confronto con una tanto paradossale verità, comprendere quanto ovvio, quanto banale, sarebbe potuto essere per un qualunque esponente della popolazione di una grande e moderna città come Thermora, fiero baluardo del progresso tecnologico del quarto pianeta del sistema binario di Fodrair, trascorrere la propria vita a distanza tale da quanto, altresì, a loro terribilmente vicino al punto tale che, camminando per le strade stesse di tale immensa metropoli, fondamentalmente impossibile sarebbe stato riuscire a incrociare, fugacemente, lo sguardo di qualche altra persona, di qualche altro essere vivente, laddove ogni attenzione sarebbe stata rivolta, piuttosto, a dispositivi di comunicazione personali con schermi luminosi, applicativi coinvolgenti, giochi elettronici e quant’altro, in termini tali per cui, qualcuno alieno a tale realtà, a simile mondo e a quel modo di vivere, facile sarebbe stato ritenere l’esistenza di una qualche dinamica parassitaria fra le persone di quella città e i loro dispositivi elettronici, in un controllo fisico, o mentale, del quale alcuno di loro avrebbe potuto rendersi forse conto, e che, pur, avrebbe finito, presto o tardi, per causarne la più completa estinzione.
Midda Namile Bontor, nata e cresciuta in un mondo lontano, in un contesto che qualcuno avrebbe altezzosamente definito primitivo, privo di qualunque genere di tecnologia, e diviso in un più basilare confronto fra spada e stregoneria, avrebbe allora potuto essere individuata alla perfezione qual quel qualcuno alieno a tale realtà e a tale modo di vivere, nell’osservare con incredulità, e con una certa diffidenza, il mondo attorno a sé in quella città, in quel pur straordinario agglomerato di persone, umani e non, il cui numero, probabilmente, sarebbe equivalso a quello dell’intera popolazione di uno dei più popolosi regni del proprio mondo, e la cui estensione fisica, probabilmente, avrebbe superato di gran lunga la maggior parte dei più piccoli regni dei proprio mondo. In Kriarya, la città che ella, nel corso degli anni, aveva finito con il riconoscere qual propria dimora, conosciuta anche come città del peccato in grazia alla sua popolazione costituita quasi esclusivamente da ladri e assassini, prostitute e mercenari, nessuno avrebbe mai presupposto di poter sopravvivere a una semplice passeggiata comportandosi in tal maniera, muovendosi in tal modo: se pur, infatti, ovviare a sguardi sbagliati sarebbe stato indispensabile, parimenti evitare di abbassare lo sguardo, di distogliere l’attenzione dal mondo attorno a sé, sarebbe stata sicuramente la prima e più elementare azione che chiunque avrebbe dovuto lì compiere per assicurarsi la speranza di un indomani, ovviando in questo a essere ucciso e ucciso non per qualche motivo profondo, quanto, e piuttosto, in rapporto con la mera evidenza di quanto, entro quelle mura dodecagonali, anche una vita avrebbe avuto uno specifico valore, e tale valore sarebbe stato noto a chiunque. Molti, troppi, in ciò, anche nel suo mondo, erano soliti discriminare Kriarya, considerandola negativamente, giudicandola qual il luogo peggiore entro il quale, qualcuno, avrebbe mai potuto supporre di vivere: ma a Midda Bontor quella città piaceva, perché, in essa, aveva scoperto non sussistere spazio per tutte quelle assurde convenzioni sociali costituite da vani salamelecchi, vuoti perbenismi, volti altrove soltanto a permettere alle persone di potersi considerare migliori quanto, realmente, non fossero e di quanto, parimenti, avrebbero avuto paura a scoprir di non essere. Ma tale avrebbe avuto a doversi ritenere un’altra storia…
Posta a confronto con Thermora, e con i suoi abitanti, l’ex-mercenaria, allora impiegatasi qual capo della sicurezza a bordo della Kasta Hamina, una piccola nave mercantile di classe libellula, non avrebbe potuto ovviare a un istintivo timore nel confronto con tutti i dispositivi elettronici lì presenti, e non in quanto aliena a quella tecnologia, da più di un anno divenuta, invero, anche parte integrante della sua vita, nella protesi robotica alimentata a idrargirio impiantatale in sostituzione del proprio perduto braccio destro, quanto e piuttosto in conseguenza del negativo effetto di assoggettamento che, da quegli schermi, da quelle immagini vivaci e colorate, sembrava derivare per tutti i loro utilizzatori. Nel proprio mondo, nella propria realtà, ella avrebbe probabilmente definito tutto ciò qual una stregoneria, ritenendo quegli uomini, quelle donne, quegli umani e quelle chimere, qual vittime di qualche maleficio, volto a privarli della propria coscienza e a trasformarli in nulla di più vivace di una massa di zombie privi di cervello, in contrasto ai quali, più volte, nella propria esistenza, si era ritrovata a confronto: purtroppo, allora, ella non avrebbe potuto ovviare a comprendere quanto, in tutto ciò, alcuna magia avrebbe avuto a dover essere considerata responsabile, alcuna maligna causa esterna avrebbe avuto a dover essere indicata qual colpevole, quanto, e semplicemente, una pericolosa assuefazione degli abitanti di quella città, di quel mondo, a quello stesso genere di vita, a quella tecnologia ipoteticamente nata per unirli, per offrire loro immediato contatto con chiunque, immediata conoscenza su qualunque cosa, e finita, banalmente, con il garantire loro un sempre comodo, sempre piacevole, sempre sicuro isolamento mentale da ogni cosa, finanche a cadere nella più completa apatia nei confronti della realtà a sé circostante.
Dall’alto dei suoi quarant’anni, età che nel proprio mondo l’avrebbero resa pressoché equiparabile a un’anziana nonna, e che, tuttavia, in quella nuova concezione di realtà non le avrebbero negato tutta la propria femminilità e tutto il proprio fascino, pur contraddistinta da un corpo, da forme e proporzioni di indubbia attrattività, con particolare riguardo per un’abbondante circonferenza toracica da sempre, per lei, croce e delizia, in merito alla quale ella stessa non avrebbe mai mancato di ironizzare ma a riguardo della quale non avrebbe potuto mai negarsi sincero orgoglio, meritato orgoglio in quelle curve tanto piene quant’ancora incredibilmente sode; ella avrebbe potuto dirsi sicura di quanto, in quel momento, pur al centro di una piazza straordinariamente affollata, sotto la luce di ben due soli in quell’inizio di nuovo giorno, si fosse anche denudata e avesse iniziato a ballare la più sensuale danza da lei conosciuta, probabilmente alcuno si sarebbe reso conto di quanto stesse lì, allora, accadendo, nell’impietosa concorrenza che le sarebbe stata comunque imposta da parte di tutta quella tecnologia, di tutta quella lucente e patinata interpretazione della realtà, a confronto con la quale persino il suo conturbante corpo, per molti ragione di desiderio, per molti altri motivo di morte, non avrebbe probabilmente avuto possibilità di successo.
E se, nel confronto con una da sempre quieta e completa accettazione di sé, e, in ciò, con la più totale assenza, da parte sua, di qualsivoglia pudore, ella si sarebbe potuta considerare decisamente incuriosita e quasi prossima a tentare, effettivamente, simile esperimento, quantomeno sfilandosi la camicetta entro la quale il suo prorompente petto stava allor venendo mantenuto saldamente compresso, al solo scopo di verificare simile teoria, tale al contempo ridicolo, e terribilmente desolante, dubbio sull’effettiva cecità e sordità lì presente a discapito dell’intera popolazione a sé circostante; un ben diverso evento attrasse la sua attenzione, proponendole, per una fortunata coincidenza, per un semplice scherzo del fato, o forse per la volontà degli dei, una scena che, in misura non inferiore a una qualche sua esotica danza, avrebbe dovuto attrarre l’attenzione delle decine, delle centinaia di persone lì circostanti, e che pur, terrificante a dirsi, risultò del tutto trasparente alla stessa, quasi avesse a doversi ritenere nulla di più e nulla di meno di una mera allucinazione della medesima donna. Ma non allucinazione avrebbe avuto a doversi ritenere la coppia di bambini che, tenendosi per mano, stavano allora correndo a perdifiato attraverso l’affollata piazza, scansando a destra e a manca ogni distratta persona che ebbe a pararsi loro innanzi, per cercare di sfuggire, in simile azione, in tanto concitato tentativo, a un gruppo di uomini alle loro spalle, contraddistinti da identiche uniformi nere tali da poterli facilmente inquadrare qual membri di un qualche genere di organizzazione, forse e persino anche ufficiale in quel mondo, in quella città.
Ma all’attenzione Midda Namile Bontor, in quel momento, in quel frangente, che quegli uomini in nero avessero a doversi considerare ufficiali o meno all’interno di quel mondo, di quella città, poco valore avrebbe potuto vantare. Perché in quel mentre, nell’indifferenza di un’intera affollata piazza, due bambini stavano correndo terrorizzati, stavano chiaramente cercando occasione di fuga, di salvezza, dalla minaccia per loro rappresentata da quegli uomini… e nulla di più, le sarebbe stato allor necessario sapere per decidere di intervenire: da sempre donna guerriero per vocazione, in passato mercenaria per professione, conosciuta nel proprio mondo natio con molti nomi, con molti altisonanti appellativi, fra i quali Figlia di Marr’Mahew, dea della guerra; per quell’affascinante donna dagli occhi azzurro color del ghiaccio e dai capelli rossi color del fuoco, non sarebbero lì stati necessari molti altri dettagli, particolare ulteriore contestualizzazione, per discernere quanto avrebbe potuto considerare giusto da quanto no. E due bambini spaventati inseguiti da un gruppo di uomini, e di uomini probabilmente armati e pericolosi, non avrebbe mai potuto rappresentare per lei, in alcuna maniera, una qualsivoglia definizione di giusto.

« Ehy… voi laggiù! » levò, quindi, un alto richiamo, in direzione dei protagonisti di simile inseguimento, nel tentativo di attrarre la loro attenzione « Cosa pensate di fare…?! »

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