11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

venerdì 24 novembre 2017

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Le vite di Diciannove-Cinquantadue e di sua sorella Diciannove-Cinquantotto non erano mai state quelle di due comuni bambini. Non, per lo meno, che essi ne avessero memoria. E non, in effetti, che essi sapessero in quali termini avrebbe avuto a doversi considerare comune la vita di due bambini loro pari.
Da quando, infatti, entrambi erano in grado di ricordare, tutta la loro esistenza era stata tale all’interno di un grande edificio dalle pareti bianche, un edificio che, forse, avrebbero avuto a dover definire casa e che, ciò non di meno, non era mai stato loro indicato qual tale. In effetti non era mai stato loro indicato in alcun modo. Privi di qualunque educazione nel merito del concetto stesso di tempo, i due bambini non avrebbero saputo indicare la propria età, né, tantomeno, per quanti cicli fossero rimasti prigionieri all’interno di quel complesso. Obiettivamente, anzi, non avrebbero avuto neppure idea del concetto stesso di prigionia se, a un certo punto della loro vita, un uomo, un uomo diverso dalla maggior parte degli altri con i quali avevano mai avuto a che fare, non avesse loro iniziato a suggerire l’evidenza di una verità più complessa, e di un mondo più amplio, rispetto a quanto, entrambi, non avessero mai conosciuto.
Quell’uomo, inizialmente presentatosi al pari delle tante persone con le quali, quotidianamente, i due pargoli si ponevano costretti a interagire all’interno del grande edificio dalle pareti bianche, con una certa discrezione, con delicata attenzione, aveva iniziato a interagire con loro in termini nei quali alcun altro era solito fare, e aveva iniziato a spiegare ai due bambini dell’esistenza di un intero universo al di là di quelle pareti bianche. Un universo composto popolato da un’infinità di persone diverse, appartenenti a specie diverse, in misura maggiore a quanto mai essi avrebbero avuto mai occasione anche solo di immaginare. Un universo infinitamente più amplio del pur grande edificio nel quale avevano vissuto sino a quel momento, o avevano memoria di aver vissuto sino a quel momento. Un universo, addirittura, contraddistinto da altri bambini. E questa rivelazione, più di ogni altra, aveva spiazzato le menti di Diciannove-Cinquantadue e Diciannove-Cinquantotto, perché, da quando avevano memoria, non avevano mai incontrato un altro bambino al di fuori l’uno dell’altra e, in effetti, neppure avevano mai immaginato esistessero altri bambini al di fuori di loro.
E così, laddove fino al giorno precedente, il loro mondo si era dimostrato costituito da quel grande edificio bianco, e dalle sole persone loro circostanti, l’incontro con quello strano uomo ebbe a porli a confronto con tante nuove idee, con tante nuove immagini, al punto da sbloccare qualcosa all’interno delle loro menti e dal spingerli a ricordare un’altra vita. Una vita precedente a quell’edificio bianco, una vita che non erano certi di aver vissuto, e che, ciò non di meno, iniziarono entrambi a sognare, e nel merito della quale, necessariamente, iniziarono anche a parlare, a confrontarsi reciprocamente, scoprendo quanto, allora, quelle fantasie notturne avrebbero avuto a doversi considerare stranamente condivise, e condivise in particolari a dir poco incredibili. In tali sogni, infatti, essi iniziarono a ricordare di un altro edificio, un edificio allora sì chiamato casa, dove essi vivevano con una coppia di altre persone, persone molto anziane, che conoscevano con il nome di nonni. Questi nonni volevano loro molto bene, e li trattavano in maniera molto differente da come, quotidianamente, era soliti essere trattati all’interno dell’edificio bianco. Iniziarono a ricordarsi, infatti, di molti giocattoli, iniziarono a ricordarsi di altri edifici, negozi, strade e parchi. E persino di una scuola, dove, all’interno di un’amplia classe, sedevano circondati da altri bambini loro simili, per ascoltare le lezioni impartite loro dagli insegnanti e, in questo, imparare a leggere, a scrivere, a far di calcolo… e molto altro ancora. In questi sogni, addirittura, essi non si chiamavano Diciannove-Cinquantadue e Diciannove-Cinquantotto: avevano altri nomi, nomi diversi, nomi a loro stranamente familiari per quanto, coscientemente, non ricordassero di aver mai sentito. Essi si chiamavano Tagae e Liagu.
Ma se, alla luce di questi sogni, tante ineluttabilmente iniziarono a essere le domande presenti ad affollarsi nelle loro menti, pretendendo da loro delle risposte; proprio tale curiosità fu il prezzo che, loro malgrado, ebbe a costare la serenità nella quale, proprio malgrado, avevano vissuto sino a quel momento, giacché, nell’istante stesso in cui, agli altri uomini e donne attorno a loro fu evidente quanto entrambi avessero iniziato ad avere quei sogni, quei ricordi, tutto ebbe a cambiare per loro. E ciò avvenne nel momento stesso in cui, allora, essi ebbero a confrontarsi l’un l’altro proprio nel merito di quei loro altri nomi, quei nomi che, evidentemente, non avrebbero dovuto sapere, non avrebbero dovuto ricordare e che, in questo, pose tutti in allarme, attorno a loro.
Dell’uomo che, per primo, aveva instillato loro il seme del dubbio, essi non seppero più nulla. Così come dal nulla egli era giunto, nel nulla egli scomparve. E della pur minima libertà della quale, sino a quel momento, entrambi avevano inconsapevolmente goduto, non rimase egualmente traccia, nel momento in cui, allora, si ritrovarono a essere segregati in una sola, piccola stanza, in essa, però e ancor peggio, fra loro divisi, separati da una parete di vetro, attraverso la quale avrebbero potuto vedersi, avrebbero potuto avere l’illusione di toccarsi, ma non avrebbero avuto possibilità alcuna di dialogare, nell’essere reciprocamente isolati, a livello acustico, l’uno dall’altra.
Per entrambi, in tal maniera, ebbe allora a iniziare il periodo peggiore della propria vita. E non soltanto in riferimento alla vita che avevano sognato, e che, malgrado tutto, iniziarono a essere sempre più certi li avesse contraddistinti un tempo, prima di tutto quello; ma anche della loro vita all’interno di quell’edificio bianco. Le iniezioni alle quali, ogni giorno, da sempre erano stati sottoposti, iniziarono a imporsi con maggiore frequenza, e laddove, in passato, esse erano sempre accompagnate, tutto sommato, da comportamenti asettici e pur non violenti, la rudezza di quegli uomini e donne iniziò a gravare sui pargoli, vedendo comparire, sulle loro braccine, molti lividi, in maniera direttamente proporzionale ai tentativi degli stessi di sottrarsi a tutto ciò, di ribellarsi a quella crudeltà, a quanto, iniziarono a comprendere, non avrebbe avuto a doversi considerare qualcosa di buono per loro. E se, alcune di quelle iniezioni, avrebbero avuto a doversi riconoscere qual il mero proseguo di quei trattamenti ai quali, da sempre, erano stati sottoposti, altre avrebbero avuto a doversi riconoscere qual qualcosa di nuovo, di inedito e, in ciò, di estremamente spiacevole, perché apparentemente volto a negare loro quella consapevolezza nel merito dell’altra vita, della vita dei sogni, che tanto inaspettatamente avevano riconquistato e, sinceramente, non avrebbero voluto più perdere. A seguito di quelle nuove iniezioni, infatti, entrambi sentivano le loro menti offuscarsi, avvertivano sincera difficoltà a pensare, e soprattutto, a ricordare i sogni che avevano fatto e che, ormai, sembravano impossibilitati a compiere nuovamente. Ciò non di meno, con tutte le proprie forze, quei due bambini si aggrappavano l’uno all’altra, l’una all’immagine dell’altro, cercando di sforzarsi di rammentare i loro reciproci nomi, e i volti dei loro nonni, e la loro scuola, e i loro giochi, e i loro compagni, e tutto quello che era stata la loro vita al di fuori di quel grande edificio dalle pareti bianche.
Alla fine, tuttavia, i loro carcerieri compresero di averla avuta vinta nel giorno in cui, finalmente, tornando a offrire loro visita, non ebbero più a essere accolti con astio, con spirito di ribellione, ma con l’indolente quiete che da sempre li aveva contraddistinti. Quell’indolente quiete che li vide, allora, rispondere senza esitazione ai nomi lì loro assegnati, al richiamo di Diciannove-Cinquantadue e Diciannove-Cinquantotto, come se in alcun altro modo avrebbero mai avuto a dover essere conosciuti. E così, dopo ancora qualche tempo utile a mantenerli in osservazione e a verificare che tutto quello non avesse a dover essere considerato un elaborato trucco da parte dei due pargoli, essi vennero liberati da quella loro cella, per poter tornare alla vita di un tempo, alle loro antiche abitudini fra quelle pareti bianche.
Ciò non di meno, l’elaborato trucco da parte dei due pargoli non avrebbe avuto a dover essere ritenuto un timore infondato, giacché, effettivamente, al di là di ogni droga, al di là di ogni sostanza loro iniettata per cancellare, nuovamente, le proprie identità, Tagae e Liagu ebbero a dimostrarsi più forti rispetto a quanto non avrebbe potuto essere loro accreditato. E così, nuovamente riuniti, e memori degli errori commessi in passato, questa volta i due bambini non vollero sprecare l’occasione loro concessa da quella ritrovata consapevolezza di sé, aggrappandosi a essa con tutte le proprie forze per riservarsi la pazienza allor utile a fronteggiare ogni nuovo giorno all’interno di quelle mura, in attesa del momento opportuno per scappare, per fuggire a quella che, ormai, non avrebbero più potuto considerare qual la propria vita, quanto e piuttosto la propria prigionia.
E quando, alfine, il momento opportuno giunse, nel giorno in cui, per la prima volta, si ebbero ad aprire davanti a loro delle porte che mai avevano, in passato, potuto superare, i due bambini non ebbero esitazioni a iniziare a correre, senza sapere dove andare, senza sapere quale direzione prendere, e, ciò non di meno, perfettamente consapevoli di dover continuare a correre, senza mai voltarsi, tenendosi per mano, perché se soltanto avessero commesso l’errore di fermarsi, se mai si fossero guardati alle spalle, sicuramente i loro carcerieri li avrebbero raggiunti. E, allora, non sarebbe più stata loro concessa una nuova occasione per evadere da lì, per lasciare quell’immenso edificio dalle pareti bianche.
Tagae e Liagu, quindi, non smisero di correre neppure nel momento in cui, fugacemente, i loro sguardi ebbero a incontrare le immagini di altri bambini, altri bambini come loro, vestiti come loro, e condotti, ipoteticamente come loro, verso quello che avrebbe avuto a doversi considerare il loro futuro, il loro destino, un destino con il quale, tuttavia, loro due non avrebbero mai voluto aver nulla a che fare, laddove esso fosse stato deciso da parte di coloro i quali tanto male avevano loro imposto. Tagae e Liagu, quindi, non smisero di correre neppure nel momento in cui, alle loro spalle, gli uomini e le donne vestiti di bianco, i soli che avessero mai veduto nella propria esistenza, o, per lo meno, nella loro esistenza entro quelle mura, furono allora sostituiti da uomini in nero, decisamente più minacciosi di quanto mai avrebbero potuto essere gli altri. Tagae e Liagu, quindi, non smisero di correre neppure nel momento in cui, incerti su come potessero essere giunti a quel risultato, sul percorso che avevano compiuto per arrivare sino a lì, ebbero a fuoriuscire dai confini del grande edificio dalle pareti bianche, immergendosi all’interno di una strada, della prima strada che, chissà dopo quanto tempo, tornarono a vedere, a scoprire, riassaporando in maniera effimera il senso di libertà loro, sino a quel momento, crudelmente sottratto.
Tagae e Liagu, allora, non smisero di correre, non per pietà nei confronti degli altri bambini loro pari, non per paura nei riguardi degli uomini in nero, non per entusiasmo innanzi alla riconquistata libertà, ove perfettamente consapevoli di quanto, allora, una pur fugace esitazione, un pur minimo rallentamento nel loro incedere, avrebbe vanificato tutto quanto. E non sarebbe importante quanto male avrebbero potuto fare le loro piccole gambe, o quanto forte avrebbero potuto battere i loro piccoli cuori all’interno dei loro fragili petti… essi avrebbero avuto a dover continuare a correre. Perché solo da questo sarebbe dipesa la loro salvezza. Solo da questo sarebbe dipeso il loro futuro. E nessun altro, al di fuori di loro, sarebbe mai intervenuto in loro aiuto, in loro soccorso, neppure all’interno di quelle strade affollate.
Nessun altro… o forse no.

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