11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

mercoledì 28 febbraio 2018

2471


Decisa a non farsi cogliere di sorpresa in maniera tanto sciocca come pocanzi occorso, come avvenuto a confronto con quell’esplosione di laser al livello precedente, l’Ucciditrice di Dei ebbe lì ad avanzare con maggiore prudenza rispetto a quanto, nella seconda sala, non si fosse permessa di compiere, qual effetto dell’ingiustificata fiducia concessale dal quieto attraversamento della prima. Benché avrebbe potuto non incorrere in alcuna minaccia, in alcuna trappola, analogamente a quanto avvenuto nella prima sala, ella preferì riservarsi di agire in ottemperanza alla propria consueta paranoia al fine di non avere motivo di rimprovero a proprio stesso discapito nel caso in cui, proprio malgrado, l’evolversi degli eventi non si fosse dimostrato propriamente a suo favore. Una scelta, la sua, che non ebbe a dimostrarsi priva di concrete ragioni, nel momento in cui, come atteso e come temuto, anche in quella terza sala ebbe a manifestarsi un nuovo letale trabocchetto e, nella fattispecie, un trabocchetto volto a privarla della solidità del pavimento sotto ai propri stessi piedi.
Come già nella stanza precedente, senza che ella avesse apparentemente compiuto alcun passo falso atto a giustificare una simile evoluzione a proprio discapito, la trappola ebbe a scattare dopo che soltanto pochi passi furono mossi all’interno di quello spazio circolare. Pochi passi, i suoi, prima di ravvisare un poco gradevole tremore sotto alla pianta dei propri nudi piedi, pianta al di sotto della quale, di lì a un istante, il terreno stesso parve essere negato, in un repentino movimento discendente del pavimento stesso verso un oscuro baratro scopertosi qual presente lì sotto.

« Dannazione! » imprecò, volgendo implicito riferimento, in tal senso, a discapito di coloro che quelle stanze si erano così impegnati a creare, e a creare all’unico scopo di non permetterle di proseguire oltre, di raggiungere il proprio obiettivo, la terribile arma lì conservata.

E se pur il suo corpo ebbe a reagire prima ancora della sua stessa mente, ponendola apparentemente in salvo in grazia a un mirabile salto da ferma, e un salto volto a condurla in salvo a un piede di distanza da quella botola, qual a tutti gli effetti avrebbe avuto a dover essere considerata nella propria particolare conformazione, la donna guerriero non ebbe neppure il tempo di poggiare i piedi su quel nuovo punto, in quella nuova porzione di pavimento, prima che, ancora una volta, il pavimento riprendesse a tremare anche lì e, in ciò, tuttavia, non allo scopo di intraprendere un movimento verso il basso, quanto, e piuttosto, in direzione opposta, ascendendo rapidamente verso il soffitto e, lì in alto, bramando di schiacciarla, e di schiacciarla fra la solidità di quella volta a crociera e quella propria del pavimento sotto di lei.
Solo il tempo di un battito di ciglia separò quell’attivazione dall’inevitabile sordo tonfo di tale parallelepipedo di pietra contro il soffitto sopra di lei: un battito di ciglia a fronte del quale, pertanto, il suo corpo ebbe a dover reagire e a dover reagire nuovamente con straordinaria prestanza, proiettandosi, alla cieca, in avanti, inconsapevole del fato che avrebbe potuto attenderla e, ciò non di meno, certa di quanto, in ciò, sarebbe stato sicuramente meglio rispetto a quanto mai, lì, avrebbe potuto esserle altrimenti garantito.

« In fondo me la sono cercata… » commentò, in un’ironica ammissione di colpa, e di colpa non tanto per essersi sospinta in quella situazione potenzialmente letale, quanto e piuttosto per essersi espressa in maniera tanto critica a discapito di quella stanza su pianta circolare « … avrei dovuto immaginare che se la sarebbe presa a male, priva di senso dell’umorismo qual, in fondo, è. » argomentò, umanizzando l’ambiente stesso attorno a lei e, in ciò, argomentando quel tentativo di omicidio qual la vendetta di una sala eccessivamente suscettibile a fronte di una qualunque critica.

Quasi, dopotutto, quel pavimento desiderasse imporle ragione di pentimento a fronte della propria dimostrazione di tedio all’ingresso del nuovo ambiente, ogni suo nuovo tentativo di evasione da una trappola mortale sembrava destinato a innescarne una nuova, nell’ormai prevedibile, e previsto, tremore sotto i piedi, silenziosa anticipazione di un movimento, ascendente o discendente che dir si sarebbe potuto, e comunque atto, allora, a pretendere la sua vita. In ciò, ineluttabile, fu per lei proseguire, senza possibilità di sosta, senza riprendere fiato alcuno, senza esclusione di colpi, in quei balzi, a volte atti a ovviare all’abisso oscuro sotto di sé, altre atte a permetterle di sottrarsi all’indegna fine di un insetto spiaccicato, rabbiosamente, contro un muro o, nella fattispecie propria di quella situazione, contro il soffitto.
Salti, i suoi, che la videro seguire un percorso difficilmente regolare e che, in ciò, la portarono anche ad approssimarsi a quei cumuli di povere e altre indistinte forme, presenti, sino a quel momento, in ogni stanza visitata e, anche lì, sparsi lungo tutto il pavimento, a supposta testimonianza del mobilio che, un tempo, lì doveva essere stato presente. Un mobilio che, solo in quel particolare momento, solo in quel preciso frangente, ella ebbe a concepire non avrebbe avuto alcuna ragione di essere ridotto in un cumulo di macerie indistinte, non laddove, alla base della statua, nella prima area da lei raggiunta ed esplorata, prima di ritrovarsi, intrappolata, in quella sequenza di stanze perennemente uguali, altri mobili, altri arredi, altre suppellettili erano da lei pur state distinte, coperte certamente dalla polvere dei secoli ma, ciò non di meno assolutamente integre. E se mobilio, allora, quello non avrebbe avuto a dover essere frainteso, proprio nel ritrovarsi costretta ad atterrare su quel cumulo confuso, ella ebbe a maturare consapevolezza nel merito della sua effettiva natura, distinguendo, a distanza tanto ravvicinata, quanto aveva ipotizzato essere i resti di qualche arredo di legno qual, altresì, i resti bruciati, decomposti e, persino, quasi mummificati, di altri visitatori, altri esploratori che, prima di lei, dovevano aver tentato la sorte lì sotto, senza, in ciò, riservarsi la medesima sua abilità e, di conseguenza, incontrando tragicamente la conclusione del proprio cammino e della propria esistenza.
Abituatasi ad avere a che fare con la morte e con i cadaveri, anche in condizioni meno piacevoli rispetto a quanto lì offertole, nel corso della propria vita sovente vissuta in veri e propri campi di battaglia, in guerre eterne fra regni che mai avrebbero avuto possibilità di raggiungere una qualche tregua, una qualche situazione di pace, nonché nel corso di molteplici avventure nel corso delle quali, proprio malgrado, si era ritrovata a confronto con ogni genere di negromantico orrore, da semplici zombie, a osceni conglomerati di cadaveri da lei ribattezzati qual legioni; Midda Bontor non ebbe, allora, a dover accusare alcun senso di ribrezzo nel confronto con la realtà di quanto lì presentatole, né, tantomeno, con la consapevolezza propria dell’idea di avere i nudi piedi immersi in tali resti polverizzati di coloro i quali, un tempo, avrebbero avuto a doversi intendere quali persone: i propri sensi, la propria attenzione, in quel momento, nel confronto con tutto ciò, avrebbe avuto a dover essere riconosciuta qual rivolta, piuttosto e altresì, a non aggiungere se stessa a quell’annovero, le proprie spoglie mortali a quelle di tutti gli sventurati che, prima di lei, lì erano caduti, giustificando involontariamente il senso stesso del suo coinvolgimento in quella questione.
Saltando oltre quei resti, quindi, la donna guerriero proseguì nel proprio cammino, a volte in contrasto a botole, altre in contrasto a quelle letali catapulte verso il soffitto, conquistando, ora in termini obbligatoriamente più rapidi rispetto a quelli propri dell’attraversamento della seconda sala, anche l’uscita dalla terza, giungendo, un balzo dopo l’altro, sino al versante opposto e, inutile a dirsi, a una nuova scala, e a una nuova scala rivolta verso il basso, là dove, con una certa rassegnazione, nulla di diverso si sarebbe potuta attendere rispetto a una quarta sala, a un’altra ampia stanza rotonda, circondata da colonne tonde e corazze, con un elaborato soffitto costituito da un intreccio di volte a crociera, offerenti riferimento a una grande ed elaborata colonna centrale: una quarta sala nella quale, prevedibilmente, qualche altro meccanismo mortale avrebbe tentato di arrestarne il cammino, di arginarne la discesa, attraverso raggi laser, attraverso qualche meccanismo di natura più fisica o, chissà ancora, attraverso quale altra più o meno imprevedibile originale promessa di morte per coloro che, laggiù, avrebbero tentato di spingere i propri passi, alla ricerca di quella che avrebbe avuto a dover essere considerata l’arma più pericolosa dell’universo.

martedì 27 febbraio 2018

2470


« Thyres… » ebbe a gemere, nel momento in cui alfine, raggiunse il lato opposto della stanza, con, inutile a dirsi, una nuova scalinata discendente verso il basso, attraverso un varco del tutto identico dal quello che ella aveva attraversato per giungere sino a lì e, ancora, del tutto identico a quello ancor precedente, in una costanza che, obiettivamente, non avrebbe lasciato presumere nulla di positivo per quanto, là in fondo, avrebbe potuto attenderla.

Lasciandosi scomodamente sdraiare su quella scalinata, improvvisamente risultante, al suo sguardo, alla sua attenzione, al suo alterato giudizio, qual il più confortevole fra tutti i giacigli possibili, soprattutto al termine della devastante attraversata che le era stata in tal maniera imposta; la Figlia di Marr’Mahew si concesse, in quel luogo, in quel momento, qualche istante utile a riprendere fiato e a verificare le proprie condizioni in conclusione alla prova impostale.
Benché, infatti, ella fosse perfettamente consapevole di non aver riportato danni fisici in conseguenza a quanto lì affrontato, non potendo, allor, rischiare di essere ferita da quei laser senza, in ciò, maturare sostanziale consapevolezza di quanto accaduto; la donna dagli occhi color ghiaccio preferì comunque riservarsi occasione di confermare tale verità, simile postulato in grazia a un breve controllo fisico, verificando lo stato del proprio corpo attraverso quanto, in quel momento, ancor presente degli eleganti vestiti a lei imposti da parte del sicuramente raffinato gusto del capitano Lles Vaherz. Benché indubbio avrebbe avuto a dover essere giudicato lo stile proprio di quella donna pirata, non soltanto nel taglio di quegli abiti, ma, ancor più, nelle stoffe e negli orpelli lì applicati, tanta eleganza, tanta sofisticatezza, difficilmente avrebbe potuto trovar occasione d’intesa con la pericolosa quotidianità propria di quella donna guerriero, abituatasi sin dagli esordi della propria carriera, del resto, non per propria volontà, quanto per necessità, a vestire sostanzialmente di stracci così imbarazzanti nelle proprie forme, nella propria sostanza, da poter offrire ragione di rifiuto anche da parte di vagabondi senza tetto.
Invero, così come altresì ignorato dai più, tali stracci da lei eletti qual proprio abbigliamento, non avevano mai iniziato il proprio percorso in tali forme, in simile stato, avendosi, almeno all’origine, a doversi comunque considerare abiti degni di tale nome, pur, ovviamente, mai contraddistinti da particolare eleganza o ricercatezza: solo nello scorrere irrefrenabile del tempo, e nel confronto con troppe avventure, troppi incidenti, troppe battaglie, quelle vesti finivano poi per ridursi agli stati pietosi per lei più consueti, resti irriconoscibili di quanto un tempo erano stati, tanto per il logorio subito, quanto per la sporcizia e il sangue necessariamente accumulato sugli stessi. Così anche allora l’elegante completo a confronto con il quale lo stesso Mapan Seg aveva avuto occasione di porsi, quel meraviglioso abbigliamento con il quale Lles aveva desiderato riconoscere quella donna qual una propria risorsa, qual una propria alleata, seppur in tal senso obbligata dalla situazione e dall’amore per i propri bambini da lei tenuti in sostanziale ostaggio, avrebbe avuto ormai a doversi considerare fondamentalmente irriconoscibile, tanto in conseguenza ai primi scontri, quanto e ancor più a seguito di quelle prime sfide in contrasto alle trappole disposte in quel sotterraneo.
E laddove, un tempo, a coprire le sue braccia avrebbero avuto a doversi riconoscere maniche di soffice stoffa lì tagliata a sbuffo, ormai soltanto poche fibre scomposte e bruciate avrebbero avuto a potersi ancor riconoscere a celare tanto il suo arto artificiale, quanto gli elaborati tatuaggi tribali presenti sulla pelle di quello in carne e ossa. Così come, fra l’azione dei laser e quella delle sue obbligate acrobazie, anche del panciotto, prima volto ad avvilupparne elegantemente le forme in quella raffinata stoffa, ormai avrebbe avuto a dover essere riconosciuto soltanto qualche residuo sparso, e lì ancora presente in sola grazia a pochi pollici integri ai lati del suo costato e non più di un paio residui in corrispondenza della sua spalla mancina, laddove, altresì, sulla destra, in corrispondenza del braccio metallico, nulla ormai avrebbe avuto a dover essere riconosciuto. Soltanto dei pantaloni, qualcosa di più avrebbe avuto lì a poter essere ancor considerato presente, benché, tanto ai lati delle sue cosce, quanto e persino in corrispondenza dei suoi tondi e sodi glutei, numerosi avrebbero potuto essere identificati gli strappi, i tagli già accumulati, a svelare, non senza un poco di involontaria malizia, la pallida carnagione lì sotto celata. Tutto ciò, ovviamente, in sol riferimento all’integrità fisica di quegli abiti, senza, parimenti, averne a considerare le condizioni di natura puramente estetica, senza voler prestare attenzione alla terra, alla polvere, al sudore e al sangue, quest’ultimo fortunatamente non suo, che lì sopra già si erano accumulati e che, di conseguenza, ne avevano completamente alterato i colori originali.
Insomma: trascorse soltanto poche ore dall’inizio di quella missione, già il suo abbigliamento avrebbe avuto a poter rievocare quietamente l’immagine che, per oltre vent’anni, l’aveva accompagnata nel proprio mondo, divenendo, entro certi limiti, per lei quasi un segno distintivo…

« … tanto bella questa stoffa, eh…?! » osservò, rendendosi conto dello stato dei propri abiti e, in ciò, non potendo ovviare ad aggrottare la fronte, con aria perplessa « … diciamo che, però, a livello pratico ha dimostrato di non saper rendere un granché. » puntualizzò, a meglio evidenziare il tema alla base della propria ironica critica « Fossero i miei vestiti sempre stati così, avrei fatto prima a girare nuda. » storse appena le labbra verso il basso, a dimostrare tutta la propria più sincera posizione a tal riguardo « Non che, credo, qualcuno avrebbe avuto ragione di che lamentarsi di ciò… » soggiunse alfine, non negandosi un sorrisetto malizioso al ricordo di tutte le volte che, effettivamente, in passato si era ritrovata più o meno costretta ad agire senza la protezione di alcun abito mai cogliendo, in ciò, ragione di rimprovero neppure da parte dei propri stessi avversari.

Risollevatasi stancamente da terra, e verificato che, quantomeno, l’integrità della propria arma avesse a doversi considerare inalterata malgrado quanto accaduto, la donna guerriero decise di riprendere, alfine, la propria discesa, proponendosi, invero, già sufficientemente consapevole di quanto, al termine di quelle scale, l’avrebbe potuta attendere. Perché se, la prima volta, quella sala avrebbe potuto sorprenderla e compiacerla, e, la seconda volta, non avrebbe mancato di insospettirla e inquietarla, alla terza, presumibile, occasione, tutto ciò non avrebbe mancato di iniziare ad apparire qual squisitamente ripetitivo e persino noioso nella propria occorrenza.
In ciò, nella più totale assenza di ragioni di entusiasmo per quanto, allora, avrebbe potuto attenderla, Midda Bontor non avrebbe potuto giustificare in alcuna maniera il brivido che le ebbe ad attraversare la schiena proseguendo nella discesa di quella ben nota scala, pur, ovviamente e paradossalmente, per lei inedita. Un  brivido che, forse, avrebbe potuto accompagnarla innanzi alla prospettiva di un’immagine inedita, di qualcosa di nuovo ad aspettarla laggiù, fra le tenebre, e che pur tale non avrebbe potuto essere nel mero confronto con una nuova, terza sala esattamente identica alle precedenti. Terza sala che, puntualmente, ebbe quindi a comparire innanzi al proprio sguardo compiuti gli ultimi gradini…

« … assolutamente monotona scelta di interni, da queste parti… » ebbe a ripetersi volontariamente, calcando maggiormente l’accento su quella critica, su quell’espressione di noia nel confronto con quanto, ancora una volta, le si stava dispiegando innanzi allo sguardo, nelle forme di una vasta stanza su base circolare, circondata da inermi corazze lì forse presenti a scopo decorativo, regolarmente alternate da alte colonne tonde, atte a sostenere la volta a crociera del soffitto, offerente riferimento, sul fronte opposto, a un grande pilastro centrale, apparentemente costituito dall’elegante fusione di molteplici colonne « … d’accordo che apprezzo questo stile. Ma, alla lunga, può diventare noioso anche per me. » ammise, in un lieve sospiro, in verità non tanto contrariata dall’architettura di quell’ambiente quanto, e piuttosto, dal senso di ineluttabile ripetizione che esso sembrava voler offrire, in quanto allora, più di qualunque laser o altro mortale trabocchetto, non avrebbe potuto mancare a offrire un senso di trappola.

lunedì 26 febbraio 2018

2469


Per quanto la posizione nella quale ella ebbe a ritrovarsi in precario equilibrio non fosse delle migliori, a proprio vantaggio, in proprio aiuto, ella avrebbe potuto quantomeno evidenziare l’evidenza di quanto, a offrire sostegno al suo intero corpo, a sorreggere il suo peso, in quel momento non dovesse essere il proprio braccio mancino, quanto il suo destro, il quale, in grazia alla propria natura artificiale, avrebbe potuto lì permanere quietamente in quella posizione anche dopo la sua morte. Non che, in posizione inversa, il mancino in carne e ossa non avrebbe saputo farsi carico di tanto ingrato compito, laddove, in grazia allenamento continuo al quale ella era costantemente solita porsi, sicuramente l’unico arto superiore rimastole non avrebbe lì avuto alcuna ragione d’invidia a discapito del proprio corrispettivo tecnologico: ciò non di meno, nel porsi a confronto con una situazione obiettivamente riconoscibile qual a proprio discapito, il potersi concedere almeno una nota di positività a contorno della questione non avrebbe avuto a doversi giudicare poi così male, fosse anche nella casualità del ritrovare il proprio peso a discapito di un braccio piuttosto che dell’altro, della propria carne e dei propri muscoli, piuttosto che del metallo e dei servomotori celati al suo interno.
Muovendo soltanto il proprio sguardo nell’impossibilità di altre azioni, di altri movimenti, all’interno della maschera trasparente preposta a coprirle l’intero volto, la donna guerriero cercò, allora, di meglio analizzare la complessità della propria attuale posizione e, soprattutto, le modalità nelle quali, da lì, avrebbe avuto occasione di uscirne, e di uscirne ancora in vita. Differentemente rispetto ai raggi che l’avevano accompagnata lungo la prima rampa di scale, quelli non parvero essere stati concepiti per muoversi, per trasformarsi in muri di luce e, in ciò, per arginare, con un netto taglio, qualunque brama di accesso a quei sotterranei: i fasci laser lì attivatisi, e atti a creare quella sorta di ragnatela radiale all’interno dell’intera stanza, avrebbero avuto a doversi considerare quietamente statici, immobili nelle proprie posizioni iniziali e, in ciò, atti non tanto a condannare un aggressore in un qualche intrinseco movimento, quanto, e semplicemente, ad attendere che egli avesse a condannarsi autonomamente nel momento in cui egli avesse deciso di tentare di evadere da quella maglia, sempre ammesso, ma tutt’altro che concesso, che egli sarebbe potuto essere in grado di sopravvivere alla loro attivazione. Nell’evidenza di ciò, al contrario rispetto alla strategia che ella aveva avuto necessità di rendere propria lungo le scale, così come al momento di quell’attivazione, quanto quella situazione avrebbe avuto a richiederle sarebbe stato un ben diverso genere di approccio, e un approccio allor fondato non su movimenti quanto più rapidi possibili, ma su movimenti quanto più controllati possibili, in misura tale da sperare di vanificare la promessa di morte lì rappresentata da ogni raggio luminoso.
Dimostrando, allora e pertanto, uno straordinario autocontrollo, la Figlia di Marr’Mahew ebbe lì a iniziare a muovere, per prima, la propria testa e la parte superiore del proprio busto, per ovviare alla minaccia rappresentata dai due raggi fra i quali si era venuta a trovare, salvo, un istante dopo, invertire repentinamente il senso di rotazione antiorario, seguito sino a quel momento, in favore a un movimento orario, e tale, quindi, a consentirle occasione di poggiare il proprio nudo piede sinistro nuovamente a terra, in una posizione decisamente poco confortevole, forse e persino meno gradevole rispetto alla precedente, e, ciò non di meno, atta a garantirle estemporanea fuga dai primi tre raggi fra i quali si era malamente posizionata, benché, in tal direzione, destinata ad andare a intrappolarsi fra almeno altri quattro.
Esplosi, nella stanza, in diverse direzioni e a diverse altezze, quell’infinità di raggi laser costantemente alimentati non le avrebbero potuto permettere alcuna particolare libertà di movimento né in prossimità al suolo né lontano dal medesimo, due eventuali e possibili facili soluzioni che ella avrebbe, altrimenti, potuto abbracciare. Al contrario, evidentemente pensati nell’intento di ostacolare qualunque semplice opportunità di fuga, la loro straordinaria varietà di posizionamento, di direzione, avrebbe necessariamente costretto chiunque a un importante esercizio di contorsionismo, disciplina nella quale, malgrado tutte le proprie pur mirabili abilità, la donna dagli occhi color ghiaccio e dai capelli color del fuoco non avrebbe potuto esprimere vanto di eccellere, né, tantomeno, di avere una qualche concreta confidenza, oltre ad accusare, palesemente, di un evidente ostacolo fisico e un ostacolo fisico allor costituito dall’abitualmente piacevole prorompenza delle sue curve. Sebbene neppur in battaglia ella avesse mai avuto ragione di considerare pari a un ostacolo le proprie procaci forme, non desiderando di certo emulare le pur celebri amazzoni tal’harthiane le quali, alla ricerca di una maggiore efficienza fisica in un contesto bellico, arrivavano a mutilare i propri seni, considerati quali inutili espressioni di femminilità; in taluni momenti, soprattutto a confronto con passaggi particolarmente ristretti, neppure lei aveva mai potuto negare la scomodità della propria abbondante circonferenza toracica, la quale, pur avendo da sempre riscontrato incontrovertibili ragioni di apprezzamento da parte di tutti i propri amanti, ultimo fra i quali Be’Sihl, non avrebbe potuto effettivamente essere considerata pratica in altri momenti, in altre situazioni, fra le quali quella per lei lì presente in quello specifico momento.
Situazione nella quale, un errore di stima avrebbe potuto realmente rappresentare uno sgradevole epilogo per tali forme, oltre che per la loro proprietaria…

« Fortuna che Lys’sh e Duva non sono qui a vedermi, ora… » sussurrò fra sé e sé, spingendo il proprio pensiero alle sue due amiche, alle sue due attuali e consuete compagne di ventura, con le quali aveva avuto già passate occasioni di scherzoso confronto a tal riguardo e innanzi all’attenzione delle quali, tanta fatica da parte sua, in quel contesto, non avrebbe potuto che rappresentare ottimo materiale sul quale basare nuove opportunità di scherno a suo giocoso discapito, per quella generosità fisica per loro non parimenti accentuata « … anche se, obiettivamente, non potrei che invidiarle in questo momento. » ammise a malincuore, protetta, in quella propria confessione, dalla loro assenza, dalla loro impossibilità ad assistere a quella confessione.

Non fu semplice, per lei, riuscire a districarsi in quel vero e proprio labirinto mortale di luce, laddove ogni proprio movimento, ogni propria azione volta a porla in salvo da una serie di laser, sembrava necessariamente destinato a esporla a un’altra serie, in posizioni sempre e ancor peggiori rispetto alle precedenti. E se pur, non per modestia ma per semplice confronto con la realtà dei fatti, ella non avrebbe potuto vantare la benché minima confidenza con abilità proprie di un contorsionista, tutta la sua flessibilità, tutta la sua capacità di coordinazione, tutta la sua agilità, non poterono che essere lì poste seriamente alla prova, a garantirle occasione di sopravvivere a se stessa e alla trappola nella quale, ingenuamente, si era andata a cacciare.
In tutto ciò, quanto ebbe a doversi riconoscere sua fortuna, avrebbe avuto a dover essere l’evidenza di quanto, all’interno dell’ampia stanza rotonda, ella non avesse avuto reale occasione di avanzare, se non per un paio di passi, prima dell’attivazione di quella trappola: in ciò, nel considerare la disposizione radiale di quei fasci, ella avrebbe potuto vantare un certo scarto fra un raggio e il successivo, scarto conseguente proprio alla maggiore distanza esistente fra gli stessi sul perimetro esterno rispetto a una qualunque posizione interna. E se questo, probabilmente, avrebbe avuto a doversi riconoscere, per lei, qual reale discriminante nella propria ostinata esistenza e resistenza in vita, malgrado tutto non avrebbe potuto neppure considerarsi una qualunque possibile giustificazione volta a banalizzare quella prova, giacché, obiettivamente, nulla di banale, in tutto quello, avrebbe mai potuto essere giudicato esistere.
Con straordinaria pazienza, e ancor maggior dimostrazione di incredibile prestanza fisica e di assoluto controllo su ogni proprio minimo muscolo, la donna guerriero fu così in grado di percorrere l’intero perimetro della stanza, in una serie di movimenti tanto innaturali quanto scomodi che non poterono ovviare a stancarla, e a stancarla tremendamente, e ai quali, pur, non ebbe a sottrarsi, nella consapevolezza di quanto, altrimenti, sarebbe morta.

domenica 25 febbraio 2018

2468


Un passo dopo l’altro, un gesto leggero in seguito al precedente, permisero, lentamente ma inesorabilmente alla donna guerriero di conquistare il centro della stanza e, di lì, dominare con lo sguardo l’intera area allora a sé circostante. Avendo occasione, in tal modo, di confermare il proprio giudizio iniziale sull’architettura di quel luogo, più affine al suo mondo rispetto a qualunque altro luogo avesse avuto possibilità di visitare dal giorno in cui era giunta fra le stelle sulle ali della fenice, e avendo occasione, di conseguenza, di ribadire la propria approvazione nei riguardi di quella scelta architettonica, volta a creare un mirabile intreccio di volte sopra la propria testa, ella ebbe lì a sorprendersi, in maniera effimera, di quanto, ancora, alcun genere di trappola letale potesse essere scattata ad accoglierla, a offrirle il benvenuto. Ciò non di meno, non abbassando la guardia per non lasciarsi sorprendere in maniera straordinariamente stolida qual, altrimenti, avrebbe potuto accadere, ella insistette nel proprio tragitto, e nel proprio tragitto volto verso l’unica via d’uscita, in quieta contrapposizione all’ingresso dal quale era pocanzi giunta: un varco del tutto simile a esso, una larga via circondata da strette colonnine a meglio inquadrarne la forma, che pareva dischiudersi, in quieta contrapposizione al precedente, su una nuova scalinata a discendere e, da lì, a chissà quale altra parte di quel complesso sotterraneo.
Con sempre massima attenzione, allora, tanto alle statue, quanto ai pavimenti, ai soffitti, alle colonne e persino ai resti polverosi dell’arredo che, un tempo, doveva aver rallegrato quel luogo, la Figlia di Marr’Mahew procedette, decisa a non permettere a nulla di tutto ciò di arrestarla né, tantomeno, a garantire a qualunque minaccia lì potesse star attendendola di raggiungerla.
A nulla, tuttavia, parve condurre, però, tanta attenzione, tanta cura nel proprio progresso, non, per lo meno, laddove ella poté essere in grado di raggiungere il varco opposto a quello dal quale era lì sopraggiunta senza incontrare il benché minimo ostacolo. Una nuova scalinata, in ciò, ebbe a presentarsi alla sua attenzione, una nuova scalinata apparentemente identica alla precedente e che, ineluttabilmente, non avrebbe potuto mancare di presentare un’eguale minaccia, una simile trappola, a impedirle il proseguo per quel percorso. Così, mantenendo massima la tensione muscolare del proprio intero corpo, pronta a scattare, in avanti o indietro, a destra o a sinistra, laddove necessario, la mercenaria proseguì nella propria discesa, lungo quei gradini tanto assimilabili ai precedenti e che, per tale ragione, non avrebbero potuto in alcuna maniera trovare occasione di compiacerla.
Tanto pregiudizio, tanta avversione, tuttavia, ebbe a scoprirsi del tutto immeritata, laddove, nella propria discesa nessun laser, e nessun’altra trappola mortale in sua vece, ebbe lì ad accoglierla, ad attenderla, vedendole assicurato, al contrario, un quieto passaggio verso il basso. E se pur, all’improvviso, a metà della discesa, un brivido non mancò di attraversarle fugacemente la schiena, anch’esso si dimostrò del tutto immotivato, al punto tale da risultare obiettivamente preoccupante più per la propria stessa occorrenza che per altro. E quando, alla fine, ella ebbe ad attraversare anche l’ultimo gradino, lo spettacolo che le si parò innanzi allo sguardo ebbe a manifestarsi in termini quantomeno inattesi, per non dire, addirittura, inquietanti…

« Ma… che diamine…?! »

Circolare, davanti a lei, ebbe così a dischiudersi un’amplia stanza rotonda, con pareti ornate da corazze ordinatamente esposte e altrettanto ordinatamente collocate fra una regolare serie di alte colonne, alte colonne rotonde volte a reggere, al di sopra della sua testa, un complicato soffitto con volta a crociera, volta che trovava il proprio fulcro, il proprio sostegno centrale, in un grande ed esteticamente complesso pilastro centrale, apparentemente costituito dalla fusione di molteplici colonne rotonde, una adiacente all’altra. Nulla avrebbe avuto, lì, a essere distinguibile in quella sala, se non la presenza di alcuni mucchietti disordinati di polvere e non meglio identificati resti, probabilmente da ricondursi al mobilio che, un tempo, in quella vasta sala, era stato collocato e che, con il passare del tempo, era andato perduto.
Sì. In tutto e per tutto, la nuova stanza dischiusasi innanzi all’attenzione della mercenaria avrebbe avuto a dover essere considerata equivalente alla precedente. Anzi. Forse anche più che equivalente: identica nel pur più minimo dettaglio.

« … monotona scelta di interni, da queste parti… » volle ironizzare, cercando di contrastare, in tal maniera, l’inquietudine propria di quel déjà-vu obiettivamente difficile da riconoscere qual tale nel senso stretto del termine, laddove, allorché l’impressione propria dell’aver già vissuto quell’evento, ella non avrebbe potuto ovviare alla certezza di essere stata già in quella stessa stanza, se non fosse stato che, nel percorso compiuto, tutto ciò avrebbe avuto a doversi considerare impossibile.

Peccando, in ciò, probabilmente di eccessiva, e pur giustificabile, imprudenza, nel concedersi occasione di iniziare ad avanzare con passo più rapido rispetto al precedente all’interno di una stanza che ella aveva già visitato, per quanto illogico ciò avesse a doversi pensare, Midda Bontor ebbe tuttavia possibilità di essere accontentata nella propria ricerca di una trappola mortale, di una minaccia letale a cui contrapporsi. Minaccia che, nella fattispecie, non ebbe a dimostrarsi provenire dalle armature, quanto dal centro stesso della stanza, da quella colonna al centro della quale, in maniera del tutto improvvisa e inattesa, ebbe a dischiudersi un solco e, da quel solco, ebbero a essere proiettati, in maniera radiale, dozzine, centinaia di fasci di laser, fasci di laser che, in pochi istanti, ebbero a colmare quell’ambiente vuoto con una pericolosa ragnatela di luce, una ragnatela nell’intreccio della quale, proprio malgrado, la mercenaria non avrebbe potuto ovviare in alcun modo a porsi.
Fu solo in grazia ai propri straordinari riflessi che, in effetti, ella riuscì a ovviare a uno sgradevole buco al centro del ventre, là dove, uno di tali fasci, ebbe a ritrovarsi diretto: con un agile salto, la donna guerriero riuscì a scartare quel raggio un istante prima che potesse raggiungerla, concedendogli soltanto la stoffa del proprio panciotto lungo il proprio fianco sinistro, nel mentre in cui, così facendo, ebbe tuttavia a ritrovarsi esposta a un secondo e un terzo raggio, in dirittura d’arrivo verso la propria gamba destra e la corrispettiva spalla. Immediato, quindi, ebbe a dover essere compiuta una nuova rotazione, un nuovo passo di quella che avrebbe anche potuto apparire simile a una strana danza e, in sola grazia alla riuscita della quale, tuttavia, si sarebbe potuta distinguere la sua sopravvivenza o la sua dolorosa morte, morte che, se anche non fosse sopraggiunta immediatamente, per effetto del colpo subito, necessariamente l’avrebbe comunque presto avuta, per effetto della necrosi che, da tale ferita, avrebbe poi rapidamente avvelenato il suo corpo.
Così, nello scartare anche il secondo e il terzo raggio, ella altro non poté che esporsi a un quarto, e poi a un quinto, in un’incessante sequenza di movimenti in lotta contro quei fasci luminosi, fasci letali in rapido dispiegamento attorno a lei. E solo all’ennesimo salto, all’ennesimo rapido movimento di evasione dalla promessa di atroci sofferenze lì riservatale, ella ebbe occasione di potersi riservare un’estemporanea possibilità di sosta, un intervallo di quiete, in una posizione che improbabile sarebbe stata definire di riposo, e che pur, allora, non avrebbe potuto mancare di vederla in sufficientemente stabile equilibrio fra tre, diversi raggi di morte: proiettata a terra, con il destro teso a sorreggere il proprio corpo al di sopra di un raggio lì dispiegato esattamente a non più di cinque pollici dal proprio costato, e con la gamba mancina ritratta quasi sino al petto, nel proteggerla da un’altra linea luminosa lì a meno di tre pollici dal proprio ginocchio destro, ella avrebbe avuto a dover prestare in ciò anche attenzione a non muovere eccessivamente il capo, giacché, a non più di un pollice dal proprio collo avrebbe avuto a dover identificare il terzo e ultimo fascio lì intento a porla sotto assedio…

« Devo trovare il modo di farmi pagare di più… » ringhiò a denti stretti, osservando sin troppo da vicino la morte in faccia, e non in senso metaforico « Non so come… ma devo farlo. »

sabato 24 febbraio 2018

2467


« … a costo di sembrare nostalgica, preferivo indubbiamente quando questo genere di trappole era costituito da semplici lame… » commentò fra sé e sé la donna guerriero, ancora a terra al termine di quel volo, di quel salto straordinario, nel mentre in cui, lungo le scale dalle quali era giunta, i laser erano ormai scemati, non lasciando la benché minima evidenza di quanto occorso e predisponendosi, di conseguenza, ad accogliere qualche nuovo, avventato, esploratore.

Ironico, in effetti, avrebbe avuto a doversi osservare, dal proprio punto di vista, come pur aggiornandone la tecnologia, pur migliorandone, sicuramente, l’efficienza attraverso l’impiego di laser in luogo a semplici lame, ben poco avrebbe avuto a doversi considerare di diverso rispetto ad assimilabili percorsi del proprio stesso mondo, trappole mortali da lei già affrontate nel corso delle quali, ad attentare alla propria integrità fisica, vi sarebbero state certamente soluzioni più primitive, ma, per questo, non meno efficaci.
Non che, di tale mancanza di originalità, ella avrebbe avuto di che gioire: se, anzi, tutto il suo passato, con le molteplici fantasiose insidie da lei affrontate, avesse avuto lì occasione di riproporsi in edizione aggiornata, riveduta e corretta, difficile sarebbe stato sperare in un esito positivo per quella vicenda, giacché, per quanto ella non avrebbe avuto piacere a prendere tale aspetto della vicenda in considerazione, ormai i suoi vent’anni erano passati da più di vent’anni, e benché, in quella nuova concezione della realtà, la sua età avesse a doversi considerare ancor sufficientemente giovanile, nel confronto con un’aspettativa di vita indubbiamente maggiore rispetto a quella propria del suo mondo, nel mondo dal quale ella proveniva simile traguardo avrebbe già avuto a doversi riconoscere più che ragguardevole, soprattutto per un’avventuriera e una mercenaria. Così, per quanto ella mai lo avrebbe pubblicamente ammesso, desiderando continuare a condurre quello stile di vita sino all’ultimo giorno che mai le sarebbe stato concesso di vivere, Midda Bontor non avrebbe potuto ignorare la pura verità conseguente a una ineluttabile perdita di prestanza fisica, pur, in tutto ciò, indubbiamente compensata da un incremento più che esponenziale della propria esperienza, della propria confidenza con quanto, quel genere di vita, le avrebbe potuto riservare, in termini tali per cui, allora, difficile sarebbe stato ipotizzare chi avrebbe mai potuto avere la meglio fra lei e una sua versione giovanile, nell’eventualità di un confronto diretto fra le due.
Consapevole di non potersi, in tutto ciò, permettere di perdere tempo a riprendere fiato, la donna guerriero ebbe quindi a risollevarsi rapidamente in piedi, per poter osservare l’ambiente attorno a sé e capire, di preciso, ove potesse essere giunta.
Attorno a sé, ella ebbe così modo di osservare un’amplia stanza circolare, circondata, nel proprio perimetro, da una variegata serie di quelle che apparivano essere delle corazze in esposizione, lì poste a titolo forse ornamentale e alternate, regolarmente, a delle colonne rotonde, a sostegno di quella che, sopra le sua testa, avrebbe avuto a doversi riconoscere come un’alta e complicata volta a crociera, laddove, allorché trovare controparte e sostegno in un’equivalente successione di colonne, in conseguenza alla particolare forma della stanza poneva il proprio riferimento in un’unica, grande ed elaborata colonna centrale, un pilastro apparentemente costituito da più colonne fuse insieme, al quale, in un complicato motivo geometrico, quel soffitto volgeva tutta la propria attenzione, nel quale quella volta poneva tutte le sue speranze, laddove, chiaramente, distrutto quel sostegno centrale, tutto il resto non avrebbe avuto sufficiente solidità per mantenersi intatto. Sparsi nella stanza, poi, avrebbero avuto a doversi identificare i resti di quello che, probabilmente, un tempo, avrebbe avuto a potersi considerare del mobilio, e di cui, ormai, restava poco più che mera polvere, accumulata in maniera disordinata lungo tutta l’area.
Notevole e apprezzabile, in tutto ciò, avrebbe avuto a doversi considerare l’architettura propria di quel nuovo ambiente sotterraneo, decisamente più elaborata rispetto al primo da lei incontrato alla base della statua, forse e addirittura parte integrante del suo basamento: un’architettura, sotto taluni versi, più elegante, più ricercata e, persino, più classica rispetto a quella a cui la stessa Figlia di Marr’Mahew aveva dovuto abituarsi nel corso dell’ultimo anno, posta a confronto con una modernità che, sovente, non sembrava voler tuttavia concedere spazio all’eleganza di tempi andati, l’eleganza che, al di là di quanto barbarico avrebbe avuto a doversi giudicare il proprio mondo nel confronto con le altre grandi civiltà dello spazio siderale, avrebbe potuto altresì contraddistinguere gli edifici delle città nelle quali ella aveva avuto occasione di vivere, combattere, amare e soffrire. Un qualunque palazzo y’shalfico, posto a confronto con anche quello stesso più ricercato, più elaborato sotterraneo, avrebbe infatti avuto giuoco facile nel stabilire la propria supremazia stilistica, la propria eleganza, la propria raffinatezza, in una vittoria sì scontata che avrebbe dovuto imporre addirittura motivo di vergogna alla pochezza artistica e architettonica di tutte quelle grandi città di acciaio e vetro nel quale, nei mondi da lei sino a quel momento visitati, ella si era ritrovata a muovere i propri passi.
Quasi il concetto stesso di modernità, di progresso tecnologico, del quale tutti quei mondi, tutte quelle civiltà, volevano esprimere chiaro vanto, non potesse lascia spazio, allora, a una più elegante ricercatezza estetica, in quei mondi, in quelle città, quanto allor giudicabile qual espressione di bellezza, allo sguardo della donna dagli occhi color ghiaccio non avrebbe potuto che risultare, altresì, un’accozzaglia smisurata di elementari forme geometriche, imponenti parallelepipedi, straordinari cilindri, incredibili nelle proprie dimensioni e, ciò non di meno, terribilmente manchevoli in quella che avrebbe avuto a dover essere considerata la cura del dettaglio, la ricercatezza di quel particolare tale da trasformare un semplice edificio in un’opera del quale il costruttore, e tutti gli artigiani che in essi dovevano aver posto il proprio lavoro, il proprio impegno professionale, avrebbero potuto andar fieri. O forse, semplicemente, sarebbe dovuta essere lei riconosciuta qual troppo aliena, troppo estranea a tutto ciò, per poterlo realmente apprezzare, per poter avere una qualche concreta possibilità di integrazione con quei mondi che, a differenza del suo, avevano deciso di andare avanti, superando i confini stessi del proprio pianeta per conquistare lo spazio siderale e, lì, trovare nuovi mondi, incontrare nuove civiltà, nuove specie: una critica più che legittima, quella che, in tutto ciò, ella stessa avrebbe potuto muoversi, se l’evidenza dei fatti, e dei fatti per come a lei proposti sino a quel momento, non avesse presentato una realtà sicuramente più moderna, più progredita tecnologicamente, e capace sì di giungere a nuovi mondi, a nuove civiltà, a nuove specie, pur, in tutto questo, mai superando i limiti di quei comportamenti, di quelle dinamiche, proprie anche del suo retrogrado piccolo pianeta di periferia, con avidità, brama di potere e di ricchezze, sesso, violenza, reciproca sopraffazione, guerra, e quant’altro, ad animare i cuori, gli animi, dei più, lì non diversamente che in contesti a lei più cari, più noti e, in ciò, in misura tale da non poterla considerare poi così aliena a tutto ciò.

« E ora…?! » ebbe a domandarsi la mercenaria, concludendo l’esplorazione visiva di quella stanza e invocando, in quelle parole, la nuova ineluttabile minaccia che, contro di lei, avrebbe avuto modo di schierarsi, a impedirle di proseguire oltre, a impedirle di raggiungere l’altra estremità di quell’ambiente là dove, in conseguenza della presenza del grande pilastro centrale, ella non era ancora in grado di spingere il proprio sguardo, ma là dove, ne era certa, l’avrebbe attesa il proseguo del proprio cammino « … le armature si animeranno e cercheranno di uccidermi? » suggerì, non potendo ovviare a volgere la propria attenzione verso quelle corazze, versione aliena e moderna di un concetto per lei più familiare di armatura, e, ciò non di meno, chiaramente tali.

Ancor non sfoderando la propria spada, per assicurarsi una certa libertà di movimento laddove le sarebbe potuta essere richiesta nuovamente una reazione rapida a fronte di quanto lì schieratole innanzi, non potendo poi essere così certa che, in suo contrasto, si sarebbero realmente animate quelle corazze, l’Ucciditrice di Dei iniziò quietamente ad avanzare all’interno della stanza, cercando di spingere il proprio sguardo, e i propri sensi tutti, a cogliere la benché minima evidenza di pericolo, laddove, come già suggerito dalle scale appena concluse, ella, in quel luogo, in quel sotterraneo, non avrebbe avuto a doversi illudere di essere benvoluta.

venerdì 23 febbraio 2018

2466


« … Thyres… »

Fu questione di un fugace attimo. Laddove, un istante prima, ella avrebbe avuto a doversi ancora considerare presente, un attimo dopo un letale raggio laser ebbe a muoversi perpendicolarmente al suolo, e a muoversi con velocità tale da apparire non dissimile da un muro di luce, fugacemente apparso e, parimenti, fugacemente scomparso: un muro di luce che, se solo avesse avuto opportunità di raggiungerla, l’avrebbe allora tagliata in due, in maniera netta, condannandola a morte senza che neppure ella potesse rendersene pienamente conto. Ma, allorché trovarla là dove, un semplice battito di ciglia prima, ella ancora avrebbe avuto a doversi riconoscere, quel muro di luce la vide ben tre gradini più in basso, osservando, non senza un certo timore, quella promessa di morte, e di una morte tanto assurda da risultare, a buon titolo, persino grottesca.
A salvarla, allora, non ebbe a considerarsi semplice fortuna, o una qualche coincidenza del caso, quanto e piuttosto la sua incredibile agilità, la sua mirabile velocità, la sua straordinaria attenzione al dettaglio e, accanto a tutto ciò, l’ausilio di quella sempre più apprezzabile, e apprezzata, maschera trasparente, la tecnologia della quale, allor impegnata a tradurre in luce le tenebre, ebbe a offrire un quasi accecante allerta su quanto, accanto a sé e sotto ai suoi piedi stava per avvenire, mostrando, per una frazione di secondo, il laser in caricamento qual una luminosa, e allor minacciosa, aura attorno a sé. E se, pur, soltanto una frazione di secondo avrebbe potuto esser riconosciuta lì volta a separare l’idea dall’azione, tale frazione ebbe a dimostrarsi, per lei, più che sufficiente al fine di ovviare al peggio, e all’esito necessariamente grottesco di tutto ciò.
Ma dove, in tal successo, ella avrebbe potuto riservarsi indubbia ragione di entusiasmo, simile celebrazione ebbe a dover essere necessariamente posticipata, e posticipata nel confronto con nuovi, inquietanti bagliori di morte che, tanto ai propri fianchi, quanto alle proprie spalle, quanto e ancor peggio innanzi a sé, iniziarono a comparire lungo i muri, il soffitto e i gradini sotto di sé, promettendo, allora, soltanto un esito tragico a tanto impegno, a tanto sforzo nel confronto con tale impresa. Ma laddove, chiunque altro, al suo posto, non avrebbe esitato a farsi cogliere dal panico nel porsi a confronto con tutto ciò; Midda Bontor, Figlia di Marr’Mahew, Ucciditrice di Dei, non ebbe a battere ciglio, scattando in avanti e traducendo quella che, sino a quel momento, era stata una lenta e prudente avanzata in una corsa folle, una discesa quasi simile a una planata, e a una planata lungo quei gradini, e lungo quei gradini improvvisamente rivelatisi qual parti integranti di una trappola mortale. Una folle corsa, un volo verso l’oscurità sotto di lei, e l’ignoto in essa celato, che, saltando almeno tre, talvolta quattro o persino cinque, gradini alla volta, la vide essere sempre in grado di sfuggire a quelle pareti luminose che, oltre a ferirle gli occhi, nel confronto con l’enfasi propria della maschera, avrebbero potuto sgradevolmente ridurla a pezzi se soltanto fossero riuscite a raggiungerla, eventualità a confronto con la quale, ella, francamente, non avrebbe voluto aver a ritrovarsi.

« … va bene accelerare un po’ la discesa... ma così mi pare anche troppo… »

Un commento ironico, e quasi autoironico, il suo, che probabilmente altri, al suo posto, avrebbero giudicato fuori luogo, nella letale situazione nella quale ella si stava venendo a trovare, e nel rischio, di lì a un istante, di ritrovarsi tagliata letteralmente in due, o in più parti, da uno di quegli attacchi, di quelle azioni automatiche programmate qual benvenuto a chiunque, lì, avesse osato avventurarsi in maniera inopportuna, a custodia, a tutela, così come da lei atteso, e quasi e persino invocato, del tesoro lì sepolto.
Un commento ironico, e quasi autoironico, il suo, che pur ella non si sarebbe mai negata, non, a ogni nuovo passo, nello scoprirsi ancora in vita malgrado tutto, non, a ogni nuovo salto, nel ritrovarsi ancora capace di proseguire oltre, al di là di tanta terribile promessa di morte qual, allora, non avrebbe potuto essere che riconosciuta quella intrinseca in quei laser, in quell’attacco continuo e ossessivo a fronte del quale un solo, fugace momento di esitazione avrebbe, necessariamente, comportato la sua morte.
Per colei che, tuttavia, molte altre prove prima di quella, molte altre sfide, molte altre battaglie non si era negata di affrontare in passato, contro uomini, mostri e dei, alcun timore avrebbe potuto essere lì preso in reale considerazione, alcuna esitazione avrebbe potuto essere riconosciuta a contraddistinguerla, neppure nel momento in cui ebbe a rendersi conto che, il senso di comparsa di quei laser, di quelle pareti di luce volte a tentare di sancire la sua prematura fine, non avrebbe più avuto a doversi considerare qual quello iniziale, da destra a sinistra, ma seguendo percorsi sempre diversi, traiettorie sempre disomogenee l’una rispetto alle precedenti. Talvolta il laser giungeva dall’alto, altre risaliva dal basso, a volte ancora da destra, altre, invece, da sinistra: quanto, a prescindere da ciò, sarebbe comunque sempre rimasto immutato sarebbe stato l’effetto finale, quel netto taglio di qualunque cosa esso avrebbe incontrato. E se pur, forse, il suo braccio destro, in grazia all’idrargirio in esso contenuto, avrebbe potuto vantare occasione di resistere a quell’offensiva e, persino, di neutralizzarla, assorbendone l’energia, obiettivamente folle sarebbe stato ipotizzare di restare immobile ad attendere quell’evento, nella speranza che ciò si confermasse sufficiente a vanificarlo.
Purtroppo per lei, tuttavia, più il suo incedere cresceva in velocità, altrettanto cresceva la velocità con cui quelle pareti si attivavano, soprattutto innanzi a lei, nella speranza, in ciò, di riuscire ad arrestarla, di avere successo a frenare quell’invasione, il suo ingresso in quel territorio proibito. E se pur, in principio, persino scontato avrebbe avuto a doversi considerare il suo successo, nella presenza di un minimo, e pur certo, margine temporale fra il suo passaggio e l’attivazione del muro, negli ultimi gradini, nell’ultima tratta di quell’estenuante discesa, ciò non ebbe a risultare altrettanto scontato.
Attraverso la propria maschera, e la sua capacità di visione a dispetto dell’oscurità circostante, la donna guerriero dagli occhi color ghiaccio e dai capelli color del fuoco, si pose in grado di distinguere la sempre più prematura attivazione delle pareti innanzi a sé, sino, in particolare, alla più lontana, all’ultima che avrebbe avuto a dover superare e che, tuttavia, nella distanza di ancora tredici gradini fra lei e tale traguardo, alla velocità alla quale ella stava in quel mentre avanzando, al massimo di quanto non si sarebbe potuta permettere, avrebbe necessariamente finito con il condannarla a morte prima che avesse l’occasione di proiettarsi oltre, risalendo dal basso e, dal basso, dividendola disgustosamente a metà.

« … »

Neppure di imprecare, così, ebbe a riservarsi l’opportunità, nella necessità, allora, di tentare la sorte, di porre in sfida le proprie capacità, in un ultimo, mirabile salto, un balzo che, in tal contesto, avrebbe avuto a doversi considerare più simile a un vero e proprio volo, verso l’oscurità innanzi a sé e verso qualunque altra minaccia lì avrebbe potuto attenderla, per avere una pur effimera, fugace speranza di sopravvivere a quell’ultimo muro.
E se, nella sua mente, per un istante il tempo stesso parve rallentare, sino ad arrestarsi, nel mentre di quel volo, di quel vero e proprio tuffo in avanti, un salto che la vide roteare lungo il proprio stesso asse per cercare di spingere, quanto più possibile, il proprio corpo lungo il soffitto, ad allontanarsi dal moto di quel laser sino a lei; sostanzialmente impossibile sarebbe stato per un qualunque osservatore esterno, per un qualunque testimone di quel momento, riuscire a cogliere l’effettiva dinamica di quanto, allora, in moto, in una tale subitaneità di eventi da risultare addirittura inintelligibili all’occhio e alla mente umana. Così, quanto per lei apparve quasi prossimo all’eternità, in un lunghissimo volo al di sopra di quel raggio laser, disteso in orizzontale, e in rapida risalita verso di lei e verso il suo corpo, pronto a decapitarla, o a dividerla in due parti all’altezza del busto o dei fianchi, o, ancora, a mutilarle le gambe o i piedi; per il resto del Creato sarebbe semplicemente stato inteso qual un repentino cambio di collocazione spaziale da parte sua, un istante prima ancora in corsa tredici gradini più in alto, e, un attimo dopo, rotolando a terra oltre quella parete, miracolosamente non riportando alcun danno.

giovedì 22 febbraio 2018

2465


Abbandonata la chiave di Mesoolan alle proprie spalle, nella consapevolezza che, a prescindere da qualunque strada avrebbe potuto percorrere per lasciare quel luogo, di lì avrebbe avuto comunque a dover fare ritorno per recuperarla, nel voler tenere fede alla parola data a Mapan Seg e nel restituirgli quel cimelio, quella reliquia memoria della moglie perduta al termine del proprio viaggio; Midda Bontor iniziò a ridiscendere la nuova rampa di scale dischiusasi innanzi a sé e, lungo di essa, ad avventurarsi all’inizio della propria avventura, alla ricerca di quanto richiestole dalla propria mecenate, dell’arma più potente dell’intero Creato, qual, tale, le era stata presentata dalla stessa Lles Vaherz.
In verità, al di là delle più che solide ragioni per le quali ella avrebbe potuto addurre di trovarsi in quel luogo, la Figlia di Marr’Mahew non avrebbe potuto negare una certa curiosità nel merito dell’esito finale di quella missione, non soltanto per le sfide che, in quel recupero, avrebbero potuto attenderla, quanto e piuttosto per la natura stessa di una tanto terrificante arma: se, infatti, nel proprio mondo, ella non avrebbe potuto ovviare a pensare, per lo più, a una spada o a qualche altra lama simile; e benché, in quella nuova e più amplia concezione dell’universo, ella non avrebbe potuto mancare a immaginare qualche nuovo e devastante dispositivo energetico, una qualche bomba dotata di una potenza immane o qualcosa del genere; egualmente difficile sarebbe stato per lei riuscire a concepire l’immagine propria di quell’arma che, sola, avrebbe potuto vantare una simile fama, un’arma a confronto con la quale interi pianeti non avrebbero potuto ovviare a estinguersi e persino le stelle del cielo avrebbero avuto a spegnersi. Che forma e, soprattutto, che natura avrebbe potuto caratterizzare una, simile, terrificante risorsa, improbabile sarebbe stata per lei da immaginare e da immaginare soprattutto a confronto con le vestigia già di per sé straordinarie della civiltà che, un tempo, aveva vissuto in quel mondo, molto prima di quando, alfine, lì tutto era morto, trasformandosi in quell’osceno deserto. Che quello stesso deserto, poi, altro non avesse a doversi giudicare qual l’effetto di un avventato impiego della medesima arma da lei allor ricercata, francamente, non avrebbe avuto la benché minima ragione atta a escluderlo, benché, parimenti, non avrebbe potuto neppur vantare particolari motivazioni utili a crederlo, nella più totale assenza di informazioni a tal riguardo.
Benché, lungo quella più comoda e amplia scalinata ella avrebbe potuto allor permettersi persino di correre, e di correre nel tentare di abbreviare i tempi di recupero dell’arma, nel non poter ovviare a considerare quanto tempo, allora, fosse già stato speso nella risalita e nella ridiscesa lungo la statua e quanto altro, almeno equivalente, sarebbe necessariamente stato richiesto in senso contrario, la donna guerriero, indubbiamente confidente con situazioni analoghe a quella, non avrebbe mai potuto ignorare il pericolo proprio di quel cammino, di quel percorso, un percorso che, laddove realmente destinato a condurre a una tanto pericolosa arma, così accuratamente sepolta, così attentamente custodita, certamente non sarebbe stato allor scevro da trappole, e da trappole di chissà quale ricercata natura, nel prendere in mera considerazione l’elaborato concetto di mappa proprio del medaglione che, sino a lì, l’aveva condotta. Difficile, infatti, sarebbe stato per lei accettare che, da lì in avanti, il percorso sarebbe stato assolutamente quieto e privo di ostacoli, in una situazione che, altresì, avrebbe avuto a doversi riconoscere fondamentalmente antitetica rispetto a qualunque altra da lei vissuta, in analoghe missioni passate.
Quando, a titolo esemplificativo, era stata recuperata la corona perduta di Anmel Mal Toise, quella reliquia maledetta all’interno della quale ne era stato racchiuso l’animo malvagio e che, per causa sua, era poi stato inconsapevolmente liberato, ben sette erano state le prove mortali che ella e i suoi compagni avevano dovuto affrontare, per dimostrare il proprio coraggio, la propria forza, la propria temperanza, la propria destrezza, la propria saggezza, la propria rettitudine e, infine, d’esser pronti, ove necessario, anche al sacrificio: e se pur, quelle sette prove, a posteriori, avrebbero avuto a dover essere sicuramente rilette sotto una diversa luce, e una luce volta non soltanto a custodire quel tesoro, quanto e piuttosto a selezionarne coloro i quali avrebbero a esso voluto bramare, escludendo attraverso una tanto accurata cernita coloro i quali avrebbero avuto a voler liberare l’orrore lì relegato da coloro i quali, altresì, mai si sarebbero macchiati di simile colpa, purtroppo non prevedendo, come nel loro caso, coloro i quali a tanto si sarebbero potuto spingere nella più semplice inconsapevolezza del rischio conseguente alle proprie azioni; nulla di meno rispetto a tanto ella avrebbe potuto attendersi da quel luogo, dal percorso del quale, quella scalinata, certamente avrebbe avuto a rappresentare soltanto l’inizio, laddove, al termine del medesimo, inappellabilmente pericoloso, addirittura letale, avrebbe avuto a doversi riconoscere il premio là accuratamente celato, e per tanti secoli custodito lontano da tutto e da tutti non senza una qualche ragione.
In effetti, addirittura, alla luce della propria pregressa esperienza con la corona perduta della regina Anmel, la donna dagli occhi color ghiaccio avrebbe forse avuto lì a doversi riservare qualche dubbio, qualche esitazione, qualche ritrosia all’idea di porsi nuovamente a confronto con una situazione in qualche maniera assimilabile, ancor una volta in tal senso coinvolta controvoglia, in termini del tutto estranei al proprio corrente modo d’agire e al servizio, soprattutto, di una mecenate al seguito della quale pur non avrebbe potuto riservarsi il benché minimo entusiasmo a permanere. Tuttavia, esattamente come all’epoca nel confronto con lady Lavero ella avrebbe avuto ad abbisognare delle sue risorse, delle sue conoscenze allo scopo di definire la posizione dei propri amici della Jol’Ange, dai quali si era involontariamente separata nel corso di una tragica tempesta; dieci anni più tardi ella ebbe così a ritrovarsi al servizio di Lles Vaherz animata, in tal senso, soltanto dalla necessità di ritrovare i propri amici della Kasta Hamina, e a essi ricongiungersi insieme ai due bambini accolti a sé come figli: motivazioni a fronte delle quali, probabilmente, i più non sarebbero stati particolarmente d’accordo all’idea di veder posto in dubbio il destino dell’intero universo; ma che, probabilmente in termini egoistici, per lei sarebbero altresì stati più che sufficienti per correre il rischio e per, eventualmente, impegnarsi a posteriori al fine di rimediare a quanto combinato. Così come, del resto, quel suo stesso viaggio oltre i confini del proprio mondo, sulle ali della fenice, animato dal solo intento di ritrovare e distruggere, una volta per tutte, Anmel Mal Toise, avrebbe avuto a dover essere riconosciuto essere quietamente motivato.

« Ovviamente… se strada facendo troverò il modo di non porre il Creato ancor più a rischio rispetto a quanto io no abbia già fatto con Anmel, qualcuno potrà magari essermene grato. » sorrise la donna guerriero, non potendo ovviare a ironizzare a confronto con quel flusso di coscienza, con quei pensieri che, nel mentre di quella prudente discesa, non poterono ovviare ad affollarsi nella sua mente, suggerendole anche possibilità estremamente spiacevoli nel confronto con l’esito finale di quella nuova missione.

Così, pur animata da quella chiara consapevolezza e da quel speranzoso intento, dalla consapevolezza di non voler iniziare una nuova guerra come quella già in corso con Anmel e, parimenti, dall’intento di non rischiare ancora una volta di condannare a morte la propria intera realtà per un approccio troppo semplicistico alla questione in corso; la Figlia di Marr’Mahew non poté allora che tornare a concentrarsi su quanto allora per lei presente in quel momento, nella certezza di come, se fosse stolidamente morta per effetto di una qualche trappola, certamente né una nuova guerra, né qualche terrificante pericolo per l’intera realtà, sarebbe potuto essere a lei o alle sue azioni attribuito, per quanto, ciò non di meno, tale risultato non avrebbe avuto a dover essere giudicato propriamente un successo dal proprio personalissimo punto di vista e, in particolare, dal punto di vista di chi, allora, non avrebbe avuto occasione di riservarsi la benché minima possibilità di analisi a posteriori di quanto accaduto o del perché ciò fosse accaduto, così come, malgrado tutto, le era stata concessa opportunità di compiere a seguito del fallimentare successo proprio del recupero della corona perduta.
E se, nel confronto con quella scalinata, soltanto paranoia avrebbe potuto esserle riconosciuta nella propria esitazione, nel proprio prudente avanzare, ancora una volta, lì come già in passato, proprio in grazia a tale paranoia ella ebbe a riservarsi l’occasione di poter godere di una nuova alba…

mercoledì 21 febbraio 2018

2464


Difficile avrebbe avuto a potersi dire, a posteriori, per quanto ebbe a perdurare la discesa all’interno della statua. Quanto, tuttavia, alla fine avrebbe avuto a doversi riconoscere qual certo, fu il suo arrivo alla base della medesima e, ivi, a quella che parve essere un’amplia stanza sotterranea, una stanza che, probabilmente, in un lontano passato, avrebbe avuto a doversi riconoscere qual ricavata all’interno del sicuramente possente basamento di un simile colosso di pietra. Una stanza nella quale, in effetti, il tempo stesso avrebbe avuto ad apparir quasi congelato, giacché, lì sotto, lì dentro, nessuno aveva più messo piede da secoli interi, offrendo, in ciò, uno sguardo diretto su quello stesso lontano passato nel quale essa era stata costruita, ed era stata impiegata un’ultima volta.
Giunta a quel punto, non immediato fu per la mercenaria riuscire a intuire come proseguire nel proprio cammino, nella propria missione, giacché l’oggetto che, sino a quel momento, era stato per lei una guida costante, un riferimento continuo tanto per individuare quell’intero pianeta, quanto e ancora per raggiungere quella statua in particolare, sembrava aver perduto ogni propria particolare prerogativa, riducendosi a un inerme medaglione privo di particolari doti. Ciò non di meno, nel proprio stesso nome, la chiave di Mesoolan ebbe a suggerire senza particolare originalità alla propria attuale custode il fine ultimo del proprio impiego, un fine che, per l’appunto, avrebbe avuto a dover essere inteso qual quello di una chiave. Laddove, tuttavia, per ogni chiave avrebbe avuto a dover essere ricercata una serratura, nelle tenebre di quella stanza, di quella che, ormai, avrebbe avuto a dover essere intesa al pari di una cripta sotterranea, l’impegno proprio della donna guerriero ebbe a concentrarsi, allora, proprio in tal senso, in simile direzione, iniziando a esaminare con cura ogni particolare dell’ambiente attorno a sé per individuare qualunque cosa avrebbe potuto essere associata all’idea propria di una serratura, nella speranza, non ovvia, che, effettivamente, tale serratura avrebbe avuto a doversi ricercare lì dentro e non, magari, all’esterno della statua, sepolta, allora, sotto centinaia di piedi di sabbia.

« Se io fossi una serratura… dove mi andrei a nascondere?! » ebbe a domandarsi a un certo punto, nel cercare di sdrammatizzare sulla situazione per lei allor corrente, benché a ogni nuovo istante di insuccesso nell’individuare il passaggio successivo, una vocina negativa, nella sua testa, non perdeva occasione di suggerirle l’eventualità di un proprio errore di calcolo, una propria sbagliata valutazione, tale da vanificare tutto lo sforzo da lei sino a quel momento compiuto allo scopo di poter giungere sino a lì.

Per quanto strano, qualcuno, avrebbe avuto a considerarlo in riferimento all’idea mentale che avrebbe potuto essere associata al concetto di avventuriera e mercenaria, nonché alla rinomata impetuosa assenza di freni propria di quella donna; in quel momento, in quel contesto, ella non avrebbe potuto ovviare a rimpiangere l’assenza di una qualche accurata preparazione di quella stessa missione, preparazione che, in effetti, non avrebbe potuto ovviare a prevedere anche un momento di studio, di attento esame di tutte le leggende, di tutte le storie passate in associazione a quel mondo e, più in generale, alla missione assegnatale, allo scopo di raccogliere tutte quelle informazioni, tutti quei particolari, pur apparentemente banali, volti a meglio comprendere le situazioni in fronte alle quali ella avrebbe potuto ritrovarsi nel corso del proprio viaggio e, soprattutto, a meglio analizzare i problemi che avrebbe avuto a dover parimenti affrontare.
Benché, infatti, in un’idea estremamente romanzata della propria vita, del proprio modo di agire, facile sarebbe stato fraintenderla qual indifferente a qualunque necessità di preparazione delle proprie missioni, se non, addirittura, insofferente a qualunque idea stessa di studio, e di studio preventivo nel merito di quanto le si sarebbe potuto dispiegare innanzi allo sguardo, non così frequenti avrebbero avuto a doversi considerare le avventure mercenarie nelle quali ella si era impegnata immediatamente a capo chino, cieca e sorda nel confronto con qualunque possibile prospettiva di quieta applicazione preparatoria alle minacce che avrebbero potuto esserle riservate… al contrario: avendone la possibilità, avendone il tempo, ella aveva sempre preferito approcciare con attenzione a qualunque propria missione, a qualunque propria avventura, raccogliendo, prima della medesima, tutte quelle informazioni, tutti quei dettagli utili a minimizzare la possibilità di sorprese a posteriori. Sorprese che, ella ne era fermamente consapevole, non sarebbero mai mancate di presentarsi egualmente, e che pur, in tal maniera, avrebbe potuto speranzosamente contenere nella propria imprevedibilità, dimostrandosi quantomeno già pronta a fronte di alcune fra essere, e comunque psicologicamente preparata innanzi a buona parte delle altre.
Se solo ella avesse avuto l’occasione di raccogliere informazioni nel merito di quel mondo e della sua perduta civiltà, probabilmente più semplice sarebbe stato allora intuire la possibile posizione nella quale il pendente avrebbe avuto a dover essere collocato in quel frangente, nel confronto, per esempio, con le caratteristiche fisiche proprie della specie che lì aveva vissuto, della quale aveva potuto intuire una natura sicuramente umanoide, come testimoniato dalle statue, ma, obiettivamente, poco di più, e nel confronto con eventuali altre possibili riprove di quella che doveva essere stata la loro antica civiltà, quel retaggio perduto il quale, sicuramente, avrebbe avuto a dover essere riconosciuto qual costituito da proprie regole, da proprie consuetudini, da proprie abitudini, tali per cui, forse, assolutamente ovvia avrebbe allora avuto a dover essere considerata la sua prossima azione e, ciò non di meno, non altrettanto tale in assenza di simili informazioni, di tali dettagli.
Così, un altro indefinito lasso temporale venne speso nel ritrovare, allora, una particolare superficie metallica, una particolare piastra, ormai coperta dalla polvere dei secoli, apparentemente costituita dallo stesso materiale lucente del medaglione, seppur difficile avrebbe avuto a doversi giudicare simile analisi nel confronto con le immagini distorte offertele dal proprio visore, nella completa oscurità nella quale avrebbe avuto a doversi riconoscere, superficie metallica sulla quale, dopo diverse prove, ebbe a individuare la posizione corretta nella quale collocare la chiave di Mesoolan al fine di chiudere un qualche genere di circuito, o forse alimentarlo, e, in tal maniera, attivare l’apertura di una porta, di un passaggio, una botola, un varco verso il basso e verso una nuova serie di scale, questa volta più classiche, volte a ridiscendere verso gli oscuri abissi sotterranei di quel mondo morente.

« Lode a Thyres… » sussurrò la mercenaria, in ringraziamento alla propria dea prediletta per il risultato concessole, non immediatamente forse e, ciò non di meno, egualmente garantitole.

Riprendendosi il medaglione e, in ciò, preparandosi a proseguire oltre, l’Ucciditrice di Dei ebbe a ritrovarsi, tuttavia, inaspettatamente bloccata nel proprio proseguo, nel proprio incedere, dall’improvvisa chiusura di quel varco, una porta non soltanto per aprire, ma anche per mantenere aperta la quale, evidentemente, il gioiello avrebbe avuto a doversi giudicare qual elemento irrinunciabile.
E se pur, individuata la posizione di quel passaggio, ipoteticamente semplice avrebbe avuto a doversi riconoscere per lei potersi aprire una via esattamente come già compiuto nel confronto con la pietra della statua, procedendo in tal senso a suon di pugni, e di pugni alimentati all’idrargirio, quanto allora avrebbe avuto a doversi considerare lì schierato in proprio potenziale contrasto, fu subito chiaro, non avrebbe avuto a doversi giudicare altrettanto fragile quanto la pietra sovrastante, laddove, allora, un paio di colpi pur non negati al pieno potenziale concessole dai propri muscoli artificiali non ebbero neppure a scalfire la superficie di quelle lastre metalliche.

« … accidenti. » imprecò quindi, quasi in un ringhio, non approvando l’idea di separarsi dalla chiave di Mesoolan, giunta sino a quel punto, e, ciò nonostante, rendendosi conto di non poter agire in molte altre vie.

martedì 20 febbraio 2018

2463


« Senza offesa… i tuoi pregiudizi contro noi pirati stanno iniziando a diventare veramente fastidiosi. » sbuffò l’altro, con tono di disapprovazione tale da permettere alla sua interlocutrice di immaginare in maniera assolutamente veritiera un movimento di diniego con il capo, ad aperta critica in tal senso.

Midda Bontor sorrise, per un momento divertita, cercando di cogliere, in quella sua costretta collaborazione con una ciurma di masnadieri, anche qualche aspetto positivo, ilare, al fine di riuscire a meglio tollerare una situazione che, per lei, sarebbe stata altresì grottesca.
A dispetto di quanto anche appena accusatole da parte dell’uomo pipistrello, nulla di quanto avrebbe potuto muovere i suoi pensieri, le sue parole e le sue azioni, in più o meno aperta critica, se non contrasto, a dei pirati, infatti, avrebbe avuto a dover essere frainteso in qualunque misura qual espressione di pregiudizio. Laddove, infatti, per pregiudizio avrebbe avuto a dover essere intesa, semplicemente, un’idea, un’opinione concepita sulla base di convinzioni personali e prevenzioni generali, senza alcuna conoscenza diretta dei fatti, delle persone o delle cose, un preconcetto negativo e al quale muovere inoppugnabilmente non minor critica; quanto ella avrebbe avuto a poter vantare a discapito di pirati non avrebbe avuto a dover essere reputata, erroneamente, mera prevenzione, quanto, e piuttosto, il frutto di un’esperienza diretta, un’esperienza concreta, e per lei perdurata per una vita intera, nei termini nei quali aveva già avuto anche modo di esprimersi con lui.
In tutto ciò, quindi, ella non avrebbe potuto ovviare a sforzarsi di pensare quanto, tutto il suo impegno, tutti i suoi sforzi, avrebbero avuto a doversi riconoscere qual destinati al bene, alla salvezza dei suoi bambini, ancor prima che al veder garantito, concesso un qualunque genere di favore, di utilità, a quei pirati, a quei predoni e tagliagole che, fosse dipeso da lei, avrebbero potuto andare a schiantarsi con la propria intera nave contro la superficie incandescente di una stella, senza che ella, per questo, avesse a provare il benché minimo rimpianto, il più effimero rimorso, non, di certo, per dei pirati, non, parimenti, per il loro capitano. E a nulla sarebbe potuta valere, in tutto ciò, l’ammirazione che Lles aveva offerto evidenza di provare nei suoi riguardi, al punto di volerla impiegare, come mercenaria, al proprio servizio; né, parimenti, la simpatia che Shope sarebbe stato in grado di suscitare, con tutte le proprie divertenti polemiche: pirati erano, pirati sempre sarebbero rimasti. E non appena ella ne avrebbe avuto l’occasione, sarebbe stata anzi ben lieta di offrire loro il filo della propria lama.
Avendo, in quel momento, a doversi comunque concentrare sul presente, e sulla missione in corso, la Figlia di Marr’Mahew lasciò rapidamente scemare il proprio sorriso al fine di poter volgere tutta la propria attenzione, tutto il proprio interesse all’oscuro pozzo innanzi a sé, cercando di ricordare cosa, nel proprio piccolo equipaggiamento, allora avrebbe potuto esserle più utile. E così, dopo aver estratto dalla propria cintura un paio di dotazioni erronee, fraintendendone l’uso, ella ebbe alfine a rammentare l’inutilità della ricerca di una fonte di luce per accompagnarla in quella propria discesa nelle tenebre, laddove, altresì, la sua maschera avrebbe già potuto fornirle tutto il supporto necessario. Concepita, infatti, proprio al fine di permettere all’utilizzatore una sempre costante capacità di controllo sull’ambiente a sé circostante, anche quando questo potenzialmente avverso, quella maschera trasparente non soltanto le era stata affidata al fine di proteggersi dal vento o dalla sabbia, ma anche al fine di poter essere sempre pronta ad affrontare qualunque situazione le si sarebbe parata innanzi, ivi compresa una prevedibile assenza di luce, garantendole una visuale più che definita in grazia a una tecnologia che le era stata suggerita qual estremamente semplice, persino banale, e della quale, pur, non riusciva a ricordarsi il nome corretto, pur rammentando avesse a che fare qualcosa con uno spettro rosso… o qualcosa di simile.
Affidandosi, in ciò, alla propria maschera, ella ebbe a iniziare a ridiscendere all’interno di quel pozzo, trovando occasione di supporto, in tal senso, in una serie di appigli regolari che ebbe a trovare ad attenderla, simili a una vera e propria scala a pioli, aspettando che quella stessa superficie sino a quel momento quietamente trasparente potesse iniziare ad agire, e ad agire in maniera autonoma. Una fiducia, quella che ella volle riporre in tale tecnologia pur sconosciuta, che non ebbe a tradirla, nell’iniziare a presentare, in maniera piacevolmente nitida, l’immagine del mondo a sé circostante non appena ella ebbe a sprofondare nell’oscurità, e nel presentarla con quieta abbondanza di dettagli, per quanto in una bizzarra gradazione di verde…

« Magari l’avessi avuta in passato… » non poté ovviare a sussurrare, fra sé e sé, nel non mancare di esprimere un riferimento quasi nostalgico a tutte le occasioni nelle quali, in maniera più o meno improvvisata, si era dovuta procurare una torcia come unica alternativa all’oscurità più totale, ritrovandosi, ciò non di meno, spiacevolmente ostacolata nei movimenti dal trasporto della stessa, oltre che, comunque, beneficiante di minor definizione del mondo a sé circostante rispetto a quella, in tutto ciò, concessale.

Nuovi mondi, vecchi giochi; nuovi trucchi, vecchi cani: tale sembrava essere un motivo ricorrente in quell’ennesimo capitolo della propria vita, una nuova fase in cui, per quanto tutto attorno a lei avrebbe avuto a doversi riconoscere inedito e incredibilmente alieno rispetto al proprio passato, ella non avrebbe potuto ovviare a continuare a giocare secondo le sole regole che mai avrebbe potuto vantare di conoscere, al punto tale, persino, dal ritrovarsi in quel mentre costretta a riabbracciare la propria antica vita da mercenaria, seppur non per propria, esclusiva volontà.
In grazia, quindi, a quel supporto tecnologico, utile non a sopperire a delle proprie mancanze, quanto e piuttosto a concederle quell’aiuto che, altrimenti e comunque, avrebbe potuto ottenere in altri modi, seppur sicuramente meno comodi rispetto a quello, Midda Bontor poté proseguire con la propria discesa all’interno del cunicolo esagonale, nelle profondità della statua. E se lungo ed estenuante era stato il percorso d’ascesa, non minore ebbe a essere quello di discesa, benché, sicuramente, coadiuvato dalla presenza di quella comoda scala in assenza della quale avrebbe avuto a doversi ingegnare in altri modi, con altri mezzi, così come, dopotutto, non aveva mancato di compiere in passato, in condizioni peggiori rispetto a quella. Ciò non di meno, benché più agevole avrebbe sicuramente avuto a dover essere considerato quel tratto in discesa, non meno lungo e, a modo suo, non meno estenuante ebbe a dover essere giudicato, fosse anche e soltanto nella sistematica riproposizione dei medesimi movimenti lungo un percorso apparentemente sempre uguale e che, in ciò, avrebbe potuto disorientare chiunque, lasciando temere di essere impegnati in una discesa eterna e, forse, priva di ogni possibilità di conclusione. Tuttavia, nel ben ricordare le dimensioni esterne delle statua, e nel ritrovarsi costretta almeno a raddoppiarle, nel considerare oltre alla parte emersa, anche quella sotterrata nelle rosse sabbie, la donna guerriero non ebbe a smarrirsi d’animo, proseguendo in quel modo pur, obiettivamente, quasi rimpiangendo l’assenza di qualsivoglia possibilità di distrazione in ciò.
Addirittura, dopo forse un quarto d’ora o più di discesa, ella non poté ovviare persino a provare una certa nostalgia per la voce di Shope, ricercando, di conseguenza, un contatto con lui: purtroppo, per così come previsto e anticipato, il ritrovarsi all’interno di quella statua di pietra ebbe a interferire nelle loro possibilità di comunicazione, ritrovandola, pertanto, sostanzialmente isolata da tutto e da tutti all’interno di quel colosso, vestigia di una perduta civiltà di un remoto passato.

« Certo che sono incontentabile… » ebbe a commentare, rivolgendosi a se stessa « Quando mi parlava, non volevo sentirlo. E ora che non posso sentirlo, vorrei che mi parlasse. » ironizzò a proprio medesimo discapito, non potendo ovviare a evidenziare l’incoerenza del proprio stesso comportamento dei confronti del proprio compagno di viaggio e di ventura, quel bistrattato pirata il quale, se non fosse allor stato un pirata, probabilmente avrebbe potuto indubbiamente apprezzare nel ruolo così ricoperto al suo fianco.

lunedì 19 febbraio 2018

2462


Recuperato fiato e riposati estemporaneamente i propri muscoli, non provati in quella salita e neppur giudicabili allor qual completamente indifferenti innanzi alla prova che era stata loro così richiesta in quella tutt’altro che agevole ascesa; dopo pochi minuti dal raggiungimento del proprio traguardo, della vetta rappresentata dalla nuca di quella statua, la donna guerriero ebbe a riservarsi occasione utile a concentrarsi sul proseguo del proprio cammino e, in particolare, sull’individuazione di un qualche punto debole in quella superficie di pietra al fine di varcarne i confini e penetrare in essa, così come, in tutto ciò, desiderato. E benché, probabilmente, chiunque altro, al suo posto, a fronte di una simile esigenza, innanzi a un tale impegno, avrebbe trovato comodo il supporto, l’aiuto proprio di un qualche dispositivo tecnologico, magari e persino atto a sondare l’interno di quella statua per metterne a nudo, in maniera scientificamente puntuale, tutti i segreti, tutti i misteri, a incominciare dall’esistenza, o meno, di quei possibili condotti di manutenzione e, con essi, alle migliori opportunità di accesso ai medesimi; ella non poté che rendere proprio un approccio decisamente meno elegante o immediato e, ciò nonostante, non meno efficiente rispetto a quello così ipotizzabile, nell’iniziare a imprimere lievi colpi con la punta delle proprie dita metalliche, la superficie della statua, cercando, lungo l’intera area a lei lì presentata, una qualche variazione di suono, di tonalità, atta a suggerire l’esistenza, lì sotto, di qualcosa di disomogeneo, e, in particolare, di uno spazio vuoto, al quale aver a sperare di poter accedere.
Non fu immediato, allora, riuscire a circoscrivere l’area interessata, anche perché l’accesso a tale spazio non avrebbe avuto a dover essere giudicato qual inibito da una leggera intercapedine: ove così fosse stato, infatti, l’usura del tempo avrebbe probabilmente già posto in luce simili pertugi, tali passaggi, senza che, in ciò, fosse richiesto alcun impegno. In ciò, quindi, assolutamente effimera ebbe a dover essere considerata la differenza di tonalità fra la pietra piena e quanto, ella, ebbe a individuare qual un possibile accesso all’interno della statua, un accesso apparentemente destinato non a sfociare nell’apice superiore di quell’enorme testa, quanto e piuttosto leggermente arretrato, in termini tali, probabilmente, da voler preservare, nella creazione di tale passaggio, la parte anteriore, quella del volto, assicurandole maggiore forza, maggiore compattezza di quanto, altrimenti, non sarebbe potuto essere anche e soltanto in grazia a quel corridoio interno. Definita, quindi, una superficie vagamente circolare, e marcate le estremità della medesima in grazia alla pressione del proprio indice destro, concentrando in un singolo punto forza sufficiente a trapassare un cranio umano e, in ciò, anche utile a incidere quella superficie già esteriormente compromessa, la donna guerriero ebbe a valutare per un istante in qual maniera sarebbe stato più opportuno per lei procedere, fra il tentare di estrarre quel blocco, le cui estremità, tuttavia, non era stata ancor in grado di individuare, o, semplicemente, farlo a pezzi. E giacché, in fondo, quel mondo avrebbe avuto a doversi riconoscere qual distrutto e morente, e quelle vestigia avrebbero avuto a dover essere sol considerati monumenti funebri di una remota civiltà ormai persino dimenticata, nella propria storia così come nella propria stessa natura, difficile da riconoscersi in associazione a una qualunque specie con la quale la mercenaria aveva avuto già a che fare in quella più amplia, ed estremamente variegata, concezione di realtà; a ben poco sarebbe valso un qualunque rispetto per l’integrità di quell’opera.
Così, votando in favore a un approccio meno conservativo, ella decise di far a pezzi quella superficie, e di farlo in grazia alla massima potenza a lei garantita dal proprio arto metallico, da quella protesi che, in fondo, altro non avrebbe avuto a dover essere riconosciuta se non uno strumento di lavoro, e uno strumento di lavoro a lei impiantato non a titolo di favore personale, quanto e piuttosto qual espressione di una spiacevole condanna ai lavori forzati, una condanna che, in un breve lasso temporale dell’anno precedente, in immediata conseguenza al suo arrivo nello spazio siderale, l’aveva vista tradotta all’interno di un complesso carcerario con annesse miniere di idrargirio, alla cui estrazione ella era stata destinata: in questo, quindi, quanto i più avrebbero potuto giudicare qual una quieta mancanza di eleganza in quell’arto, nel non tentare di celare la propria natura artificiale dietro a una qualche apparenza di normalità, così come la più completa assenza di percezioni tattili da esso, condizione alla quale, dopotutto, ella non avrebbe potuto negare di essere ormai abituata sin dalla perdita del proprio vero e unico braccio destro, oltre vent’anni prima, avrebbe quietamente compensato una maggiore resistenza e una maggiore forza rispetto ad altri generi di protesi, e di protesi atte a emulare in maniera estremamente fedele la presenza di estremità in carne e ossa, concedendole, garantendole quanto ella non avrebbe mai potuto considerare qual un limite, quanto e piuttosto un vantaggio.
Vantaggio, quello per lei derivante dal proprio arto destro, che venne lì impiegato in una dozzina di violenti colpi ben assestati, ripetuti con straordinaria costanza nell’esatto centro del perimetro da lei marcato, in termini non dissimili da quelli che avrebbero potuto contraddistinguere un martello pneumatico, e in contrasto ai quali, la pietra di quell’enorme statua, pur sopravvissuta alla fine del proprio intero mondo, non poté che cedere, iniziando a incrinarsi per poi, alfine, frantumarsi e sgretolarsi, sgretolarsi ricadendo, a pezzi, lungo il pozzo esagonale lì sotto, in tal maniera, scoperchiato, e scoperchiato a quasi tre piedi dalla superficie…

« Si può sapere che diamine è questo frastuono…?! » ebbe a gridare, nel suo orecchio, la voce di Shope Trel in concomitanza agli ultimi colpi da lei inferti alla pietra, colpi che, ovviamente, risultarono decisamente più sordi rispetto ai primi, nella sempre inferior resistenza incontrata da parte di quella superficie.
« Nulla di cui tu abbia a doverti preoccupare, Denti Aguzzi. » commentò la Figlia di Marr’Mahew, leggermente ansimante, laddove, sebbene lo sforzo richiesto da quei colpi non avesse a doversi riconoscere ovviamente suo, nell’azione dei servomotori del suo braccio alimentati all’idrargirio, il trasporto fisico proprio di quell’attacco, di quella sequenza di pugni, non avrebbe potuto ovviare a coinvolgere anche il resto del suo corpo, e a coinvolgerlo al termine di quella straordinaria scalata « Stavo soltanto delicatamente bussando su una porta chiusa… »
« Discutibile il tuo personale concetto di delicato, in ogni propria declinazione… » ironizzò l’altro, parzialmente assordato, proprio malgrado, da quei colpi a lui sopraggiunti in maniera del tutto inattesa, senza concedergli neppure il tempo di ridurre il volume dell’audio trasmesso direttamente nella cabina del caccia.

Fu necessario, allora, qualche istante alla mercenaria prima di avere effettiva consapevolezza nel merito di quanto dischiuso sotto di sé, laddove notevole ebbe a considerarsi la polvere sollevata in quei gesti, una vera e propria nuvola bianca che, estemporaneamente, la avvolse simile a nebbia, estraniandola fugacemente dal resto del mondo. E più che utile, in verità, avrebbe avuto a doversi riconoscere, in quel momento, la maschera trasparente da lei indossata che, oltre a mantenere la rossa sabbia di quel deserto lontana da lei, ebbe a prevenire, allora, l’eventualità dell’infiltrazione di quella stessa polvere nella sua gola e nei suoi polmoni, possibile condizione che, allora, non avrebbe avuto a doversi altresì considerare particolarmente piacevole dal proprio punto di vista.
E solo quando, alfine, la visuale del mondo a sé circostante tornò a esserle definita al suo sguardo, ella poté rendersi conto del condotto in tal maniera scoperto, scoprendo quanto, proprio malgrado, la sua stima nel merito della natura circolare di simile pozzo avrebbe avuto a doversi considerare erronea, nella definizione di quei sei lati perfettamente equivalenti. Non che, all’atto pratico, ciò avrebbe fatto la differenza.

« Sono in procinto di calarmi all’interno della statua… » avvisò, allora, il proprio lontano custode, affinché fosse informato nel merito dello sviluppo così conseguito « Non sarò un esperta di sistemi di comunicazione, ma tempo che potrei perdere il segnale per un po’. » soggiunse, in riferimento al canale esistente fra loro e, sino a quel momento, atto a mantenerli in costante, reciproco contatto « Non allarmarti se non mi dovessi sentire per un po’… sono sopravvissuta a missioni peggiori rispetto a questa e, certamente, non intendo lasciare i miei bambini in vostra compagnia per più tempo rispetto a quanto strettamente necessario. Senza offesa. »

domenica 18 febbraio 2018

2461


La scalata nella quale l’Ucciditrice di Dei ebbe a impegnarsi, lungo il colossale corpo di quella ciclopica statua, non avrebbe avuto a dover essere considerata pari a un semplice esercizio di stile da parte sua. Per quanto, sicuramente, ella avrebbe potuto vantare solo una minima, superficiale e irrilevante confidenza con le straordinarie tecnologie proprie di quella più amplia visione della realtà e ancor meno con quelle proprie della civiltà che, un tempo, aveva dominato su quel pianeta; la donna guerriero non avrebbe potuto parimenti ignorare l’evidenza di quanto, una simile, gigantesca opera, al pari di tutte le altre presenti lungo la superficie, non avrebbe potuto essere lì eretta dal giorno alla notte, né, parimenti, avrebbe potuto ignorare alcune semplici dinamiche volte alla sua edificazione, dinamiche non dissimili a quelle che, anche nel suo mondo, non avrebbero potuto mancare di essere tali per le edificazioni di forse minori, e pur non meno arditi, colossi di pietra.
In ciò, per esempio, ovvio, banale e inequivocabile, avrebbe avuto a dover essere giudicato quanto, allora, quella statua, pur di pietra, non avrebbe potuto essere considerata appartenente a un unico blocco, quanto, e piuttosto, con indubbiamente straordinaria abilità, costituita da parti diverse, incredibilmente sovrapposte l’una all’altra e l’una all’altra rese solidali in maniera tale da permettere a tutto ciò di sussistere e di sussistere persino a secoli di distanza dalla caduta e dalla scomparsa della civiltà che lì aveva a lungo imperato. Ancora, al di là dei sicuramente straordinari mezzi di trasporto che avrebbero semplificato e reso quietamente possibile non soltanto l’assemblaggio di quel gigante di pietra ma, anche, la sua eventuale manutenzione, facilmente intuibile avrebbe avuto a dover essere considerata la presenza di una e più cavità interne, condotti, pozzi attraverso i quali rendere possibile, all’epoca, eventuali operazioni di controllo e, laddove necessario, di intervento di riparazione, o di consolidamento, dall’interno stesso della statua, senza, in ciò, intaccarne esteriormente l’integrità superficiale.
E proprio alla ricerca di tali condotti, in quel momento, avrebbe avuto a doversi riconoscere il senso, il fine ultimo, di quel suo sforzo, di quel suo impegno a risalire lungo quelle colossali membra di pietra. Nell’ipotesi, infatti, di non aver torto a tal riguardo, di non sbagliare nel merito di simile analisi, benché a livello del busto improbabile sarebbe stato riuscire a individuare una qualsivoglia via d’accesso all’interno di quella statua, dalla parte superiore, dalla cima della testa o delle sue braccia, ella avrebbe dovuto aver occasione di riconoscere, di distinguere, un qualche ingresso all’interno della statua, a quegli antichi canali di manutenzione e, in grazia a essi, a ridiscendere all’interno del colosso anche ben oltre il livello del suolo, sino ad arrivare alla sua base e, forse, lì sopraggiunta, alla porta da lei ricercata, alla soglia che la chiave di Mesoolan avrebbe dovuto permetterle di aprire, per proseguire nel proprio viaggio, nella propria ricerca.
Aggrappandosi, pertanto, in grazia alla sensibilità della propria unica mano reale, in carne e ossa, così come dei propri piedi, allor scoperti nelle proprie forme, lasciati nudi nelle proprie proporzioni, nell’aver dovuto abbandonare gli eleganti stivali prima atti a coprirli assieme al proprio mezzo di trasporto, lì altresì potenzialmente più d’ostacolo che di qualche concreta utilità; Midda Bontor non mancò di impegnarsi a farsi strada lungo quella superficie apparentemente liscia, e pur, fortunatamente, più ruvida, più porosa di quanto non si sarebbe potuto credere, probabilmente anche in grazia all’erosione impostale da secoli di esposizione ai venti e alla sabbia del deserto, verso la cima di quella statua, con mirabile abilità, nel dimostrare una straordinaria capacità da arrampicatrice. Capacità, la sua, che non avrebbe avuto a doversi equivocare qual innata, quanto e piuttosto qual conseguenza di un grande impegno, di una vasta esperienza in tal senso, nell’essersi posta, nel corso della propria vita, a confronto in innumerevoli situazioni con scalate decisamente peggiori rispetto a quella lì riservatale, scalate nel confronto con le quali neppure l’assenza di un arto in carne e ossa, neppure l’assenza del suo braccio destro, avrebbe potuto rappresentare per lei ragione d’ostacolo o, peggio, di freno. Amando le sfide, e amando le sfide come mezzo utile a dimostrare, sempre e comunque, la propria più assoluta autodeterminazione nel confronto con uomini e dei, dopotutto, ella non avrebbe mai potuto arrendersi neppur innanzi a un vero e proprio specchio, volendosi riservare occasione utile a comprendere in qual maniera arrivare a dimostrare di essere in grado, a prescindere, di farcela, e di farcela in sol conseguenza alle proprie forze e al proprio intelletto.
Così, in una realtà nella quale, probabilmente, nessun altro avrebbe accettato l’idea di spendere tante energie in simile arrampicata, e rischiare a tal punto la propria vita, nell’eventualità di porre una sola mano, un sol piede, in fallo, o di compiere un semplice gesto sbagliato e, in ciò, di vedersi precipitare verso morte certa, e verso morte certa in una caduta di diverse decine di piedi d’altezza, preferendo farsi accompagnare sino a quel vertice, a quel traguardo, nell’ausilio di un qualche mezzo di trasporto tecnologico, atto a giungere a destinazione unendo alla massima resa il minimo sforzo; la Figlia di Marr’Mahew non avrebbe neppur potuto concepire un simile eventualità, non avrebbe neppur voluto prendere in esame l’idea di ovviare a quella disfida, preferendo rendere propria la conquista di quel traguardo in sola grazia alla propria forza di volontà e alla propria forza fisica, anche a costo, come in quel momento, di essere costretta a proseguire il resto della propria missione, della propria avventura, a piedi nudi, in contrasto a qualunque genere di terreno l’avrebbe potuta attendere. Non che, in passato, nei propri esordi, nel proprio mondo, le bende nelle quali ella era solita fasciarsi i piedi, a discapito di più comode e confortevoli calzature, avrebbero avuto a doversi considerare molto più rispetto alla nudità in tal maniera riservatasi.
Con muscoli di carne e ossa tanto fermi e saldi da non dover aver nulla di che invidiare ai servomotori presenti all’interno della sua protesi, con un corpo straordinariamente controllato e coordinato al punto tale da rendere sempre così incredibilmente banale, da un punto di vista esterno, quell’impresa, quell’arrampicata che pur tanto ovvia, tanto scontata nel proprio esito non avrebbe avuto a dover essere equivocata, Midda Bontor ebbe a risalire in maniera lenta ma costante, con un moto continuo e perfettamente commisurato, lungo quella superficie, mai dimostrando la benché minima esitazione, mai palesando la più banale incertezza neppure in quelle poche, e pur non assenti occasioni nel corso delle quali, forse l’eccessivo sudore, forse la stanchezza, forse un semplice errore di calcolo, la vide esitare nel proprio movimento, perdendo la presa e ritrovandosi ad affidare l’intero proprio peso, l’intero proprio corpo, ai restanti arti, alle restanti estremità, arrivando persino a ritrovarsi costretta ad altalenare, per brevi momenti, sospesa sul vuoto, e, con esso, su una insana promessa di morte, a fronte della quale, francamente, alcuno l’avrebbe mal giudicata se soltanto avesse avuto di che temere, di che preoccuparsi per la propria stessa sopravvivenza, oltre che dell’esito di quella missione. Mai, tuttavia, ella ebbe a esprimere il pur minimo gemito, la più semplice imprecazione, ben consapevole di non avere di che potersi perdonare la più effimera emotività in tutto ciò, emotività che, allora, realmente avrebbe potuto ucciderla, effettivamente avrebbe potuto condurla all’errore e, con essa, alla propria fine: così, anche innanzi al peggio, ella, con straordinaria concentrazione, con assoluta devozione al proprio impegno, al proprio incedere verticale, ritrovava rapidamente la presa, recuperava immediatamente il controllo fisico della situazione, per riprendere, per proseguire oltre e accorciare, ulteriormente, la propria distanza dal traguardo, allungando, ineluttabilmente, al contempo, la propria distanza dal suolo e, con essa, incrementando parimenti la certezza della letale condanna che per lei sarebbe conseguita nel momento in cui, eventualmente, avesse commesso quell’unico, semplice errore privo di possibilità di recupero.
E, in meno di un’ora, ella ebbe lì a concludere la propria risalita, arrivando, alfine, a conquistare per primo il capo del colosso e, con esso, una potenziale via d’accesso al suo interno, sempre nell’ipotesi che, nel proprio ragionamento, nella propria deduzione, ella non avesse commesso un errore, ignorando altre possibilità, altre metodologie lì forse applicate, in termini tali per cui, sfortunatamente, tanto impegno sarebbe stato vano.

« … speriamo di no… » commentò fra sé e sé, a quella prospettiva di cui avrebbe francamente fatto volentieri a meno, fosse anche e soltanto nella consapevolezza di quanto, allora, l’alternativa utile a raggiungere la base della statua sarebbe stata decisamente più complessa rispetto alla pur non banale arrampicata in tal maniera compiuta.

sabato 17 febbraio 2018

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In tutto ciò, per quanto incerta nel merito di quanta distanza potesse aver percorso su quel pianeta, complice la straordinaria velocità del proprio mezzo; malgrado ogni curva, malgrado ogni cambio di direzione, malgrado quell’apparentemente più totale mancanza di una qualche traiettoria degna di essere considerata tale, la Figlia di Marr’Mahew avrebbe avuto a dover essere riconosciuta perfettamente consapevole della via da percorrere per il proprio ritorno alla base, per il proprio ricongiungimento con il caccia e il suo pilota, particolare fondamentale, dopotutto, al fine di poter sperare di ritornare ai propri bambini e, con essi, alla propria famiglia sulla Kasta Hamina e, lì, a Be’Sihl.
Prima, tuttavia, di poter prendere in esame una qualsivoglia valutazione nel merito del proprio viaggio di ritorno, quanto ella avrebbe avuto a dover concludere sarebbe stato proprio il viaggio di andata e, con esso, il proprio tragitto verso qualunque cosa avrebbe mai potuto attenderla là dove, con straordinaria puntualità, la stava allor guidando il proprio medaglione. Un viaggio di andata che, dopo lunghe ore alla guida di quella moto, parve aversi a concludere, manco a dirsi, proprio alla base di una statua, dell’ennesimo, straordinario colosso di pietra che, in buona parte sprofondato all’interno delle rosse sabbie del pianeta, sembrava voler invocare una speranza di salvezza dalla desolante fine che, in tal maniera, avrebbe avuto a dovergli essere destinata, benché, probabilmente, qualche secolo prima, qualche millennio prima, quella postura, quella posizione plastica con braccia e volto rivolti al cielo, avrebbe avuto a doversi riconoscere qual prossima a un gesto di vittoria, di trionfo, di esultanza, metafora perfetta di un popolo che, in quel mondo, in un lontano passato aveva avuto ogni possibilità, ogni occasione, e del quale, ormai, altro non avrebbe avuto a dover essere riconosciuta null’altro che sabbia, e sabbia rosso sangue.
Con straordinaria prudenza, allora, Midda Bontor ebbe a pilotare il proprio mezzo verso quella statua e, di lì, prima, a un giro di ricognizione attorno alla stessa e, poi, verso il suolo sotto di lei, ben contemplando tanto la statua, quanto lo spazio a essa circostante, quanto e ancor più lo stesso terreno, nel timore di poter vedere affiorare, da un momento all’altro, un’altra misteriosa creatura non dissimile a quella che, solo qualche ora prima, si era rapidamente liberata dei cadaveri da lei prodotti nel corso del confronto con i galletti, quello squalo delle sabbie contro il quale, obiettivamente, non avrebbe avuto particolare interesse, concreto piacere, ad avere a porsi a confronto in maniera gratuita e fine a se stessa. Un’eventualità, quella dell’arrivo di quell’essere, che ella non avrebbe potuto escludere in maniera superficiale benché, in precedenza, al proprio primo contatto con il suolo non vi fosse stata la benché minima manifestazione in tal senso, non, quantomeno, sino a quando il primo sangue non era stato versato: benché, quindi, quel mostro, o qualunque cosa esso fosse, avesse offerto riprova di essere attratto dal sangue e dalla morte, ella, in tutta onestà, non avrebbe avuto ragione di approfondire ulteriormente l’argomento, prendendo in esame, attraverso un approccio empirico, tutte le possibilità utili a evocarlo.
Non notando, tuttavia, né la presenza di altre persone lì attorno, né, tantomeno, quella di un qualsivoglia strano movimento della sabbia sotto di sé, ella decise alfine di atterrare, a di atterrare in prossimità alla base della statua o, per la precisione, al punto in cui la statua, in quel momento, affiorava dal terreno, punto che non avrebbe avuto a dover essere effettivamente considerato la sua base, quanto e piuttosto la sua vita, i suoi fianchi, poco sotto all’altezza dell’ombelico.

« Qui Occhi di Ghiaccio… » comunicò al proprio remoto ascoltatore, al fine di aggiornarlo nel merito della propria attuale situazione « … sono appena atterrata ai piedi di una statua. Il medaglione sembra indicarmi questo come punto di arrivo. »
« Inviami le tue coordinate, e ti raggiungerò in un attimo. » suggerì Shope, esprimendosi in tal senso con tutte le migliori intenzioni del mondo, non ritrovando obiettivamente ragioni per le quali ella avrebbe avuto a dover restare sola in quel punto laddove, a sua volta, egli avrebbe avuto a doversi riconoscere egualmente parcheggiato ai piedi di un’altra statua, intento a non fare assolutamente nulla se non ad attendere di sentire qualcosa di utile provenire dal canale di comunicazione costantemente aperto.
« Meglio di no. » escluse ella, stringendo appena le labbra fra loro e storcendole impercettibilmente verso il basso « Ancora non sappiamo, con precisione, che cosa abbia ad aspettarmi in questo luogo… meglio non offrire evidenza del nostro effettivo organico e di tutte le nostre attuali forze. » suggerì, offrendo quieto riferimento alla propria esperienza tattica, ancor prima che a un qualche generico rifiuto per quell’eventualità, per quella possibilità, qual mero pregiudizio a discapito del proprio interlocutore.
« Non mi piace tutto questo… ma d’accordo. » confermò l’altro, accettando quell’idea, quel suggerimento, e, ancora una volta dimostrandosi dimentico di quanto, in fondo, ella fosse stata assunta dal suo capitano proprio per procedere sola in quella missione, ragione per la quale egli non avrebbe dovuto avere tanta urgenza, tanta bramosia di intervenire a sua volta « Denti Aguzzi… chiudo. » decise di interrompere, di propria iniziativa, la comunicazione, evidentemente a non concedersi occasione per proseguire in quel dialogo e, in tal modo, per ripensare alla scelta appena compiuta e pentirsi di essa, proprio malgrado, al di là del suo ruolo di primo ufficiale, più a proprio agio nel porsi al centro dell’azione che in una posizione periferica a essa, nel ruolo di mero spettatore… anzi, ascoltatore addirittura, qual allora avrebbe avuto a dover essere riconosciuto.

Concedendogli un sorriso, che pur dal medesimo non sarebbe potuto essere colto, la donna dagli occhi color ghiaccio approvò intimamente la quieta collaborazione in tal maniera concessale e portò la propria attenzione alla colossale statua innanzi a sé, per iniziare a sforzarsi di comprendere, da quel punto, in qual maniera avrebbe avuto a dover evolvere la questione.
In effetti, essere giunta sino a lì, non avrebbe avuto a dover essere frainteso per lei qual il termine della propria missione, quanto e piuttosto l’inizio, dopo un lungo preludio in grazia al quale, allora, le era stato concesso di presentarsi alle porte di quel mondo, delle vestigia di quella perduta civiltà: ora, proprio da quel punto, innanzi a quelle porte, ella avrebbe avuto a dover trovare il modo per superarle e, di lì, avrebbe avuto a dover affrontare qualunque altra impresa, di conseguenza, le sarebbe stata proposta. Ciò non di meno, la consapevolezza di essere giunta, in quel mentre, innanzi all’inizio del proprio percorso, della propria avventura, non avrebbe avuto a dover essere equivocata con la conoscenza dell’effettiva natura delle metaforiche porte che ella avrebbe avuto ad attraversare o, ancor più, della loro concreta collocazione in quel particolare contesto.
La presenza di quell’enorme statua, in verità, non avrebbe avuto a dover essere fraintesa qual casuale… anzi: dovendo ricercare, allora, un varco, una porta, un ingresso a qualunque cosa l’avrebbe potuta attendere, fosse stata una cripta, fosse stata un sotterraneo, fosse stato persino un varco dimensionale, molto probabilmente avrebbe avuto a doversi ricercare proprio in riferimento a quella statua, a meno di non voler considerare menzognere le indicazioni offertele dalla chiave di Mesoolan. Tuttavia, da quando quell’ingresso doveva essere stato creato, al tempo presente, molto ineluttabilmente avrebbe avuto a doversi riconoscere qual mutato, qual cambiato, a iniziare, propriamente, dalla stessa linea del terreno, terreno che, un tempo, avrebbe avuto a doversi riconoscere diverse decine di piedi più in basso rispetto alla propria attuale collocazione, ragione per la quale, se un qualche meccanismo avrebbe avuto a doversi considerare esistente in riferimento a quella statua, e alla sua base, con ogni probabilità non avrebbe potuto ovviare a essere identificato qual attualmente irraggiungibile, essendo stato seppellito da tonnellate e tonnellate di sabbia rossa, tentare di smuovere la quale avrebbe rappresentato un’impresa forse ancor più epica rispetto ad affrontare e uccidere un dio, così come ella, in passato, non si era negata occasione di fare, avendone avuta la necessità…

« Credo che mi aspetti una bella faticata… » sospirò la donna, levando lo sguardo al cielo e volgendo, in ciò, il proprio viso, e la maschera trasparente posta sul medesimo, verso la parte superiore della statua, a sua volta a diverse decine di piedi sopra di sé.