11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

martedì 20 novembre 2012

1767


Verrà il giorno in cui bruceremo
nel fuoco tutti ci libereremo,
nella purezza saremo salvati
d'ogni nostro affanno svincolati.
E se anche sole più non vedremo
non a sconforto noi ci voteremo,
consci della mirabile verità
sol propria della nostra mortalità.

Verrà il giorno in cui bruceremo
in polvere tutti ci tradurremo,
nel caldo vento saremo dispersi
fra le stelle, in mille universi.
E se anche d'esister cesseremo
non alla battaglia rinunceremo,
nonostante costretta caducità
mai obliando alla nostra dignità.

Verrà il giorno in cui bruceremo
mortale corpo abbandoneremo,
nel calore saremo benedetti
a nuova vita verremo eletti.
E se anche morti allor saremo
non per questo la guerra perderemo,
non contro umano antagonista
non contro un dio, seppur egoista.

Verrà il giorno in cui nasceremo
a viver non tutti ritorneremo,
chi lottando, chi ancor ammazzando,
e chi, altresì, pace abbracciando.
Ma se anche il grano nutriremo
dimenticati non ci sentiremo,
senza arroganza, e neppur boria,
certi di aver scritto la nostra Storia.


Con i versi di quel canto, la voce della Vedova di Desmair volle rendere il proprio personale omaggio allo sposo caduto, nel momento in cui, sull’alto della pira faticosamente eretta, il corpo dello stesso iniziò a bruciare, nel vedersi riconosciuta quella premura dopotutto non così ovvia.
In verità, ove anche la donna guerriero, sino all’ultimo, si era convinta autonomamente che tutto il proprio impegno al fine di organizzare quella cerimonia funebre, quella cremazione, avesse da intendersi qual maggiormente dedicato a soddisfare le esigenze dell’addolorata Fath’Ma ancor prima che quelle proprie del trapassato; non appena le fiamme attecchirono sulla legna accatastata al di sopra della neve e del ghiaccio imperituro di quella fredda landa, ella sentì l’esigenza di esprimersi in quel saluto, quell’estremo addio a colui immediatamente riconosciuto qual avversario, e solo tardivamente accettato qual alleato, con parole che, prima di allora, aveva cantato solo alla memoria di guerrieri riconosciuti quali propri pari. E, mai falsa con se stessa, non rinunciò a quel canto, non si negò quelle poche, ma significative strofe, dando loro corpo con tutta l’energia della propria voce, non soave e armonica secondo i comuni canoni considerati apprezzabili nelle voci femminili, e pur carismatica e comunque perfettamente modulata in ogni singola nota, quasi a voler dimostrare anche in tal senso la propria unicità.
Che Fath’Ma avesse apprezzato o meno tanto la cerimonia funebre quanto quella breve canzone, nell’intendimento volto a celebrare il proprio signore, non se ne ebbe allora la benché minima evidenza, laddove questa, ancora chiusa nel silenzio che aveva preteso dalla propria interlocutrice, non si volle concedere il benché minimo commento a margine di quel momento di raccoglimento e di intimo dolore. La sua, forse, avrebbe dovuto essere riconosciuta qual una pena eccessiva per poter essere tanto banalmente spettacolarizzata nel mentre in cui il corpo di Desmair stava venendo consumato dalle fiamme, in una misura tale per cui, addirittura, lo sforzo reso proprio dalla Figlia di Marr’Mahew avrebbe potuto essere addirittura, e a conti fatti, criticato.
Fortunatamente, così come venne taciuto qualunque apprezzamento, venne egualmente taciuta anche ogni possibile critica, ragione per la quale nessun litigio ebbe a turbare la quiete di quella celebrazione. E il cadavere del figlio, l’unico figlio, del dio Kah e della regina Anmel Mal Toise, ucciso per intercessione dell’uno e per volontà dell’altra, poté consumarsi quietamente fra le fiamme di quella pira, assicurandosi, in tal modo, la pace eterna, nell’impossibilità di un qualche tanto sventurato, quanto spiacevole, ritorno all’umanità e alla propria forse solo allora tanto bizzarra normalità.
L’alba di un nuovo giorno, quindi, sorprese sulla cima di quelle vette maledette all’interno della lunga e maestosa catena dei monti Rou’Farth, solo due donne. Due donne accanto ai resti fumanti di una pira e accanto alle macerie di quella che, sino al giorno prima, era stata la più maestosa edificazione che mai mente umana avrebbe potuto ricordare, e della quale, ormai, restava solamente il ricordo. Due donne che, anni prima, lì erano giunte l’una al fianco dell’altra, sostenendosi e aiutandosi a vicenda. E che ora, purtroppo, nulla avevano più in comune, divise dalle tragedie vissute, divise dagli orrori affrontati, l’una senza avere la forza di reagire, senza aveva la forza di opporsi e di difendere la propria identità, l’altra con sufficiente autodeterminazione, e forse ancor più follia, tali da tradurre ogni pericolo, ogni oscenità mai incontrata in un’avventura, in un’occasione, invece che in una ragione utile a perdere il controllo sulla propria esistenza e, in ciò, a lasciarsi sopravvivere ancor prima che a vivere. O forse, eventualità più raccapricciante, neppur esistevano reali differenze fra le due donne. Neppur esistevano effettivi punti di distacco fra loro, fra come entrambe avessero affrontato gli imprevisti posti loro innanzi dal fato, l’una arrendendosi ai capricci della sorte, e l’altra nondimeno lasciandosi trascinare e rivoltare dal violento corso degli eventi, solo illudendosi di avere controllo sul proprio presente e, di conseguenza, sul proprio avvenire, ma, al contrario, non facendo propria alcuna reale speranza di indipendenza, di libertà psicologica e fisica.
Tale, non voleva negarlo, era il dubbio che assillava il cuore della Campionessa di Kriarya da ben prima della riunificazione a Fath’Ma, da ben prima del confronto con quell’esempio tristemente pratico di quanto ella stessa avrebbe potuto essere se solo si fosse arresa alle torture psicologiche ed emotive a lei imposte da parte del proprio sposo, come pur, in verità, era stata anche sul punto di fare, e avrebbe fatto, se non fosse stato per l’intervento salvifico di Be’Sihl, e del suo bracciale dorato, in suo soccorso. Ma quel bracciale, che pur l’aveva difesa da Desmair e dalle sue illusioni, non aveva potuto impedirle di sognare il proprio futuro, il proprio avvenire, per effetto dell’influenza degli scettri dell’ultimo faraone. Ragione per la quale, non di meno, ella avrebbe dovuto considerarsi terrorizzata all’idea di non essere in alcun modo padrona del proprio destino, unica responsabile della propria sorte, quanto e piuttosto semplice interprete di un canovaccio, o peggio ancora di un copione, scritto per lei da qualcun altro, non concedendole, in ciò, maggiore autonomia di quanto non ne potesse aver goduto la povera Fath’Ma, benché, apparentemente, non vittima nella misura in cui questa era divenuta.

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