11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

www.middaschronicles.com
il Diario - l'Arte

News & Comunicazioni

E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

mercoledì 31 ottobre 2012

1747


Il pensiero dei bagni caldi appena accordatisi, non fu purtroppo per lei di reale aiuto nel confronto psicologico con quel ben diverso genere di bagno caldo. Tuttavia, nella propria vita, Midda si era ritrovata immersa, letteralmente, in ogni genere di situazione, ragione per la quale lo sconvolgimento derivante dall’impatto con quel mare di sangue non avrebbe potuto perdurare troppo a lungo. Dopo essersi trovata a essere ricoperta dalle frattaglie putrescenti di rivoltanti zombie; dopo essersi lanciata nella gola di uno scultone per uscirne solo attraversandone il cranio; dopo essersi confrontata con l’orrore di dozzine, centinaia di campi di battaglia, ove non solo il sangue, ma anche altri e meno piacevoli liquidi erano soliti sprizzare allegramente verso il cielo; ella non avrebbe potuto dimostrarsi eccessivamente schizzinosa. Quella, del resto, era la parte più sporca del proprio mestiere e, fino a quando avesse voluto continuare a lavorare come professionista del settore, avrebbe avuto a che fare con tutto ciò e, sicuramente, con molto altro ancora, sempre peggio, sempre più sgradevole e rivoltante
Mantenendo il proprio destro avviluppato alla fune, fosse anche per accertarsi della ferma solidità della medesima, unica speranza per lei di poter riconquistare, a tempo debito, il bordo del Pozzo e, con esso, la scalinata utile a riemergere, a ritrovare contatto con la luce del sole; la Figlia di Marr’Mahew avanzò quindi in quel gorgo di sangue tirandosi verso il centro dello stesso con l’energia del proprio mancino e delle proprie muscolose gambe, cercando di sfruttare anche in quell’osceno ambiente, le proprie più istintive capacità, quella confidenza con le acque, e le acque salmastre in effetti, caratteristica di chi nata e cresciuta sul mare, al punto tale da aver appreso come nuotare ancor prima di comprendere come poter camminare.
Un’avanzata impegnativa e tutt’altro che banale, nel merito della necessità della quale, comunque, ella era stata adeguatamente istruita da parte di Desmair, così come dal medesimo informata era stata nel merito di quanto, là al centro, l’avrebbe attesa. Perché quel vortice, quel turbinio rivoltante di sangue, non era semplice frutto di un qualche influsso stregato, non era un tanto speciale quanto innaturale spumeggiare di plasma scarlatto, quanto, e piuttosto, mero, addirittura banale, effetto della presenza di un vuoto al suo esatto centro, un passaggio verso un nuovo, e ancor più sgradevole budello, in fondo al quale, continuamente bagnato da tutto quel sangue di vittime di violenza, tanto carnefici quanto vittime, l’avrebbe attesa la reliquia desiderata, il Vaso origine di tutto quel costrutto, di tutta quell’oscenità. 
E dove ancora, in cuor suo, ella non avrebbe potuto evitare di pensare a quanto improbabile avrebbe dovuto essere considerata l’eventualità secondo la quale un semplice vaso avrebbe potuto racchiudere al proprio interno potere tale da generare l’abominio a lei lì circostante; e dove ancora difficile sarebbe stato per lei accettare per fede le parole del proprio sposo, anche se pur dimostratesi, sino a quel momento, straordinariamente precise nella propria descrizione della missione; nell’essersi già ritrovata a confronto con l’evidenza di quanto dannosa sarebbe potuta essere una qualunque critica psicologica e preventiva alle parole del semidio, la Campionessa di Kriarya preferì mantenere per sé ogni possibile dubbio sulla veridicità, o meno, di quell’ultima parte, di quell’ultimo particolare, non desiderando essere sgradevolmente costretta, a posteriori, a rivedere la propria analisi, con quanto, da ciò, sarebbe potuto conseguire.
Giunta in prossimità al centro del Pozzo, e del gorgo sul suo fondo, ella trasse pertanto un profondo respiro, preparandosi al peggio. E, dopo aver ricontrollato per la centesima, o forse millesima, volta il proprio cordone ombelicale, nella sua integrità e nella sua resistenza, ella smise di opporsi alla violenza del flusso, lì particolarmente intensa, per lasciarsi trascinare dal medesimo e, al momento opportuno, ricadere all’interno di quell’ultimo, importante segmento, conquistato il quale avrebbe ottenuto, di conseguenza, anche l’occasione di rendere proprio il sensazionale Vaso di D’Ana P-Or, con il suo ancor più incredibile, sebbene sino ad allora solo presunto, contenuto.
Una caduta breve, e comunque sufficientemente intensa, nel corso della quale ella non poté evitare di vivere diversi timori, primo fra tutto quello di poter restare intrappolata in qualche complotto del marito. Così come di non possedere sufficiente fiato, o corda, per raggiungere il proprio obiettivo. In verità, al di là di eventuali estemporanee reazioni emotive, ella non avrebbe potuto ignorare come il suo sposo in quel momento, in quella particolare condizione personale, avrebbe dovuto essere riconosciuto soltanto qual il primo fra tutti i suoi sostenitori, nella speranza di potersi liberare dall’inopportuna presenza materna, così come dall’ingombrante ritorno del padre, ove questi, in contrasto a ogni possibile istinto parentale, desiderosi unicamente di imporre morte su chi, per propria natura, non avrebbe potuto conoscerne. Accanto a simile, già importante, considerazione, di per sé più che sufficiente a scremare una buona parte di incertezza nel confronto con tale prova, non avrebbe dovuto anche essere ignorata l’evidenza di come, se non fosse riuscita proprio lei, figlia dei mari, a trattenere respiro  per un tempo sufficiente ad affrontare quella prova, quell’immersione nel gorgo e nella sua violenza più primordiale, probabilmente nessuno avrebbe avuto la benché minima opportunità di vittoria nel confronto con tutto quello. E se, con questo pensiero, ella avrebbe potuto quindi anche vanificare la seconda sua ragione di preoccupazione; forse, e soltanto forse, timore giustificato avrebbe dovuto essere considerato quello rivolto all’estensione della corda da lei trascinata seco, laddove se questa non fosse allora stata scelta qual sufficientemente lunga, quanto meno improbabile, per lei, sarebbe stato un eventuale ritorno indietro, ponendola nella spiacevole situazione di essere costretta ad arrendersi, e a morire, in quel buco dimentico della luce e della grazia degli dei… qual tale, per lo meno, ella lo considerò sino a prima di ritrovarsi a essere effettivamente al suo interno, scoprendo una realtà totalmente estranea a ogni previsione.

« Per… la grazia… di Thyres… » gemette, riaprendo gli occhi dopo aver compiuto quel salto nel buio, più pratico che metaforico.

Un’invocazione non gratuita, non priva di ragione o motivazione, laddove nulla di quanto da lei previsto o atteso, lì dentro, lì sotto, ebbe occasione di concretizzarsi, nel mostrare, al contrario, uno scenario che difficilmente avrebbe potuto non essere considerato qual evidente dimostrazione di un influsso divino alla base dell’esistenza di quel posto.
Perché nella profondità di quello stretto pertugio, laddove avrebbero dovuto solamente imperare le tenebre e il disgusto per il sangue lì ristagnante, quanto apparve e predominò immediatamente nel confronto con ogni possibile attenzione, fu l’eleganza di un sofisticato altare, un altare rotondo, simile quasi a un grosso capitello di origine y’shalfica in marmo bianco, decorato nella propria stessa essenza da un raffinato lavoro d’intarsio del tutto estraneo con la rude compostezza abitualmente propria dell’architettura gorthese, abitualmente atta a rifuggire ogni opulente estetismo almeno quanto quella della non lontana Y’Shalf a godere della medesima. Un altare, nella fattispecie, posto al centro di un ambiente egualmente e perfettamente rotondo, con pareti del medesimo materiale simile a marmo bianco, probabilmente marmo bianco, solamente rigate, e non inondate qual pur avrebbero dovuto razionalmente essere, dal sangue lì in caduta, la particolare fisica del quale, in opposizione a ogni legge naturale e a ogni logica umana, ella ebbe a notare con precisione di dettaglio solo in grazia all’inquietate luminosità emessa, simile a un’aura, dall’unico, importante protagonista di una tanto ricercata coreografia: il Vaso.
Un vaso, il Vaso della leggenda, effettivamente tale, addirittura giudicabile, nella propria presenza, di foggia sufficientemente povera, soprattutto nel confronto con la raffinatezza del luogo ove era stato riposto lontano da sguardi indiscreti per tanti secoli, forse millenni; e di dimensioni altrettanto compatte, da poter essere trasportato comodamente in una sola mano, certo, e pur da rendere legittimi dubbi sulla sua effettiva capienza e su quanto liquido, al suo interno, sarebbe potuto essere ancora considerato qual presente. Un vaso, il Vaso di D’Ana P-Or, che, in tutto ciò, probabilmente ella non avrebbe neppure ritenuto degno di particolare attenzione, non fosse stato per la luce dal medesimo emessa, tale da rischiarare l’intero ambiente nel quale era appena ricaduta, così come per la posizione centrale al contesto attorno allo stesso ricreato, in una coreografia tanto imponente quanto inquietante, nel mantenerlo circondato da una cascata di sangue senza, tuttavia, veder offerta la possibilità a una sola goccia di sfiorarlo, non in grazia di qualche protezione, non in conseguenza alla presenza di una qualche teca, ma forse e solo nell’ovviare, in maniera spontanea, a un’eventualità indubbiamente blasfema, qual solo sarebbe stata la contaminazione, con del sangue di semplici mortali, della divina essenza lì racchiusa.

martedì 30 ottobre 2012

1746


Sinceramente provata dalle emozioni vissute, ancor più che dalla battaglia a cui era stata costretta, Midda Bontor restò per un lungo istante immobile e ansimante, in attesa della nuova replica del Pozzo del Sangue alle sue parole. Lunghi dal credere di averla avuta vinta tanto facilmente, ella non desiderava concedere al proprio tanto silente quanto pericoloso interlocutore alcuna occasione di nuovo vantaggio su di lei, chinando la guardia e considerandosi, erroneamente, al sicuro. Tuttavia l’attesa si iniziò a protrarre per un tempo sempre più lungo. E quelli che erano istanti, presto divenne addirittura un quarto d’ora, trascorso il quale ella si concesse di crollare in ginocchio, sinceramente bisognosa di un momento di requie, tanto psicologica quanto fisica, prima di poter pensare di proseguire. Non che ella si fosse convinta di aver già avuto la meglio sul proprio antagonista: la loro, anzi, la interpretò qual più simile a una tregua… una tregua della quale, comunque, volle approfittare il più possibile, nella consapevolezza di quanto effimera avrebbe potuto essere e di quanto, quindi, ella avrebbe potuto pentirsi a posteriori di non averne goduto quando possibile goderne.
Nel silenzio pressoché assoluto di quella cavità sotterranea, ella si concesse di cercare di riportare ordine nella propria mente e nel proprio cuore, consapevole di aver perduto il controllo su entrambi e, in ciò, di essersi pericolosamente esposta a un possibilmente irrimediabile fato di morte, qual solo le sarebbe potuto essere proprio se non fosse riuscita a riprendersi al momento opportuno, per menare quell’unico, ma apparentemente decisivo colpo in grado di salvarla, in grado di permetterle di rifiutarsi al letale abbraccio dei propri aggressori. Aggressori che, ella ebbe modo di notare, a ogni nuova fase erano risultati sempre meno violenti rispetto ai loro predecessori, sebbene, nel confronto con il suo animo, più angoscianti, più sconvolgenti nel proprio ritorno e nella loro pretesa di vendetta. Nass’Hya l’aveva aggredita in termini estremamente più incisivi di quanto non si fosse riservata occasione di compiere Ja’Nihr. E i suoi genitori non avevano neppure avuto modo di esprimere la loro offensiva, tanto quieto era stato il loro avanzare verso di lei, a suo discapito. Tuttavia, se con Nass’Hya aveva avuto già occasione di chiarimento, e persino di chiarimento diretto, nei giorni in cui ella si era trattenuta anche dopo la propria morte in Kriarya; verso Ja’Nihr provava un indubbio senso di colpa; senso di colpa che, nel ricordo dei propri genitori, della propria famiglia, sfiorava l’ossessione, benché ella non avesse mai voluto permettere a tale sentimento di offuscarle il giudizio nelle proprie questioni quotidiane.
Sia Nass’Hya, sia Ja’Nihr, così come suo padre e sua madre, erano stati però affrontati e vinti. E, in questo, ella non avrebbe potuto che avvertire di aver vissuto un processo di catarsi, e di riconciliazione con se stessa. Perché, anche ove dubbia avrebbe potuto restare la veridicità o meno di quelle esperienze, nella mancanza di qualunque certezza sull’effettivo ritorno di quegli spiriti per tormentarla e, anzi, nella speranza più sincera di quanto ciò non fosse realmente stato tale; tutt’altro che dubbia avrebbe dovuto essere riconosciuta, da parte sua, l’occasione di crescere che, in tutto ciò, le era stata concessa. Un’esperienza della quale avrebbe quindi dovuto far tesoro, non relegandola a una pessima disavventura della quale scordarsi, né giudicandola qual un’epica avventura della quale vantarsi eccessivamente in giro, quanto qualcosa di ben diverso tanto dall’una quanto dall’altra. Qualcosa che, tornata a Kriarya, l’avrebbe spinta ad abbracciarsi a Be’Sihl, a Seem, nonché a Howe e a Be’Wahr come mai aveva fatto in tutta la propria vita, non negando più loro il proprio affetto, nel riconoscerli, con gioia, per ciò che da molto tempo già erano e, ancora, non aveva avuto il coraggio di considerarli apertamente essere: la propria famiglia.

« E ora, se vuoi farmi il piacere di alzarti da terra e proseguire oltre, hai ancora un dannato Vaso da recuperare… e, poi, una gamba da ricucirti. » si suggerì, sarcasticamente, non volendo concedersi occasione di eccessiva indolenza, qual pur avrebbe rischiato nel restare troppo a lungo lì immobile, così piegata al suolo, qual stava lì rimanendo.

Ben consapevole, infatti e ormai, non solo della ferita alla gamba, ma anche e ancor più, del forte dolore alla schiena, al centro della quale, nel migliore dei casi, sarebbe emerso un grosso livido violaceo, prima, e nerastro poi, a dimostrazione di quanto il suo corpo avesse da riconoscersi in tutto e per tutto umano e mortale; ella era purtroppo anche consapevole di quanto, in quel momento, non avrebbe potuto concedersi alcuna ulteriore occasione di prolungato riposo, nella volontà di non rendere tale sosta sgradevolmente e tragicamente imperitura.
Così, risollevatasi da terra e gettato uno sguardo alla torcia, ancora là dove abbandonata, per assicurarsi di avere tempo sufficiente per completare quanto era necessario per impossessarsi del Vaso di D’Ana P-Or e per tornare indietro senza, in ciò, ritrovarsi immersa nel buio, ella sciolse la corda rimasta legata attorno al suo busto sino a quel momento, nella volontà di individuare un punto a cui assicurarla, prima di tuffarsi in quel gorgo di sangue e di morte, qual era consapevole avrebbe dovuto fare sin dalla propria partenza dalla fortezza dello sposo. Non vi era, infatti, altro modo per giungere al Vaso o per recuperarlo. E benché non avrebbe potuto considerarsi traboccante di entusiasmo all’idea di un bagno in quell’orrore scarlatto, non avrebbe potuto concedersi alternativa, a meno di non desiderare tornare indietro a mani vuote. Eventualità, ovviamente, che non avrebbe mai potuto prendere in considerazione… non, di certo, dopo quanto già affrontato per recuperare quella reliquia.

« Devo solo cercare di non inghiottire troppo di quello schifo… » sospirò, inspirando ed espirando profondamente aria nel preparasi al tutto nel gorgo di sangue « Non so perché, ma dubito che quell’orrore possa considerarsi particolarmente indicato per una dieta sana ed equilibrata. E il mio locandiere preferito potrebbe prendersela a male se non seguissi i suoi consigli in tal senso. »

Che Be’Sihl, da sempre, si preoccupasse della sua alimentazione era, invero, un dato di fatto. Che ella, puntualmente, non l’ascoltasse, anche. Tuttavia, in quell’occasione, ella sarebbe stata ben lieta di evitare insane bevute di sangue gorgogliante fuori dalle pareti di quel budello maledetto, non potendo vantare una particolare indole vampira tale da giustificare una qualche scelta in tal senso.
Con tale necessario preambolo, e lasciata, proprio malgrado, la propria spada bastarda sulla balconata, vicino alla torcia, conscia di non avere abbastanza risorse fisiche per condurla seco, nell’assenza dei una mano destra da poter impiegare in coordinamento con la mancina; ella si tuffò elegantemente in quella linfa vitale, lì riprova di morte, e di morte violenta, pregando in cuor suo la propria amata Thyres di esserle al fianco anche in quel momento, anche in quel bagno nauseante, tanto diverso dalle acque del mare a lei così care, nelle quali avrebbe certamente preferito di più immergersi. E quando la sua ormai poco candida pelle, nell’essere già stata abbondantemente ricoperta di sangue, nonché di sudore e polvere, raggiunse contatto con quel liquido caldo e viscoso, la prima reazione fu necessariamente quella di ribrezzo, nel comprendere, a livello istintivo, quanto quella sensazione non avesse da considerarsi naturale. Un ribrezzo, tuttavia, con il quale ella fu costretta a venire rapidamente a patti, ove ben poche alternative le sarebbero potute essere offerte fra proseguire lungo quell’osceno cammino, e ritrarsi, eventualità, comunque, che non desiderava prendere in esame.

« La prossima volta che sentirò la canzone di quella pazza che si lavava nel sangue delle vergini per mantenersi giovane e bella, giuro, che vomiterò. » si ripromise, pensando a voce alta e, in ciò, sforzandosi di mantenere il viso al di sopra della linea di galleggiamento, quasi terrorizzata, ora, all’idea di poter ingurgitare anche un solo sorso di quell’oscena mistura « E uscita di qui voglio farmi un bagno caldo… in acqua calda… in acqua calda e pulita. Piena di sapone. » annunciò, qual proprio prossimo impegno, immagine mentale utile a contrastare la realtà a lei lì circostante « Anche due bagni. O tre. » soggiunse, correggendosi « Tre bagni caldi… uno dopo l’altro. » si accordò, annuendo con soddisfazione.

lunedì 29 ottobre 2012

1745


Quella era la sua famiglia?
Quale era la sua famiglia? Quale era, veramente, la sua famiglia?
Aveva sbagliato. E quella era una certezza innanzi alla quale non si sarebbe mai potuta ritrarre, non avrebbe mai potuto ritrattare. Aveva commesso un imperdonabile errore nell’abbandonare la propria famiglia in quel modo, nello scappare di casa come una ladra nella notte, senza permettere ad alcuno di fermarla, o anche solo di salutarla. Ma, per quanto imperdonabile potesse essere il suo errore, era giusto che la sua famiglia non l’avesse perdonata? Era giusto che, neppur nella morte, potesse esservi pace nei suoi genitori, in misura tale da rianimarli al solo scopo di pretenderne la vita qual tributo di vendetta?
Oppure… oppure, forse, tutto quello non era giusto. Forse, nulla in tutto quello era giusto. A incominciare dal suo stesso concetto di famiglia.
Perché riconoscere qual propria famiglia una sorella gemella che da anni nulla desiderava al di fuori della sua morte, e dello sterminio di chiunque a lei si affezionasse troppo, non era giusto. Perché riconoscere qual propria famiglia due spettri di sangue che, impietosi, pretendevano la sua morte a compenso per la propria, ombre di coloro che un tempo erano stati gli affettuosi genitori che l’avevano nutrita e cresciuta, curata e educata, non era giusto.
Giusto era riconoscere qual propria famiglia Be’Sihl, colui che per quasi tre lustri l’aveva attesa, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno, mai forzandole la mano, mai pretendendo nulla da lei al di fuori di quello che ella avrebbe ritenuto giusto darle, e in ciò amandola, e amandola incondizionatamente, con la mente, il cuore e con l’animo, pregando tutti i propri dei affinché un giorno ella si fosse decisa a riconoscere quanto la loro amicizia, ormai, avesse trasceso i limiti dell’amicizia, per divenire qualcosa di più. Giusto era riconoscere qual propria famiglia Seem, colui che per suo amore, qual in fondo certamente era anche quello da lui provato, aveva accettato di riscrivere completamente la propria vita, aveva trovato la forza e la ragione di farlo, conquistandosi di diritto un posto in cui, sinceramente, ella non avrebbe mai visto alcuno prima di lui, né avrebbe avuto ragione di vederne altri dopo di lui, ammesso che mai vi sarebbe stato un dopo. Giusto era riconoscere qual propria famiglia Howe e Be’Wahr, coloro che, pur non conoscendola, pur nulla sapendo di lei al di fuori di qualche leggenda, avevano accettato sin da subito di affidarsi a lei, alla sua saggezza, alla sua maturità, accogliendola non solo qual una guida, ma qual una di famiglia, quella sorella maggiore a cui offrire fiducia incondizionata nella consapevolezza che mai avrebbe potuto cercare il loro male, che mai avrebbe potuto esprimersi in loro contrasto, ma che anzi, dovendo scegliere, sarebbe stata pronta al sacrificio per la loro salvezza, così come era già accaduto durante la loro prima avventura insieme, durante il recupero della corona perduta della regina Anmel.
Quale era, quindi, la sua famiglia? E a quale famiglia avrebbe dovuto la propria fedeltà?
Possibile che persino Desmair avesse avuto meno dubbi nel disconoscere la propria famiglia, nel momento stesso in cui questa gli si era rivoltata contro?
Sua madre lo aveva imprigionato, in quella realtà estranea alla realtà. Suo padre aveva creato dei mostri colossali al solo scopo di distruggerlo. Ed egli, semplicemente, aveva scelto di rinnegare ogni possibile valore famigliare per difendere il proprio diritto a esistere. Non che, in questo, ella avrebbe desiderato prendere a modello il proprio sposo, ovviamente, eppure non avrebbe potuto evitare di riconoscergliene atto. E, soprattutto, riflettere di conseguenza sulla propria situazione e sulle implicazioni che, dalla medesima, avrebbero dovuto derivare.

« Midda… » prese voce l’ombra di sua madre, rompendo il silenzio nel quale sino a quel momento aveva preferito restare, probabilmente allo scopo di torturarla maggiormente.

E Midda Bontor, Figlia di Marr’Mahew, Campionessa di Kriarya, trionfatrice dell’Arena di Garl’Ohr, ucciditrice di una chimera, sopravvissuta alla palude di Grykoo, nemesi eletta della regina Anmel Mal Toise, in quel momento decise di non essere ancora pronta a morire. Non in quel luogo. Non a quelle condizioni.
Così, con un volto trasformato in un’orrida maschera striata di sangue, al centro del quale troneggiavano due occhi azzurri color ghiaccio apparentemente splendenti di luce propria, ella risorse dal baratro della propria disperazione e, scattando in piedi, con la propria spada bastarda tornata a essere naturale prosecuzione del suo braccio mancino, ella balzò in avanti, sino ai due simulacri che desideravano riprendere l’immagine dei suoi genitori. E prima ancora che una sola altra parola potesse essere da loro pronunciata, ella mosse la propria lama a decapitarli entrambi, con un colpo netto e deciso, che alcuna pietà avrebbe potuto riservare.
Un grido, un ruggito forse, un ululato quasi, a metà fra rabbia e dolore, fu quello che si levò allora dal profondo della gola della donna, nel mentre in cui i suoi genitori, al pari di Ja’Nihr e Nass’Hya prima di loro, esplosero, sommergendola con nuovo sangue, con nuova, calda linfa vitale. E, al termine di quel grido, per quanto esausta, ella non crollò al suolo, non cadde in ginocchio, ma si rivolse direttamente al gorgo, e al Pozzo tutto, con voce carica di energia, trasudante tutta la propria forza…

« Avanti, lurido figlio d’una cagna purulenta! » lo insultò direttamente, quasi fosse un’entità cosciente, capace di comprenderne le offese e, per esse, di aversene a male « E’ tutto qui quello che sai fare? » lo sfidò, come non fosse soddisfatta per le offensive già a lei rivolte sino a quel momento « O pensi che possa essere sufficiente questo per portarmi allo sfinimento e costringermi a cedere innanzi all’idea della morte, dannato idiota?! »
« E’ vero! Lo ammetto! » insistette, continuando a gridare « Mi hai impressionato. E mi hai fatto soffrire. » confermò, nulla desiderando rettificare delle proprie precedenti reazioni « E ho sofferto perché, lo sai bene, mi sento responsabile per la morte di tutta quella brava gente! » puntualizzò, scuotendo appena il capo, con aria di commiserazione, benché non sarebbe potuto essere immediatamente evidente la ragione di simile reazione « Ma la sai una cosa? La vuoi sapere una cosa?! »
« Forse… e dico forse, quella gente potrebbe ora desiderarmi morta. Forse i loro spiriti mi stanno realmente accusando per quanto è loro occorso! » non negò l’eventualità, non volendo certamente rischiare di scatenare l’ira di alcuno spettro, reale o di sangue che esso fosse « Ma, per l’amore di tutti coloro che ancora oggi vivono, e tengono a me, non mi posso concedere alcuna resa. Non mi posso permettere di morire… non qui, non ora! »
« La mia famiglia mi sta aspettando… » soggiunse, ora con tono più moderato, non più rivolta verso il Pozzo, quanto verso se stessa, quasi a costringersi a ricordare quell’importante dettaglio « … e io non intendo deluderla. Non intendo deludere nessuno. »

Per troppi anni, la donna guerriero più famosa in quell’angolo di mondo, si era negata la consapevolezza di avere ancora una famiglia alla quale offrire riferimento. Nella sua memoria erano le famiglie alle quali era appartenuta, gli equipaggi delle navi sulle quali era vissuta oltre alla propria unica famiglia naturale; ma, dopo la tragica interdizione dal mare, a opera della sua gemella, ella si era obbligata a considerarsi sola, priva della possibilità di stringere, nuovamente, relazioni durature. Per questo ogni suo rapporto era fallito, per questo ella aveva sempre lavorato sola.
Ma in quegli ultimi anni, senza che ella se ne accorgesse, qualcosa era cambiato. E una nuova famiglia le si era creata attorno, che ella lo volesse o meno. Una famiglia che l’amava, e alla quale ella non avrebbe potuto negare di essere legata, da un vincolo di fiducia e di rispetto, oltre che, ovviamente, d’affetto e di premura. E se per quella famiglia ella sarebbe stata pronta a morire, ora era giunto il tempo di dimostrare come, e ancor più, per quella famiglia ella sarebbe dovuta essere pronta a vivere. Al di là di ogni difficoltà, al di là di ogni ostacolo, al di là di ogni avversità.

domenica 28 ottobre 2012

1744


Midda Bontor, Figlia di Marr’Mahew, Campionessa di Kriarya, trionfatrice dell’Arena di Garl’Ohr, ucciditrice di una chimera, sopravvissuta alla palude di Grykoo, nemesi eletta della regina Anmel Mal Toise, era pronta a morire. Colei che nella propria vita, più di chiunque altro, aveva incarnato, nelle proprie gesta, nella propria quotidianità, l’evidenza di quanto la forza di volontà avrebbe potuto sempre trionfare su qualunque avversità, su qualunque antagonista, fosse esso umano o divino, era pronta a morire. Colei che mai si sarebbe potuta credere fallace, colei che mai si sarebbe potuta accettare qual vincibile, divenuta mito ancor in vita, divenuta leggenda in grazia alle proprie gesta, al proprio ardire tal da spingerla sempre oltre i confini della propria semplice mortalità, era pronta a morire. Non qual indole generica, non qual mera preparazione psicologica, ma qual assoluta certezza, ineluttabilità intrinseca nel momento per lei attuale.
Da sempre, in verità, ella si sarebbe potuta considerare pronta a morire. Se ciò non fosse stato, del resto, ella sarebbe già probabilmente morta da molto tempo, vittima di un eccesso di sicurezza, vittima della propria stolidità, laddove in altro modo non avrebbe potuto definire uno stato di trasparente incoscienza innanzi al pericolo di una propria prematura dipartita, pericolo connaturato nella propria stessa professione, nella scelta di vita che ella aveva abbracciato con entusiasmo e senza mai rimpianto o rimorso. Ella era una donna guerriero, era una mercenaria, era un’avventuriera. E dal giorno in cui aveva deciso di esserlo, era stata anche certa che, presto o tardi, una delle proprie avventure, una delle proprie missioni, una delle proprie battaglie sarebbe stata l’ultima. Ciò nonostante, ella non era solita riconoscere in un combattimento, per quanto volto allo sviluppo peggiore, una qualche ferma consapevolezza di sconfitta, e di morte, laddove, così facendo, ella avrebbe sol ottenuto di tradurre inconsciamente in realtà una profezia altresì priva di significato, fautrice ella stessa della propria fine.
Nel confronto, tuttavia, con quell’ultima offensiva da parte del Pozzo, ne fu certa nel profondo del proprio cuore, ella sarebbe morta. Sarebbe morta nelle profondità di quell’edificazione maledetta. Perduta per sempre nel sottosuolo gorthese. Vittima di se stessa, laddove ella avrebbe potuto opporsi allo spettro di Nass’Hya, che era divenuta sua cara amica, o a quello di Ja’Nihr, che sarebbe potuta divenire sua cara amica se solo fosse stato loro concesso più tempo, ma non di certo a quelli dei propri genitori, ove, proprio malgrado, non sarebbe mai stata capace di negare la propria sola, ed esclusiva, responsabilità in quanto loro accaduto, né, tantomeno, sarebbe mai stata capace di replicare alle loro scuse, o ai loro attacchi, nel momento in cui lo scontro fosse ripreso. Eccessivo, infatti, era il peso che sentiva gravare sul proprio cuore per quello storico errore, per quello sbaglio sicuramente da attribuire a una troppo giovane età, e al quale, pur, non le era mai stata concessa opportunità di porre rimedio, nell’irreversibilità sol propria della morte.
Se Nivre e Mera Bontor, quindi, avessero preteso la vita di loro figlia a soddisfazione per la propria morte, per il dolore che ella aveva imposto su di loro sino a ucciderli, questa non si sarebbe sottratta alle loro grinfie, non si sarebbe opposta alla loro brama di sangue, per loro pronta a immolarsi in sacrificio, qual olocausto di espiazione sull’altare della vendetta.
E Be’Sihl? Cosa avrebbe mai potuto dire all’amato Be’Sihl? Nulla.
Nulla ove nulla avrebbe potuto essere utile a spiegare che, da questa missione, da questo viaggio annunciato in contrasto al proprio sposo e alla fenice, mai ella avrebbe potuto godere di una possibilità di ritorno a casa, di ritorno da lui, in sua attesa a Kriarya: non conseguenza alla violenza propria dell’uno o dell’altra, però, quanto nella necessità di concedere soddisfazione alla legittima pretesa di sangue propria degli spettri dei suoi stessi genitori, nelle orride profondità di quel Pozzo riemersi dalla morta solo per tale necessità, animati da tale volontà e brama. In conseguenza a ciò, l’amore sbocciato fra loro, quel sentimento stupendo e straordinario, vero e infinito come le stelle in cielo, il migliore del quale avrebbe mai potuto sperare di godere in quel particolare momento della propria vita, e del quale, sovente, ella si trovava a domandarsi quanto fosse realmente meritato e quanto no; avrebbe dovuto purtroppo cedere il passo alla violenza, avrebbe dovuto accettare di essere soffocato nel suo sangue, insieme a ogni prospettiva di futuro. E quell’uomo, quell’uomo magnifico e praticamente perfetto, perfetto innanzi al suo sguardo sotto ogni punto di vista, avrebbe dovuto accettare l’idea di dover proseguire da solo il resto della propria esistenza, in una prospettiva forse già presa in considerazione, già accolta qual possibile, e pur da sempre, sicuramente, ripudiata qual inaccettabile.
E Seem? Cosa avrebbe mai potuto dire al buon Seem? Nulla.
Nulla ove nulla avrebbe potuto essere utile a spiegare che, da questa missione, da questo viaggio, mai ella avrebbe potuto godere di una possibilità di ritorno a casa, di ritorno da lui, in sua attesa a Kriarya. In conseguenza a ciò, il suo scudiero avrebbe dovuto impegnarsi a cercare la propria strada, il proprio destino, senza di lei, senza poterle essere vicino così come, pur, si era prefisso di compiere, si era impegnato a fare, per onorare il ricordo del proprio maestro d’arme e, soprattutto, se stesso: mai, prima di conoscerla, egli si era concesso opportunità di credere in sé, nelle proprie possibilità, nella propria forza volontà, così come aveva iniziato a compiere in sua imitazione, a sua immagine e somiglianza. Un modello, purtroppo, che egli avrebbe quindi dovuto obliare, avrebbe dovuto dimenticare, non più ella esempio di riscossa positiva nei confronti del fato, del destino anche più avverso; ma, in quella resa, ennesima dimostrazione di quanto poco avrebbe mai potuto sperare di compiere l’uomo innanzi al divino e al soprannaturale, o, banalmente, innanzi alle proprie responsabilità.
E Howe e Be’Wahr? Cosa avrebbe mai potuto dire agli affezionati Howe e Be’Wahr? Nulla.
Nulla ove nulla avrebbe potuto essere utile a spiegare che, da questa missione, da questo viaggio, mai ella avrebbe potuto godere di una possibilità di ritorno a casa, di ritorno da loro, in sua attesa a Kriarya. In conseguenza a ciò, i due guerrieri, i due mercenari, fratelli di vita ben più di quanto non avrebbero potuto esserlo se di sangue, avrebbero perduto colei che era entrata nella loro quotidianità quasi per caso, per giuoco più che per volontà, ma che, facilmente, in maniera spontanea, naturale, era divenuta per loro una sorella, quella sorella, maggiore senza dubbio, mai avuta e neppur desiderata, e senza la quale, malgrado ciò, difficile sarebbe stato per loro proseguire, trovare entusiasmo in nuove sfide, in nuove avventure. Ella, entrata tanto discretamente nelle loro vite, sarebbe così uscita altrettanto discretamente da esse, lasciando, tuttavia, dietro di sé un vuoto incolmabile, che mai avrebbe potuto permettere, alla coppia, di proseguire come se nulla fosse stato, come se nulla fosse avvenuto. E impossibile sarebbe stato prevedere in che modi, in che vie, essi avrebbero somatizzato quel lutto, forse rifiutandolo, o forse e peggio contrastandolo, con rabbia, in ciò rischiando soltanto di seguirla nel medesimo fato di morte da lei allora abbracciato.
Molte persone, troppe persone, quelle che ella avrebbe così abbandonato nella propria morte, nella propria immolazione volontaria. Persone che l’amavano, persone che a lei si erano legate, come a un’amante, come a un mentore, come a una sorella. Come a una compagna e come a un’amica. Persone che non avrebbero mai accettato l’idea di vederla arrendersi. E che pur, ella era pronta a deludere, chinando il capo innanzi al destino impietoso che, in quel giorno, in quel momento, la stava sottoponendo al confronto con la propria famiglia, con i propri genitori, morti per colpa sua.
Era la sua famiglia a esigere la sua morte. E non solo nella follia di sua sorella Nissa. Quanto e peggio nel risentimento dei suoi genitori, di sua madre e di suo padre, coloro che l’avevano messa al mondo e che l’avevano cresciuta, che le avevano dato una casa e un’istruzione, che le avevano insegnato la differenza fra il bene e il male, fra quanto giusto e quanto no. Qual diritto avrebbe mai potuto esserle proprio per sottrarsi al fato per come ascritto dalla sua famiglia? Quale diritto avrebbe mai potuto esserle proprio per negare alla sua famiglia quella giusta vendetta, contro la figlia che tanto li aveva delusi e traditi finanche a condurli alla morte, per il dispiacere e per il dolore?
La sua famiglia. La sua famiglia desiderava la sua morte. Morte tanto legittima quanto crudele.
La sua famiglia.
La sua famiglia?

sabato 27 ottobre 2012

1743


Una richiesta di pace alla quale, purtroppo, se anche Ja’Nihr sembrò acconsentire, il Pozzo non parve voler concedere soddisfazione, rifiutando l’idea di lasciar scemare i propri attacchi, le proprie offensive, e, anzi, incrementandoli nella propria intensità, e nella propria più totale mancanza di pietà, qual solo sarebbe potuta essere interpretata la scelta in favore delle due successive, e or contemporanee, immagini che emersero dal profondo del gorgo di sangue, avanzando come le due precedenti verso di lei, sino a scalare il bordo della balconata per ergersi innanzi al suo sguardo, forse prive della fierezza e della maestosità di coloro che le avevano anticipate, ma non per questo meno temibili, meno sconvolgenti. Anzi. Se sino a quel momento la donna guerriero era rimasta sorpresa e attonita innanzi al ritorno di Nass’Hya e di Ja’Nihr, non tanto per l’idea della materializzazione dei loro spettri, delle loro ombre, quanto e più per il senso di rimorso provato nel riconoscersi, proprio malgrado, compartecipe delle loro premature scomparse, se non, addirittura, unica principale ragione di ciò; non appena le fu concesso di comprendere chi fossero i due nuovi antagonisti lì presentatile, Midda dovette far ricorso a tutta la propria forza di volontà per trattenere un moto di rigurgito. Moto che, tuttavia, non fu in grado di trattenere, e che la vide vomitare ingenerosamente carne secca e succhi gastrici sul pavimento ai propri piedi, là da dove era appena riuscita a rialzarsi, ancor debole in conseguenza alle prime due sfide affrontate.

« … no… » balbettò, sull’orlo di una crisi isterica, tremando vistosamente e cercando di arretrare, ottenendo solo di inciampare, ricadendo rovinosamente al suolo sulla gradinata alle proprie spalle « … ti prego… basta. » supplicò, rivolgendosi direttamente al pozzo, quasi esso avesse da considerarsi un’entità autonoma e senziente, qual pur, in fondo, si stava dimostrando di essere in tanta crudeltà, nel sadismo così offertole.

Del dolore conseguente alla caduta, Midda Bontor non ebbe allora quasi percezione. Alla dura e fredda roccia che impattò con prepotenza contro le proprie vertebre, rischiando seriamente di infrangerle e di condannarla in ciò a un fato persino peggiore della morte, ella non rivolse alcuna attenzione. Né, tantomeno, al sangue che dalla sua coscia destra iniziò a scorrere, per colpa della disattenzione dedicata alla propria stessa spada bastarda nel mentre di quel movimento incontrollato, ella offrì la benché minima preoccupazione, quasi le fosse stata interdetta ogni sensibilità al dolore, qualunque possibilità di avvertire pena, qual pur, in verità, avrebbe sicuramente gradito in quel momento.
Perché, ogni dolore e pena fisica, il profondo taglio sulla coscia così come il violento impatto subito dalla propria spina dorsale, ben misera preoccupazione avrebbero potuto rappresentare innanzi alla sua mente in quel momento, e al più straziante dolore, alla più terribile pena che stavano consumandola dall’interno, stavano soffocandone il cuore e distruggendone l’anima immortale, alla vista di quell’immagine, di quei due nuovi spettri di sangue che mai, mai avrebbe potuto supporre sarebbero usciti dal gorgo del Pozzo del Sangue. Non, quantomeno, per reclamare vendetta contro di lei.
Se mai, nella propria intera esistenza, caratterizzata da imprese a dir poco epiche, in sfida a uomini e dei, la Figlia di Marr’Mahew aveva corso il rischio di impazzire; se mai, nella propria lunga vita, costellata da avventure e disavventure sempre oltre il limite dell’umano ardire, la Campionessa di Kriarya aveva corso il rischio di perdere il senno; fu proprio in quel momento, nel confronto con quella coppia, che ella dimostrò l’impossibilità a mantenere qualunque parvenza di controllo, vedendo crollare ogni propria convinzione, ogni propria consapevolezza, certezze sulle quali aveva fondato la propria quotidianità e che, senza necessità di una sola parola, senza richiedere un semplice verso da parte dei nuovi arrivati, vennero spazzate non diversamente da un castello di carte al soffio del vento. E quanto rimase di lei, rannicchiata convulsamente al suolo, non fu l’immagine di una straordinaria donna guerriero, non fu l’immagine di una leggenda vivente, quanto quella di una bambina, una bambina inerme e disperata, inerme nella propria disperazione, e disperata per il proprio essere inerme, poste impietosamente innanzi a un fato troppo crudele, a una realtà priva di ogni possibilità di comprensione per lei.

« … no… » ripeté, coprendosi gli occhi e il viso con le braccia, nel tentativo di sottrarsi a tutto quello, nel tentativo di negarsi, in maniera tanto infantile, all’orrore proprio di quel contesto, con il quale impossibile, per lei, sarebbe stato riuscire a scendere a patti « … no… basta. Basta. Basta! »

Nivre e Mera. Questi i nomi dei due spettri emersi dal Pozzo. Questi i nomi dei genitori di Midda e Nissa Bontor. I genitori che Midda aveva abbandonato ancor bambina, troppo giovane per poter essere già riconosciuta qual fanciulla, nella volontà di soddisfare una propria innata propensione all’esplorazione e all’avventura, alla navigazione e al combattimento. Ella era scappata di casa, tradendo l’amore di Nissa, tradendo la fiducia dei propri genitori, per imbarcarsi clandestina a bordo di quella nave che, negli anni seguenti, era divenuta per lei una nuova casa, popolata da un equipaggio che era divenuto una nuova famiglia, surrogato di quanto, volontariamente, aveva abbandonato. E il giorno in cui, dopo anni, il tempo necessario a completare il lungo giro previsto dalla propria rotta, quella nave aveva fatto ritorno all’isola per lei natia, ogni entusiasmo per il ritorno alla sua prima casa e alla sua prima famiglia, ogni eccitazione all’idea di poter far conoscere ai propri genitori, e alla propria gemella, il giovane con cui era cresciuta in quei mesi, scoprendo nuove emozioni, nuovi sentimenti; ella era stata posta a confronto con la notizia della tragica morte della madre, con l’odio disarmante della sorella e con il rimprovero impietoso di suo padre: sviluppi imprevedibili e imprevisti innanzi ai quali non aveva avuto altra possibilità che quella di scappare, di fuggire, cercando di porre più strada possibile fra sé e tutto quello, quella versione distorta del mondo felice che pur amava ricordare, non con nostalgia, non con malinconia, ma con affetto, l’emozione di chi non sottratta a forza da tutto quello, quanto e piuttosto per propria volontà, per propria mera volontà.
Una volontà, tuttavia, ritortasi contro di lei… nel peggiore dei modi possibili.

« … lasciatemi in pace… » supplicò, mentre calde lacrime dall’amaro sapor di sale scivolarono lungo quel volto intriso di sangue, tracciando righe di bianca pelle costellata da efelidi al di sotto di quello strato scarlatto, qual una maschera di dolore e di morte « … lasciatemi in pace! Io… io non vi ho ucciso. Io… io vi ho sempre amato… vi ho sempre amato. »

Sua sorella Nissa era assurta a regina dei pirati dei mari del sud, creando un regno, un impero forse, laddove prima nulla esisteva. Sua sorella Nissa aveva accolto in sé il retaggio della terribile regina Anmel, minaccia non solo per tutti i figli del mare, ma anche e ancor più per tutta Qahr e, forse, per il mondo intero. Sua sorella Nissa le aveva rovinato la vita, negandole la possibilità di procreare, negandole la possibilità di vivere per le vie del mare, negandole persino l’amore del suo primo compagno, del suo primo amante, e da costui sottraendo il figlio che ella non avrebbe mai potuto avere.
Tante le colpe di Nissa, tanto il male che ella aveva compiuto per il piacere di compierlo, e per un eterno piano di vendetta nei suoi confronti, una strategia priva di conclusione, sino a quando, per lo meno, una fra loro fosse sopravvissuta. Ma sua sorella Nissa non aveva mai abbandonato i loro genitori. Sua sorella Nissa non aveva mai tradito la loro fiducia e le loro speranze. Sua sorella Nissa non era colpevole della loro morte, qual pur, lei, ingiustamente, sentiva di essere. E questo… e tutto questo, la straziava, la dilaniava, così come non avrebbero potuto fare neppure quattro cavalli, legati ai suoi quattro arti e spronati verso direzioni opposte, per smembrarla, per ridurla a un ammasso di carne informe e priva di vita.

« … vi prego… » gemette, contorcendosi qual un serpente fra i denti di una mangusta « … vi prego! Se mai mi avete amata… se mai mi avete considerata vostra figlia… lasciatemi in pace. Lasciatemi in pace! » pianse, rinunciando a ogni dignità, rinunciando a ogni amor proprio, completamente vittima del Pozzo e del suo maleficio « Lasciatemi in pace… »

venerdì 26 ottobre 2012

1742


« A nulla… » ammise la donna guerriero, con estrema onestà intellettuale « Anche Berah è morta. E l’intero equipaggio è stato posto in pericolo di vita, in contrasto a un’avversaria ben peggiore rispetto a quanto non avrebbe già potuto essere una semplice regina dei pirati. » commentò impietosa verso se stessa e verso le proprie responsabilità nella faccenda, scuotendo mestamente il capo.
« Mi fa piacere l’idea che tu convenga con me l’evidenza di tutto ciò. » asserì la cacciatrice, annuendo e approvando la risposta offertale « In ciò, spero bene, accetterai quindi l’idea di quanto io sia costretta ora a compiere, la morte che io sono obbligata a pretendere, da te, qual compenso per le tue mancanze, per le tue colpe e, di conseguenza, per la mia prematura e ingiusta fine. » affermò, serenamente « Dopotutto, tu non mi hai mai vendicata. E credo che sia legittimo, da parte mia, pretendere soddisfazione in tal senso. »

Un’argomentazione ineccepibile, quella della donna figlia dei regni desertici centrali, che non avrebbe potuto trovare la Campionessa di Kriarya in aperta opposizione alle sue ragioni, alle sue motivazioni. Al contrario, se solo in giuoco non vi fosse stata la propria stessa sopravvivenza, il proprio avvenire, probabilmente  ella sarebbe stata la prima a pretendere la propria stessa condanna, la propria stessa morte, qual giusto, doveroso compenso per le proprie mancanze, così come dall’altra appena asserito, qual punizione per il proprio agire dissoluto, invece di risoluto, come sarebbe stato giusto attendersi da lei, per vendicare la memoria di chi era morto innocente, placandone lo spirito. Forse, se all’epoca ella non si fosse concessa distrazioni di sorta, non si fosse permessa di allontanarsi dal mare all’ingiustificabile proposito di rifugiarsi ad amoreggiare fra le montagne, al tempo presente, nel giorno odierno, l’ombra di Ja’Nihr non avrebbe avuto ragione alcuna di presentarsi al suo cospetto, pur animata dal sangue di quel Pozzo maledetto, per pretendere in prima persona la vendetta di cui mai le era stato concesso di godere.
Inerme, per tale ragione, la mercenaria restò nel momento in cui lo spettro le si portò innanzi e, allungando entrambe le mani verso di lei, l’afferrò saldamente per il collo, facendo forza in quel punto, serrando dita forti come una morsa attorno a una tanto fragile zona, negandole ogni possibilità di respiro, ogni occasione di ulteriore parola o di semplice alito. Quelle mani, forti, incredibilmente forti, forse allenatesi in contrasto ai feroci e giganteschi predatori felini di quelle lontane terre settentrionali, ora si stavano rivolgendo contro un tipo ben diverso di preda. Una preda che, se solo non si fosse ribellata e non fosse riuscita a liberarsi quanto prima, avrebbe presto perso coscienza di sé e, subito dopo, si sarebbe irreversibilmente addormentata, di quel sonno eterno nel quale, prima di lei, la stessa Ja’Nihr era stata costretta a precipitare.
Facile, estremamente facile, sarebbe stato per lei, per la donna guerriero, riuscire a liberarsi del triste carico di dolore e di morte che avvertiva gravare sul suo cuore e sul suo animo, accettando quella condanna, quella giusta condanna, qual una punizione legittima e necessaria, per lei anche occasione di fuga, di alienazione da ogni propria responsabilità, da ogni propria colpa, e da tutta la frustrazione, da tutto il soffocante peso a ciò conseguente, persino più stringente, se possibile, di quelle mani di sangue, invocanti il suo sangue, pretendenti la sua vita e il suo futuro, in quanto indegna di viverli per la triste, cupa e soffocante ombra su loro proiettata dal ricordo di tutti coloro che, Ja’Nihr inclusa, erano morti per lei, al suo posto.  Facile, certamente. Estremamente facile, addirittura. Ma ella, raramente nella propria vita aveva preferito la via più semplice, raramente si era incamminata lungo il percorso più facile, nella consapevolezza di quanto, nulla le sarebbe mai stato concesso senza sforzo, senza impegno, senza fatica e, soprattutto, senza sacrificio. Una maturità da lei conquistata quand’ancora bambina, e pur, nelle proprie effettive implicazioni, solo diversi anni più tardi, quando per la prima volta le era stato richiesto un prezzo estremamente alto per tutte le scorciatoie delle quali si poteva mai essere servita, di tutte le scelte compiute non ricercando la via più corretta, quanto quella più semplice, a posteriori purtroppo tutte rivelatesi più gravose rispetto a ogni possibile alternativa.
Così, anche innanzi alla possibilità di essere finalmente liberata da ogni peso gravante sul proprio cuore e sul proprio animo, anche innanzi alla possibilità di fuga lì suggeritale da Ja’Nihr, a cui pur era incredibilmente legata e della morte della quale mai si sarebbe potuta perdonare, Midda Bontor rifiutò di arrendersi, rifiutò di accettare la fine dei giuochi, pur consapevole di quanta sofferenza, di quanto dolore e di quanti sacrifici, ancora, avrebbe dovuto sicuramente affrontare nel futuro immediato e non solo. E in tale rifiuto, per quanto ormai quasi svenuta, quasi priva di contatto con il mondo a sé circostante, ella convogliò tutte le proprie ultime energie nel braccio mancino, e lo sollevò ancora una volta, guidandolo e, con esso, guidando la propria lama bastarda, a un terrificante montante diretto al ventre, e all’addome tutto, della propria amica di un tempo. O, quantomeno, di colei che avrebbe desiderato poter considerare qual propria amica, se solo il tempo avesse loro concesso maggiori possibilità in tal senso.
E come già pocanzi, come già avvenuto per Nass’Hya, anche Ja’Nihr deflagrò improvvisamente nel contatto con quella lama o, forse e ancor più, in conseguenza alla scelta da lei abbracciata. Non una scelta di sconfitta, di resa e di abbandono all’oblio, quanto una scelta di impegno e di lotta, una lotta non tanto in contrasto alle proprie colpe, quanto, e piuttosto, in contrasto a tutto ciò che avrebbe potuto impedirle di completare il proprio percorso di espiazione. Un percorso che, qual ultima tappa, non avrebbe potuto escludere un confronto finale con la principale responsabile di quasi tutte le morti che ella sentiva pesare nel proprio intimo: sua sorella, gemella, Nissa Bontor.

« Mi… dispiace… » rantolò, rotolandosi a terra non appena libera dalla presa dell’antagonista, cercando di recuperare il controllo sulle proprie corde vocali e sul proprio respiro, sebbene, in un primo momento, persino incapace a muoversi o a pensare, tanto spinta in prossimità a un punto di tragico non ritorno.
« Mi dispiace… » ripeté, quando rimpossessatasi di un minimo di controllo sul proprio fiato e sulla propria voce, quanto sufficiente, per lo meno, per poter sussurrare quelle parole, cercando di ritrovare una posizione eretta, sguazzando spiacevolmente e sempre in misura maggiore in quel sangue frutto di violenza e di assassinio « Mi dispiace, Ja’Nihr. Ma, per quanto tu potessi avere ragione, non ti potevo permettere di porre ora, fine, al mio cammino, alla mia vita. » spiegò, a favore dello spirito ormai lì non più palesemente presente, e al quale, tuttavia, ella non desiderava negare un chiarimento, se non sull’intera faccenda, quantomeno sul perché della propria scelta, della propria ribellione.
« E’ vero… ho sbagliato. E ho sbagliato, in quanto mi sono lasciata sospingere da un sentimento di sconfitta e di rassegnazione, nell’accettare l’interdizione perpetua dai mari, secondo le dittatoriali e crudeli direttive impostemi dalla mia gemella, e nell’acconsentire a negarmi qualunque nuovo contatto con i tuoi compagni o, peggio, con tuo fratello. » specificò, non desiderando concedere alcuna nota di ambiguità a quel proprio monologo « Per questa ragione non posso, ora, accettare con eguale rassegnazione, con eguale senso di sconfitta, la tua volontà vendicativa, per quanto giusta e giustificata. »

In tali parole, ella volle approfittare della situazione non solo per esplicitare in termini meno ambigui determinati concetti, ma anche e ancor più, per cercare di offrire un senso al tutto, una spiegazione all’orrore nel quale stava lì precipitando apparentemente priva di qualunque possibilità di controllo, di qualunque speranza di freno, utile a salvarla, utile a evitarle il peggio alla fine della caduta.
Freno che, tuttavia, ella desiderava crearsi, era pronta a lottare per ottenere, a discapito di qualunque volontà in senso contrario, di qualunque pur legittima pretesa di morte a suo carico.

« Ti prego di perdonarmi, amica mia… » concluse, sempre alla volta della cacciatrice, purtroppo prematuramente perduta « Ti prego di perdonarmi, e di non tormentarmi ancora, con il peso di una responsabilità che non intendo più riconoscere qual mia. Non, quantomeno, nei termini propri del completamento del tuo operato. » precisò, scuotendo appena il capo « Avrai la tua vendetta, Ja’Nihr. Tu e tutti gli altri avrete la vostra vendetta. Ma non sarà il mio sangue ad appagare la vostra brama. Non sarà il mio sangue a placare la vostra collera. »

giovedì 25 ottobre 2012

1741


Nel momento in cui la lama della mercenaria entrò in contatto con le forme di quell’ombra, incredibilmente e inaspettatamente essa ottenne un risultato straordinario, una vittoria addirittura sconvolgente, ove Nass’Hya, o qualunque cosa fosse, sembrò addirittura deflagrare, esplodendo in un enorme spruzzo scarlatto. Uno spruzzo di impropria entità, che in parte infradiciò la candida pelle della propria antagonista e le sue vesti, ricoprendola interamente; in parte sfrigolò violentemente contro il fuoco della torcia, ancora dimenticata in un angolo non distante; in parte ridipinse di rosso gli scalini e le pareti lì circostanti; e ancora, in parte, ricadde nel baratro dal quale era emerso, tornando a essere un tutt’uno con il gorgo di sangue dal quale aveva avuto origine, ormai privo di animazione o di possibilità di animazione, nell’essere stato reso in ciò inerme dalla reazione della donna, apparentemente semplice, persino banale, e pur, evidentemente, tutt’altro che tale in quanto, altrimenti, inspiegabile sarebbe stato il conseguimento di quel già inquietante trionfo.

« Uhm… » esitò la Campionessa di Kriarya, dimostrandosi necessariamente sospettosa in merito all’apparente scomparsa dall’antagonista e alla propria ipotetica vittoria, eventi susseguitisi, nel confronto con le sue più consuete attese, con eccessiva rapidità, con eccessiva repentinità, tali da confonderla, e, contemporaneamente, da stuzzicare la sua paranoia, in quel momento intenta a suggerirle di non fidarsi di alcuno, neppure di se stessa e delle proprie percezioni, ove esse avrebbero potuto  essere state erroneamente influenzate, per spingerla a ritenere concreta una realtà tutt’altro che tale « N’Hya?! » provò a richiamarla, allo scopo di verificarne l’assenza o meno.

E se pur, la voce della principessa y’shalfica non tornò a imporsi all’attenzione della mercenaria, suggerendo in tale silenzio un suo definitivo allontanamento da quel campo di battaglia sotterraneo, il Pozzo del Sangue non parve essere ancora soddisfatto in grazia al semplice esito di quella prima prova, decidendo di alzare la posta in giuoco coinvolgendo un nuovo sfidante, un nuovo protagonista in quello scontro. Fu così, quindi, che le acque già agitate del gorgo ripresero a bulicale con maggiore energia, con maggiore impeto, nel mentre in cui, fra le loro pieghe, una nuova forma umana iniziò a emergere in lontananza.
Una forma, come già la precedente, all’inizio irriconoscibile, nella confusione generata dalla sua stessa consistenza corporea, dal medesimo sangue che ne caratterizzava la medesima esistenza materiale, ma che, passo dopo passo, istante dopo istante, in un lento avanzare verso la balconata sulla quale la Figlia di Marr’Mahew si stava contemporaneamente costringendo a recuperare postura eretta, iniziò a divenire sempre più distinguibile, sempre più palese in molti propri dettagli fisici. In ciò, pertanto, gli occhi color ghiaccio della donna guerriero poterono inizialmente riconoscere lunghi capelli raccolti dietro la nuca, in maniera estremamente ordinata, sotto ai quali si palesò uno splendido viso contraddistinto da zigomi alti, facenti propri un che di felino, da un naso piccolo, leggermente schiacciato, e una coppia di labbra tanto generose da far sembrare le pur ricche labbra delle mercenaria qual persino sottili. Un capo che preannunciò, pertanto, la comparsa di un corpo che difficilmente sarebbe potuto essere ignorato, o dimenticato, nelle proprie forme, nella propria prestanza, alto e muscoloso, vigoroso come solo avrebbe potuto essere quello di un predatore, qual ella, dopotutto, era stata in vita nei propri trascorsi da cacciatrice dei regni desertici centrali.
Un vigore, una forza, quella della quale quella tragica trapassata era stata contraddistinta per solo e inappellabile proprio merito, e del quale ora veniva ancora riproposta essere, che pur nulla avrebbero potuto negare della sua femminilità, del suo essere inoppugnabilmente donna, in una sensualità e in un fascino, quali quelli per lei da sempre propri, che, anzi, neppure all’attenzione della stessa mercenaria erano rimaste inavvertite, inosservate, all’epoca nella quale si erano conosciute per la prima volta. Ragione per la quale, Midda Bontor non solo non l’aveva mai dimenticata, ma, ancor dopo tanti anni, continuava a rimpiangerla, e rimpiangere in poco tempo loro concesso insieme, certa di quanto, se solo fosse stata concessa loro un’opportunità di convivenza maggiore, di collaborazione prolungata, l’amicizia che ne sarebbe potuta derivare, e la complicità che avrebbe potuto essere per loro propria, sarebbe stata difficilmente priva d’eguali, animi fra di loro più affini di quanto mai le fosse stato dato di essere con alcun altro, non di certo Nass’Hya, da lei e dal suo stile di vita troppo distante, e neppure la pur eccezionale Carsa Anloch, comunque estranea a determinate attitudini, filosofie di vita, qual, invece, avevano immediatamente trovato quelle due donne in comune ed eccezionale accordo.
Purtroppo Ja’Nihr, sorella di Av’Fahr, era morta. Come Nass’Hya e tempo prima rispetto a lei. Morta in quanto uccisa a tradimento, e colpita alle spalle, per mano di un sicario inviato dall’onnipresente, e sempre malevola, figura di Nissa Bontor, anche con quell’omicidio decisa a imporre, sulla vita della propria gemella, maggior sconvolgimento possibile, maggior dolore possibile, cosicché da distruggerla, psicologicamente ed emotivamente ancor prima che fisicamente, e da distruggerla completamente, con un sadico gusto in direzione del suo dolore. Un altro olocausto, pertanto, offerto in sacrificio sull’ara della Figlia di Marr’Mahew, per la terribile, prematura e ingiusta fine della quale ella non si sarebbe mai potuta considerare innocente, conscia, piuttosto, di esserne stata l’unica ragione e, per questo, al sola da poter colpevolizzare.

« Oh… Thyres. No. Questo no. » scosse il capo, ritraendosi, sinceramente turbata, se non addirittura spaventata, da quella nuova comparsa, e dal carico di ricordi, e di dolore, che con lei precipitarono sul suo cuore e nel suo animo, annegandola in una desolazione priva di ogni possibilità di gestione, di patteggiamento « Non anche lei… non Ja’Nihr. »
« E’ piacevole scoprire di non essere stata dimenticata… sai?! » esordì la voce del marinaio della Jol’Ange, con il medesimo tono che la mercenaria ben ricordava, nell’essere contraddistinto da quella comune vena ironica anche per lei quasi sempre propria « Temevo che dopo tutti questi anni, il mio viso ti sarebbe risultato estraneo: dopotutto, nella tua vita, devo essere stata contraddistinta da un valore pari a nulla. Soprattutto ove tu troppo impegnata a rincorrere le tu strade, i tuoi sentieri, le tue vie, invece di preoccuparti di concedermi giustizia o, anche e solo, per la salute del mio fratellino. » intendendo, con quella parola, con quel particolare diminutivo, un soggetto invero facente vanto di una massa di più di due volte di quella della mercenaria, e di una muscolatura tale da temere ben poche possibilità di confronto, e pur per lei pur sempre un fratello minore, essendo stata, per lui, non solo sorella ma persino madre e padre per larga parte dell’infanzia del medesimo.
« Ja’Nihr… non potrei mai dimenticarti. Dovresti saperlo. » commentò Midda, per tutta risposta, non riuscendo a maturare immediatamente la consapevolezza che pur alfine si era costretta a maturare nel confronto con Nass’Hya, troppo spaventata, troppo sorpresa o, forse e inconsciamente, troppo felice di poter essere nuovamente a confronto con lei per poterlo fare « Io… io mi sono tenuta alla larga per anni nel timore di poter ancora nuocere alla Jol’Ange e al suo equipaggio. Di poter nuocere a tuo fratello. »
« Troppo comodo giustificarsi in questo modo, non trovi?! » questionò l’altra, ergendosi agilmente oltre il bordo della balconata, nel muoversi con la stessa eleganza e la stessa energia che l’aveva sempre contraddistinta in vita, nonostante ora altro non fosse che uno spettro di sangue « Nei giorni in cui i miei compagni piangevano la mia morte e la morte del loro capitano, tu hai trovato rifugio fra le braccia di un amante, presso le vette dei monti Rou’Farth. Un po’ distante dal mare, per chi avrebbe dovuto voler vendicare il nostro sangue innocente versato ingiustamente. » ricordò, nel dimostrare che, malgrado la propria morte o, forse, in grazia a essa, non le fosse stato negato di seguire estremamente da vicino determinati eventi, alcune discutibili evoluzioni « E tua sorella? Quando hai deciso realmente di darle la caccia? Solo quando è arrivata a invadere il tuo… territorio. Perché prima, malgrado tutti i crimini di cui ella si era macchiata, l’hai sempre perdonata, l’hai sempre ignorata, quasi in tal modo tutto si sarebbe potuto risolvere. » insistette, impietosa « E a cosa è servito? A cosa è servito?! »

mercoledì 24 ottobre 2012

1740


Che Nass’Hya, in quel momento, fosse uno spettro, e che l’unica sostanza che avrebbe potuto vantare a costituzione del proprio corpo fosse sangue, sangue maledetto, sangue ribollente, certo, e pur sempre sangue, Midda non l’avrebbe mai potuto affermare in fede. Non, per lo meno, nel momento in cui, sorprendendola, quel fantasma l’aggredì con un montante tanto violento da penetrare, quasi, il suo addome, respingendola all’indietro e verso il soffitto con forza sufficiente da rispedirla di oltre una decina di gradini lungo il cammino circolare dalla medesima già percorso per ridiscendere sino a quel punto, sino alla balconata sulla quale, ora, troneggiava la sua avversaria.
Un colpo violento come pochi la Campionessa di Kriarya avrebbe potuto vantare aver ricevuto, le conseguenze negative del quale poterono essere parzialmente arginate solo in grazia al suo continuo, costante allenamento, utile non solo a migliorare i suoi già ottimi riflessi, ma anche, e ancor più, a mantenere allenati i suoi muscoli, muscoli che, nella particolare zona addominale, ebbero allora motivo di contrarsi immediatamente, a contenere l’eventualità di risvolti più devastanti di quelli che le furono così comunque imposti qual propri. Il fiato, tuttavia, le fu comunque strappato via con energia terrificante; e con esso, per un istante, ella temette di aver perduto persino la vista, nel poter cogliere, innanzi a sé, solo forme confuse, prive di qualunque significato, di qualunque possibile speranza di interpretazione. E dove, in quell’attacco, ella si ritrovò privata della torcia, necessariamente caduta al suolo quasi ai piedi della propria antagonista; di tale perdita non ebbe a dispiacersi, dal momento in cui, avendo ormai una sola mano a disposizione, sarebbe stato sciocco sprecare simile risorsa in un tale vano impegno, in tale inutile supporto, in luogo a spingersi alla ricerca della propria lama e, con essa, speranzosamente, di una qualche risorsa utile in contrasto a quella creatura. Una creatura, purtroppo, che non appena ella ebbe occasione di riprendersi, di recuperare vista e fiato, non riuscì purtroppo a considerare più tale, nel ritrovare in essa solo l’immagine della propria amica, di quel sincero affetto tragicamente perduto in conseguenza all’ignominia dell’attentato della propria gemella, azione condotta al solo, unico e inappellabile scopo di colpire lei, come sempre colpendo coloro a lei più vicini.

« Non… non voglio com… combattere con te. » ribadì, con l’avambraccio destro, in freddo e nero metallo dai rossi riflessi, intento a proteggere il ventre, o forse a sorreggerlo, a massaggiarlo, a conseguenza del colpo infertogli e lì ancora pulsante nel proprio dolore « Te l’ho già detto, N’Hya. Io non ti sono nemica. » soggiunse, non riuscendo a spingere la propria mancina a completare il movimento utile a chiudersi attorno all’impugnatura della propria spada bastarda, per estrarla dal fodero nel quale ancora era riposta.
« Meglio così… » commentò lo spettro, avanzando verso di lei, verso quell’angolo in inevitabile penombra, con passo deciso e intenzioni trasparenti « Spero che, quindi, opporrai meno resistenza all’idea di morire per mano mia. Perché io, se non si fosse inteso, desidero esserti nemica… desidero distruggerti, così come tu hai distrutto me, la mia vita e la mia felicità. »
« Fermati, N’Hya! » intimò, o forse solo supplicò, la donna guerriero, allungando istintivamente la propria destra innanzi a sé ma non potendo levare alcuna mano di metallo a propria difesa, spiacevolmente assente.

Non che, soprattutto tanto banalmente mossa, la sua perduta destra, del medesimo metallo del resto della protesi stregata, avrebbe mai potuto esserle d’aiuto, o di protezione, innanzi ai colpi della controparte. Perché, a dispetto della totale assenza, in lei, di una qualche volontà offensiva; in Nass’Hya simile brama non mancava assolutamente e, anzi, si imponeva violenta, qual violenta, allora, fu l’ennesima reazione in sua aggressione, nell’afferrarne l’arto verso di lei teso e, con esso, nel far leva, per sollevarla nuovamente da terra e, con non maggiore originalità rispetto a pocanzi, nello scaraventarla lontano, ancora verso il soffitto e, di lì, al suolo, ora di ritorno in direzione del Pozzo e del sangue laggiù sempre più agitato, ove possibile. E Midda Bontor, Figlia di Marr’Mahew, leggenda vivente, non poté reagire in alcun modo, non poté rendere propria alcuna concreta possibilità di opposizione a lei, e al suo impeto, non, quantomeno, in misura maggiore a quella che avrebbe potuto dimostrare una bambola di pezza fra le mani di un’infante capricciosa.
Digrignando i denti per il dolore conseguente a tutto quello, nell’avvertire le proprie ossa prossime alla rottura qual sola, legittima reazione all’energia di tale offensiva; la donna dagli occhi color ghiaccio non poté negarsi un meritato rimprovero, per la totale mancanza di reazione nella quale si stava crogiolando e compatendo in quel  momento. Così facendo, ella non si stava rivelando altro che la prima fra tutte le proprie avversarie, fra le proprie nemiche, nel porsi volontariamente, in conseguenza di simili emozioni, di tali sentimenti, in totale balia dei gesti di quello spettro, di quell’ombra malvagia e carica di risentimento di colei che un tempo era sua amica, era sua complice e, persino, confidente, nell’aver, con lei, instaurato una relazione d’amicizia diversa da qualunque altra concessasi in passato. Purtroppo, proprio per quanto fra loro esistito, per quanto fra loro vissuto, la mercenaria non stava riuscendo a estraniarsi dal contesto quanto sufficiente, e pur necessario, per difendersi e per reagire, riconoscendo in quella figura non la donna di un tempo, ma solo una prova, da affrontare e da superare, per raggiungere il proprio obiettivo finale.

« Fermarmi? » ripeté e domandò, sarcasticamente, lo spettro « E perché mai dovrei?! » minimizzò, scuotendo il capo e camminando, sempre con passo sereno, movimento tranquillo, verso di lei, dimostrando anche in tal senso tutta la propria forza, tutta la propria superiorità, non avendo necessità di affrettarsi nel finirla, ma potendosi concedere tutto il tempo di cui avrebbe potuto aver necessità, non potendo, certamente, ella fuggirle « Ho appena iniziato… »

Sarebbe quindi stata quella la sua fine? In quel sotterraneo, ella sarebbe alfine caduta? Il suo sangue avrebbe veramente contribuito a incrementare il turbinio vorticoso del Pozzo, accanto a quello di tutte le sue vittime? E, un giorno, anch’ella si sarebbe trasformata in uno spettro di sangue, come Nass’Hya, aggredendo persone a lei care nell’incolparle della propria morte? Forse Howe e Be’Wahr? Forse Seem? Forse persino Be’Sihl, lì sopraggiunto nella volontà di scoprire cosa le fosse accaduto? Di darle degna sepoltura, magari?!
No. Ella non avrebbe mai potuto tollerare tale prospettiva. Pur avendo amato Nass’Hya quanto una sorella, più della sua stessa sorella gemella, Midda Bontor non avrebbe mai potuto concederle la possibilità di condannarla a quell’orrore, a quel destino di sangue e di morte, nel quale tutto ciò che ella poteva essere stata in vita, tutto ciò per cui ella aveva combattuto giorno dopo giorno, tutto ciò per cui aveva gioito o sofferto, sarebbe stato privato di valore, sarebbe stato vanificato, insieme alla sua stessa, intera esistenza.
Nass’Hya era morta. Mentre ella ancora viveva. E, per non disonorare tutto l’affetto, tutto l’amore che la stessa giovane poteva aver vissuto per lei, accogliendola nella propria vita qual amica e sorella, ella avrebbe dovuto continuare a vivere. Anche ove questo avrebbe significato opporsi ferocemente al suo spettro. A quella sua ombra, invocante soltanto la sua distruzione.
La Figlia di Marr’Mahew non si sarebbe arresa. La Campionessa di Kriarya non avrebbe accettato, inerme, il fato di morte auguratole.

« M’Aydah… » iniziò a richiamarla l’altra, piombandole sopra e allungando le mani per afferrarla nuovamente, probabilmente allo scopo di ripetere la formula già scopertasi vincente contro di lei.
« Taci, stupida cagna! » ringhiò la donna guerriero, per tutta risposta, costringendosi a vedere nell’altra solo un’avversaria e, come tale, a trattarla, nell’estrarre rapida, fugace, quasi come un’apparizione, come un miraggio, la propria spada bastarda, e con essa a colpire, e colpire con la violenza di un tondo roverso, quella creatura di sangue, incerta se ciò avrebbe potuto riservarsi un qualche effetto e, ciò nonostante, desiderosa di combattere in ogni modo e con ogni mezzo le fosse stato concesso.

martedì 23 ottobre 2012

1739


Nass’Hya Al-Sehliot, nata principessa di Y’Shalf e negromante, pur inconsapevole sino al giorno della propria morte di una tanto terribile e oscura eredità, era stata la sposa che Desmair aveva scelto nel giorno in cui, per sorte o per oscure manipolazioni macchinate dal medesimo semidio, ella, Midda Bontor e la serva Fath’Ma, erano giunte a quella maledetta fortezza perduta fra i ghiacci delle vette dei monti Rou’Farth.
Lassù, in un territorio tanto ostile e, all’epoca, neppur ancora immaginato quanto realmente pericoloso, le tre donne si erano sospinte in una travagliata fuga dallo stesso regno orientale terra natia di tanto nobile prole, in viaggio verso la nemica Kofreya, animate in tal senso dalla volontà tanto della mercenaria, quanto della stessa principessa, di raggiungere Kriarya, città del peccato, e, lì, di incontrare l’uomo che tale insolito rapimento aveva organizzato: lord Brote, mecenate nonché amico della Figlia di Marr’Mahew, ma anche innamorato e futuro sposo della splendida Nass’Hya, quest’ultima ricambiante tutto il suo sincero e disinteressato sentimento. Una fuga d’amore, pertanto, quella dell’ancor giovane aristocratica, sottratta dalla mercenaria all’harem in cui era stata inviata per apprendere gli usi e i costumi propri di una soffocante tradizione patriarcale e quasi misogina, e dalla medesima donna guerriero guidata verso… altro. Verso la promessa di una vita forse meno agiata, verso una quotidianità forse meno pacifica e priva di ogni preoccupazione rispetto a quella che avrebbe potuto essere per lei propria se solo fosse rimasta in Y’Shalf, proseguendo nel cammino che l’avrebbe condotta a divenire quasi certamente l’ennesima sposa del sultano e, forse e persino, sultana a sua volta; e, malgrado tutto, in ciò anche verso una vita più sincera, verso una quotidianità più onesta e trasparente, privata di ogni ipocrisia e di ogni falsità proprie dell’aristocrazia nella quale ella era nata e cresciuta, tale per cui l’amore del suo sposo sarebbe stato solo e unicamente a lei rivolto, e a lei non in conseguenza a un qualche nobile retaggio famigliare, requisito indispensabile per poter essere anche solo presa in esame, ma in grazia, semplicemente, a chi ella era… e chi, accanto a lui, desiderava essere. Sposa e madre, anche ove questo avrebbe significato rinunciare per sempre a ogni proprio diritto di famiglia e, ancor più, agli agi che sarebbero potuti esserle propri presso la dimora del sultano, per un’esistenza necessariamente più modesta qual solo sarebbe potuta essere quella di una lady di Kriarya, pressoché una signora della malavita lì imperante ancor prima che un’autorità rispettabile, o per lo meno tale secondo consueti, e sovente ipocriti, canoni di giudizio.
Un sogno romantico, e forse anche troppo nel confronto con il cinico carattere del presente nel quale esso era stato idealizzato, che la Campionessa di Kriarya aveva voluto difendere con le unghie e con i denti, tanto affezionata a quella giovane donna, e tanto professionale nel proprio operato, da dimostrarsi addirittura pronta a compromettere per sempre il proprio destino, il proprio futuro per assicurarle quella felicità da lei forse ingenuamente ricercata. Motivo per il quale, pertanto, l’una aveva preso il posto dell’altra al matrimonio con l’orrendo Desmair, legando la guerriera al mostro, e concedendo alla principessa quell’irrinunciabile libertà necessaria a permetterle il futuro d’amore da lei pur bramato. Un futuro, drammaticamente, realizzatosi solo in parte, laddove ella era sì riuscita alfine e felicemente a divenirne la sposa, e persino la madre, che aveva desiderato diventare; ma, di lì a breve, aveva anche e tragicamente perduto la vita, uccisa a tradimento in un’imboscata tesale dalla crudele Nissa Bontor, per l’occasione travestitasi per apparire in tutto e per tutto identica alla propria gemella, a colei che solo, la principessa, avrebbe potuto considerare propria amica. E se già, in quell’occasione, all’animo della donna non era stata immediatamente concessa la pace che ella avrebbe dovuto preferir conquistare, nell’essere rimasta legata alla propria dimora, e alla propria famiglia, al marito e al figlio, in una maledizione ancor prima che in una concessione; l’idea di avere nuovamente a che fare con lei non avrebbe dovuto che spingere alla disperazione il cuore della mercenaria dagli occhi color ghiaccio, necessariamente disperata alla consapevolezza di quanto crudele e impietoso fosse il fato verso quella povera vittima, privandola continuamente di qualunque occasione di requie.
Eppure, alcun dubbio sarebbe potuto essere proprio della Figlia di Marr’Mahew nel confronto con il profilo di sangue emergente dal gorgo, e troppo vicino a lei per non essere riconosciuto. Quelllo era un profilo femminile e, nella fattispecie, lo splendido profilo femminile di una delle più affascinanti fanciulle con cui ella avesse avuto a che fare: il profilo di Nass’Hya Al-Sehliot, lady della città del peccato e già principessa del regno di Y’Shalf.

« Non puoi essere tu! » insistette, nel rifiutare l’evidenza di quanto pur presentatole innanzi allo sguardo « Ti prego… non adesso. Non così! »

Un rifiuto, una supplica, la sua, non rivolta tanto in direzione di Nass’Hya, quanto e piuttosto della forza che lì l’aveva rievocata, che lì l’aveva trascinata, palesando in maniera esplicita quanto grave fosse stato il suo errore, nel considerare qual presente a macchiare in maniera indelebile le proprie mani solo il sangue che ella aveva direttamente spillato dalle vene dei propri avversari, e non quello che, indirettamente, ma non meno violentemente, era stato versato per causa sua. Il sangue di persone che avevano commesso, qual proprio unico errore, quello di esserle state vicine, di essersi a lei affezionate, di averle rivolto fiducia, e che ora, ribollendo ai suoi piedi, stava vomitandole contro la propria prima avversaria.
Un’avversaria che, in cuor suo, sapeva non sarebbe stata in grado di affrontare, schiacciata dal senso di colpa per quanto occorso, per l’orrenda morte che le era stata destinata… una morte che, non aveva dubbi, per la quale sarebbe stata ora giustamente colpevolizzata.

« M'Aydah… » richiamò la voce di Nass’Hya, insolitamente lontana, quasi un eco proveniente da un altro luogo, forse da un’altra dimensione « M'Aydah… perché mi hai tradita?! » domandò, continuando ad avanzare verso di lei.
« N’Hya… » rispose la mercenaria, scuotendo il capo e cercando di non cedere allo sconforto di fronte a quelle parole « N’Hya… abbiamo già affrontato questo discorso. Abbiamo già chiarito. C’era anche tuo marito, ricordi amica mia?! » tentò di farla ragionare, benché non fosse in grado di ipotizzare quanta possibilità di dialogo avrebbe potuto esserci con lei in quel momento.
« M'Aydah… io mi fidavo di te. Io ti ho amata come una sorella. E tu mi hai abbandonata… mi hai tradita e mi hai uccisa. » ripeté lo spettro di sangue appoggiando una mano sul bordo della stessa balconata su cui era la donna guerriero, lì immobilizzata dalle proprie emozioni, in lei turbinanti non di meno rispetto a quel vortice di dolore e di morte « Mi hai uccisa, M’Aydah… »
« E’ stata mia sorella Nissa a ucciderti, N’Hya… si è finta me per entrare nella torre del tuo sposo e ucciderlo, consapevole che, così facendo, avrebbe scatenato una guerra in mio contrasto. » asserì, tentando di rievocare nella mente dell’interlocutrice quei ricordi forse perduti « E tu… tu ti sei sacrificata per salvare l’uomo che amavi, offrendoti qual olocausto agli dei tutti per la sua salvezza. »
« Tu mi hai uccisa, M’Aydah… » insistette l’ombra della principessa y’shalfica « Se non fosse stato per causa tua, la tua gemella non mi avrebbe mai cercata. Non avrebbe mai cercato il mio sposo. Non si sarebbe avventata contro di lui, per ucciderlo. E io non sarei morta. Non sarei morta, M’Aydah, se non fosse stato per causa tua! » argomentò, dimostrando maggiore raziocinio di quanto la stessa Midda Bontor non avrebbe preferito riconoscere in lei « Se sono morta è per colpa tua. Per colpa tua. »
« Non è vero… » cercò di negare la Campionessa di Kriarya, in verità con meno impeto di quanto non avrebbe preferito, riconoscendo a quelle parole, dopotutto, un fondo di verità, laddove quelle accuse era solita rivolgerle contro se stessa in maniera autonoma.
« Menti. E sai di farlo! » obiettò lo spettro, sorgendo ora con l’intero busto oltre il bordo della balconata, quasi innanzi alla donna « Tu mi hai uccisa… e oggi mi vendicherò. Mi vendicherò pretendendo il tuo sangue a giusto compenso per il mio. Il tuo dolore per il mio. » annunciò, rabbiosa e terribile, ancor più nelle proprie ragioni che nella propria effettiva natura « Morirai, M’Aydah… oggi tu morirai! »

lunedì 22 ottobre 2012

1738


Perché tentare di censire il numero di vittime che la donna guerriero aveva accumulato sulle proprie spalle nel corso della propria vita sarebbe stata un’impresa a dir poco epica, laddove, sebbene il suo non fosse un impegno quotidiano, qual professionista della guerra erano esistiti giorni nei quali ella aveva sicuramente contribuito ad alimentare il Pozzo del Sangue con quello di diverse dozzine di persone.
Nel giorno in cui ella aveva affrontato, per la prima volta, il territorio maledetto della famigerata palude di Grykoo, oltre ad aver affrontato vere e proprie orde di non morti, ella si era offerta a confronto con diverse manciate di folli adepti a un qualche oscuro culto malefico, all’interno del medesimo tempio nel quale aveva avuto il suo primo contatto visivo con l’immagine del padre del suo sposo, il dio Kah. Quando ella si era ritrovata trascinata, in parte controvoglia, a capo di molte decine di mercenari di Kriarya in contrasto a un numero nettamente superiore di uomini della Confraternita del Tramonto, un’organizzazione mercenaria che aveva sospinto il proprio interesse di dominio e di controllo anche verso la sua città, ella, pur temporaneamente privata dell’utilizzo del proprio braccio destro, aveva frantumato crani e ossa con l’ausilio della propria protesi in nero metallo dai rossi riflessi, senza trovare ragione di sottrarsi allo scontro sino a quando il suo unico interesse nel medesimo non era stato raggiunto. In occasione della battaglia che le era valso il titolo di Figlia di Marr’Mahew, ella aveva spazzato circa ottanta pirati, uccidendoli senza alcuna pietà, e in diversi momenti con ben poca consapevolezza del proprio agire, tanto con la spada bastarda con la quale avrebbe accompagnato la maggior parte delle proprie successive avventure, quanto con un pesante martello da fabbro che, pur impugnato dall’imprecisa destra dei tempi che furono, era stato più che adeguato allo scopo prefisso, non concedendo la benché minima pietà ad alcuno. Esempi più o meno eclatanti a cui poter e dover aggiungere predoni di ogni genere, nonché membri di eserciti regolari così come ribelli,  guerrieri di ventura così come assassini professionisti, che nel confronto con la sua lama, o con il suo pugno destro, o anche e solo la stretta delle sue cosce, avevano incontrato prematura occasione di ricongiungimento con i propri dei… o con qualunque altra divinità li avrebbe potuti attendere nell’aldilà.
Vittime a volte prive di nome. In altre occasioni ben conosciute. E che comunque ella mai aveva accettato di risparmiare, non, per lo meno, quando a lei propostesi in aperta opposizione, prive di qualunque volontà di resa o, anche e solo, di patteggiamento, tale da evitare la tragedia. Ovviamente, la maggior parte di coloro che erano caduti sotto i suoi colpi, non avevano avuto alcuna occasione di dialogo con lei, laddove, sovente solo scagliatisi in suo contrasto senza neppure avere di dichiarare, prima, le ragioni della propria aggressione: ciò nonostante non erano mancati, nella sua vita, anche duelli più impegnativi, confronti nel corso dei quali ella aveva avuto tempo per maturare l’idea di una tanto tragica conclusione e, alla fine, a essa era giunta pienamente cosciente di quanto stava compiendo, a volte triste in tal senso, carica di rimorso per ciò, altre del tutto indifferente alla responsabilità conseguente a simile gesto.
Qual professionista della guerra, qual mercenaria e avventuriera, del resto, difficile sarebbe stato per lei sopravvivere se, innanzi all’idea di appropriarsi violentemente di una vita, si fosse concessa remore e freni. Una contadina avrebbe potuto forse considerarne propri. Una pescatrice. Un’allevatrice. Un marinaio. Un’aristocratica. O persino una prostituta. Ma non una donna guerriero. Non una donna guerriero desiderosa di sopravvivere al proprio mestiere, desiderosa di poter sperare di ritornare un giorno a casa, per riabbracciare il proprio uomo e per giacere con lui prima di una nuova, ineluttabile, ripartenza.
A dir poco terrificante, alla luce di tutto ciò, avrebbe dovuto essere per lei l’idea di dover riaffrontare tutti coloro che ella aveva già affrontato una volta nel proprio passato, più o meno remoto. Nella semplice consapevolezza di quanto poco probabile sarebbe stato, per lei, sperare di sopravvivere a tutto ciò.

« D’accordo gente… » prese voce, con un profondo respiro, rivolgendosi a tutti o forse a nessuno, dal momento in cui alcuno era effettivamente presente attorno a lei in quel frangente « Chi desidera iniziare la sfida?! » domandò, invocando a gran voce l’inizio dello scontro, conscia di quanto a poco sarebbe stato utile, e sostanzialmente pericoloso, rimandarlo a un momento futuro.
« Sono qui. Midda Bontor. » si presentò, con sfrontatezza trasparente e desiderata « La cagna tranitha, così come molti di voi sicuramente mi avranno chiamata nel corso del tempo. O solo cagna, se la vostra ignoranza era tale da non permettervi di distinguere una figlia di Tranith da una kofreyota. » suggerì, desiderando stuzzicare chiunque in quel momento avrebbe potuto stuzzicare, per costringere i propri possibili avversari a venire allo scoperto, non lasciandola attendere un istante di più « Forza gente. Siete morti per causa mia… dovresti avere desiderio di vendicarvi. Basta con l’indecisione… »

La donna guerriero non desiderava certamente morire, né, tantomeno, sacrificarsi, ragione per la quale nelle sue parole, nel suo sprone non avrebbe dovuto essere inteso nulla di tutto ciò. Quanto ella, tuttavia, temeva e desiderava evitare, non era tanto lo scontro con coloro che aveva ucciso, quanto e piuttosto, lo scontro con coloro che aveva ucciso e che avrebbero potuto aggredirla mentre intenta ad attraversare il gorgo. Già non sarebbe stato semplice nuotare in quel sangue, e in quella corrente, con l’aiuto di una sola mano, e un braccio di metallo ormai utile qual avrebbe potuto esserlo un peso al collo: ipotizzare di doversi tuffare in quell’orrore e di poter, lì dentro, essere aggredita da eventuali spiriti, o qualunque altra cosa fossero stati, non l’avrebbe potuta soddisfare per alcuna ragione al mondo, risuonando eccessivamente qual una sgradevole promessa di dolore e morte.
Quanto, purtroppo e tuttavia, ella non avrebbe mai potuto immaginare, nell’aver proprio malgrado tragicamente frainteso le parole del proprio sposo, sarebbe stato come le vittime il sangue delle quali aveva macchiato le sue mani non avrebbero dovuto essere considerate le molteplici persone, centinaia o migliaia a conti fatti, che avevano trovato morte direttamente in conseguenza delle sue azioni, di un suo esplicito operato in tal senso, quanto e piuttosto di una schiera ben diversa di avversari. Una schiera nel confronto della quale a essere posto alla prova non sarebbe stato tanto il suo corpo, quanto e piuttosto la sua mente, e con essa la sua intera sanità mentale, che avrebbe dovuto fare presto i conti con una realtà ben diversa e, forse, anche per lei priva di possibilità di gestione.

« Allora?! » richiamò, insoddisfatta dall’apparente mancanza di replica al suo invito, alla sua prima chiamata, rimasta spiacevolmente ignorata da tutti coloro che avrebbero potuto essere lì presenti « No, scusate. Volete davvero farmi credere di avere ancora paura di me, nonostante siate tutti già morti? » lì canzonò, forse peccando di sicurezza, e pur non desiderando attendere la prossima era prima di iniziare a combattere quella battaglia, che già si sarebbe probabilmente sviluppata per un tempo superiore rispetto a quanto non avrebbe gradito concederle occasione di protrarsi.

Forse in risposta a quell’ennesima provocazione, forse in maniera del tutto sconnessa da essa, qualcosa si mosse sulla superficie del Pozzo del Sangue e, dalle profondità scarlatte del medesimo emerse quello che, in un primo momento, parve il profilo di una figura umanoide, a persona, completamente ricoperta da quella stessa oscena linfa vitale. Una figura che, per tale ragione, non fu immediatamente riconoscibile all’attenzione della mercenaria, non, per lo meno, fino a quando non si ritrovò a essere a meno di sei piedi da lei, dal balconcino sul quale ella era rimasta in attesa di una qualunque evoluzione della situazione. Un profilo, tuttavia, che quando alfine distinto nella propria identità, costrinse la donna a sussultare, trattenendo a stento un grido di sorpresa, nell’evidenza di quanto errati fossero stati tutti i suoi calcoli, tutte le sue pianificazioni attorno alle parole suggerite da Desmair e, forse, non adeguatamente considerate nel proprio più corretto valore, nella propria più sincera natura di avvertimento per lei.

« No! » gemette, scuotendo appena il capo e mantenendo la mancina chiusa attorno alla torcia più per l’esigenza di stringersi a qualcosa che in una qualche volontà di controllo sulla stessa « Non tu… non tu! Non puoi essere tu! Non qui… non ora! »

domenica 21 ottobre 2012

1737


Rinfrescatasi la gola, verificata la solidità del legame del fodero della propria spada alla cintola, circondatasi le spalle con una lunga e pesante corda, e accesa una torcia, la donna guerriero si poté considerare pronta ad avanzare all’interno del varco con tanta fatica, con tanto impegno, appena riaperto. L’eventualità dell’ineluttabile occorrenza di una nuova notte, sicuramente in tempi inferiori a quelli che le sarebbero stati necessari per riemergere da quel budello sotterraneo, non la preoccupò, non le fu ora di freno, dal momento in cui, salvo straordinarie rivelazioni in senso contrario, lì sotto non avrebbe avuto alcuna possibilità di contatto con il cielo, con il sole o con tutte le altre stelle del firmamento, in una misura tale da rendere assolutamente relativo, addirittura soggettivo, il concetto stesso di alternanza fra giorno e notte. E in simile soggettività, ella non avrebbe potuto che lasciarsi guidare dalla propria curiosità, dalla propria brama di scoprire, quanto prima, cosa si celasse in verità all’interno di quel Pozzo, rifiutando l’idea di rimandare ancora di un giorno l’incedere all’interno di quell’area.
Se la descrizione offerta da Desmair si fosse dimostrata vera, eventualità da lei neppure presa in esame tanta la fiducia riservata a quanto da lui considerato Storia, e da lei, altresì, ridotto a Mito, a una profondità di circa trecento piedi sotto la superficie del suolo, quella scalinata le avrebbe offerto allo sguardo un’immagine tanto grandiosa quanto terrificante, qual quella propria di un incredibile gorgo nel quale, da ogni angolo di Gorthia, di Kofreya o di Y’Shalf, così come del mondo intero, si sarebbe riversato a ciclo continuo il sangue di ogni vittima di violenza, e di morte, grondando dalla roccia viva come fosse il pianto stesso della terra. E la vista di tutte quelle amare, tragiche lacrime, di tutto quell’orrore così non solo rappresentato, quanto più incarnato, avrebbero imposto certa follia sulla mente di qualunque spettatore, se solo l’esistenza di questi non fosse già stata votata alla guerra e alla morte, al dolore e al sangue così come, proprio malgrado, Midda Bontor sapeva essere la propria. Perché il nome conquistato nella foga della battaglia, quello di prole della dea della guerra, non avrebbe dovuto essere riconosciuto qual attribuzione gratuita e immeritata a sostegno, o a maledizione, della donna guerriero dagli occhi color ghiaccio, dal momento in cui, nella sua vita, guerra e morte, dolore e sangue, erano realtà che ella aveva abbracciato con ardore, con convinzione, già da lunghi anni, da quattro e più lustri, in esse, e solo in esse, ritrovando una speranza di definizione per la propria stessa esistenza in vita, per la propria quotidianità, al di fuori di tanto truci prospettive ritenuta, a torto o a ragione, qual priva di significato. Non che ella temesse di essere sottoposta all’immagine derivante dal Pozzo del Sangue, né, tantomeno, temesse che l’idea stessa di tale immagine potesse trovare una qualunque occasione di fondamento.
Proprio in conseguenza all’assenza di qualunque timore per l’esistenza di un simile quadro al termine della lunga discesa nella quale si era impegnata, la Campionessa di Kriarya fu costretta a concedersi un fugace istante di smarrimento, e di sorpresa, nel momento in cui si ritrovò posta a confronto con la traduzione, in realtà, delle descrizioni anticipatele dallo sposo. Perché il Pozzo del Sangue, al di là di ogni propria convinzione in senso contrario, era esattamente ciò che ella non si attendeva essere. E, in questo, avrebbe sicuramente potuto imporre un momento di disagio, se non, addirittura, di follia sulla mente di qualunque visitatore non contaminato, nel profondo del proprio spirito, da quel medesimo orrore di sangue e di morte.

« Thyres… » gemette ella, invocando non a sproposito il nome della propria dea prediletta, purtroppo da quel luogo, nel cuore di una terra votatasi integramente, e forse impropriamente, a Gorl, quanto mai distante.

Discesa non di trecento ma, almeno, di quattro o forse cinquecento piedi verso il basso, secondo una valutazione necessariamente approssimativa, la donna guerriero volse il proprio sguardo su un ambiente che, nei limiti di quanto concesso al suo sguardo, tanto dalla luce della torcia, quanto da un insano riverbero sul sangue lì imperante, almeno superiore al sessanta piedi in altezza, e ad altri venti in ulteriore profondità sotto ai propri piedi, sotto a una sorta di stretta balconata sulla quale aveva a concludersi la scalinata da lei riscoperta e percorsa nella propria interezza.
Un ambiente non semplice conseguenza di una qualche strana conformazione morfologica del terreno, quello lì allora presentatosi alla sua attenzione, quanto e piuttosto, dell’operato dell’uomo, nella realizzazione di alte colonne poste lungo un amplio perimetro circolare, e collegate, nella propria estremità superiore, ella correttamente suppose seppur non poté verificare, da una complessa volta, che permetteva a tutto quello di esistere, e di sorreggere il peso della realtà esistente al di sopra di quel mondo sotterraneo, una realtà del tutto inconsapevole di quanto lì presente e, soprattutto, di quanto lì attivo. Perché in tale ambiente, in tale incredibile cavità, non era l’altezza, non erano le colonne o la volta superiore a rendere il tutto straordinario e inquietante, quanto, e peggio, il sangue lì effettivamente sgorgante, e sgorgante senza sosta, da numerosi doccioni della presenza dei quali le alte pareti apparivano completamente sature: sangue viscoso, sangue arterioso e sangue venoso, indistintamente, rosso acceso o rosso scuro tal da apparire quasi nero, che da quelle oscene bocche ricadeva verso il centro del Pozzo e, ancora, verso il gorgo presente sotto ai piedi della donna guerriero, nel quale sembrava addirittura ribollire, prima di essere riassorbito dalla terra stessa che pur lì lo aveva vomitato.
Quello era il Pozzo del Sangue, forse e persino peggiore di quanto mai avrebbero potuto avere modo di descrivere le parole di Desmair. E, nel rispetto di quanto da lui anticipato, ella ora non avrebbe più avuto esitazione nell’accettare l’idea che, al centro di quel gorgo, nella profondità da lei non visibile del medesimo, esistesse un piedistallo, sopra al quale fosse stato posto il Primo Sangue spillato dall’azione violenta e traditrice di D’Ana P-Or, e successivamente conservato all’interno di uno speciale contenitore, che ne potesse mantenere la divina essenza. Un vaso. Il Vaso di D’Ana P-Or, origine di ogni male.

« Dannazione! » esclamò, ora più furiosa che spaventata o sorpresa, nel riflettere attorno a tutto quello, e alle implicazioni che da tutto quello sarebbero potute derivare « Sono costretta ad ammettere che Desmair aveva ragione… che rabbia! »

In conseguenza al particolare rapporto di amore e di rispetto reciproco vissuto fra lei e il suo sposo, ella avrebbe probabilmente preferito essere costretta a rinunciare nuovamente alla propria già due volte perduta mano destra, piuttosto che accettare di riconoscere ragione al medesimo.
Purtroppo per lei, però, egli aveva ragione. Inoppugnabilmente ragione. Ed ella non avrebbe potuto neppure concedersi una qualche battuta nel merito del proprio arto, egualmente priva di quella propria cara estremità, perduta la prima volta da oltre quindici anni, per causa di Nissa, e, successivamente, nella propria seconda incarnazione che, pur, ormai, aveva imparato ad apprezzare quanto la prima, da solo poche settimane, per colpa di Anmel. Un amore di suocera.

« Spero almeno che le sia venuta un’ulcera quando ha realizzato con chi si fosse sposato il suo figliuolo… » sospirò, a commento verbale di tale pensiero, utile quanto meno a sdrammatizzare il momento e la situazione, nel confronto con le quali ben poca ragione avrebbe potuto serbare all’ironia o al sarcasmo.

Un gorgo da attraversare. Un gorgo di sangue nel quale dover nuotare. Un gorgo di sangue nel quale doversi inoltrare con l’ausilio di una sola, semplice mano in carne e ossa, pregando per non affogare in quell’orrore privo di ogni giustificazione, e nella speranza, una volta raggiunto il Vaso, di essere in grado di raccoglierlo in qualche modo e di ritornare, successivamente, indietro. Insomma: una passeggiata.
Ma, prima ancora di tutto ciò, prima ancora del diletto che da quella banale nuotata sarebbe potuto per lei derivare, una sfida. Una sfida egualmente anticipata dalla narrazione del suo sposo e che, ormai, ella non avrebbe potuto avere ragioni per non considerare qual inevitabile. Una sfida nel confronto con la quale, tuttavia, ella non avrebbe potuto considerarsi fiduciosa di successo, ove, in questa occasione, in suo contrasto, sarebbero stati tutti coloro il cui sangue aveva macchiato le sue mani. Molto sangue… per molte, troppe vittime.

sabato 20 ottobre 2012

1736


Da sempre, la Figlia di Marr’Mahew era solita viaggiare recando seco il minimo ingombro possibile, un equipaggiamento generalmente riducibile a una sacca di carne secca, a qualche borraccia d’acqua e a un paio di coperte, sacrificando la comodità in favore della praticità. Ovviamente, laddove vi fosse la presunzione di dover abbisognare di eventuali strumenti aggiuntivi, per il compimento di una particolare missione, ella non si era mai fatta mancare nulla, a incominciare da attrezzi da scavo per proseguire con torce o quant’altro. Tuttavia, non sempre le era stata concessa l’opportunità di prevedere ciò di cui avrebbe potuto necessitare, motivo per il quale, alla fine, era solita arrangiarsi almeno quanto fosse solita impiegare i giusti strumenti per il giusto lavoro.
Per tale motivo, e nel considerare come si attendesse nel terreno uno stretto varco… ma non tanto stretto; sebbene non amasse l’idea di rischiare di rovinare la perfetta lama della propria arma, pur caratterizzata da una tempra fuori dal comune in grazia alla quale difficile sarebbe stato supporre l’eventualità di un qualche graffio ai danni della sua lucentezza, la mercenaria dagli occhi color ghiaccio fu costretta, allora come in precedenti occasioni, a impiegare la propria spada bastarda come strumento di lavoro, al fine di sondare, con la medesima, il terreno attorno alla buca e verificarne la resistenza, per sondarne la composizione. Un lavoro tutt’altro che semplice, tutt’altro che rilassante e tutt’altro che privo di rischi, che la vide costretta a diverse soste e che le impegnò il resto delle ore della medesima giornata in cui ella raggiunse quella particolare meta, richiedendo da lei, alfine, un più prolungato fermo per la cena e per la notte, laddove lavorare con l’oscurità sarebbe sicuramente stato, per lei, più di danno che di beneficio.
Un riposo, quello che si concesse, ben diverso da quello nel quale era precipitata involontariamente fra le vette dei monti Rou’Farth nel cammino che l’aveva ricondotta alla casa dello sposo, e che, invece, si era dimostrato estremamente più simile a quello che aveva caratterizzato tutti i suoi ultimi giorni e, con essi, tutti i giorni della sua intera vita: un sonno estremamente leggero, contraddistinto da una muscolatura sol appena rilassata e da una mente praticamente privata di qualunque possibilità di distrazione, persino contraria l’idea stessa del sogno come forma di evasione onirica, laddove in esso troppo semplice, troppo facile sarebbe stato perdere di vista la realtà, allontanarsi dal proprio concreto mondo, e con esso dai pericoli che lì si sarebbero potuti annidare, sorprendendola indifesa e sopraffacendola prima ancora che ella potesse rendersi conto di quanto in tal modo sarebbe potuto accadere. Una volta, per errore, poteva aver abbassato orribilmente la guardia… e già di quella volta non si riusciva ancora a perdonare. Due no. Due non avrebbe potuto accettarlo, severa ancor più con se stessa di quanto non lo sarebbe stata con altri, nell’attendere e nel pretendere da se stessa quanto non avrebbe mai atteso o preteso da altri.
Poco prima dello stesso astro maggiore del cielo diurno, il sole, ella ebbe così occasione di risvegliarsi, o, forse e più semplicemente, di riaprire gli occhi, pronta ad affrontare una nuova giornata con maggiore entusiasmo rispetto alla precedente e, soprattutto, di riuscire a superare quel dannato varco, per accedere in ciò al Pozzo e, con esso, al proseguo della propria missione, ove, altrimenti, si sarebbe spiacevolmente arenata sul nascere.
Sulla base delle misurazioni compiute nel giorno precedente, e della propria stessa esperienza in quel genere di situazioni, la Campionessa di Kriarya si poté allora definire sufficientemente sicura della presenza di uno strato di roccia su un fronte del varco assente sull’altro, e tale da suggerire la presenza, in corrispondenza a ciò, di un gradino, di una serie di gradini, a ridiscendere nel sottosuolo di quella brulla e abbandonata area di Gorthia, lontana da qualunque insediamento umano o rotta commerciale, sito perfetto per permettere a un tale varco di restare ignorato e dimenticato per secoli, forse millenni, qual neppure esistente, privo del rischio di crollare, senza colpa, sotto il peso di un casuale viaggiatore lì di passaggio..

« D’altronde, considerando che si chiama Pozzo, e non Torre del Sangue, non credo si possa pretendere una strada di stelle verso il cielo… »  si limitò a commentare, minimizzando l’importanza di quella scoperta, al di fuori di quanto ciò avrebbe potuto aver valore per il raggiungimento del proprio fine ultimo.

Con cautela, e con l’impiego in particolare di quanto rimasto della propria protesi destra, in freddo metallo nero dai rossi riflessi, Midda iniziò pertanto a scavare nella dura terra di Gorthia, per ampliare l’apertura, prestando attenzione a mantenersi sul fronte roccioso, là dove aveva previsto avrebbe trovato il sostegno di un gradino, e pur non fidandosi neppur completamente di tale ipotetica sicurezza, nella propria quieta e irrinunciabile convinzione che sarebbe sempre stato meglio peccare di eccessiva paranoia piuttosto che di eccessiva fiducia, ove in grazia alla prima, al più, si sarebbe ritrovata accusata di essere pazza, viva ma pazza, mentre in conseguenza alla seconda troppo facile sarebbe stato rimetterci l’osso del collo. Ed ella si sentiva ancora troppo affezionata al proprio osso del collo per rinunciare alla sua integrità.
Un lavoro lento, lungo, noioso e, ancora, stancante, che ben poco avrebbe potuto avere a che fare con i miti e le leggende, o anche e solo le canzoni ricavate attorno alle sue imprese, nelle quali ella era sempre descritta qual combattente indomita, qual pur era, capace di entrare in un luogo ove alcun’anima viva poneva piede da secoli solo in conseguenza alla propria mera volontà e a un forte soffio d’aria dai propri potenti polmoni, qual chiaramente non si stava dimostrando di essere capace di fare. Ulteriore ragione per riservarsi dei legittimi dubbi sul valore di ogni parola pronunciata dal suo sposo e spacciate quale verità assoluta. Con tutti gli annessi e connessi del caso.
Al di là di una certa carenza di fattore epico nel suo operato, comunque ammirevole avrebbe dovuto essere riconosciuto, da parte sua, l’impegno posto in tutto ciò, ove ben poche persone, ben pochi mercenari e avventurieri, soprattutto conquistata una certa fama, avrebbero accettato di piegarsi a un lavoro tanto umile, a un impegno giudicabile qual svilente nel confronto con l’onore e la gloria che sarebbero dovuti essere loro propri, da conquistarsi nel confronto con straordinari avversari e invincibili creature, e non di certo con della semplice terra, per quanto lì presente a ostacolo per l’accesso a una nuova reliquia, a un nuovo tesoro, che, se solo avesse dimostrato la decima parte delle proprietà attribuitegli, sarebbe stato uno dei più importanti che ella avrebbe potuto ricordare di aver mai recuperato.

« Il buon Degan me lo ripeteva sempre… » sospirò ella, in una breve pausa, utile a tergersi il sudore dalla fronte, asciugandola contro la stoffa dei propri stessi pantaloni, in corrispondenza al ginocchio sinistro « “Se vuoi arrivare in alto, abituati all’idea di dover lavorare sodo partendo dal basso.” » citò le parole del suo primo maestro d’arme, colui che, probabilmente, più di tutti aveva avuto merito nel formarla e nel permetterle di divenire la donna straordinaria che era divenuta « Più in basso di così posso solo andare sottoterra… e guarda caso è proprio quello che sto cercando di fare. » sorrise, ironica e autoironica.

E così spronata, nel ricordo della figura carismatica di quell’uomo che aveva preso una fanciulla ancora praticamente bambina e l’aveva trasformata in una giovane donna sicura di sé e oltremodo combattiva, figura che non avrebbe mai avuto compassione di lei in quel momento, minacciandola per incitarla a far di più e a far meglio di quanto già non stesse facendo; ella proseguì in quel duro mestiere, con serenità, con quiete, non negandosi unghie rotte e lievi abrasioni, così come mai, in vita sua, si era negata le conseguenze di sano e nobilitante lavoro manuale, sul ponte di una nave così come in un campo di battaglia. Un impegno, quello richiestole, che si prolungò ben oltre il passaggio del sole dallo zenit e che, tuttavia, si concluse qualche ora prima del tramonto, offrendole la soddisfazione di volgere lo sguardo verso il passaggio nuovamente dischiuso e, soprattutto, la scalinata presente a caratterizzazione del medesimo: quella stessa scalinata che ella aveva intuito nella propria presenza, esattamente là dove ella aveva intuito si sarebbe dimostrata essere.

« Modestamente… sono sempre la migliore. » si congratulò con se stessa, pulendosi la mancina contro le cosce, nel prepararsi, psicologicamente ancor prima che fisicamente, alla discesa in quel budello oscuro del quale non riusciva a intuire alcuna prospettiva di fondo.