11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

sabato 31 marzo 2018

2502


In quella quieta notte, Midda Bontor ebbe a riaprire quietamente gli occhi, osservandosi per un istante attorno prima di porsi a sedere sul letto, nell’intento di alzarsi da lì per andare a svuotare la vescica giunta a un livello di saturazione spiacevolmente tale da renderle necessario quel risveglio e, con esso, una breve passeggiata a raggiungere il bagno comune della Kasta Hamina.
Osservandosi attorno, ella ebbe a verificare tanto la presenza del suo amato Be’Sihl, addormentato al proprio fianco, quanto, sul fronte opposto della piccola cabina, quelle di Tagae e Liagu, a loro volta affidati all’abbraccio di qualunque dio del sonno avrebbe potuto essere identificato a dominare in quell’angolo di universo e, in quel quieto quadro familiare, ella ebbe a rasserenarsi, nella gioia di qualcosa che mai aveva potuto sperimentare, e mai avrebbe potuto sperare di poter vivere, e che pur, in quel momento, in quel frangente, le stava lì venendo offerto, in un raro, forse unico momento di reale pace nella propria esistenza. A bordo di quella nave stellare, circondata dalla famiglia per lei offerta da quell’eterogeneo, e mirabile, equipaggio, con al fianco l’uomo che per oltre quindici anni l’aveva pazientemente attesa, e che, ormai, da oltre sette anni le era vicino, fra le gioie e i dolori, fra la vita e la morte, nel bene e nel male, e allietata, in quegli ultimi mesi, dall’imprevedibile, inimmaginabile, e pur concreto dopo offerto da quella coppia di bambini, e di bambini che ella aveva accettato di accogliere come figli, e che, a loro volta, avevano accettato di accoglierla come madre; Midda Namile Bontor, nel proprio mondo d’origine conosciuta anche con molti più temibili appellativi, quali la Figlia di Marr’Mahew, in riferimento a una dea della guerra, o la Campionessa di Kriarya, in riferimento alla propria città d’adozione della quale era stata eletta protettrice, o, ancora, l’Ucciditrice di Dei, in riferimento alla morte di un dio minore della quale ella si era resa protagonista, stava forse iniziando a comprendere, ad apprezzare, quanto, a offrire un senso alla propria esistenza, non avrebbero avuto a dover essere solamente considerate tutte quelle incredibili sfide, quegli straordinari combattimenti, quelle incredibili avventure nelle quali, con ostinazione e impegno, ella non aveva mai mancato di cacciarsi, ma anche, e più semplicemente, qualcosa di meno rischioso, qualcosa di più sereno ma non, per questo, meno valevole d’attenzione o di merito: una famiglia. Quella famiglia... la sua famiglia.
Lasciando, così, con discrezione assoluta, silenzio imperturbabile, il proprio letto per alzarsi e, leggera come l’aria, muoversi verso la porta della cabina, ella ebbe a coprire le proprie nudità con una leggera vestaglia di seta color amaranto, prima di uscire nel corridoio esterno, dal quale, in pochi passi, sarebbe giunta sino al bagno. Ma fu proprio nel volgere lo sguardo sull’esterno della cabina che, improvvisamente, qualcosa ebbe a presentarsi in maniera indubbiamente sorprendente, per quanto, da una parte della sua mente, accolto quasi con quieta passività, senza rilevare, in ciò, una qualche reale ragione d’allarme: innanzi al suo sguardo, al di fuori del freddo metallo proprio della cabina e, più in generale, di tutta la Kasta Hamina, quanto ebbe a offrirsi, a presentarsi alla sua attenzione, fu sì un corridoio, e pur un corridoio diverso, con pavimenti e soffitti di legno, e mura di legno e di pietra, in forme ben note, in proporzioni assolutamente non estranee, per quanto, pur, allora non riconducibili in alcun modo alla Kasta Hamina, quanto e piuttosto a un altro luogo, a un’altra realtà e, in particolare, alla realtà  propria de "Alla Signora della Vita", la locanda della quale ella stessa e il suo amato Be’Sihl avrebbero avuto a doversi considerare comproprietari… la locanda che, tuttavia, avrebbe avuto a doversi riconoscere qual allor presente a una distanza sì incommensurabile da qualunque loro rotta da rendere impossibile, per lei, essere giunta realmente lì, a meno di non voler prendere in esame un qualche coinvolgimento da parte della fenice.

« … ma… cos…?! » sussurrò in un filo di voce, scuotendo appena il capo a tentare di liberarsi, in ciò, da qualunque torpore residuo, nella certezza, nella consapevolezza di dover aver preso un abbaglio, di doversi essere in qualche maniera confusa, e confusa tremendamente nel mistificare le forme proprie della nave con quelle di quella sua lontana dimora, forse ancor disorientata dal sonno e, magari, dal residuo di un qualche sogno le dinamiche del quale, pur, non si poneva in grado di ricordare.

Osservandosi per un istante alle spalle, nel timore di non ritrovare più Be’Sihl o i bambini, ella ebbe a concedersi occasione di sollievo nel constatare come tutti e tre fossero ancora lì quietamente addormentati, inconsapevoli non soltanto del suo allontanamento ma, ancor più, di quello che, per lei, avrebbe avuto allora a doversi considerare chiaramente un abbaglio, e un abbaglio di proporzioni a dir poco epiche. Un abbaglio che, in quanto necessariamente tale, non ebbe comunque a perdurare, giacché, non appena ella tornò a volgere la propria attenzione al corridoio, quanto ebbe ad accoglierla, quanto si concesse al suo sguardo, altro non fu che, ancora una volta, il corridoio della Kasta Hamina, con le sue ormai ben note forme e proporzioni, e la sua leggera e soffusa illuminazione notturna a concedere, in caso di necessità, come nel suo caso, di potersi muovere, e di potersi muovere anche in quella che, comunque, avrebbe avuto a doversi riconoscere qual notte per una mera convenzione: niente locanda, niente pavimento o soffitto di legno, niente pareti di legno e pietra, in uno spettacolo che, del resto, avrebbe avuto a doversi considerare semplicemente e squisitamente improponibile.
Minimizzando l’accaduto, nel non poter fare a meno di giudicarlo, di banalizzarlo qual un semplice momento di défaillance mentale conseguente alla propria indubbia sonnolenza, la donna guerriero non ebbe a volersi preoccupare di quanto aveva creduto d’aver visto, limitandosi a percorrere silenziosamente il corridoio sino al bagno, là dove assolvere alle proprie esigenze fisiologiche. Non aveva controllato l’ora, e, in questo, non avrebbe potuto avere certezza alcuna a tal riguardo, ma, nell’oscurità ancor imperante all’interno della nave si sarebbe potuto giudicare sufficientemente confidente con l’idea di quanto, in quel momento, tutto il resto dell’equipaggio fosse ancora quietamente addormentato, al pari di Be’Sihl o dei pargoli.
Per colei la quale aveva trascorso la maggior parte della propria esistenza combattendo contro ogni qual genere di avversario, ogni qual genere di creatura, uomo o bestia che fosse, mortale o immortale che avesse a doversi riconoscere, e che, la quasi totalità delle notti della propria vita, per tale ragione, non aveva potuto godere di quel sereno riposo proprio della maggior parte delle persone; la quiete propria di quella notte artificiale a bordo della Kasta Hamina, nel corso della quale tutto sembrava essere quasi sospeso al di fuori della realtà, lontano da ogni pericolo, protetto da ogni minaccia, come in un sogno dal quale non potersi attendere alcun genere di danno, non avrebbe potuto ovviare a risultare al pari di un dono inatteso, persino insperato, quanto di più prossimo a qualunque idea di beatitudine che mai avrebbe potuto dirsi in grado di concepire. In ciò, quindi, ella non avrebbe potuto ovviare, in cuor suo, ad amare tutto quello, non avrebbe potuto ovviare a crogiolarsi gioiosamente in quella pace, in quel silenzio, per quanto paradossale, tanto apprezzamento, avrebbe avuto a doversi considerare proprio da parte di chi, apparentemente, insofferente a qualunque ipotesi di quieta quotidianità: ma, forse, proprio il suo particolare stile di vita, forse quella sua tendenza, da sempre esistente, a cercare la sfida e il pericolo, a danzare allegramente con la morte, avrebbe avuto a doversi cogliere qual la più importante chiave di lettura per meglio apprezzare la vita, anche nei suoi momenti più semplici, anche in quei frangenti, simili a quello, nel quale nessun altro avrebbe avuto ragione di emozionarsi, di provare piacere suo pari.
Ma simile pace, tale serenità, non avrebbe avuto a doversi considerare duratura. Perché, nel momento stesso in cui ella ebbe a fare ritorno alla propria stanza, ancora una volta le forme del mondo a lei circostante sembrarono mutare, sembrarono annebbiarsi e confondersi come in un sogno incoerente, mutando e riassumendo, ancora una volta, quelle proprie de "Alla Signora della Vita". E se, per un attimo, ella cercò di ignorare tutto ciò, nell’assurdità da tutto quello rappresentata, la sua indifferenza, tanta noncuranza, non poté ovviare a essere messa a dura prova nel momento in cui, da una delle stanze con le porte di legno lungo il corridoio della locanda, ebbe allora a comparire un volto… e un volto decisamente noto, benché, al contempo, terribilmente estraneo.

« … Midda?! »

venerdì 30 marzo 2018

2501


Il Nulla.
Prima delle Tenebre o della Luce, prima del Cielo o della Terra, prima del Fuoco o delle Acque, il Nulla avrebbe avuto a dover essere inteso qual l’unica presenza. O, in effetti, la più completa assenza d’ogni cosa. Difficile a descriversi, ancor più a immaginarsi, il Nulla non avrebbe potuto esser datato o misurato, non avrebbe potuto essere definito o circoscritto, nient’altro esistendo oltre a esso, nient’altro potendo essere adottato qual riferimento, qual paragone a tal scopo.
Nell’assenza di qualunque testimonianza, nell’impossibilità a raccogliere informazioni a tal riguardo, nessuno, in effetti, avrebbe neppur potuto esser certo dell’esistenza del Nulla prima del tutto, benché, a rigor di logica, prima di ogni cosa Nulla avrebbe avuto a dover esistere. Se di esistenza, in tal senso, avrebbe avuto senso parlare.
Poi, forse all’improvviso, o forse dopo diverse eternità, impossibile a sapersi, qualcosa mutò. Ed ebbe ad aver inizio la Creazione di ogni cosa. Ma se, nel Nulla, nella più completa assenza di tutto, l’Equilibrio era da sempre stato preservato, con l’avvento della Creazione, l’Equilibrio sarebbe scomparso. E, in ciò, nell’istante stesso in cui la Creazione ebbe a iniziare ad agire, un altro principio fondamentale ebbe a dover pretendere il proprio ruolo, il proprio spazio: la Distruzione. Se tutto avrebbe avuto a dover essere creato, tutto sarebbe dovuto esser distrutto. E laddove la Vita avrebbe avuto a dover iniziare, la Morte avrebbe dovuto parimenti aver il proprio ruolo, il proprio spazio, per tendere, quietamente, verso il Nulla, per poter ritornare là dove tutto era incominciato.
Nel merito di cosa accadde poi, ogni mondo, ogni civiltà, avrebbe potuto offrire la propria chiave di lettura, secondo le proprie tradizioni, secondo la propria consapevolezza dell’universo, secondo la propria scienza. E laddove in molti parlarono dell’avvento di più o meno variegate divinità, altri cercarono nel raziocinio, nella fisica, le risposte a tutte le proprie domande, ergendo numeri e formule a proprio unico oracolo, a propria unica fede. Ma che la fede fosse negli dei o nell’uomo, che fosse nella scienza o nella religione, che si avesse a credere in una qualche indeterministica casualità anziché in un piano divino preordinato, nulla avrebbe avuto a cambiare nella sostanza: tutto aveva avuto inizio, la Creazione, la Vita erano comparse a destituire il predominio del Nulla e, al loro fianco, la Distruzione, la Morte si erano presentate a cercare di ripristinare l’ordine primigenio di ogni cosa.

Da quando Midda Namile Bontor era nata, quarantadue anni prima, anno più, anno meno, la sua conoscenza con l’effettiva estensione propria del Creato aveva avuto occasione di crescere continuamente, sino a superare qualunque confine prima immaginabile.
Quand’ancora bambina, la piccola isola di Licsia avrebbe avuto a dover essere considerata, obiettivamente, il solo Creato che ella mai aveva avuto occasione di conoscere o di immaginare. Certo, non era mai stata una sciocca o una sprovveduta e, in ciò, ella era ben consapevole che oltre il liscio orizzonte proprio dei mari circondanti la sua isoletta, molto altro avrebbe potuto attenderla, avrebbe potuto esserle riservato. Ma, quando ancora bambina, pur attratta dall’incognita così rappresentata dal mondo esterno, la piccola isola di Licsia avrebbe avuto a doversi riconoscere per lei ancor sufficiente nella propria estensione, a soddisfare ogni suo desiderio, ogni suo capriccio.
Crescendo, tuttavia, e ben prima di divenire fanciulla, improvvisamente la piccola isola di Licsia non fu più sufficiente per lei e, in ciò, a soli dieci anni, Midda ebbe ad abbandonare tutto il suo mondo, tutta la sua vita, e, con essa, la sua intera famiglia, per imbarcarsi clandestina a bordo di una nave mercantile e, lì sopra, salpare verso l’ignoto, non desiderando conoscere, di preciso, la propria meta, ma sperando, comunque, di godersi il viaggio che, prima di essa, l’avrebbe potuta attendere. E quel gesto forse più imprudente che coraggioso, ebbe occasione di vederla soddisfatta nelle proprie aspettative, nel concederle la possibilità, per molti anni a seguire, di esplorare i mari del sud, attraverso tutto il regno di Tranith e, talvolta, anche oltre.
Non per propria scelta, non per una propria insoddisfazione, quanto e piuttosto in conseguenza ai propri errori passati, e, soprattutto, alla propria mancanza di riguardo per i sentimenti di una gemella abbandonata alla propria esistenza e ai propri dolori; diversi anni dopo il mondo di Midda Bontor fu costretto nuovamente ad ampliarsi, a estendersi oltre i confini propri dei mari, vedendola nuovamente abbandonare la propria vita, o quanto essa era stata sino a quel momento, i propri amici, il proprio amore, per incominciare un nuovo cammino lungo vie di terra, iniziando a esplorare, in ciò, l’angolo sud-occidentale del continente di Qahr. E così, quel Creato inizialmente misurato nell’estensione propria di un’isola e, poi, delle rotte di una piccola goletta attraverso gli immensi mari, per lei ebbe a estendersi a molti nuovi mondi, a molte nuove realtà, con le quali dover imparare a rapportarsi, nel bene così come nel male.
Per dieci anni ella attraverso in lungo e in largo i regni di quell’angolo di mondo, ricercando un senso alla propria esistenza in una vita da avventuriera, e vendendo i propri servigi di guerriera qual mercenaria. E, dopo tanto tempo, nel corso del quale, ormai, ella avrebbe potuto anche aver a illudersi di aver scoperto e compreso tutto quanto necessario del Creato, a trent’anni ebbe a ritrovarsi a entrare, inconsapevolmente, per la prima volta con il concetto proprio di multiverso, nel quale, per la prima volta due anni dopo, ebbe totalmente a precipitare, violando per la prima volta coscientemente i confini della propria dimensione per immergersi in un altro universo là dove un mostro semidivino di nome Desmair ebbe a cercare di trarla in trappola e di ucciderla. Ma se pur, almeno all’inizio, ella non ebbe realmente a comprendere la vastità di quella nuova scoperta, di quel nuovo orizzonte verso il quale aveva in tal maniera avuto occasione di sospingere il proprio sguardo, non ebbero a passare molti altri anni prima che si ritrovasse a dover combattere al fianco di altre sei versioni di se stessa, provenienti da altre sei dimensioni, ognuna contraddistinta da una vita diversa, se pur, comunque, non dissimile dalla sua, non così aliena a quanto ella mai avrebbe potuto intendere. E, al termine di quella medesima strana avventura, ella ebbe allor a scoprire molto più non soltanto in merito al multiverso, ma anche, e più in generale, a ogni cosa, a ogni realtà, nell’aver avuto occasione di incontrare, in ciò, il medesimo principio di Creazione che ogni cosa aveva generato: la fenice.
Solo un anno più tardi, quand’ormai prossima ai propri primi quattro decenni, Midda Namile Bontor aveva così risposto all’invito della Creazione volto a inseguire l’oscura ombra della Distruzione che ella aveva avuto involontariamente occasione di liberare dalla prigionia nella quale era stata intrappolata da secoli, millenni forse. E così, sulle ali della fenice, ella aveva accettato di abbandonare, ancora una volta, tutto il suo mondo, tutta la sua vita, e, con essa, la sua intera famiglia, per intraprendere quella nuova avventura, pur non rinunciando, almeno stavolta, all’ultimo uomo con il quale aveva deciso avrebbe trascorso la propria esistenza, o quanto, ancora, le sarebbe stato concesso di vivere della stessa: Be’Sihl Ahvn-Qa, nativo dell’antico e nobile regno di Shar’Tiagh. In grazia a tale volo, a simile straordinario viaggio, Midda e Be’Sihl, pertanto, avevano avuto occasione di comprendere quanto, anche senza violare i confini del multiverso, la loro stessa realtà avrebbe avuto a doversi riconoscere straordinariamente vasta, follemente smisurata, nella presenza di un numero incommensurabile di stelle e di sistemi in orbita attorno a esse, e, in quelle orbite, di ancor più numerosi pianeti, molti dei quali disabitati e privi di qualunque possibilità di vita e, ciò non di meno, molti altri fra i quali altresì contraddistinti da una straordinaria varietà di vita, e vita espressa in nuove specie e nuove civiltà, ma, anche, in molti altri esseri umani loro pari, e sparsi in ogni angolo del Creato.
Negli ultimi due anni, o cicli, come erano soliti definirli nella convenzione comune esistente fra le stelle, Midda Bontor aveva così vissuto non soltanto un nuovo capitolo della sua vecchia vita, quanto e piuttosto un’intera nuova vita, in nuovi mondi nei quali la sua fama non avrebbe avuto ancora possibilità di precederla, costretta a imparare nuovi trucchi nel confronto con una quotidianità totalmente aliena a quanto mai avrebbe potuto asserire in fede di conoscere, e incontrando nuovi alleati, una nuova famiglia nella quale potersi allor integrare, un nuovo equipaggio nel quale, quasi in una seconda fanciullezza, potersi sentire finalmente a casa. Ma per quanto quella nuova pagina bianca della sua vita avrebbe potuto permetterle di reinventarsi in qualunque modo, la sua natura, il suo indomito spirito guerriero, non avrebbe potuto essere tanto facilmente costretto entro quelle nuove regole, ragione per la quale, che potesse desiderarlo o meno, tutto era tornato lentamente nei propri più consueti binari, finendo per vederla agire, proprio malgrado, non diversamente da quanto, in tutta la propria vita, aveva sempre fatto.
E così, per lunghi mesi ella si era ritrovata ad allontanarsi, più o meno volontariamente da quella propria nuova famiglia, e, con essa, dall’amore di Be’Sihl, per seguire l’evolversi degli eventi in una bizzarra sequenza di più o meno fortunati episodi, nel corso dei quali aveva combattuto contro una terribile organizzazione criminale per la salvezza di due pargoli pressoché sconosciuti, ma la causa dei quali non aveva potuto egoisticamente ignorare; era stata folgorata da un plasma e ne era stata curata per mano di un possibile alleato poi rivelatosi un suo antagonista; era stata prossima a vincere la propria sfida salvo, alfine, essere catturata insieme ai due bambini che avrebbe dovuto proteggere, per poi essere deportata in un mondo alieno, dove era stata venduta all’asta per la strabiliante cifra di dieci miliardi di crediti; era riuscita a sfuggire per mano di quello stesso avversario, o forse nuovamente alleato, solo per ritrovare i propri figli, quali aveva iniziato a considerarli, nuovamente prigionieri, e prigionieri di una spietata donna pirata, nel tentativo di riscattarli dalla quale, era stata costretta a riabbracciare la propria antica natura di avventuriera mercenaria in una missione conclusasi con la distruzione di un intero pianeta, al solo scopo di prevenire il risveglio di un’antica e autocratica specie che, ben volentieri, avrebbe allor imposto il proprio dittatoriale giogo sull’universo intero, se soltanto ne avesse avuto la possibilità.
Tanto Midda Bontor aveva così visto e vissuto in quegli ultimi due anni, arrivando, addirittura, a provare a reinventarsi come madre di quei due pargoli, Tagae e Liagu che pur, alfine, non aveva deluso, non aveva tradito, conducendoli seco sino alla propria nave e, lì, ottenendo un posto per loro tanto in quell’equipaggio, quanto nell’intimità della già non amplia cabina condivisa con Be’Sihl, il quale, paziente, amorevole e comprensivo come sempre, aveva accettato quanto da lei compiuto senza sollevare la benché minima obiezione, persino di fronte a quella coppia di inimmaginabili figli adottivi i quali, necessariamente, avrebbero avuto a entrare anche nella sua vita, oltre che in quella della sua amata. Tanto ella aveva così visto e vissuto in quegli ultimi due anni, e tanto aveva ancor appreso sull’apparente infinita Creazione a lei circostante, per difendere la quale in quel forse folle viaggio si era così impegnata, e impegnata senza alcun rimorso.
Ciò non di meno, neppure dall’alto della propria esperienza, dall’alto di una vita così straordinariamente ricca di eventi e di risvolti che avrebbero fatto perdere di senno chiunque, ella avrebbe potuto prevedere quanto, in una notte come altre, sarebbe accaduto, restituendola improvvisamente alla propria vecchia vita, al proprio vecchio mondo… o qualcosa di inquietantemente simile.

giovedì 29 marzo 2018

2500


« Ehm… » esitò lo shar’tiagho, sinceramente incerto su come reagire tanto alla vista della coppia di bambini, quanto e ancor più all’entusiasmo da questi dimostrato a suo riguardo, posto di fronte all’evidenza di aver perso un po’ di sviluppi negli ultimi tempi e, per questa ragione, cercando con lo sguardo gli occhi color ghiaccio della propria amata, e, in essi, una qualche spiegazione a tal riguardo, un qualunque chiarimento utile in tal senso.
« Mamma… è lui Be’Sihl, non è vero?! » domandò, insistendo, il piccolo Tagae, allungando la destra a cercare la mancina di Midda, per richiamarne l’attenzione, nel mentre in cui, con la propria sinistra, indicava colui giustamente identificato e, nell’esitazione del quale, tuttavia, non avrebbe potuto ovviare a riservarsi qualche dubbio, una qualche incertezza volta a suggerire, da parte loro, un qualche errore di interpretazione.
« Certo che è lui… » confermò la sua sorellina Liagu, annuendo con convinzione all’incertezza del fratello, e con convinzione tale per cui, se anche Be’Sihl non fosse stato se stesso, probabilmente avrebbe avuto ragione di maturare dei dubbi a tal riguardo « Guarda i suoi gioielli dorati… e le treccine… e i piedi scalzi! » elencò la bambina, dimostrando indubbio spirito di osservazione nel ben definire quei tre dettagli utili a identificare, nel pianeta d’origine di Midda e Be’Sihl, qualunque shar’tiagho e, dal momento in cui al di fuori di quel mondo egli avrebbe avuto a doversi considerare l’unico della propria etnia, necessariamente il medesimo così quietamente identificato.
« … mamma…?! » ripeté e sorrise, con crescente imbarazzo, lo stesso Be’Sihl, nel non aver potuto ovviare a cogliere quel termine estremamente particolare, e particolarmente preciso, impiegato dal maschietto per rivolgersi alla propria amata, colei che, in tutto quello, ancora non si era riservata opportunità di prendere voce, non tanto per una qualche mancanza di desiderio in tal senso, quanto e maggiormente per pura e semplice mancanza di opportunità, nell’irruenza allor immediatamente dimostrata dai due piccoli posti a confronto con quei nuovi volti, pur da loro già indubbiamente riconoscibili e quasi familiari.
« Questa me la voglio proprio godere… » sussurrò Duva, con fare maliziosamente divertito, innanzi all’evolversi degli eventi, rivolgendosi con complicità verso Lys’sh, nell’incrociare le braccia sotto al petto e nell’attendere quanto, in risposta, avrebbe potuto formulare la donna guerriero, non negandosi in tal senso un pizzico di cattiveria e, ciò non di meno, ritrovandosi moralmente giustificata in tal senso dai lunghi mesi di abbandono che la sua amica aveva imposto loro con la propria inaspettata fuga.
« … sinceramente anche io. » confermò Lys’sh, annuendo appena, accanto a Duva e al capitano alle spalle di Midda e dei bambini, in una posizione privilegiata nel confronto con il volto imbarazzato e confuso di Be’Sihl, seppur, proprio malgrado, totalmente privi di qualunque possibilità di riscontro nei riguardi del viso della loro amica e sorella d’armi.

Nessun commento, a margine di ciò, provenne da parte del capitano che, forse per non dimostrarsi d’accordo con la propria ex-moglie, evitò di confermare esplicitamente il proprio interesse in tal senso, benché, obiettivamente, non avrebbe potuto ovviare a giudicarsi a sua volta interessato a quanto sarebbe di lì a breve dovuto accadere e, soprattutto, alla reazione che avrebbe potuto riservarsi il buon Be’Sihl non appena gli fosse stata rivelata l’ironica verità nel merito del proprio esser divenuto padre a propria più completa insaputa, non potendo negarsi di provare, in tutto ciò, una certa empatia nei suoi confronti, ben consapevole di cosa potesse significare dividere la propria vita con una donna simile.
Molti commenti sussurrati, altresì, non poterono ovviare che esprimersi sul fronte opposto, quello accanto, e alle spalle, dello stesso Be’Sihl, nel gruppo formato da tutti coloro i quali, insieme a lui, lì si erano radunati per dare il bentornato alla compagna da troppo tempo sparita, e che, in tutto ciò, senza alcun preavviso, ebbero a vederla ricomparire accompagnata da quei due bambini, e quei due bambini intenti a riferirsi a lei qual loro madre, benché, ovviamente, l’impiego di un tale appellativo non avrebbe avuto a doversi fraintendere qual esplicito di un qualche reale legame di parentela fra loro. E se, dalla propria posizione, Mars o Roro, così come Thaare, Ragazzo o Rula, non avrebbero potuto avere altresì visuale sull’espressione propria di Be’Sihl, che pur avrebbe potuto essere facilmente intuita e immaginata, altresì, a differenza rispetto agli altri loro compagni, essi avrebbero potuto lì vantare uno squisito controllo sul volto del loro capo della sicurezza, della Figlia di Marr’Mahew, e, con esso, delle reazioni emotive che ella avrebbe dovuto necessariamente dimostrare, in tutto ciò, in risposta al proprio amato…

« Ehm… se dicessi che è una lunga storia, sarebbe sufficiente?! » azzardò l’Ucciditrice di Dei, aggrottando appena la fronte e aprendosi in un sorriso tirato verso il proprio amato, per poi abbassare lo sguardo in direzione del bambino e rispondergli, con tono più basso « Sì… è proprio lui. » confermò e subito soggiunse, a cercare di riservarsi un doveroso momento di dialogo con Be’Sihl « Ma ora stai un attimo tranquillo, Tagae, per favore… »

Tagae non parve esattamente convinto all’idea di restare un attimo tranquillo, ma la sorella, lasciando il lato destro della mercenaria sul quale era stata sino a quel momento, prese il controllo della situazione, spostandosi verso di lui per tirarlo appena indietro e lasciare così spazio alla madre di parlare con Be’Sihl, dimostrando, ancora una volta, quella maggiore sensibilità che, pur, non aveva mai mancato di palesare al di là di quella che, abitualmente, in lei, avrebbe potuto essere interpretata come spaventata timidezza, nella ritrosia comunicativa che, soprattutto con gli estranei, la contraddistingueva, vedendola cercare altresì riparo dietro il proprio fratellino. E il bambino, pur non ancora soddisfatto dalla situazione, non volle contrariare Liagu, ragione per la quale, così quietamente invitato, ebbe a tirarsi per un momento da parte, offrendo a Midda quella parentesi di tranquillità così esplicitamente domandata.

« Grazie, bambini… » sussurrò verso entrambi, pur, ovviamente, non potendo mancare di indirizzare la maggior parte di tale gratitudine proprio alla volta della piccola che, più che il fratello, si era così premurata di garantirle occasione di dialogo con Be’Sihl, in un momento che, forse, avrebbe avuto a doversi considerare persino più complicato rispetto a quello vissuto innanzi alla minaccia dei Progenitori « … dicevamo?! » riprese poi, con tono normale, verso l’amato, sperando, in verità, che egli volesse concederle occasione di passare oltre alla questione, bramando, obiettivamente, più di ogni altra cosa, un dolce abbraccio, una calda doccia, un abbondante pasto, qualche ora di sonno e il proprio arto destro riparato… e non necessariamente in quell’ordine.
« Bambini. » suggerì Be’Sihl, indicando con lo sguardo i due piccoli lì intenti a seguire, a loro volta, la scena in corso, così come chiunque attorno a loro, in quella che, probabilmente, avrebbe potuto anche essere considerata una questione personale fra loro e che pur, quali membri di quell’equipaggio, di quella famiglia, non avrebbe potuto ovviare a coinvolgere chiunque altro lì presente, nella comune consapevolezza di quanto, ciò che lì si sarebbe scoperto e, soprattutto, si sarebbe deciso, avrebbe comunque e ineluttabilmente influenzato il destino di quell’equipaggio « Due bambini… »
« Tagae e Liagu… sì. » sorrise, non senza un certo nervosismo, l’ex-mercenaria, rivivendo in quel momento lo stesso imbarazzo, la stessa morsa allo stomaco di quell’occasione, più di un lustro prima, nel corso della quale, dopo aver incendiato la locanda del suo allor non ancora compagno, e pur già fedele amico, e dopo aver inscenato, in tal evento, la propria morte, si era ritrovata alfine a dover ritornare innanzi a lui, a spiegare il perché di quanto accaduto « … è un storia… »
« … non dirmi “lunga”, per cortesia. » la bloccò egli, sollevando la propria destra a escludere quietamente tale eventualità prima ancora che ella potesse avere occasione di terminare quanto stava dicendo.
« … complicata. » concluse ella, sottolineando il proprio impegno a scegliere una parola diversa da quella proibita, per quanto, pur differenti nei propri significanti e nei propri significati, in quel particolare momento, probabilmente, avrebbero potuto essere considerate quasi dei sinonimi « E, te lo assicuro, per quanto sicuramente potrebbe essere difficile credermi, dati i miei precedenti, non c’entro nulla questa volta: sono stata trascinata in questa storia praticamente per caso. » tentò di anticiparlo, scuotendo appena il capo nel tentare di asserire, in tal maniera, la propria innocenza… o, comunque, la propria non più completa colpevolezza, della quale pur, forse, avrebbe potuto essere comunque accusata.

Ma Be’Sihl, in quel momento, non desiderava accusarla di nulla. Né mai, obiettivamente, aveva o avrebbe potuto volerla accusare di qualcosa. Neppure tanti anni prima, quando ella era ritornata, falsamente, dalla morte, al termine di eventi nel corso dei quali egli aveva avuto anche la spiacevole occasione di combattere contro il corpo rianimato in grazia a qualche negromanzia di colei che credeva essere proprio la sua amata, Be’Sihl aveva mai voluto, in qualche misura, aggredirla, insultarla, o altro.
Certo, per rispetto verso se stesso, per amor proprio, egli non avrebbe mai potuto rinunciare a pretendere, da lei, una spiegazione estremamente dettagliata di quanto accaduto, fosse anche e soltanto per capire la storia passata di quei due bambini e per poterne ipotizzare il futuro prossimo, un futuro che, a fronte di quel “mamma”, di certo non sarebbe stato particolarmente effimero nella propria perdurata. Tuttavia, in quel momento, come sempre in passato, egli non avrebbe potuto ovviare a riconoscersi sufficientemente entusiasta, se non dirompentemente tale, dalla semplice verità dell’inalterata esistenza in vita della propria amata e del suo ritorno da lui, malgrado ogni avventura vissuta, malgrado ogni nemico affrontato e vinto: un elenco, quello delle avventure e dei nemici, il quale non avrebbe mancato di essergli sicuramente offerto, e che egli non avrebbe rinunciato a voler ascoltare con indubbio piacere, ma che pur, mai, avrebbe avuto a potersi considerare qual un prerequisito, lì e allora, per amarla o meno.
Così, per quanto non dimentico della necessità di ottenere da parte sua delle spiegazioni, dei dettagli più approfonditi nel merito di quanto accaduto in quegli ultimi mesi, lo shar’tiagho, in quel momento, non riuscì a mantenersi fermo nel proprio proposito inquisitivo a suo discapito. Al contrario, dopo un profondo sospiro, egli ebbe a scuotere il capo e ad avvicinarsi, arrendevolmente comprensivo, a lei, sollevando le proprie mani ad accarezzarle delicatamente il viso prima di ricercare dalle labbra di lei un profondo bacio, ancor prima di un qualunque perché.
E se quasi tutti, a confronto con quel gesto di incommensurabile amore, non poterono che ridacchiare con aria complice e divertita, almeno uno fra i presenti non poté che disapprovare apertamente tutto ciò, con un’espressione di sincero e aperto disgusto per quell’appassionata effusione…

« … ma… che schifo! » brontolò Tagae, coprendosi gli occhi con le mani per non guardare.

mercoledì 28 marzo 2018

2499


« Tu prova di nuovo a farmi uno scherzetto simile e, te lo giuro, mi ammanetterò a te la prossima volta che sbarcheremo a terra! » la rimproverò, e forse la minacciò, quasi a titolo di saluto, l’ofidiana Har-Lys’sha , o Lys’sh per gli amici, sua compagna di viaggio e di ventura ed, entro certi versi, una sorella minore, riferendosi, in tal senso, al fatto che era proprio in sua compagnia nel momento in cui tutta quella storia aveva avuto inizio, e nel momento in cui, nella fattispecie, ella aveva deciso di gettarsi fuori da un treno un attimo prima della sua partenza, non tanto animata, in tal senso, dalla volontà di imporle un torto, quanto e piuttosto dal desiderio di raggiungere quella coppia di bambini all’epoca ancora sconosciuti, e che pur, il fato, aveva voluto farle incrociare con straordinaria insistenza.
« Tu prova di nuovo a farci uno scherzetto simile e, te lo giuro, ti innesterò un dispositivo di tracciamento direttamente nella colonna vertebrale, la prossima volta che deciderai di sbarcare a terra! » volle ribadire, ed estendere il concetto, Duva Nebiria, sua compagna di viaggio, sua sorella d’arme e, sotto molti aspetti, a lei incredibilmente affine, simile, al punto tale per cui improbabile avrebbe avuto a doversi considerare quella qual una semplice minaccia fine a se stessa… anzi: nella semplice evidenza del fatto che, allora, ella ne stesse suggerendo l’eventualità, incredibilmente probabile avrebbe avuto a doversi ritenere quanto, allora, avrebbe avuto a potersi considerare pronta ad agire, e ad agire in senso utile a condurre tutto ciò a compimento, avendo probabilmente tanto i mezzi, quanto l’occasione utile per farlo.
« Lei provi di nuovo a farci uno scherzo simile e, per quanto mi riguarda, potrà cercarsi un’altra nave a bordo della quale considerarsi parte integrante dell’equipaggio. » sancì, con meno ironia, e più serietà, il capitano della Kasta Hamina, Lange Rolamo, il quale, in linea generale, non era mai stato un suo sostenitore sfegatato, nel non aver potuto particolarmente apprezzare la sua vicinanza spirituale alla propria ex-moglie, nonché comproprietaria della nave, Duva, nell’avere, non in maniera del tutto pregiudiziosa, a dover temere per il proprio bene e per il bene del proprio equipaggio e della propria nave, nell’effetto risonanza nel quale entrambe avrebbero potuto troppo facilmente coinvolgersi reciprocamente, in un crescendo pericolosamente, e forse ineluttabilmente, esplosivo.

Con queste prime tre reazioni, la sua famiglia a bordo della Kasta Hamina volle dimostrare i propri sentimenti di sollievo nel poterla rincontrare, nell’avere possibilità di riabbracciare quella compagna a lungo perduta attraverso le vastità siderali: lunghi erano stati i mesi di ricerche nel merito del suo destino, del suo fato, e fatta eccezione per un breve messaggio che ella era stata in grado di recapitare loro attraverso Desmair, nessun altro dettaglio, nessun’altra informazione era stata loro concessa sin dalla sua scomparsa, dalla sua fuga. Anche tutti gli altri, ovviamente in diversa misura, non mancarono di esprimere il proprio sollievo, la propria felicità, nel ritrovarla, nell’avere possibilità di riaverla a bordo con loro: dal meccanico Mars Rani al buon dottore Roro Ce’Shenn, dalla cuoca Thaare Kir Flann al giovane mozzo semplicemente conosciuto come Ragazzo, passando, ovviamente, per l’ultima e attuale moglie del capitano, la bella Rula Taliqua.
E nel confronto con ognuno di loro, Midda ebbe a rendersi conto di non poter ovviare a provare dolce nostalgia, conseguente a quel legame di fiducia, di rispetto reciproco, di affetto, ineluttabile fra i membri di uno stesso equipaggio, e, soprattutto, di un equipaggio tanto compatto, tanto limitato nei propri numeri, da non poter essere assimilato a null’altro se non a una famiglia: a una famiglia decisamente variegata, sì, un po’ disfunzionale, a volte, e tutt’altro che priva di problemi, anche preesistenti all’arrivo di Midda, Be’Sihl e Lys’sh a bordo di quella stessa nave, e pur sempre e comunque una famiglia. Una famiglia alla quale, come ogni altra famiglia della propria vita, del proprio passato, ella non avrebbe potuto mai avere dubbio di poter fare ritorno in qualunque momento, a seguito di qualunque avventura e disavventura, un luogo sicuro nel quale, a prescindere, sarebbe stata sempre accolta, con tutti i propri pregi e, ancor più, con tutti i propri e ancor più numerosi difetti.
Ma se molte ebbero così a essere le critiche e le minacce, più o meno scherzose, che non mancarono di essere rivolte all’ex-mercenaria, finalmente tornata a potersi considerare nulla più di un’avventuriera e di un marinaio; l’unico che in alcuna maniera ebbe ad avere a muoverle rimprovero per quanto occorso, paradossalmente, fu colui che tutti gli altri si sarebbero attesi avesse a farlo, colui che, in tal maniera, per lunghi mesi era stato sostanzialmente abbandonato a bordo della Kasta Hamina senza colei solo per seguire la quale, in fondo, si era imbarcato non soltanto su quella nave, ma, addirittura, in quell’intera avventura oltre i confini del proprio mondo: Be’Sihl Ahvn-Qa. Il suo vecchio amico, il suo attuale compagno, il suo ultimo amante, dopotutto, più di chiunque altro a bordo di quella nave, e, probabilmente, più di chiunque altro nella vita della stessa donna guerriero, avrebbe potuto vantare di conoscerla, forse e persino più di quanto ella stessa non avrebbe potuto asserire di conoscere se stessa e, in ciò, pur non potendo ovviare a preoccuparsi per lei e per la sua sorte, non avrebbe mai potuto considerarsi sorpreso per quanto occorso, ancor prima di conoscere quanto, effettivamente, accaduto.
Quella donna, del resto, innanzi al suo sguardo, nella sua vita, era sempre apparsa più simile al mare di quanto mai ella stessa avrebbe potuto credere: stupenda e indomabile, terribile e incantevole, ammaliante e devastante, fonte di morte così come di vita. Tale era parte del suo fascino, tale era quanto egli più avrebbe potuto amare di lei, e tale, pertanto, egli non avrebbe potuto che accettare di subire nelle proprie accezioni più negative, anche in quelle situazioni nelle quali avrebbe voluto potersi opporre, poter imporre il proprio veto, veto e opposizione che, tuttavia, se fossero stati accolti, avrebbero necessariamente e paradossalmente snaturato quella figura innanzi al suo giudizio, in un irrisolvibile nonsenso. Così, quando Lys’sh e Mars erano ritornati alla Kasta Hamina senza di lei, spiegando come ella fosse letteralmente saltata giù dal treno un istante prima della chiusura delle porte e della partenza dello stesso, abbandonandoli senza offrire loro la benché minima spiegazione, e, successivamente, addirittura rifiutando qualunque genere di contatto attraverso i loro dispositivi di comunicazione; Be’Sihl non aveva potuto ovviare a sospirare e a sollevare lo sguardo metaforicamente al cielo, limitando, tuttavia, qualunque propria ipotesi di azione, a ciò, nella consapevolezza che nulla di quanto mai avrebbero potuto compiere per cercare di frenarla, di contenerla, o anche e soltanto di ritrovarla, avrebbe avuto la benché minima possibilità di successo, e che soltanto alla fine, quando ella lo avrebbe voluto, lo avrebbe desiderato, certamente il loro ricongiungimento sarebbe avvenuto, a prescindere dal quando, dal come o dal dove.
Quanto, tuttavia, neppure egli avrebbe potuto attendersi dal più grande amore della propria vita, da quella donna per la quale aveva lasciato tutto quanto per lui era sempre stato vita, ed era sempre stato immaginato qual vita, per immergersi in quella più amplia concezione di Creato, senza alcuna preparazione, senza alcuna consapevolezza o confidenza utile nel confronto del medesimo, avrebbe da lui potuto fare ritorno accompagnata da due bambini… e da due bambini intenti a chiamarla “mamma”.
Quando, infatti, la navetta guidata da Duva, Lys’sh e dallo stesso Lange ebbe ad attraccare nel rimessaggio della Kasta Hamina, e il portellone della medesima ebbe ad aprirsi, rivelando le figure al suo interno, Midda Namile Bontor, Figlia di Marr’Mahew, Ucciditrice di Dei, l’assassina da dieci miliardi di crediti, tanto quanto era stata valutata al Mercato Sotterraneo durante il quale la sua stessa figura era stata venduta per tale incommensurabile somma, ebbe ad avanzare con una coppia di pargoli accanto a sé, un maschietto e una femminuccia, i quali, con una certa curiosità, ebbero immediatamente a guardarsi attorno, tanto per studiare la nave, quanto e ancor più l’equipaggio, avendo avuto passata occasione di sentir parlare di tutto quello, e di tutti loro, e non desiderando, ora, avere altra possibilità se non quella di conoscere i protagonisti di tante storie. E, fra tutti, un protagonista in particolare, colui che, per ovvie ragioni, più di chiunque altro era stato citato dalla loro nuova madre adottiva, colui con il quale non soltanto ella aveva condiviso gli ultimi due anni della propria vita, ma, in effetti, dieci volte tanto…

« Be’Sihl! » ebbero quindi a gridare in coro Tagae e Liagu, non senza un certo entusiasmo, nell’individuare immediatamente la figura dell’uomo fra i vari membri dell’equipaggio, aiutati, in tal senso, oltre che dall’accuratezza della descrizione loro fornita da Midda, anche e ancor più dall’unicità di ognuno di loro, di ognuna di quelle figure, fra loro così eterogenee da rendere praticamente impossibile l’eventualità di un qualche fraintendimento su chi avesse a doversi considerare chi.

martedì 27 marzo 2018

2498


A dispetto di ogni premessa, e di ogni premessa rappresentata dal sicuramente violento primo contatto con coloro i quali, per le proprie contraddistintive creste, ella aveva avuto occasione di soprannominare con il termine “galletti”; l’incontro con il capitano Atto Rifed ebbe a essere, per la Figlia di Marr’Mahew, un evento straordinariamente positivo. E positivo nella misura in cui, allora, ella non soltanto ebbe a scoprire essere anch’egli un pirata, ma, in particolare, essere un pirata antagonista della propria supposta mecenate e di colei che, nel dettaglio, in quel mentre avrebbe avuto a doversi riconoscere qual carceriera dei propri bambini. E secondo la stessa filosofia in grazie alla quale Desmair, nemico della propria principale antagonista Anmel Mal Toise, aveva avuto l’occasione di poter divenire un suo alleato; o, più recentemente, Jol Nuema, da nemico di quel comune avversario conosciuto sotto l’etichetta di Progenitori, non aveva mancato di schierarsi al suo fianco e, persino, all’occorrenza, di salvarle la vita; allo stesso modo, Atto Rifed, antagonista di Lles Vaherz, non avrebbe potuto negarsi occasione di stringere una ben gradevole alleanza con la mercenaria, laddove questa le avrebbe permesso di imporre, a discapito di quell’antagonista, una severa sconfitta.
E anche nel momento in cui, in effetti, la donna dagli occhi color ghiaccio e dai capelli color del fuoco non si sarebbe concessa la benché minima esitazione innanzi all’idea di proporre in dono al capitano della Maele Libeth la testa della propria avversaria, se soltanto questo avrebbe avuto a concederle quanto da lei desiderato, non avendo a provare alcun genere rispetto nei confronti di quella donna, di quel pirata, che non soltanto aveva osato acquistare i suoi figli al mercato ma, ancor più, non avrebbe avuto la benché minima esitazione a impiegarli come armi, laddove ciò fosse stato utile ai propri scopi probabilmente genocidi; per qualche non meglio precisata ragione, per qualche logica non meglio condivisa, Atto Rifed non volle autorizzare una simile, crudele esecuzione della propria avversaria, nel preferire permetterle di continuare a vivere, e di conitnuare a farlo nella consapevolezza che ciò potesse essere accaduto soltanto per una propria decisione, per un proprio capriccio, e non, altresì, per il proprio valore, o per il valore del proprio equipaggio o della propria nave. In ciò, quindi, con le spalle protette dalla Maele Libeth e dagli stessi galletti che non si era preoccupata di sterminare, nel momento in cui egual desiderio era stato dai medesimi espresso a suo discapito; Midda Namile Bontor poté riservarsi occasione di emanciparsi dal controllo della propria ex-mecenate, riprendendo possesso, controllo dei propri bambini.
Un ricongiungimento, il loro, che non avvenne, ovviamente, senza probabilmente inutili, e pur irrinunciabili, spargimenti di sangue, e spargimenti di sangue da parte di tutti i membri dell’equipaggio della Jaco Milade che, a lei, vollero opporsi nel corso del proprio cammino. Fosse ella stata meno stanca, fosse ella stata allor meno provata da tutta l’assurdità che aveva vissuto in quelle ultime ore, per non dire in quegli ultimi giorni, probabilmente avrebbe potuto anche avere piacere a ovviare a quella vera e propria strage con la quale, suo malgrado, ebbe a sancire la fine di ogni qual genere di collaborazione con quegli uomini e con il loro capitano, arrossando gli splendidi e luminosi corridoi di quella grande nave con il loro sangue. Ma laddove, altresì, eccessiva avrebbe avuto a doversi considerare la sua stanchezza, e debilitata la sua forma fisica, anche nell’ancor impossibilità a impiegare il proprio braccio destro, almeno sino a quando non avrebbe avuto occasione di trovare qualcuno in grado di ripararne la tecnologia spiacevolmente compromessa a opera del Progenitore, l’Ucciditride di Dei non volle sprecare inutilmente il proprio tempo, e quelle poche, ultime energie rimastele, per offrire premura a coloro i quali, pur, null’altro che semplici pirati avrebbe avuto a doversi ricordare essere, a prescindere dalla loro fugace, e coatta, collaborazione. E così, pur senza arrivare a pretendere la vita di Lles Vaherz, colei che, impavidamente e, forse, stolidamente, non aveva esitato ad affrontare un Progenitore in persona, non si ritrasse neppure innanzi a quella nuova, e speranzosamente ultima prova, compiedo, dopottuto, quando pur non avrebbe potuto negare di aver già da lungo tempo sognato di avere la possibilità di compiere a loro discapito, e di essersi pur trattenuta dal compiere nell’unica, e non banale, questione rappresentata dalla propria impossibilità, poi, a condurre autonomamente quella gigantesca nave verso una qualsivoglia destinazione utile.
Difficile, in tutto ciò, sarebbe stato comprendere il perché, a margine di tale violento e sanguinario assalto, il capitano Vaherz non ebbe a presentarsi al suo cospetto, schierandosi in prima linea così come, sin dal loro incontro, non si era negata occasione di compiere: forse perché, in quel mentre, troppo impegnata a tenere sotto controllo la nave avversaria, nel timore di una qualche azione parallela da parte loro, da parte di quell’antico avversario che pur, paradossalmente, non ne aveva preteso la morte; forse perché, altresì, così incredibilmente ingenua dal non avere a prevedere neppure la possibilità di quell’epilogo, nel ritenere, erroneamente, di poter aver a fidarsi della propria mercenaria a prescindere da quanto, pur, poco avesse agito per ricambiare, parimenti, la fiducia richiestale; e forse, seppur, in tal senso, la stessa donna guerriero avrebbe avuto di che restarne delusa, perché lì ben consapevole di quanto, ormai, la propria ex-risorsa avesse a doversi riconoscere fuori controllo e, in questo, tutt’altro che desiderosa di finire a sua volta, in maniera tanto gratuita, a integrare quel già sufficientemnte folto conteggio di morte. A prescindere, tuttavia, da quali avrebbero avuto a doversi considerare le sue motivazioni, Lles Vaherz non ebbe a mostrare il proprio viso abitualmente sorridente, le proprie delicate fossette ai lati della bocca, lasciando quietamente massacrare quei suoi uomini e, insieme a ciò, permettendo alla Figlia di Marr’Mahew di recuperare i propri figli e, con essi, di lasciare la nave, diretta, alfine, verso la Maele Libeth.
Esattamente come in grazia ai capricci di un pirata ella si era ritrovata inizialmente coinvolta in tutto quello, per merito dei capricci di un altro pirata la donna guerriero ebbe alla fine occasione di uscirne, e di uscirne in maniera meno violenta di quanto, dal proprio punto di vista, non aveva già preventivamente ipotizzato di dover compiere. Perché, non potendosi fidare di un pirata, non potendosi fidare di Lles Vaherz, Midda non avrebbe mai potuto credere, in fede, che la propria mecenate avrebbe tenuto fede all’impegno preso nei suoi confronti, non in caso di successo da parte sua, nel riportarle l’arma desiderata, tantomeno allora, innanzi all’evidente fallimento che l’aveva contraddistinta. E per quanto, certamente, del capitano Rifed ella non avrebbe potuto avere maggiori motivazioni utili a ritenere possibile un qualche rapporto di fiducia, nell’essere, anch’egli e non diversamente, soltanto un pirata, ella non avrebbe potuto ovviare a preferire rischiare nell’incertezza di quella differente scelta, anziché restare legata a quella donna, e, per essa, ritrovarsi nuovamente costretta a rischiare la vita in chissà quale angolo di universo, nel solo desiderio, nel solo intento di riscattare la libertà di Tagae e Liagu. Oltretutto, proprio nel merito di questi ultimi due, non i galletti, né il loro capitano, avrebbero mai potuto immaginare qual genere di terrificante arma essi avrebbero avuto a dover essere considerati a seguito degli esperimenti su di essi condotti da parte della Loor’Nos-Kahn, ragione per la quale, sicuramente, sarebbe stato più semplice mantenere un profilo più modesto a bordo di quella seconda nave.
Al di là di ogni timore, tuttavia, l’incontro con Atto Rifed ebbe, appunto, a essere estremamente positivo per la Figlia di Marr’Mahew, non soltanto concedendole l’occasione di emanciparsi da Lles Vaherz e dalle sue macchinazioni, ma, anche, e ancor più, per concedersi la possibilità di ritornare sino a un mondo civilizzato, al primo porto utile, giunti al quale, senza da lei pretendere null’altro, il capitano ebbe a restituire, a lei e ai suoi figli, la libertà a lungo perduta, in un segno di rispetto che, francamente, non avrebbe mai avuto ragione di attendersi da parte di chi, in fondo, non aveva dato riprova di conoscere il suo nome, né, tantomeno, avrebbe avuto a poter accusare un qualche debito nei suoi riguardi, avendo, anzi, ella contribuito allo sterminio di una parte del contingente del suo equipaggio inviato sulle sue tracce, e che pur, in tal maniera, non le venne negato, forse e anche con la complicità del buon Jol, il quale, alla fine, era riuscito a dimostrarsi migliore qual alleato rispetto a quanto non fosse stato in grado di essere nelle vesti di avversario.
E così, con un braccio da riparare, e tutta una nuova collezione di lividi e graffi da curare, ma, al tempo stesso, con dei nuovi vestiti e, soprattutto, con, accanto a sé, i propri bambini, Midda Namile Bontor poté aver occasione di ricongiungersi, miracolosamente, alla propria famiglia, agli uomini e alle donne della Kasta Hamina e, soprattutto, al suo amato Be’Sihl, i quali, non appena informati della sua posizione, non ebbero a esitare a raggiungerla…

lunedì 26 marzo 2018

2497


… oppure no?!
Con un contraccolpo improvviso, che quasi avrebbe potuto spezzarle l’osso del collo, ella vide la propria caduta verso le fiamme essere improvvisamente, e imprevedibilmente, arrestata nel proprio progresso, nella propria traiettoria discendente, da qualcosa: qualcosa di incredibilmente solido, che, improvvisamente, ebbe a cingerle i fianchi, il busto intero, non diversamente da una mano gigante, o, forse e piuttosto, un artiglio gigante, nel quale ebbe allora a ritrovarsi intrappolata e, ancora una volta, trascinata verso l’alto dei cieli, anziché lasciata precipitare verso il luminoso abisso di fuoco che, sotto di lei, l’avrebbe altresì attesa. Un artiglio gigante che, nel momento in cui ella ebbe possibilità di maturare consapevolezza di quanto stesse accadendo e, in ciò, di rivolgere la propria attenzione proprio in tal direzione, ebbe a scoprirsi essere di metallo, e, in effetti, non un artiglio, quanto e piuttosto una benna, una benna a due valve incernierate in grazia alla quale, allora, la sua devastante caduta era stata improvvisamente arginata e trasformata, piuttosto, in una risalita, e in una risalita verso la salvezza, e la salvezza lì necessariamente rappresentata dal medesimo caccia con il quale, disastrosamente, aveva perso contatto a seguito di quell’ultima, disperata aggressione.

« Midda… stai bene?! » ebbe a domandare, con apparente, sincera preoccupazione la voce di Jol, trasmessa direttamente nel suo orecchio.

Riuscendo ad ampliare, ancora, la propria consapevolezza sul mondo a sé circostante, Midda fu allora in grado di mettere a fuoco quanto, in quel frangente, la benna che l’aveva improvvisamente catturata e in grazia alla quale stava venendo trascinata verso l’alto, altro non avrebbe avuto a doversi riconoscere se non un’estensione della medesima navetta alla quale, in ciò, la stava riportando, a esso collegata da un lungo cavo di metallo che, allora, stava venendo lentamente riavvolto, benché, nel movimento del veicolo stesso, ella stava apparendo lì trascinata con maggiore violenza di quanto, altresì, non avrebbe altrimenti avuto a poter accusare. Qualunque cosa fosse quella che, in quel momento, la stava circondando, e la stava riconducendo, forse non in maniera propriamente delicata, sino al caccia, certamente avrebbe avuto a doversi riconoscere qual la principale responsabile per la propria sopravvivenza e, in ciò, in maniera indiretta, non avrebbe potuto ovviare a rendere parimenti responsabile di questo anche il medesimo galletto la morte del quale ella era stata estremamente prossima a causare in più di un’occasione prima della loro estemporanea pacificazione…

« Diciamo che considero “star bene” qualcosa di diverso rispetto a questo… » rispose, decisamente indolenzita da quell’ultimo contraccolpo, il quale, per lei, era stato una vera e propria scommessa, nell’eguale probabilità di sopravvivere in grazia al medesimo o di essere da esso condannata a una fine altrettanto ingloriosa, altrettanto ingenerosa rispetto a quella che, pocanzi, stava venendo promessa.
« Scusami… ma quando mi sono reso conto dell’esistenza di un sistema meccanico di recupero, ho azzardato un tentativo senza avere la possibilità di avvisarti. » tentò di giustificarsi il suo salvatore, al quale, obiettivamente, in quel momento ella non avrebbe potuto muovere alcuna recriminazione, alcuna accusa.
« Lo avessimo scoperto prima, sarebbe stato meglio… » ironizzò la donna, provando a scuotere appena il capo e, ciò non di meno, avvertendo un certo dolore alla base del collo, probabilmente in conseguenza all’improvvisa e brusca frenata imposta alla sua caduta « … lo avessimo scoperto dopo, sarebbe stato peggio. » gli concesse, con una smorfia di dolore che, fortunatamente, non sarebbe stata trasmessa insieme all’audio di quella sua affermazione.

E se, attorno a loro, i bombardamenti non si stavano ancora arrestando, malgrado, ormai, non avrebbero potuto probabilmente continuare ancora a lungo, sotto di loro l’intera superficie del pianeta visibile dalla loro altitudine, dalla loro quota sempre maggiore, appariva già qual un’unica, terrificante distesa di fuoco, quasi, allora, quell’intero mondo fosse improvvisamente stato tradotto in una stella, in un effetto sicuramente non duraturo e che, pur, in quel frangente, di certo non avrebbe potuto garantire la sopravvivenza di nulla sulla propria superficie, o sotto di essa…
… o, per lo meno, questa avrebbe avuto a dover essere la loro speranza.
Provando, malgrado la complessità della propria attuale situazione, e il rischio in essa ancor presente, a tentare imporsi uno stato di quiete, di tranquillità, la Figlia di Marr’Mahew volle in ciò offrire la possibilità ai Progenitori di raggiungere, nuovamente, la sua mente, non tanto nel desiderio di comunicare con essi, o di offrire ai medesimi l’ennesima possibilità di ucciderla, quanto e piuttosto nella necessità di assicurarsi della loro effettiva dipartita, nell’efficacia di quella loro sicuramente non sofisticata tattica di contrasto e, ciò non di meno, speranzosamente valida. Ma più ella ebbe lì a tentare di abbassare la guardia, più il suo subconscio e il suo inconscio si opposero a ciò, spingendola a ricordarsi ciò a cui ella aveva assistito nel momento in cui i Progenitori avevano voluto orgogliosamente presentarsi e illustrarle la propria natura, la propria origine, la propria storia e, soprattutto, la propria concezione del Creato, qualcosa volto unicamente a soddisfare le proprie smanie di dominio, le proprie più autocratiche fantasie, ergendosi, sopra di esso, quali grottesche divinità.
Possibile che, ciò a cui ella aveva assistito, fosse vero? Possibile che l’intero universo, nella propria straordinaria varietà di specie e razze, di culture e civiltà, altro non fosse che il prodotto della loro ricerca di un qualche svago? Possibile che, realmente, i Progenitori avessero a doversi riconoscere qual i soli responsabili per l’intera Creazione, facendo di essi, obiettivamente, quegli stessi dei che ella, da sempre aveva venerato e, ai quali, talvolta, si era opposta?
Certo: né Desmair, né tantomeno suo padre Kah, il dio minore da lei ucciso in grazia al sangue del figlio di Marr’Mahew, dea della guerra, avrebbero avuto a doversi in qualsivoglia maniera avuto a dover riconoscere in qualche connessione, in qualche collegamento, con i Progenitori. Ma, nel suo mondo lontano, in quella terra così distante da tutti i pianeti, da tutti i sistemi nei quali ella, ora, si stava muovendo, ben diversa avrebbe avuto a doversi considerare la concezione stessa da parte dei suoi abitanti nei confronti del Creato e della sua incredibile complessità, e già in più occasioni ella non aveva potuto ovviare a domandarsi se tutte le creature che, nel corso della propria vita, aveva affrontato e vinto, se tutti quei mostri con i quali si era confrontata nella ferma consapevolezza che null’altro avrebbe potuto essere ricercato da essi se non sangue e morte, altro non avessero a doversi invece considerare degli esponenti di altre specie, specie non umane come molte, ormai, aveva imparato a conoscere, persino ad apprezzare talvolta, lì ridotte al ruolo di orridi mostri per una semplice impossibilità comunicativa, per una mancata comprensione reciproca. Possibile, quindi, che, in fondo, tutta la magia del proprio mondo altro non avesse a doversi considerare che una forma di scienza così evoluta da non poter essere compresa e, in ciò, tradotta in mera magia? E possibile, ancora, che tutti gli dei da lei da sempre venerati, o sfidati, altro non avessero a doversi riconoscere quali le stesse creature che, in quel momento, speranzosamente stavano bruciando e morendo sotto di lei?!
No. Non avrebbe potuto essere possibile. Perché per quanto, ella, nel confronto con quella nuova e più amplia concezione della realtà, altro non avrebbe avuto a dover essere riconosciuta se non una barbara ignorante, una donna guerriero capace di ragionare solo con la propria spada, e di comunicare attraverso la violenza; certamente quelle creature sì fallibili, sì speranzosamente mortali e, ormai, morte, non avrebbero avuto in alcuna maniera a poter essere considerate pari a degli dei. E, per quanto persino Kah fosse stato soltanto un dio minore, anch’egli, nella propria brutalità nella propria devastante violenza, sarebbe stato allor in grado di vincere con semplicità, con ovvietà, nel confronto dei Progenitori.
Non quali divinità, quei mostri avrebbero avuto a dover essere ricordati… ma soltanto quali dei semplici esaltati, atti a considerarsi migliori degli altri per un semplice diritto di nascita.

domenica 25 marzo 2018

2496


Facendo ricorso a tutte le proprie forze, e, probabilmente, anche a più di quanto mai avrebbe potuto annoverare fra esse, Midda Bontor dovette costringersi, in un tanto spiacevole e complicato frangente, non soltanto a mantenere la presa, onde ovviare catastrofici esiti nella rovinosa caduta che, a ciò, sarebbe seguito, ma, anche, e ancor più, a tentare di muoversi verso l’abitacolo, in un movimento, in verità, quasi orizzontale e che pur, in simile contesto, non avrebbe avuto a doversi banalizzare qual scontato, qual ovvio nel proprio esito. Avesse ella, in quel mentre, avuto ancora il supporto del proprio braccio destro, più facile sarebbe stato progredire in tale direzione, arrivando, in grazia alla propria mano artificiale, a crearsi dei veri e propri appigli sulla superficie metallica del caccia, per poter, allora, procedere con sufficiente sicurezza, con la garanzia di aver a potersi muovere sino all’ingresso all’abitacolo in termini inoppugnabilmente più sicuri rispetto a quanto, lì, non avrebbe potuto vantare: ma laddove, in tutto ciò, già straordinaria avrebbe avuto a doversi riconoscere la sua capacità a restare solidale con quel veicolo in movimento, e in movimento a una velocità tale da rendere l’aria contro la propria pelle tanto graffiante da imporle l’impressione di poter essere scorticata viva da un momento all’altro, riservarsi, anche, l’opportunità di progredire, di procedere oltre e, in ciò, di giungere sino a destinazione avrebbe avuto a doversi ritenere semplicemente improbo, molto più di quanto, sino a quel momento, non fosse stata qualunque sua altra azione, qualunque altro straordinario gesto del quale non aveva mancato di rendersi protagonista.
E se pur mirabile avrebbe avuto a doversi da sempre riconoscere la sua forma fisica, la sua tempra, in muscoli non sì scolpiti da corrompere la femminilità delle sue forme e, ciò non di meno, indubbiamente forgiati nel fuoco di così tante imprese, di così tante battaglie da temere ben pochi rivali; quanto, da sempre, era stato per lei discriminante fra il trionfo e la sconfitta, fra il successo e il fallimento, non avrebbe avuto a doversi ricercare, principalmente, nel suo corpo, quanto, e piuttosto, nella sua mente, nel suo cuore e nel suo animo, in quella ferma volontà, in quell’invincibile caparbietà, in quell’inamovibile determinazione, tale per cui, alla fine, ella avrebbe avuto possibilità di imporsi semplicemente perché, in alcuna altra maniera si sarebbe concessa di portare a termine le proprie missioni e di vivere la propria vita, giorno dopo giorno. In grazia di ciò, e di null’altro, quindi, ella aveva potuto fronteggiare chimere e tifoni, anfesibene e ippocampi, sirene e scultoni, gorgoni e arpie, così come negromanti e stregoni, e, persino, semidei e dei, riservandosi possibilità di sopravvivere a se stessa e a quella propria folle vita: null’altro concedendosi, null’altro permettendosi di prevedere, se non il proprio trionfo, se non il proprio successo, non come alternativa alla sconfitta, non al fallimento, quanto, e piuttosto, qual unica, irrinunciabile conclusione del proprio operato.
Solo in grazia di simile, granitica volontà, ella fu così in grado, in quel momento, in quel contesto oltre l’umana possibilità, di progredire, di avanzare, conquistando la superficie di quel veicolo un pollice alla volta, a esso aderente solo in grazia alla punta delle proprie dita, della mancina e dei nudi piedi, e, ciò non di meno, lì praticamente incollata, più di quanto qualunque ragno, qualunque lucertola, avrebbe mai potuto sperare di riservarsi occasione di essere in egual contesto. Ma se, sotto di lei, il suolo si faceva a ogni fremito del proprio cuore, sempre più distante, e con esso la promessa di morte a loro riservata tanto dal Progenitore, quanto dalle nubi di fuoco che, ormai, attorno allo stesso stavano chiudendosi, un ultimo colpo di reni del loro antagonista, di quell’essere di luce, sembrò volerle tuttavia negare la possibilità di sopravvivere alla blasfemia del proprio operato, così come, soltanto, avrebbe potuto essere intesa da chi abituato a ritenersi pari a un dio. Così, un tanto inatteso, quanto repentino attacco da parte del Progenitore non volle mancare di essere diretto tanto a discapito suo, quanto del caccia al quale, in maniera sì disperata, ella non avrebbe potuto allor cercare di restare aggrappata, con tutte le proprie energie, con tutte le proprie forze e ancor più, nella sola e semplice consapevolezza di quanto, da ciò, sarebbe derivata ogni propria speranza di salvezza, concretizzandosi in un devastante getto di energia luminosa, un ultimo, concreto grido proiettato a loro discapito da chi, un solo istante dopo, sarebbe stato travolto dal propagarsi delle medesime esplosioni che stavano impegnandosi a distruggere quanto rimasto del suo pianeta, e, ancor più, della sua gente.
E se, quel fascio di energia, quell’ultimo tentativo a loro discapito, non ebbe fortunatamente a dimostrarsi sufficientemente forte, o sufficientemente vicino, da permettere al Progenitore di imporre loro la stessa fine destinata alla spada bastarda così banalmente distrutta, così distrattamente ridotta in polvere, gli effetti di quell’aggressione, di quell’attacco, non ebbero neppure a poter essere quietamente ignorati da parte del caccia, o della donna a esso aggrappata, travolgendo entrambi con furia sufficiente da destabilizzarne il volo ascensionale e, soprattutto, da catapultare via la mercenaria dalla propria purtroppo già eccessivamente precaria posizione, a fronte della quale impossibile sarebbe stato, per lei, riuscire così a mantenersi solidale al veicolo…

« … miseria… » gemette la donna guerriero, non avendo neppure il coraggio di volgere il proprio pensiero alla sua dea prediletta, alla signora dei mari, nella consapevolezza di non poter essere allor meritevole della sua benevolenza, non nell’essersi fatta destinare, in tal maniera, a una morte terribilmente stupida.

Apparentemente sospesa, per un istante, nel vuoto, benché, in verità, intenta a precipitare, e a precipitare senza freno alcuno verso il turbine di fiamme sotto di sé, Midda ebbe la possibilità di realizzare in piena consapevolezza la propria imminente fine, e quanto, allora, nulla avrebbe potuto compiere per ovviare alla medesima, a meno di non riuscire a imparare a volare di lì a un paio di secondi più tardi. E se, ancor più che il timore della morte, a disturbarla, a contrariarla, ebbe a essere l’idea di un epilogo tanto sciocco, tanto banale per colei che pur, nella propria vita, aveva affrontato quanto possibile e, ancor più, quanto impossibile, e che, in maniera così priva di epica, così lontana da qualche incredibile disfida contro qualche straordinaria bestia mitologica o qualche dio realmente degno di tale nome, avrebbe alfine raggiunto la conclusione del proprio lungo e avventuroso viaggio; a colmarle il cuore di rammarico non poté che essere l’idea di non aver avuto neppure l’occasione di offrire un reale saluto al proprio amato Be’Sihl, dal quale, scioccamente, si era allontanata, come da sempre, senza alcun riguardo per le conseguenze delle proprie azioni, così come di non poter più aver la possibilità di riscattare Tagae e Liagu, quei due bambini le vite dei quali aveva voluto accogliere nella propria e che, ciò non di meno, sarebbero state abbandonate alle sicuramente poco amorevoli cure di Lles Vaherz, null’altro che desiderosa se non di tradurli in quelle armi per i quali li aveva profumatamente pagati, e in quelle armi di distruzione di massa quali la Loor’Nos-Kahn li aveva fatti divenire.
Cosa avrebbe potuto valere, tuttavia, ogni rimpianto, ogni frustrazione, in quel frangente? Qual senso avrebbe potuto avere, parimenti, ogni propria forza di volontà, ogni propria ferma dedizione alla vita, nel quieto confronto con quell’irrefrenabile volo, in grazia al quale ella sarebbe stata destinata alle fiamme della morte e di una morte totalmente priva d’ogni gloria, d’ogni merito?
In quel giorno, in quel momento, ella sarebbe morta e sarebbe morta non nell’adempimento a un qualche spirito di sacrificio per mezzo del quale la sua fine avrebbe potuto corrispondere all’inizio di qualcun altro, quanto, e semplicemente, per una sconfitta, e una sconfitta a lei imposta, ingrato a dirsi, da chi, a sua volta, avrebbe avuto a doversi considerare già sconfitto e che, pertanto, di ciò non avrebbe neppure avuto la possibilità di gioire, di esultare. In quel giorno, in quel momento, ella sarebbe morta e sarebbe morta senza una spada nel proprio pugno, senza un’arma a contraddistinguerla qual la straordinaria guerriera che aveva da sempre voluto impegnarsi a essere, destinata all’oblio della dimenticanza in un pianeta già morto e, ciò non di meno, nuovamente morente, nelle fiamme del quale il suo nome e la sua memoria sarebbero state per sempre perdute, nella più totale inconsapevolezza della sua sorte da parte di tutti i suoi cari. In quel giorno, in quel momento, ella sarebbe morta…

« … Thy… »

sabato 24 marzo 2018

2495


Simile a una bestia furiosa, ancor prima che a un dio, il Progenitore ebbe a continuare a dimostrare tutta la propria rabbia, tutta la propria collera, volgendo le proprie grida verso l’alto dei cieli, in un’evidente insofferenza nel confronto di quell’offensiva, di quell’attacco che non si sarebbe potuto ancor considerare in grado di arrestare, o nel confronto con il quale non avrebbe ancor potuto reagire. Per un fugace attimo dimentico della donna e del suo compare, il mostro luminescente ebbe a rivolgere soltanto la propria attenzione verso quel bombardamento, verso quei devastanti attacchi, concedendo, in ciò, involontariamente possibilità agli altri due di riservarsi una qualche opportunità di fuga. Opportunità di fuga che, tuttavia, essi non avrebbero avuto a dover essere riconosciuti qual in grado di cogliere… non, almeno, nell’immediato.

« Questa carretta non vuole saperne di partire… » replicò la voce del galletto, nell’orecchio della mercenaria, lasciando seguire a quella constatazione una lunga e variegata serie di improperi molti dei quali, addirittura, il traduttore automatico della medesima non fu allor in grado di riadattare in alcun termine per lei comprensibile, benché il senso ultimo di tale sfogo non avrebbe avuto a poter essere in alcun modo frainteso, non avrebbe potuto essere in alcuna maniera equivocato, al di là di qualunque divario linguistico.

I boati non cessarono nella loro sequenza e, anzi, ebbero a incrementarsi, a crescere quasi esponenzialmente, segno evidente di quanto entrambi i capitani sopra le loro teste dovevano aver comunque ben compreso il messaggio da loro trasmesso e l’importanza, allora, di ricorrere a tutte le proprie risorse, a tutta la propria potenza di fuoco per cercare di distruggere quel pianeta nella propria realtà più profonda, nelle proprie viscere più remote, per estirpare la minaccia che, là sotto, da secoli non aveva cessato di annidarsi per minacciare il futuro dell’intero Creato. E, per quanto, in quella loro attuale posizione, Midda, Jol e il Progenitore avrebbero avuto a doversi considerare sufficientemente distanti da ogni statua per non essere direttamente coinvolti da quel bombardamento, all’orizzonte, a ogni orizzonte, molte nuvole di fuoco stavano già iniziando a levarsi in rapido avvicinamento, a comprova di quanto dalla donna guerriero e dal suo compagno già saputo e temuto, nonché di quanto, di lì a un minuto o due, li avrebbe inceneriti, destinando anche loro alla medesima distruzione che avevano richiesto, supplicato e, a tratti, persino ordinato, per quel mondo e per tutti i suoi abitanti.
Tutt’altro che bramosa di invocare la propria ultima ora e di ascendere al giudizio dei propri dei; nonché consapevole di essere ormai priva di praticamente ogni possibile risorsa offensiva avrebbe potuto vantare, nell’esserle stata negata la propria spada e nell’esserle stato negato persino il proprio braccio destro; la donna guerriero, alla vista di quel destino di morte così disteso tutto attorno a loro, in ogni direzione, non mancò di reagire e di reagire nell’approfittare dell’estemporanea distrazione del Progenitore per cercare di riguadagnare a sua volta l’abitacolo del caccia, e lì, quantomeno, di riservarsi una sempre più effimera, sempre più evanescente speranza di salvezza, nell’eventualità in cui Jol fosse riuscito, alfine, a far riprendere quel mezzo e a portarli via di lì entro qualche manciata di secondi. E se, pur, nelle sue vene e in tutte le sue membra, semplicemente straordinaria avrebbe avuto a doversi considerare la quantità di adrenalina presente, ad animarla, a sostenerla in quella situazione estranea a ogni umano limite; la stanchezza accumulata, le sfide che già aveva dovuto affrontare, nonché l’essersi, alfine, ritrovata privata persino del supporto della propria protesi meccanica, non avrebbero potuto definirsi in alcun modo d’aiuto per lei, rendendo quella che avrebbe avuto a doversi considerare allora forse la parte più banale di quella lunga giornata, qual una nuova, vera e propria impresa, innanzi alla quale aver a rischiare di non farcela…
… non nel considerare la posizione totalmente impropria del caccia e, in conseguenza a essa, la difficoltà obiettiva, per chiunque, ad accedere all’abitacolo.
… non nel riconoscere l’impedimento oggettivo proprio del doversi muovere in sola grazia ai propri piedi e alla propria mancina, trascinando seco il peso di un braccio artificiale che, allora, avrebbe avuto a doversi considerare soltanto un impedimento…
… non nel confronto con le continue scosse conseguenti all’incessante bombardamento che, sotto ai suoi piedi, non avrebbero potuto mancare a rendere l’effetto proprio di un terremoto, e di un devastante terremoto, nel confronto con il quale già mantenersi in posizione eretta non avrebbe avuto a doversi giudicare un’ovvietà, una mera banalità.
… non, ancora, nel non poter avere possibilità alcuna di difendersi da una nuova aggressione da parte del proprio antagonista, del Progenitore, il quale, evidentemente non dimentico di lei, per quanto fugacemente da lei distrattosi per comprensibile effetto di quanto attorno a loro aveva iniziato ad avvenire, non mancò di tentare nuovamente di aggredirla, e, questa volta, di imporle ineluttabile condanna, nel dirigersi come un lampo verso di lei, al fine, questa volta, di pretendere la vita di colei alla quale era stata offerta occasione di essere per loro un araldo, e che pur a tale occasione aveva superficialmente rinunciato nell’impossibilità a comprendere il senso di tanto onore, dell’incommensurabile valore di quella prospettiva assolutamente unica e irripetibile. E laddove, ella, non soltanto aveva rifiutato la loro offerta, ma anche, e ancor più, aveva scelto di schierarsi in maniera tanto apertamente avversa a loro discapito, al punto tale da rendere evidente il suo legame con quanto, lì, stava quindi accadendo; quella creatura, quel dio di luce, non avrebbe in alcun modo potuto concederle alcuna grazia, alcun perdono, null’altro bramando al di fuori della sua morte, fosse questo stato il suo ultimo gesto, il suo ultimo atto.
E se, in un solo battito di ciglia, egli non avrebbe mancato di esserle sopra, e di ucciderla sul colpo, nella di lei ormai evidente impossibilità a qualunque genere di difesa, gli eventi propri di quel fugace attimo di tempo, di quella frazione infinitesimale di eternità, ebbero a definire un ben diverso fato per la donna guerriero, per una volta tanto vedendole salva la vita non in grazia al proprio valore, al proprio coraggio, alla propria forza, quanto, e piuttosto, per una mera, fortunata, benevolenza della sorte, e della sorte che, proprio in quel funereo preambolo di morte, la volle vide graziata in un’inattesa, benedetta accensione di quei motori, dei motori del caccia, imponendole, con essi, una improvvisa, repentina spinta verso l’alto dei cieli a fronte della quale, là dove ella avrebbe avuto a doversi offrire al proprio antagonista, nulla rimase se non la sua ombra, una mera memoria della sua presenza in quel punto.

« … Th… » tentò di imprecare la Figlia di Marr’Mahew, sentendosi mancare il fiato dal corpo, non per un’effettiva carenza di ossigeno, assicuratole comunque dalla propria maschera, quanto e piuttosto per diretto effetto dell’accelerazione impostale.

Improprio, comunque, sarebbe stato allora negare alla donna dagli occhi color ghiaccio e dai capelli color del fuoco il merito della propria stessa sopravvivenza, riversando tutto il medesimo unicamente sull’improvvisa attivazione di quei motori e, con essi, sulla rapida presa di quota del caccia: ove, infatti, ella fosse stata passiva innanzi a tutto ciò, ove ella non avesse avuto effettivo ruolo nel definire la propria salvezza, probabilmente ella sarebbe lì morta sul colpo, e morta, se non per effetto dell’offensiva del Progenitore, quantomeno proprio in conseguenza a quel repentino movimenti del caccia, a quell’accelerazione improvvisa innanzi alla quale, riuscire a mantenersi precariamente aggrappata alle forme di quel veicolo in sola grazia ai propri nudi piedi e alla semplice mancina, non avrebbe avuto a doversi minimizzare nel proprio valore… anzi.
E se tutto, in quel particolare momento, era avvenuto in maniera praticamente subitanea, permettendo loro di allontanarsi tanto dalla minaccia del mostro di luce, quanto e ancor più da quella delle nubi di fuoco che, di lì a breve, avrebbero spazzato via ogni cosa; tale era occorso, in effetti, non tanto per esplicita volontà di Jol, quanto e piuttosto per un nuovo, imprevisto malfunzionamento nel caccia e, in particolare, nel suo sistema di navigazione, a confronto con il quale, con non ulteriore eccessiva evidenza di benevolenza nei confronti della stessa Ucciditrice di Dei, il suo domani avrebbe avuto a doversi ancor riconoscere sufficientemente dubbioso, un’incognita direttamente conseguente alla sua capacità, allora, di riconquistare, malgrado quanto stesse accadendo, l’abitacolo del caccia, prima che, in quell’ascesa, ella si potesse ritrovare ad ardere come una meteora, per effetto dell’attrito impostole dall’aria stessa.

venerdì 23 marzo 2018

2494


Invero, paradossalmente positivo avrebbe avuto a doversi intendere quel gesto, quella rapida ritirata innanzi alla sua spada, giacché, al di là dell’ancor ignota effettiva portata dei poteri di quell’essere, di quella creatura, una simile evasione, un tale impegno volto a ovviare alla traiettoria della sua spada, altro non avrebbe potuto essere intesa, interpretata, se non qual evidenza di una certa paura, di un certo timore, e un timore che sol avrebbe potuto conseguire, allora, alla consapevolezza di quanto negativi avrebbero potuto essere a propri discapito gli effetti di simile colpo, le conseguenze di un violento impatto di quella lama contro il proprio corpo, pur, apparentemente, di pura energia. Poiché, laddove paura avrebbe avuto a dover essere così intesa da parte sua, ineluttabile avrebbe avuto a dover essere parimenti riconosciuta la sua potenziale vulnerabilità, la poi non così ovvia sensibilità ai suoi attacchi, in termini tali per cui, allora, la donna guerriero non avrebbe potuto ovviare a riservarsi una qualche possibilità d’azione, o di successo, a suo discapito, vedendo così improvvisamente mutate le sue probabilità di sopravvivenza dallo zero assoluto a una percentuale forse comunque risicata, forse egualmente effimera, e pur, ciò nonostante, presente, e presente a garantirle una speranza per il proprio domani…
… o forse no.
Benché, inizialmente, quell’essere si fosse in tal maniera ritratto innanzi alla sua lama; il secondo, terrificante attacco a cui ebbe a sottoporla, cercando, nuovamente, di travolgerla con la violenza del proprio movimento, del proprio incedere e del proprio incedere contro di lei e in direzione del caccia, del quale doveva aver evidentemente compreso la funzione e al quale non desiderava concedere alcuna possibilità di fuga, non ebbe allora a riservarsi eguale timore nei confronti della sua arma e, al contrario, ne accettò tranquillamente l’intera lunghezza attraverso il centro del proprio petto solo per poter arrivare a lei e, lì, colpirla, e colpirla con violenza tale che, se soltanto ella non avesse sollevato per tempo il proprio destro a estrema difesa del suo viso, forse, probabilmente, l’intera testa le sarebbe stata letteralmente strappata dal corpo, qual effetto di quel montante, di quel brutale attacco fisico così a lei diretto qual chiara alternativa alla schermatura con la quale stava riuscendo a proteggere la propria mente.
Un colpo, quello che venne allora incassato dalla sua protesi, abitualmente rinvigorita da ogni qual genere di offensiva energetica, che, ciò non di meno, in quel frangente specifico, in quella situazione puntuale, ebbe, altresì, a vederla a sua volta danneggiata da tanta irruenza, tanta violenza, e, forse e ancor più, dalla tipologia specifica di quella particolare energia, del potere proprio di quell’aura luminose nel quale l’intero Progenitore sembrava essere immerso, se non, addirittura, costituito. E, così, in un semplice battito di ciglia, non soltanto la sua spada di cristallo ebbe a rivelarsi del tutto inutile innanzi a quella creatura ma, addirittura, il suo braccio destro, una fra le sue risorse più importanti, riuscì a garantirle ancora qualche istante di vita soltanto a caro prezzo: un prezzo pagato da tutti i servomotori al suo interno che, nel tentare di confrontarsi con quel mostro, ebbero a dover cedere, frantumandosi, letteralmente, all’interno dell’involucro metallico del suo arto e lì, quindi, lasciandolo ricadere inerme, trasformato, improvvisamente, in un mero peso per lei. E il solo aspetto positivo della questione, se tale avrebbe avuto a doversi considerare, ebbe a dimostrarsi essere l’evidenza di un estemporaneo allontanamento fra le parti, fra i due contendenti, sempre in conseguenza a quell’attacco, sempre in virtù di quella devastante offensiva, allontanamento che, in verità, ebbe a palesarsi qual reazione all’impeto contro di lei riversato, in conseguenza al quale ella fu sbalzata prima in aria, e poi a terra, a quasi quindici piedi di distanza all’indietro rispetto alla posizione inizialmente occupata, perdendo, in un sol istante, tanto il supposto controllo della situazione, quanto la sua arma.

« … Thyres… » gemette in un costretto sibilo, nell’essersi ritrovata estemporaneamente priva di fiato, e quasi di coscienza, ma nel porsi egualmente costretta a cercare di rimettersi immediatamente in piedi, per non divenire facile preda di quell’essere terrificante.

E se, qualche ora prima, ella aveva iniziato ad affezionarsi alla sua nuova lama di cristallo, nella maturata confidenza con la stessa e nelle sue rivelate doti, al punto tale da iniziare a volerla considerare giusto pagamento accessorio per il compimento della propria missione, della propria avventura; simile prospettiva, tale opportunità ebbe a essere repentinamente negata da parte del Progenitore innanzi a lei, nel momento in cui, egli, estraendola senza apparente sofferenza dal centro del proprio petto, là dove pur si era conficcata sino all’altezza della guardia, non esitò a ridurla in polvere, e a ridurla in polvere con un semplice passaggio della propria mano sopra di essa, forse, in tal semplice gesto, lì riversando una parte della propria energia, del proprio terrificante potere. Potere, il suo, che istante dopo istante, stava chiaramente crescendo, stava evidentemente aumentando sotto il necessariamente preoccupato sguardo della donna guerriero, in una curva di apprendimento che, di lì a breve, probabilmente lo avrebbe visto ritornare a quell’idea di divinità della quale lui e i suoi compari si erano impropriamente impossessati e che pur, nel confronto con l’evidenza di quanto avevano compiuto nel corso del tempo, la testimonianza del quale le era stata proiettata dritta nel cervello, non avrebbe avuto a doversi considerare così ingiustificabile, così assurda.
Ma se pur, allora, la creatura innanzi a lei avrebbe avuto a doversi considerare pari a un dio, ella era e sempre sarebbe rimasta l’Ucciditrice di Dei e, in ciò, nulla le avrebbe impedito di continuare a lottare, e a lottare fino allo stremo delle forze, e alla propria morte se necessario, per opporsi a quella creatura, e per opporsi a essa il tempo sufficiente a permettere…

« Sta iniziando! » risuonò la voce di Jol, questa volta non gridata ma, quasi, ringhiata nelle sue orecchie, trasmessa a lei attraverso il medesimo sistema di comunicazione con il quale era rimasta in contatto con Shope Trel, almeno sino a quando non si era immersa negli oscuri meandri di quel pianeta.

Un primo boato, al quale ebbe a seguire rapidamente un secondo, un terzo e molti altri, furono quelli che colmarono, quasi a immediata conferma di quelle parole, di quell’avvertimento, l’aria a loro circostante, facendo tremare il suolo sotto ai loro piedi e, per un istante, minando la già precaria postura di guardia della donna guerriero, la quale, ancora, stava rialzandosi da terra a seguito del colpo subito.
Boati i quali, attorno a loro, avrebbero potuto essere associati alla conclusione di molte linee che, sopra le loro teste, stavano iniziando ad affollare il cielo, prendendo di mira, innanzitutto, proprio quelle enormi statue, proprio quegli stolidi riferimenti allo straordinario potere proprio dei Progenitori, lì eretti in corrispondenza di ogni stanza sotterranea, di ogni rifugio che, là sotto, era stato creato per garantire la sopravvivenza di quelle genti, di quella popolazione di nauseanti autocrati, troppo pieni di sé, e in questo troppo stolidi, per riuscire a concepire quelle medesime statue, quei maestosi monumenti, quali i bersagli perfetti per un bombardamento dall’alto dei cieli, per l’azione allor imposta addirittura dall’orbita del pianeta con il solo scopo, con l’unico intento, di sterminarli e di sterminarli tutti prima del loro risveglio, prima della loro effettiva ripresa, ripresa a confronto con la quale, l’intero Creato avrebbe allor rischiato di non avere la possibilità di sopravvivere.
E se quei boati avrebbero potuto allor rappresentare, tanto per Midda quanto per Jol, l’imminente fine, nel poter essere travolti, di lì a breve, dalla pioggia di fuoco che da essi sarebbe derivata, a incenerire un pianeta già apparentemente desertico, egual destino, egual sorte avrebbe avuto a dover essere speranzosamente condivisa anche dal loro avversario, dal Progenitore lì schierato a loro condanna. Progenitore il quale, nel rendersi conto di quanto, allor, stesse accadendo, non ebbe a dimostrare indifferenza per gli eventi a sé circostanti, quanto e piuttosto una ben comprensibile rabbia, rabbia che venne quindi espressa in un nuovo, terrificante grido, l’intensità del quale, per un momento, parve persino superare quella dei boati crescenti attorno a loro…

« Jol… questo sarebbe il momento giusto per levare le tende! » suggerì la donna guerriero, gettando uno sguardo offuscato alle proprie spalle, per poter verificare lo stato del caccia e poter comprendere se almeno uno fra loro avrebbe avuto la possibilità di sopravvivere a tutto quello.

giovedì 22 marzo 2018

2493


« Dannata mucca da latte… vuoi darti una mossa, invece di star lì ad ammirare il paesaggio?! » la insultò Jol, nel rinnovato tentativo di mantenere alta la propria rabbia, la propria ira, laddove, in quel momento, in quel frangente, troppo semplice, troppo banale sarebbe stato cedere alla paura e, in ciò, permettere a quell’essere di raggiungere la sua mente ancor prima del suo corpo, condannandolo al pari dei suoi compagni, dei suoi amici.

Ma la donna guerriero, per tutta risposta, si limitò semplicemente a scuotere appena il capo e a estrarre la propria lama dal suo fodero, a sguainare la spada bastarda di cristallo con la quale si era accompagnata in quella nuova avventura, per prepararsi ad affrontare quell’antagonista, quell’avversario, nella quieta consapevolezza di quanto, forse, così facendo si sarebbe soltanto condannata a morte e, ciò non di meno, nella necessità di non esitare, di non sottrarsi a quella sfida, laddove, in quel momento, in quel frangente, qualcuno avrebbe dovuto farlo, qualcuno avrebbe dovuto affrontarlo, al fine di garantire la possibilità ad almeno uno fra loro di sopravvivere all’imminente distruzione di quel mondo.
Così, scendendo a sua volta dalla moto, ella non ebbe a dirigersi alla volta del caccia, quanto e piuttosto in direzione della creatura di luce, di quel mostro che, forse, avrebbe avuto a doversi riconoscere il medesimo individuo che si era divertito a entrare in contatto con la sua mente, e a riversarle addosso quell’orrendo flusso di coscienza, con l’arroganza di chi, da tutto ciò, si sarebbe persino atteso di poter essere ringraziato.

« Lurida cagna in calore… cosa diamine pensi di poter fare? Distrarlo con quella coppia di boe di segnalazioni che ti ritrovi appese al petto?! » insistette il suo compare, avendo probabilmente ben compreso le sue intenzioni e disapprovandole, nel ben intuire, anche, quanto quell’azione avrebbe avuto a doversi considerare pressoché suicida e nel non aver piacere, malgrado i conti in sospeso fra loro, a vederla sacrificarsi per lui « Fermati, accidenti! »
« Muoviti a mettere in moto quel dannato caccia, idiota che non sei altro! » replicò la donna guerriero, senza neppur voltarsi verso di lui e continuando, un passo alla volta, ad avanzare in direzione del loro comune nemico « Il nostro tempo è agli sgoccioli… »
« Maledizione a te! » inveì Jol, scuotendo il capo e costringendosi a continuare ad arrampicarsi lungo il caccia, per raggiungerne l’abitacolo « Se non avessi così tante ragioni per odiarti, dovrei innamorarmi di te! » ammise, abbassando appena la voce, quasi in una confidenza con se stesso, nel non poter ovviare a provare sincera stima per quella nemica, per quell’avversaria che pur, meno di un’ora e mezza prima, non avrebbe esitato a uccidere, e innanzi all’audacia e al carisma della quale, ciò non di meno, non avrebbe potuto restare indifferente, come molti altri prima di lui innanzi a una tanto mirabile figura.
« Ti ho sentito… » ironizzò ella, non potendo ovviare a inarcare appena l’angolo destro della propria bocca, in una smorfia divertita « … ma, mi dispiace per te, sono già impegnata con un uomo migliore di quanto non avrei mai potuto sperare di trovare. E, per quanto magari non lo dia a vedere, sono una donna fedele. »

Un nuovo, alto grido proruppe dalla direzione del Progenitore e, nel ben valutare quanto, ormai, l’impatto fra loro fosse imminente, Midda Bontor ebbe ad arrestarsi sulla rossa sabbia di quel mondo, allargando le gambe, piantando i nudi piedi profondamente nella sabbia sotto di sé e incrociando, innanzi al proprio corpo, al proprio busto, il braccio destro e, davanti a esso, la lama di cristallo, nel predisporsi, in tal modo, allo scontro, creando una sorta di scudo innanzi a sé, per arginare gli effetti più negativi dell’ormai ineluttabile aggressione dell’essere di luce.
Forse non sarebbe servito a nulla. Forse sarebbe morta sul colpo. O, forse, sarebbe stata in grado di rallentarlo, di fermarlo, concedendo a Jol quantomeno tempo sufficiente per raggiungere la cabina di pilotaggio e per tentare di riattivare quella navetta. Impossibile a dirlo. O, in effetti, impossibile a dirlo ancora per pochi, fugaci secondi…

« Thyres! » ruggì la donna guerriero, pronta al peggio.

L’impatto avvenne. E avvenne con un violenza quali poche, nel corso della propria pur avventurosa esistenza, ella avrebbe potuto vantare d’aver subito.
Forse, se al suo posto fosse stata un’altra persona, fosse stata un’altra figura, meno abituata a incassare colpi, meno abituata a confrontarsi con antagonisti dotanti di forza, resistenza o poteri disumani, quell’impatto avrebbe potuto rappresentare la sua subitanea fine, l’ingrata conclusione della propria esistenza. Ma laddove, nel corso della propria straordinaria vita, ella aveva avuto occasione di incassare un numero di colpi forse non poi così inferiore a quelli inferti, ed era caduta tante volte quante pur si era poi rialzata e aveva trionfato, la donna guerriero riuscì a gestire correttamente quella violenza, quella straordinaria energia, venendo sospinta all’indietro per oltre nove piedi, tale fu la lunghezza del solco lasciato nella sabbia, e, ciò non di meno, pur conservando la propria postura eretta, pur mantenendo quella guardia e, con essa, la possibilità di continuare a respirare, a vivere, pur necessariamente e comprensibilmente provata da tutto quello.
In quell’impatto, in quel colpo, al disumano grido di quella creatura si ebbe a frammischiare un potente ruggito emerso dal profondo della sua gola, un urlo non volto a dar eventualmente sfogo alla sua paura o al suo dolore, quanto e piuttosto atto a enfatizzare il suo spirito guerriero, a cercare di dimostrare a chiunque, uomini e dei, immortali e mortali, quanto ella lì fosse e lì desiderasse continuare a essere, in quel frangente e per molto tempo ancora a venire, a dispetto di qualunque ipotesi in senso opposto. E quell’urlo, quel grido, con il quale la mercenaria volle imporsi all’attenzione dell’intero Creato qual l’unica artefice, l’unica padrona della propria vita, del proprio destino e della propria autodeterminazione, non ebbe a scemare per tutta la durata di quel violento contatto, della spinta che, così, la vide costretta a trascinare i propri nudi piedi in quella rossa sabbia, fortunatamente abbastanza fine, sufficientemente soffice, da non vederla necessariamente privata della pelle sotto le piante, benché, pur, certamente nulla di tutto quello ebbe a divertirla, ebbe a compiacerla.
Ma laddove dolore ella ebbe a provare, dolore fu anche quello che non volle mancare di riservare alla controparte, a quell’umanoide di quasi due metri di altezza che, in suo contrasto era lì sopraggiunto con il suo bagliore accecante, con la sua imperiosa potenza, e al quale, tuttavia, nessun attacco ebbe lì a voler risparmiare, alcuna reazione ebbe lì a voler negare, sciogliendo con forza la guardia nella quale si era richiusa, per tentare di respingere il proprio nemico e, al contempo, per scagliargli contro un violento sgualembro dritto, dalla spalla sinistra al fianco destro, incerta di poterlo raggiungere, incerta di poterlo ferire, e pur, non per questo, meno che desiderosa di provarci…

« Muori, maledetto! » gli ordinò, ponendo in quell’attacco, in quella violenza, ancora una volta, non soltanto la forza del proprio mancino ma, anche, la violenza artificiale del proprio arto destro, della propria mano metallica, tornata a impugnare quella lama nella propria parte inferiore, più prossima alla guardia, per garantire a quella riscossa tutta l’energia per lei propria.

Purtroppo, sebbene la violenza e la precisione di quell’attacco avrebbero travolto chiunque, necessariamente condannandolo a morte e a una morte istantanea, non egualmente efficace ebbe a essere in quel frangente, contro quell’antagonista, il quale, con la medesima straordinaria velocità che per giungere a lei aveva dimostrato, non mancò di sottrarsi alla sua lama, lasciando sfogare quella straordinaria e letale traiettoria nel vuoto.

mercoledì 21 marzo 2018

2492


La discesa dalla statua fu decisamente meno impegnativa e più veloce rispetto a quanto mai Midda Bontor avrebbe potuto prevedere: diversamente rispetto a lei, Jol Nuema e i suoi compagni non avevano, infatti, affrontato quel percorso semplicemente a mani nude, ma avevano trasformato l’intera risalita in una via ferrata, disponendo lungo tutta la verticale della statua una comoda sequenza di passamano metallici utili a permettere loro di affrontare in sicurezza quella sfida, senza, in ciò, rischiare inutilmente l’osso del collo così come, forse spiacevole ad ammettersi, ella non aveva mancato di fare. Sfruttando, in tal maniera, le stesse funi e gli stessi passaggi da loro in tal maniera intelligentemente disposti, per la donna guerriero e per il suo nuovo alleato, discendere da quel colosso di pietra ebbe a essere a dir poco banale, permettendo loro di giungere rapidamente a terra e, lì, di ritrovare un’amplia scelta di mezzi antigravitazionali parcheggiati. Mezzi antigravitazionali, i loro, che certamente sarebbero stati utili per allontanarsi rapidamente da lì, ma che mai avrebbero potuto garantire loro una qualche occasione per violare i limiti dell’atmosfera e riconquistare lo spazio oltre i cieli, là dove, ad attenderli, sarebbero stati gli equipaggi di entrambi, tanto gli uomini al servizio del capitano Vaherz e della Jaco Milade, tanto quelli agli ordini del capitano Rifed e della Maele Libeth, estemporaneamente pacificati, nelle loro avversità, dal monologo loro imposto dalla Figlia di Marr’Mahew e, ancor più, dalla minaccia a loro discapito rappresentata dai Progenitori.
Per poter sperare di riconquistare lo spazio siderale e, lì, la salvezza prima dello scadere della mezz’ora concordata e prima che, di conseguenza, i due capitani esprimessero il fatidico ordine di trasformare quel pianeta in polvere stellare, riversando in suo contrasto tutte risorse a disposizione di entrambe le navi, Midda e Jol avrebbero dovuto, quindi, raggiungere una delle loro rispettive navette e, in grazia della medesima, abbandonare quel mondo maledetto. E per quanto, probabilmente, la scelta più logica, più ovvia, sarebbe stata per l’Ucciditrice di Dei affidarsi completamente al proprio nuovo alleato e alle sue risorse, scegliendo, in ciò, tanto l’impiego del suo mezzo antigravitazionale, tanto di una delle diverse navette da sbarco con cui lui e i suoi compagni lì si erano sospinti; una rapida verifica della strumentazione da parte del medesimo Jol ebbe a rivelare quanto, in maggiore prossimità a loro, avrebbe avuto a doversi considerare proprio il caccia con il quale, altresì, lì erano sopraggiunti i due esponenti dell’equipaggio della Jaco Milade, incredibilmente scoperta a una distanza indubbiamente inferiore rispetto a quella che la Figlia di Marr’Mahew avrebbe potuto testimoniare esistesse. Cercare, allora, di comprendere se davvero la chiave di Mesoolan l’avesse condotta in un giro tanto assurdo fra le statue tale da farle perdere completamente ogni riferimento nel merito dell’effettiva posizione di partenza o, piuttosto, se, in sua assenza, fosse stato il defunto Shope a decidere di muoversi di lì, magari nel tentare di accorciare le distanze fra loro esistenti, in un’indagine pur utile a sanare eventuali dubbi propri della stessa mercenaria a tal riguardo, non avrebbe comunque e in verità offerto alcun margine di reale guadagno per loro, ragione per la quale, allora, né l’una, né l’altro, ebbero a voler perdere inutilmente altro tempo nel disquisire nel merito del perché o del per come, limitandosi, semplicemente, a rendere grazia ai propri dei per la benevolenza in ciò dimostrata e, immediatamente, saltando a bordo della moto antigravitazionale con la quale ella era sino a lì giunta per poter, allora, fare ritorno al caccia, alla maggiore velocità loro possibile.
In verità, comunque, nel merito della sorte del caccia ebbero a palesarsi maggiori informazioni di lì a breve, quando, ormai a pochi, pochissimi minuti dal termine del tempo concordato con i loro capitani, i due ebbero a raggiungere la propria destinazione, trovando il proprio mezzo di fuga scompostamente conficcato nel rosso terreno sabbioso di quel pianeta, lontano da qualunque statua: a prescindere dalle ragioni che potessero averlo sospinto a riprendere il volo, apparve allor chiaro quanto Shope dovesse aver effettivamente mosso il caccia rispetto alla posizione originale, salvo, poi, non avere la possibilità di condurlo fino alla propria destinazione, qualunque essa avrebbe desiderato essere, né, tantomeno, riservandosi occasione di un atterraggio realmente definibile qual tale, nello schiantarsi rovinosamente a terra con tutta la navetta...

« Thyres… » imprecò la Figlia di Marr’Mahew, improvvisamente non riuscendo più a distinguere, in tutto ciò, una qualche benevolenza divina, quanto e piuttosto l’ennesima beffa del destino che, in loro contrasto, in quella situazione già in alcuna maniera fraintendibile qual gradevole o serena, si era allor impegnato a ostacolarli, e a ostacolarli in una maniera tanto plateale da apparire persino grottesca.
« Dannazione… questo non ci voleva. » confermò Jol, guidando la moto ad avvicinarsi rapidamente al caccia e ad atterrare lì accanto, per minimizzare i loro eventuali tempi di trasbordo da un veicolo all’altro, nell’ipotesi ormai tutt’altro che ovvia che ciò potesse ancor avere un qualche significato « Dobbiamo solo sperare che i sistemi di propulsione e di navigazione non si siano danneggiati… o fra pochi istanti moriremo insieme a questo pianeta. »

A rendere, tuttavia, ancor più grottesca la loro situazione, come se tutto quello non avrebbe avuto a doversi considerare già più che sufficiente a tal riguardo, prima ancora di poter mettere i piedi a terra e, in ciò, di potersi avvicinare al caccia per verificarne l’integrità; un agghiacciante suono ebbe a straziare le loro orecchie, in quello che, allora, avrebbe avuto probabilmente a doversi intendere qual un grido o quanto di più possibile simile a esso, per quanto, chiaramente, privo di qualunque parvenza di umanità.
Un suono, un grido, che, nella desolazione propria del paesaggio e di ogni orizzonte attorno a loro, ebbe a potersi lì ricondurre a una sagoma ancor lontana, e pur in evidente, rapido avvicinamento a loro: una sagoma umanoide, dotata di braccia e gambe, di testa e corpo, e, ciò non di meno, certamente non umana, al pari del grido da essa proposto, nel dimostrarsi allor contraddistinta da un’innaturale aura di luce, un’aura emessa dal suo stesso corpo, quasi, esso, fosse costituito dello stesso materiale delle stelle o, forse, di pura e semplice energia.
E se, in quel deserto, Midda Bontor aveva già avuto occasione di porsi a confronto con un inquietante mostro, quello da lei soprannominato quale squalo delle sabbia, la natura del quale, tuttavia, non era poi stata chiarita; immediato fu comprendere quanto quell’umanoide furioso non avrebbe avuto a dover essere frainteso qual la medesima creatura, quanto e piuttosto qualcosa di ancor più pericoloso, di ancor più letale…

« Sono loro. » ringhiò a denti stretti la mercenaria, non avendo a riservarsi esitazione alcuna nel merito dell’identità di quella creatura « Sono i Progenitori. »
« Misera ladra. » gemette Jol, non maggiormente sereno di quanto non avrebbe potuto dirsi ella nel confronto con quell’immagine, con quella figura, per loro ormai equivalente all’idea stessa della morte, e di una morte che, francamente, avrebbero preferito ovviare ad affrontare « Dobbiamo sbrigarci… » insistette poi, dimostrando, in tutto ciò, un ottimo senso pratico al di là del proprio pessimo gusto in fatto di acconciature e, in tal maniera, non esitando a scendere dalla moto e a correre in direzione del caccia, deciso a non riservarsi occasione di un confronto diretto con simile mostro.

Ma se pur il suo compagno ebbe allora a palesare un sempre ottimo spirito di autoconservazione, qual solo in quel momento avrebbe potuto essere loro d’aiuto, Midda Bontor, la Figlia di Marr’Mahew, l’Ucciditrice di Dei, pur assolutamente cosciente di sé, e pur tutt’altro che desiderosa di morire in quel luogo, su quel pianeta, non poté ovviare a restare a osservare il proprio lontano avversario, per studiarne meglio non soltanto l’aspetto, quanto, e piuttosto, il movimento, quel rapido approccio a loro discapito che, loro malgrado, lo avrebbe visto raggiungerli ben prima di quanto, anche nella più rosea delle ipotesi, Jol sarebbe stato in grado di rimettere in funzione il caccia, per portarli via da lì…