11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

sabato 28 febbraio 2009

415


« E’
una piovra… una dannata piovra gigante! »

Per quanto incapace a comprendere realmente quanto offerto al mio sguardo, nonostante l’identificazione appena concessami, la mia mente riuscì lo stesso a seguire l’azione, la battaglia in corso, non più nei confronti del mare, nemico divino e forse invincibile nel proprio essere inviolabile, ma contro una piovra, come l’aveva definita Lasim, un essere, un animale apparentemente fatto di carne ed ossa e, per questo, mortale, fattibile di danno e di sconfitta. Nonostante simile pensiero, il mio corpo e il mio cuore non poterono evitare di essere dominati dalla paura più folle, costringendomi ad essere, al contempo, repulso ed attratto dal pericolo proposto innanzi a me. Alcun genere di pensiero mi fu concesso di formulare, né per la fuga né per la lotta, né per la resistenza né per la ribellione: come se mi fosse stato negato il controllo sul mio corpo, quasi il mio spirito fosse stato sbalzato fuori dal medesimo, non potei che restare immobile ad osservare l’evolversi degli eventi, con la consapevolezza propria di un condannato a morte innanzi al patibolo, al boia.
L’equipaggio del brigantino, al contrario, non si poté concedere lo stesso stupore sovrastante in me, laddove nella propria posizione, nell’esposizione all’azione di quelle specie di serpenti ricoperti di ventose, la loro vita sarebbe stata posta in dubbio, la loro stessa esistenza minacciata: sotto l’incitamento del capitano, essi si mossero pertanto ad estrarre le proprie armi, per dichiarare guerra al loro avversario, nel mentre in cui esso, per nulla impressionato da tale reazione, spinse ancora le proprie mira, i propri attacchi, nei loro confronti, spazzandoli come semplici insetti, quasi fossero minuscole ed indifese formiche in paragone alla sua mole.

« Quei… cosi… sono devastanti… » sussurrai, senza neppure rendermi conto di aver espresso verbalmente tale pensiero, simile opinione.
« Sono tentacoli… » riprese il cambusiere, ottenendo nuovo controllo sul proprio corpo nel superare lo sbalordimento iniziale ed, in ciò, cercando di trarmi ancora indietro, lontano da quel mortale pericolo, per un istinto quasi paterno « La piovra ne ha otto ed attraverso essi può muoversi nell’acqua e sul terreno, esplorare il mondo a sé circostante e catturare le proprie prede, le proprie vittime… in questo caso noi! »

Più delle grida offerte da Djohva, però, qualcosa di diverso parve, al mio giudizio forse parziale, animare i cuori dei figli e delle figlie del mare in contrasto al loro antagonista, a quella minaccia imposta sulle vite di tutti noi: la presenza di Midda Bontor.
La mercenaria, invero, era stata la prima a reagire alla nuova minaccia, a sfoderare la propria spada bastarda, con la lama dagli azzurri riflessi forgiata in una lega tanto rara quanto preziosa, per opporsi al mostro, nonostante l’incredibile possanza del medesimo, imprecando il nome della propria dea e gettandosi a testa bassa in quella nuova prova, nell’ennesima sfida posta innanzi al proprio cammino. Temprata da avventure spesso al di là di ogni umana comprensione, protagonista di ballate epiche al punto tale da essere quasi impossibili da credere, da accettare, ella aveva in quel pericoloso e mortale frangente tenuto fede alla propria nomea, al titolo di Figlia di Marr’Mahew, dea della guerra, conquistato nelle isole ad occidente di Kofreya, saettando agilmente sul ponte della nave per respingere ogni tentativo di offesa, tentando a sua volta di imporre dolore e morte contro i tentacoli della piovra, troppo grandi, troppo rapidi, troppo forti per non mietere nuove vittime fra l’equipaggio della S’Ash. Ma, sebbene l’impegno della donna guerriero non avrebbe potuto trovare pari, per quanto il suo carisma avesse coinvolto ognuna delle persone attorno a lei quasi come un fiume in piena, trascinandoli nella furia di quella battaglia, alcun colpo offerto dalle armi dei presenti sembrò in grado di offrire pena all’avversario, anche solo ferendolo superficialmente: i tentacoli, guizzanti, assorbivano ogni fendente, affondo o altro attacco loro offerto, senza riportare il benché minimo danno ed, al contrario, imponendo morte ad ogni proprio passaggio.

« Sembra invincibile! » gemetti, voltandomi verso Lasim alla ricerca di un sostegno da parte sua, quasi egli potesse offrirmi una chiave di lettura per quegli eventi tanto tremendi.
« Ne ho cucinate molte, ovviamente di dimensioni inferiori a questa… e la loro pelle si è rivelata sempre estremamente elastica, capace di respingere anche la lama di un coltello ben affilato. » spiegò, rinunciando in quelle parole nel desiderio farmi rientrare nel sottocoperta ma continuando a trattenermi, per evitare che potessi gettarmi nella mischia esterna in conseguenza a qualche colpo di testa « Date le dimensioni di questo mostro, temo che tutti i nostri arpioni, le nostre spade, possano rivelarsi inutili… »

Nel mentre di quelle parole, però, quasi esse potessero essere state da lei percepite, Midda si mosse con velocità e coordinazione perfette nel caos della tempesta e della battaglia, raggiungendo un tentacolo in rapido movimento sulla superficie del ponte: la spada, con un’armonia d’incredibile e tremenda bellezza, roteò attorno ai suoi fianchi, sollevandosi verso il cielo e mostrandosi per un fuggevole istante impugnata da entrambe le sue mani, salvo poi precipitare con decisione ed impeto contro il proprio obiettivo, rivolgendo ad esso la punta affilata. E a voler negare quanto temuto da Lasim, quanto da egli espresso, la pelle e la carne della creatura cedettero sotto l’impeto di quel colpo, nonostante tutta la propria elasticità fino a quel momento utile a concedergli immunità, vedendo il freddo metallo della lama penetrare in simile abominio, trapassandolo da parte a parte ed andando a conficcarsi, addirittura, nel legno della nave sotto di esso.
« Sì! » gridai, entusiasta, esultante nell’aver assistito a simile scena, laddove essa parve offrire finalmente un bagliore di speranza nelle folli tenebre di quel momento.

Purtroppo le ragioni di gioia, in me, non perdurarono a lungo: la piovra, infatti, non accettò quel danno, quell’offesa dal sapor di blasfemia nei confronti di se stessa, creatura dei mari, dominatrice di quelle lande all’interno delle quali noi eravamo intrusi, stranieri, invasori: sorprendendo chiunque, inclusa la mercenaria, essa dilaniò con violenza le proprie stesse carni per liberarsi dal blocco impostole dalla spada, lasciando la medesima, grondante di brandelli del proprio essere, infissa nel legno della nave e, contemporaneamente, scaraventando il proprio tentacolo ora libero in opposizione all’avversaria.

« No! » gridai, spaventato, sconvolto nell’aver assistito a simile scena, laddove essa parve definire la conclusione di ogni sogno, il termine di ogni possibilità di vita.

Ora inerme nei confronti del mostro, la donna guerriero venne trascinata in cielo sotto il mio sguardo, quasi fosse stata una bambola di pezza priva di vita: attoniti, tutti i marinai della S’Ash restarono bloccati, non diversamente da quanto lo ero io già da lungo tempo ormai, nell’osservare quella scena, quell’immagine, increduli che potesse essere reale, rifiutandola nel significato altrimenti celato in essa. E anche la voce del capitano, posto in prima fila fra i propri uomini a combattere con non meno vigore, con non meno furia di quanto non avesse fatto la mercenaria fino a quel momento, si zittì, quasi in dubbio sulla possibilità di offrire ancora incitamento, sull’utilità di spronare nuovamente gli uomini e le donne al proprio servizio dopo già tante perdite. Fortunatamente, però, simile affrettato giudizio, nei suoi riguardi, venne immediatamente negato laddove, con nuova enfasi si impose di non permettere a nessuno, se stesso in primo luogo, di accogliere inerme una fine forse già scritta.

« Se dobbiamo morire, lo faremo dimostrando a tutti gli dei del mare il nostro valore, non la nostra pavidità! » ruggì egli, gettandosi nuovamente all’attacco « Non permettiamo che il nostro nome possa essere dimenticato, non permettiamo che le nostra gesta possano cadere nell’oblio: abbiamo affrontato la vita lottando… affrontiamo anche la morte nello stesso modo! »

Fu allora, nel mentre in cui quell’inno alla vita ed alla battaglia venne proclamato, nel mentre in cui il mio sguardo non si arrendeva nel cercare di spingersi al cielo ed al mare per individuare la mia padrona, che la più folle ed assurda idea della mia intera esistenza trovò ragion d’essere, incarnandosi in un fulmine, in una scarica divina piombata dal cielo a colpire l’albero maestro della nave, infrangendolo ed incendiandolo in quella notte oscura.

venerdì 27 febbraio 2009

414


S
e assistere a distanza agli effetti di una tempesta in mare, osservando l’infuriare degli elementi protetti dalla solidità di un terreno sotto i propri piedi e, meglio ancora, di mura e un tetto attorno al resto del proprio corpo, era stata già vissuta da me quale un’esperienza terribile, esserci dentro, sperimentando la violenza della stessa sulla mia stessa pelle, si pose quale una sensazione indescrivibile e stravolgente.
Il mio malessere nei confronti del mare, quella reazione spontanea di disagio nel mostrarmi innanzi ad esso che mi aveva dominato fin dal nostro primo incontro, sembrò svanire nel momento in cui ebbi conferma dei miei sospetti, delle mie paure, facendo capolino sul ponte della nave ed studiando con occhi sbarrati il mondo attorno a me, la realtà improvvisamente divenuta avversa ad ogni umana esistenza, forse al concetto stesso di vita. Ciò che stava avvenendo non avrebbe potuto che negare qualsiasi genere di sensazione, qualsiasi emozione, annichilendo ogni cosa in sé, nel proprio caos, puro, semplice, quasi metafisico ancor prima che fisico: come un profondo taglio nella carne potrebbe far dimenticare il fastidio dovuto da una scheggia nel dito, così ciò che allora, e anche ora in effetti, mi circondava non poté che farmi scordare ogni altro male. Da sempre avevo sentito parlare di dei, di esseri superiori, privi di origine e di conclusione, in grado di giostrare con le vite dei mortali senza limiti, per gioco o per capriccio, per divertimento o per rabbia: solo in quel momento iniziai a credere alla loro esistenza, a ritenere possibile, innegabile anzi, che qualcuno ineffabile ed immenso fosse attorno a noi, sopra di noi, ed avesse comandato la rivolta di quelle acque, quella landa placida ed accogliente che per tanti giorni ci aveva visto serenamente navigare lungo le proprie vie impossibili da segnare, i propri sentieri invisibili eppur da sempre esistenti.
Molte furono le percezioni sensoriali che mi colpirono su più fronti, stordendomi, frastornandomi, confondendomi: il frastuono delle onde, divenute gigantesche, contro il legno della nave, le grida del capitano verso i suoi uomini e il rombo del tuoni spezzare ogni altro suono; la luce abbagliante di violenti lampi imporsi nel cielo e le immagini confuse di quaranta, fra uomini e donne, impegnati per la propria sopravvivenza; il freddo dell’aria mischiato all’umidità dell’acqua infrangersi sul mio volto e sulla mia pelle e il sapore della salsedine del mare riempirmi la bocca, essiccandola. Confuso e spaventato mi proposi quale spettatore inerme nei confronti con un tale teatro, non sapendo cosa poter pensare, ancor prima di qualsiasi dubbio d’azione, di parola.
In tale turbine, incontrollabile, fu una mano forte, ferma, a stringermi al braccio destro, sopra al gomito, per riportarmi a contatto con il mio stesso corpo, con la mia intera vita, prima che la follia potesse cogliermi.

« Cosa ci fai qui, ragazzo?! » domandò la voce di Lasim, raggiungendomi ancor prima del suo volto, nell’emergere dalle tenebre del ventre della nave.
« Io… non capivo… cosa stesse accadendo. » balbettai, incerto sul riuscire ad offrire realmente fiato a tale risposta, quasi colto in imbarazzo da simile questione come se egli mi avesse sorpreso in un luogo proibito.
« Il vecchio Tarth non è dell’umore migliore oggi. » rispose egli, tirandomi indietro, lontano dal ponte della nave « Ed un mozzo come te dovrebbe stare al suo posto in momenti come questi, prima di farsi male o, peggio, far del male a qualcun altro… »

Gli ordini del comandante della nave, nel contempo, non si arrestavano, risuonando in sincronia con quelli del suo secondo, per coordinare le azioni dell’equipaggio nel volersi opporre alla furia del mare, alla potenza delle onde, mantenendo il controllo della nave contro ogni parere contrario e, possibilmente, guidandola senza eccessivi danni al di fuori di quell’incubo. E quelle voci, per quanto fossi terrorizzato, non vennero ignorate dalle mie orecchie, dalla mia mente, non furono isolate ed annullate quanto, invece, ascoltate. Ero consapevole dei miei limiti, ero conscio di quanto non sarei potuto essere utile insieme agli altri, ma una parte di me non poté evitare di farsi coinvolgere dal carisma di quegli uomini, dalla fierezza di tali animi, tanto da farmi desiderare essere insieme agli altri là fuori: un’assurdità, ovviamente, nel momento in cui, in giorni di quiete, non ero in grado di fronteggiare quella medesima superficie.

« Tu perché… sei qui? » chiesi, stupidamente, senza riflettere neppure sul significato di simile domanda salvo, immediatamente dopo, accorgermi della mia stolidità e rimproverarmi per essa.
« Purtroppo ciò che sarebbe stato in mio potere di fare, è stato fatto anni or sono… » commentò, ora comprensibilmente cupo nei propri toni nel pensiero della propria infermità « E’ meglio che tu ed io restiamo tranquilli nella cambusa… la S’Ash ha affrontato situazioni anche peggiori. » aggiunse, non ammettendo evidentemente più repliche, nel trarmi verso il corridoio del sottocoperta.

Ma, proprio nel mentre in cui la ragione sembrò tornare a controllare il mio corpo, a comandare sulle mie membra, offrendo ascolto alle parole del mio amico e negando definitivamente qualsiasi assurdo desiderio di uscire allo scoperto, quella tempesta rivelò inaspettatamente un tragico risvolto, una terribile evoluzione, tale per cui nessun glorioso passato avrebbe potuto competere con essa, nessun pericolo già affrontato avrebbe potuto considerarsi inferiore.
Fu il grido straziante di un uomo a distrarmi, ad attrarre il mio sguardo verso il complesso quadro esterno, per cercare di comprendere le ragioni del medesimo, in quell’insana curiosità che spinge una persona, anche vile e tutt’altro che votata ad azioni eroiche, ad interessarsi del dolore, della sofferenza dei propri simili non nel desiderio di prestare loro soccorso o, sadicamente, di goderne, quanto per un istintivo richiamo verso la morte, una ricerca di confidenza con essa anche e soprattutto nel confronto con il proprio prossimo. Per un istante avvertii la stretta di Lasim crescere nella propria intensità, quasi volesse impormi un maturo rispetto verso la vittima di una non piacevole sorte o quasi volesse evitarmi spettacoli a cui, ingenuamente, egli poteva pensare la mia giovane età non avrebbe dovuto avermi concesso di assistere, dimenticando come fossi nato e cresciuto nella città del peccato ed, in ciò, fossi stato a contatto con la morte violenta fin da quegli anni per altri considerati innocenti. Ma ciò che, né lui né io, l’uno nell’evitare e l’altro nel ricercare simile immagine, avremmo potuto immaginare, sarebbe stato lo spettacolo a cui invece fummo costretti ad assistere, nel vedere il corpo di Josam, un marinaio praticamente mio coetaneo, sollevato di prepotenza dal ponte della nave: non in virtù dell’impeto dei venti, non in conseguenza della violenza delle onde, quanto per la forza dirompente ed assassina di un enorme mostro, una sorta di orrendo serpente marino.

« Tarth… » sentii sussurrare il mio compagno di ventura, con reverenziale timore, nel mentre in cui la sua presa attorno al mio braccio si concesse ora più leggera, quasi inesistente in naturale reazione nei confronti di quella visione che, naturalmente, lasciò tutti stupefatti e spaventati.

Circondato dalle spire di quella creatura mostruosa, il giovane tentò vanamente una qualche opposizione. Per quanto confuse le immagini di simili istanti giunsero ai miei occhi spalancati per il terrore, colsi il movimento ripetuto di una mano, armata con un uncino metallico, contro l’aggressore: a nulla, però, servì tale sforzo, quasi l’epidermide di quell’essere fosse impenetrabile, impossibile anche solo da scalfire, ed in reazione a quella speranza di libertà, di difesa dal sopruso offerto dagli dei contro un semplice mortale, il serpente rispose senza alcuna pietà, senza alcuna compassione, rafforzando la propria stretta attorno a quelle membra al punto tale a spezzare letteralmente la sua vita, trascinandolo poi inerme verso il mare, verso le tenebre tempestose attorno alla nave.
In quel frangente, nel mentre in cui l’orrore stava già invadendo il mio animo all’idea dell’assurda morte a cui avevo appena assistito, così lontana da tutto ciò a cui ero stato abituato, scorsi nel cielo innanzi a noi altri serpenti simili al primo, altre creature identiche ad esso, pronte a gettarsi senza pietà su tutti noi, su ogni uomo o donna presente a bordo del brigantino. E fu proprio allora che la mia ignoranza venne colmata dalla voce di Lasim, sempre a me vicino, pronta nell’aiutarmi a comprendere la reale natura di ciò che, in mancanza di meglio, avevo giudicato essere un rettile marino, per quanto strano, per quanto reso deforme da una doppia fila di enormi ventose poste regolarmente nella lunghezza del proprio corpo.

giovedì 26 febbraio 2009

413


R
estai in silenzio di fronte a quell’affermazione. Se da un lato ero incredibilmente felice di aver, per la prima volta, trovato qualcuno con cui aprirmi completamente, con cui condividere la mia collezione senza timori o remore, negando ogni pentimento in tal senso, dall’altro canto quelle sue ultime affermazioni, quel suo non voler accettare la minimizzazione dell’importanza offerta nei confronti dei miei sassi e della conoscenza sugli stessi, mi lasciava sinceramente del tutto interdetto. Ai miei occhi risultava assurdo che un uomo dell’esperienza di Lasim, qualcuno che aveva vissuto una vita sicuramente avventurosa, che aveva maturato una consapevolezza nei riguardi del mondo a cui io forse non sarei mai giunto, potesse ritenere importante ciò che tutti gli altri avrebbero giudicato inutile, idiota…

« E’ inutile che mi mostri quell’espressione, ragazzo. » continuò egli, forse intuendo i miei pensieri in quel mentre « Ragiona per un solo istante su quanto hai appena detto: un uomo, uno studioso veramente colto, ha condiviso con te la sua erudizione sulle pietre, sui sassi… dottrina che egli stesso, quindi, aveva quale propria. Ma se fosse stata realmente una conoscenza inutile, come ora sostieni, credi che una simile figura si sarebbe interessato ad essa? »

In meno di un’ora, non potei che sentirmi nuovamente e assolutamente stupido per aver supposto il falso nei confronti del mio nuovo amico. Il concetto da lui così esplicitato, in quelle parole, si proponeva non solo razionale ed inoppugnabile, ma tanto elementare da pormi in un confronto evidente con i miei limiti, con le mie barriere psicologiche: pur collezionando sassi da anni, pur avendo fatto di essi una vera e propria filosofia di vita, quasi una fede personale, pur conoscendoli meglio di quanto non conoscessi me stesso, nella loro natura, nelle loro qualità, nelle loro proprietà, non ero poi stato oggettivamente migliore rispetto a mia madre nel giudicare tutto ciò come inutile.
Lasim aveva pienamente ragione ed, in conseguenza di quel dialogo, di quella conversazione successivamente mai più ripresa, non poté evitare, in me, nella mia mente, di guadagnarsi un posto di merito accanto a tutte le altre figure che, nella mia vita, erano state dei maestri, delle guide, mostrandomi un cammino nel quale potermi inoltrare ed aiutandomi a percorrerlo. E lui, più di chiunque altro, per quanto poco ancora potessimo conoscerci, per quanto apparentemente superficiale potesse essere il rapporto instaurato in pochi giorni di convivenza a bordo della stessa nave, era riuscito a colpirmi a fondo, non tanto offrendomi chiarezza su ciò che avrei potuto o voluto diventare, ma su ciò che, al contrario, già ero.

Per gli dei… ammesso che esistano… il mio tempo ormai sta venendo meno.
Speravo di poter morire come chiunque altro, in una maniera degna, concludendo questo viaggio nella mia vita, nel mio passato… ma mantenere un minimo di lucidità è sempre più difficile. E’ sempre più duro…

Il viaggio della S’Ash proseguì sereno e per lunghi giorni fu il mare a circondare, quietamente, il brigantino, accogliendolo docile nel proprio abbraccio, sulla propria superficie, fra le proprie leggere onde. Conscio dei miei limiti, mi impegnavo a ridurre le uscite sul ponte della nave al minor numero possibile, trascorrendo la quasi totale integrità delle mie giornate sotto coperta, nella cambusa, in compagnia di Lasim. Le poche occasioni in cui mi sono spinto, pavidamente, a rivedere il cielo ed il mare, nel corso del viaggio stesso, mi sono purtroppo costate decisamente care, vedendo nuovamente le mie viscere ribellarsi a simile scelta e imponendomi la necessità di ripetere il trattamento curativo in tal senso, un’amara medicina quella offertami dal cambusiere, ma impossibile da evitare nella volontà di ritrovare contatto con la realtà.
Naturalmente non mancai mai di approfittare dei numerosi scali, le necessarie soste offerte da isole più o meno importanti del vasto arcipelago tranitha, per uscire all’aria aperta, a ritrovare il gusto del contatto con un suolo stabile, immobile, privo del continuo beccheggio a cui, comunque, ero riuscito ad abituarmi. Non essendo, quello della nave, un viaggio programmato all’esclusivo scopo di condurre la mia signora ed io a destinazione, la rotta seguita nel corso della navigazione non si presentò quale la più diretta per raggiungere la meta desiderata dalla mercenaria, l’isola nella quale i suoi compagni erano trattenuti prigionieri: al contrario venne proposto un itinerario decisamente esteso, variegato nelle proprie scelte direzionali, atto a permettere il contatto con il maggior numero di tappe utili all’assolvimento dei compiti mercantili dell’attività primaria dell’attività del capitano e del suo equipaggio. Acquistare la fedeltà assoluta del brigantino e degli uomini e delle donne a bordo di essi per un viaggio più rapido, rivolto unicamente all’obiettivo finale che ella si era imposta, avrebbe comportato per la Figlia di Marr’Mahew un esborso assurdamente più elevato, e praticamente improponibile, di quanto altresì concordato per un semplice passaggio come quello attualmente offertoci.
Fino ad oggi, comunque, sebbene non abbia avuto modo di superare il mio conflitto fisico con il mare, il malessere procuratomi dal medesimo, non avevo avuto ragione di temere o odiare particolarmente quell’infinità azzurra, finendo al contrario per non comprendere le ragioni in virtù delle quali esso potesse aver maturato una tanto tremenda fama nel corso del tempo, un sì terribile giudizio da parte di coloro che non ne fossero stati figli, e convincendomi in ciò che essa fosse semplicemente derivata dall’ignoranza, dalla diffidenza, dall’incomprensione.
Fino ad oggi, appunto…

Nel momento stesso in cui ho aperto gli occhi, questa mattina, ho avvertito qualcosa di molto diverso rispetto al solito. I rumori della nave, i cigolii del suo legno, il ritmo delle onde contro il suo scafo, sembravano essere completamente mutati, cambiati rispetto a tutto ciò con cui avevo avuto occasione di raggiungere un certo grado di confidenza. Non era stato semplice imparare a prendere sonno con un simile concerto d’accompagnamento, ma una volta assuefatto a tutto ciò, immediato ed allarmato fu altresì il risveglio nel momento in cui l’intero ambiente attorno a me si propose diverso. Ed in effetti, anche se non avessi già ritrovato per mio conto contatto con la realtà, un beccheggio più violento, un colpo più forte incassato dalla nave, mi avrebbe costretto al ritorno alla coscienza, nell’enfasi di un’improvvisa spinta per colpa della quale ricaddi senza controllo sul pavimento sotto di me.

« C-cosa?! »

Una domanda la mia che, pur non volendo, finì per essere retorica, nel momento in cui, osservandomi attorno, mi accorsi di essere rimasto solo nella camerata, senza che alcuno fra gli altri venticinque membri maschili dell’equipaggio del brigantino fosse presente insieme a me in essa, come normalmente avveniva nell’assolvimento di una seria e programmata turistica per mantenere il controllo costante sulla nave e sulla sua navigazione. Prima che potessi pormi ulteriori dubbi su cosa fosse accaduto, un freddo contatto contro il collo mi fece accorgere di come la sacca con i miei sassi, le mie pietre, si fosse rovesciata ed il suo contenuto si fosse sparso attorno a me. Rapido, nella preoccupazione di poter perdere anche solo uno di quei miei ricordi, raggruppai nuovamente il mio tesoro, decidendo di non lasciarlo, come ero stato solito fare in quei giorni, incustodito lì sotto, venendo spronato in tale scelta sia dal timore di smarrire la mia collezione sia, sinceramente, dalla volontà di non rendere quelle pietre sparse una possibile ragione di danno laddove fosse passato uno dei miei compagni di viaggio dopo di me, inciampando o ricadendo maldestramente su di esse. Una valutazione fortunata, in effetti, quella che mi spinse a non separarmi in questo infausto giorno dalla mia collezione, laddove altrimenti ora starei morendo da solo, privato della mia stessa natura, della mia intera vita in essa rappresentata.
Sistemandomi con cura, in tal modo, la borsa a tracolla, tornai a prestare attenzione a quanto stava accadendo, al caos scatenatosi attorno a me nella violenza incontrollata del mare. Mi mossi verso l’uscita, verso il corridoio e la cambusa, nel desiderio di comprensione sugli eventi, sui fatti, ma al tempo stesso avendo atavico terrore verso gli stessi, nel dubbio psicologico e nella certezza emotiva di essere già in possesso di una simile consapevolezza, di sapere già cosa stesse accadendo.

mercoledì 25 febbraio 2009

412


E
, in effetti, lo diventammo.
A conti fatti credo che lo saremmo divenuti ugualmente anche senza il mio passato come garzone in una locanda, senza la mia conoscenza nel trattare il cibo: in effetti, anche quest’ultima si ritrovò ad essere presto praticamente priva di utilità, quando dovetti confrontarmi con il pesce fresco e tutti i variegati ed originali modi per prepararlo, da me completamente sconosciuti prima di allora. E, del resto, il carattere di Lasim, la sua schietta onesta intellettuale, il suo spontaneo modo di offrirsi al mondo, non avrebbero potuto evitare di conquistare l’animo e l’affetto di chiunque, ritrovando in lui un ottimo compagno di viaggio, un vivace interlocutore per occupare lunghe giornate altrimenti prive di qualsiasi possibilità di distrazione.
Il mio viaggio a bordo della S’Ash, fino ad oggi, giorno della mia morte, non è durato tanto, eppure credo di aver avuto più occasioni di parlare in questo periodo che in tutto il resto della mia vita. Neppure con Be’Sihl ero mai riuscito ad aprirmi fino a tale livello, nonostante tutto il rispetto e l’affetto nei suoi confronti, nonostante tutta la gratitudine che, comunque, non potrei mai mancare di tributargli per ciò che ha compiuto con me, per l’amico che ha saputo essere nei confronti di un semplice vagabondo raccolto per la strada: qualcosa purtroppo, forse un senso di soggezione, forse altro, mi aveva sempre impedito di confrontarmi liberamente con lui. Al contrario, nel ventre del brigantino, complice risultò sicuramente essere il particolare carattere del cambusiere, ma anche, e forse soprattutto, il cameratismo esistente fra i membri di un equipaggio come quello. Sentimento per me prima sconosciuto, ignoto, esso si dimostrò essere quale un filo conduttore fra tutti loro, un legame più forte del sangue stesso, fra chi per fato o per scelta si ritrovava a condividere un viaggio a bordo di una nave: in tale emozione, in simile rapporto umano, non potei che essere entusiasticamente coinvolto, trovando in esso ragione per apprezzare infinitamente l’occasione offertami da quell’avventura e, con ciò, forse anche la motivazione per la quale Midda aveva deciso di trascinarmi in essa pur consapevole dei miei limiti di non figlio del mare.

« A costo di sembrarti indiscreto… » esordì un giorno Lasim, nel mentre in cui giungevo alla cambusa per l’inizio del lavoro quotidiano « Potresti togliermi una curiosità che ho dal tuo arrivo? »

Nei giorni precedenti numerosi erano stati i dubbi a cui, reciprocamente, avevamo offerto soddisfazione, parlando in assoluta franchezza, senza timori di poter essere mal giudicati l’uno dall’altro come solo la vita su una nave avrebbe potuto concedere ed, anzi, sostenere con le proprie particolari regole non scritte, con le proprie norme comportamentali.
Io, fra le tante domande poste, avevo avuto ad esempio modo di scoprire le cause delle menomazioni del cambusiere, questione sicuramente delicata, forse altrove giudicabile inopportuna, ma lì tranquillo argomento di discussione quotidiana. A quanto mi raccontò, gamba ed occhio furono perduti, purtroppo, nella medesima situazione, in conseguenza di un brutto incidente avvenuto durante una violenta tempesta in mare. Simili circostanze, apparentemente paradossali, scoprii non essere così rare, così estreme come inizialmente avevo reputato nel confronto con la vita dell’entroterra: al contrario, egli mi spiegò come numerosi si pongono gli uomini ed, addirittura, le donne vittime di simili eventualità, di incidenti fortuiti o, peggio, conseguenti a scontri con predoni, tali da negare loro una parte del proprio corpo pur permettendone la sopravvivenza. Ed in questo, il mare infinito e mutevole, tanto temuto, tanto odiato dai miei pari, da chi come me era nato e cresciuto legato alla solidità della terra, mi apparve paradossalmente più magnanimo, più generoso, rispetto alla terraferma, al continente, almeno nei limiti della mia conoscenza del medesimo, là dove mai ad un uomo o, peggio, ad una donna sarebbe stato concesso di sopravvivere nella negazione di un braccio o di una gamba, neppure impiegandosi in lavori quieti, ammesso che simili lavori potessero esistere. Nel mondo in cui io ero stato educato, nella realtà della città del peccato per lo meno, impossibile per me comprendere quanto simili regole possano essere universali e quanto no, non vi sarebbe mai stato posto per vittime di così tragiche circostanze, discriminandone la sopravvivenza aprioristicamente: fra quelle acque chiare, lucenti sotto i raggi del sole, anch’esse avrebbero invece potuto proseguire la propria esistenza in completa serenità, godendo della vita in un protettivo abbraccio quasi materno.

« Dimmi. » annuii, senza preoccupazioni di sorta innanzi a quella richiesta, che giudicai quale sicuro preludio alla nostra ennesima lunga chiacchierata.
« Perché porti con te una sacca colma di pietre? » domandò, diretto e tranquillo, proseguendo nel proprio lavoro inconsapevole di quanto quella domanda non potesse evitare di spiazzarmi, sorprendermi, laddove il mio tesoro, in quei giorni, era sempre rimasto protetto sotto la branda che mi era stata assegnata, lontano dallo sguardo di chiunque.
« Come lo sai?! » replicai, improvvisamente tornato diffidente, sospettoso, lontano dalla quiete ormai solita.
« Il primo giorno in cui Midda ti ha trascinato fino a qui, quand’ancora eri praticamente privo di sensi, alcuni di loro si sono sparsi sul pavimento ed io l’ho aiutata a rimetterli a posto… » mi spiegò, voltandosi appena nella mia direzione « Non le ho domandato nulla, non ritenendo affar mio simile questione, ma ammetto una certa curiosità in tal senso… »
« E’ difficile da spiegare. » risposi, rasserenato nel non dover mettere in dubbio l’integrità morale dei miei ospiti a bordo della nave, nell’avere in quel modo riprova che alcuno fra i miei effetti personali era stato preso in esame a mia insaputa come per un istante avevo temuto « Diciamo che li colleziono… »
« Collezioni sassi? » ripeté egli, aggrottando la fronte, evidentemente nel temere di non aver compreso la spiegazione da me così formulata.
« Ognuno di essi rappresenta una parte della mia esistenza, una scelta che ho compiuto, un evento nel quale sono stato trascinato… »

E per la prima volta, così, mi ritrovai a condividere pienamente con qualcuno la natura del mio tesoro, forse l’essenza stessa della mia vita, con naturalezza assoluta, senza timore di essere giudicato, di essere frainteso o incompreso: più parlai, più il desiderio di parlare mi trascinò con sé, nell’emozione di poter mostrare al mondo la mia vera anima, il mio cuore, e quasi senza rendermene conto, mi ritrovai a condividere con mio interlocutore una ad una le mie pietre, i miei tesori, trasportati nuovamente nella cambusa per tale esclusivo scopo. Per oltre mezza mattina, gli illustrai con trasporto assoluto la loro storia, la mia storia contenuta in essi, e fortunatamente trovai in lui un attento ascoltatore, un confidente capace di saper accogliere tutto ciò senza porre alcuna sentenza a mio discapito, come anche mia madre non aveva saputo mai saputo essere in tal senso.

« Diamine… » commentò ad un certo punto, interrompendomi innanzi all’ennesimo sasso, passato dalle mie alle sue mani « Certo che te ne intendi di questa roba! E fortuna che hai dichiarato di non aver alcuna istruzione… »
« Oh… ecco… quando ancora ero al servizio del mio primo signore, lord Cemas, conobbi un vecchio studioso, un suo antico mentore che, più per affetto che per utilità, egli aveva voluto mantenere vicino a sé… » spiegai, correndo con la memoria a quei giorni lontani, alla figura di quel mio primo maestro, se così mai si poté definire « Era un uomo veramente colto, capace di comprendere la natura del mondo attorno a sé come mai ho visto altri in grado di fare: è a lui che debbo la mia conoscenza in merito alle pietre, alla loro classificazione, ai loro nomi… un’istruzione di poco conto, un capriccio del quale volle rendermi edotto. »
« Secondo me sbagli a giudicare ciò che sai in questo modo, con così minima considerazione quasi non avesse valore… » replicò Lasim, scuotendo il capo in conseguenza delle mie parole « Se vuoi dar retta ad un cuoco brontolone, qual sono io, abbi fiducia in questo: nulla più della conoscenza è importante nella vita, fosse anche su qualcosa che altri giudicano assolutamente irrilevante. »

martedì 24 febbraio 2009

411


N
on ho mai scoperto, di preciso, cosa mi offrì da bere, ma di certo con esso diede dimostrazione di non aver agito a vuoto o parlato a vanvera: nei giorni successivi, almeno fino a quando restai sotto coperta, lontano dalla visione diretta delle onde che ancora mi risultarono difficili da accettare, non ebbi più problemi nel mio personale rapporto con il mare, riuscendo altresì a adattarmi, ritengo, con sufficiente rapidità ed efficienza alla vita del marinaio o, meglio, del mozzo.
Successivamente il mio personale ritorno alla lucidità, riuscii a cogliere meglio anche dettagli più o meno macroscopici in relazione al mio nuovo superiore, al responsabile a cui avrei dovuto fare riferimento, almeno nella durata di quel viaggio nell’assolvimento della volontà del mio cavaliere. Lasim mi si offrì così allo sguardo quale un uomo sulla quarantina, non più ragazzo ed, anzi, sicuramente una potenziale figura paterna per me. Con la pelle dorata dal sole, un volto tondeggiante ornato da un occhio castano, un corto naso e capelli ingrigiti dal tempo, sarebbe potuto apparire quale una persona come altre, un volto fra i tanti, se non fosse stato alto, molto alto, dotato di un fisico non realmente grasso ma neppure effettivamente muscoloso, risultando in ciò decisamente robusto, nel senso stretto del termine, vigoroso nella propria costituzione come pochi altri. Nel confrontarmi con lui, soprattutto i primi giorni, non potei evitare di essere lieto dei nostri reciproci compiti, del fatto che egli fosse il cambusiere ed io il suo mozzo e non, ad esempio, lui un maestro d’arme ed io il suo allievo: se così fosse altrimenti stato, sinceramente avrei temuto per la mia stessa sopravvivenza più di quanto non sarebbe stato insieme a Degan, dove anche un semplice schiaffo, offerto da un simile individuo, avrebbe potuto farmi girare la testa all’indietro spezzandomi la spina dorsale. Ma oltre a simile, ed evidente, caratteristica fisica, tanto al mio sguardo come a quello di chiunque altro, anche a lui estraneo, furono altre due caratteristiche ad imporsi in maniera predominante, in conseguenza alle quali egli sarebbe risultato inconfondibile: ovviamente non i complessi tatuaggi tribali, dei quali non mancò mai di far sfoggio sulle proprie forti braccia al pari di qualsiasi altro figlio del mare, quanto piuttosto la sua gamba ed il suo occhio destro… entrambi assenti.
Se con guerci, nella mia vita pur priva di particolari avventure, avevo avuto a che fare prima di lui, e per tale ragione il bendaggio di cuoio a coprire simile assenza sul suo volto non mi colse eccessivamente impreparato, mai avevo avuto modo di incontrare in passato una persona a cui era stato negato un arto inferiore. In fondo, dove non sono rari mercenari che, nel corso della propria turbinosa esistenza, finiscono con il riportare gravi lesioni ad un occhio, perdendolo irrimediabilmente e pur potendo continuare a prestare la propria attività senza particolari problemi dopo un naturale e scontato periodo di convalescenza e riadattamento alla nuova situazione, discorso totalmente diverso si pone essere quello relativo ad un braccio o una gamba, la cui amputazione non potrebbe evitare altresì menomazioni limitanti al punto tale da rendere impossibile la sussistenza di un guerriero in simile ruolo, lasciandolo eccessivamente indifeso di fronte ad un ipotetico avversario. Situazioni come quella della Figlia di Marr’Mahew, anche nella vita quotidiana di una città estrema come Kriarya, non sono mai state una regola, quanto piuttosto un’eccezione, e di protesi quali la sua, rese mobili ed efficienti quanto, se non oltre, l’originale arto in virtù di una qualche stregoneria, o forse maleficio, personalmente ho avuto notizia solo attraverso qualche ballate, la cui veridicità ovviamente non si è mai proposta semplice da confermare. Nell’ovviare all’assenza della propria gamba, pertanto, il cambusiere era sì intervenuto con un supporto in lega metallica, similmente a quanto compiuto da Midda con il proprio braccio, ma senza poter in ciò rimediare realmente alla tragica perdita: dal ginocchio in giù, pertanto, il suo arto si proponeva lucente e chiaro nei propri riflessi quasi argentati e modellato nelle proporzioni di una vera gamba e di un vero piede, utile, probabilmente, a sostenere il suo peso e, contemporaneamente, a dargli possibilità di camuffare tale minorazione fisica innanzi agli occhi del mondo se rivestito da pantaloni lunghi e calzari alti.
Al di là di simili ipotesi puramente personali, dove non ho mai avuto occasione di vederlo in tali termini, a bordo della nave il suo abbigliamento si è sempre concesso essenziale al pari di chiunque altro: semplici braghe corte, di stoffa chiara, ed un fazzoletto dorato attorno alla nuca, a trattenere ordinati i capelli, si sono sempre proposti quali i suoi vestiari abituali, per garantirgli, nonostante il suo ruolo di cambusiere, una possibilità di mobilità assoluta. Una moda dettata dalla vita del mare, quella, la quale inevitabilmente contagiò ben presto anche me, nel desiderio di ridurre al minimo, almeno apparentemente, le differenze esistenti con il resto dell’equipaggio. Per mia fortuna, nel passaggio al mio nuovo ruolo, ritornai praticamente alla mia precedente occupazione, dimenticando tutti gli oneri e gli onori di uno scudiero per indossare nuovamente i panni di un garzone e, in tal modo, poter collaborare realmente alla vita di bordo e non essere di peso per alcuno.
Se non fosse stato per spazi estremamente ridotti e comodità di ogni sorta ridotte al minimo indispensabile, credo che non avrei avvertito particolare differenza fra la vita nelle cucine della locanda e quella nella cambusa della S’Ash e, di ciò, anche il mio referente a bordo ne ebbe immediata trasparenza.

« Dimmi la verità… tu non sei veramente uno scudiero. » commentò, improvvisamente, non in conseguenza di una battuta pronunciata da me a sproposito o di una qualche esclamazione manifesta di tale realtà, nello stesso giorno della partenza da Seviath.

Simile intervento, ovviamente, non mancò di sorprendermi, nel mentre in cui, cercando di mantenermi in equilibrio e di non affettarmi per sbaglio qualche dito, nel dover contrastare il naturale beccheggio della nave, mi stavo impegnando nella preparazione delle verdure fresche da utilizzare quel giorno come base per una ricca zuppa vegetale, vedendo in ciò la mia concentrazione era completamente rivolta al lavoro in corso e la mia mente intrattenuta in riflessioni di carattere generale, analizzando quanto avevo appena scoperto in merito alla vita dei marinai ed alle differenze della medesima con quella da me precedentemente considerato normalità. Ad esempio ciò che, con tanta semplicità, stavo trattando quale un normale frutto della terra, privo dell’esigenza di particolari riguardi, avevo appena scoperto che sarebbe stato altresì da considerarsi quale lusso per la vita di bordo, una prelibatezza alimentare della quale l’equipaggio avrebbe potuto godere solo nei giorni immediatamente successivi ad uno scalo in porto, laddove altrimenti sarebbe marcito nelle stive.

« Come? » domandai, sollevando lo sguardo con aria smarrita e cercando di raccapezzarmi sull’argomento proposto, praticamente sfuggitomi.
« Nessuno scudiero saprebbe trattare dei carciofi in quel modo… » esplicitò l’uomo, sorridendo ed indicando quanto stavo operando « Hai lavorato in qualche osteria, per caso? »
« Una locanda… » specificai, senza pudori o inibizioni, non provando di certo vergogna per quella parte del mio passato, forse la sola degna di essere riportata all’attenzione di un eventuale interlocutore « In Kriarya, per la precisione. »
« Interessante. » annuì egli « Ciò spiega il perché tu riesca ad impugnare un coltello da cucina senza in ciò sembrar pronto ad attaccare qualcuno. » aggiunse.
« Oh… » sussurrai, non avendo sinceramente mai prestato attenzione al modo in cui reggevo fra le mani tale strumento ma fidandomi del giudizio del mio interlocutore e della sua esperienza certamente superiore alla mia in tale frangente « Non comprendo se lo dovrei interpretare come un complimento o… cos’altro… » proseguii, sinceramente incerto a tal riguardo.
« Un complimento, ovviamente! » sottolineò con aria complice, strizzando l’unico occhio in suo possesso verso di me.
« Quando sei arrivato pallido come un cadavere e privo di sensi non ho potuto evitare di considerarti un ingombro inutile gettato in questo angolo solo per non occupare eccessivamente il ponte… » ammise, continuando, con una schiettezza assoluta che non potei che apprezzare in lui, per quanto apparentemente critica verso di me « … ma continua così e credo proprio che potremo diventare grandi amici tu ed io! »

lunedì 23 febbraio 2009

410


P
oco più di novanta piedi di lunghezza e ventiquattro di larghezza massima, o baglio, per una profondità di appena undici: tali erano le dimensioni, forse considerabili immense, forse ritenibili insufficienti, sinceramente lo ignoro, della S’Ash, brigantino dotato di ben tre alberi. Comprendere cosa fosse il “baglio”, che quei tre grossi e lunghi pali con della stoffa attorno si chiamassero “alberi” e che la stoffa fosse definita con il termine “vele”, non fu così banale come la maggior parte delle persone potrebbe ritenere: non a caso, prima di quel giorno neanche avevo un’idea precisa su come fosse una nave, immaginandomi qualcosa a metà strada fra un carro ed un qualche mostro marino, figurarsi pertanto conoscere gerghi tanto specifici. Di necessità virtù, comunque, dovetti presto apprendere non solo come si chiamassero gli alberi e le vele, scoprendo che in base alla propria forma e posizione essi assumessero nomi diversi, quali “auriche” o “quadre” per le vele e “mezzana”, “maestra” e “trinchetto” per gli alberi, ma anche un’infinità di concetti prima a me ignoti, allo scopo di maturare una confidenza prima assente con la natura della nave e, in ciò, con il suo equipaggio.
Una cosa che compresi in maniera sufficientemente rapida, in effetti, fu come la S’Ash, nella fattispecie ma probabilmente qualsiasi altra imbarcazione, non limitasse la propria natura, la propria esistenza al legno, alle corde ed alle stoffe che ne costituivano la struttura portante ma, soprattutto, trovasse la propria completezza, la propria ragion d’essere, nei quaranta membri dei suo equipaggio, capitano incluso. In un rapporto per certi versi simile a quello che io stesso avevo con le mie pietre, e per altri addirittura superiore, la simbiosi esistente fra quegli uomini e donne e la loro casa galleggiante si proponeva strabiliante, ritrovando ognuno fra loro praticamente essenziale non solo per la sussistenza della nave stessa ma anche di tutti i propri compagni. Nessuno a bordo della S’Ash avrebbe potuto restare in ozio, nessuno si sarebbe potuto concedere un viaggio su quella nave quale piacere personale, in quanto nelle proprie azioni o nella propria assenza di azioni ogni membri dell’equipaggio avrebbe potuto segnare il destino di tutti, nel bene o nel male. E tale immagine, forse romantica, non poté che rapirmi, stuzzicando le corde più profonde del mio animo e lasciandomi ritrovare, in tale visione, la realizzazione di tutti i sogni infantili di un tempo, l’incarnazione di tutti quei valori che mia madre, nelle sue favole, mi aveva fatto amare salvo poi, purtroppo, sottrarmele violentemente, ed involontariamente, nel contatto con la meno piacevole realtà quotidiana. In quel momento, altresì, gli antichi poemi esaltanti i valori di forza, decisione, lotta, amicizia, fraternità e così via discorrendo sembrarono aver finalmente un riscontro pratico, ragione per cui non potei che essere entusiasta nello scoprire tale realtà prima a me ignota. Meno emotivamente coinvolgente, ma decisamente più fisicamente travolgente, fu al contrario l’impatto con la permanenza a bordo della nave: dopo pochi istanti dal mio primo vero e proprio accesso al ponte della stessa, le mie viscere si accartocciarono nuovamente, costringendomi a piegarmi oltre il limitare della nave per riversare un flusso amaro in mare. E questa volta, sebbene non spinti da malizia o cattiveria nei miei riguardi, molti dei marinai della S’Ash non poterono evitare di sogghignare a simile spettacolo nel mentre in cui una serie di improperi tutt’altro che piacevoli vennero offerti dal capitano nel riflettere sulla prospettiva di condurmi con sé in quel viaggio. Stremato da quell’ennesimo conato, ormai disidratato nel non aver più alcun liquido da offrire al mondo, venni trascinato da Midda nelle viscere del brigantino, in corrispondenza di quella che solo successivamente scoprii essere la cambusa.
Gli spazi interni alla nave mi si offrirono, a quel primo impatto, tutt’altro che ampi: i corridoi, le stanze, persino le porte, tutto apparve essere stato compresso, ridotto al proprio minimo, alla minor proporzione possibile, rendendo indispensabile, per chiunque al loro interno si volesse muovere o desiderasse permanere, un’organizzazione reciproca assoluta nel non offrirsi ostacolo, ingombro, impaccio. Ovviamente nell’essere trasportato, quasi di peso, dal mio cavaliere fino alla meta prefissata dal capitano, non offri ad alcun membro dell’equipaggio una buona impressione, né riuscii a concedermi la benché minima interazione con essi: il tutto appariva incredibilmente sfocato innanzi a me, ricordandomi in maniera impressionante quelle volte, non frequenti, in cui avevo deciso di lasciarmi stordire dall’alcool.
In ciò, devo essere sincero, non sono neppure certo di aver mantenuto coscienza fino alla destinazione, dove un vuoto mnemonico si pone nella mente nel tentativo di ripensare a quel momento, a quel tragitto, e dove la prima immagine che mi si concesse nuovamente chiara fu quella di Lasim Minmi, il cambusiere.

« Trangugia questo senza respirare… dritto nelle budella. » mi comandò, trattenendomi in una morsa con il volto rivolto verso il soffitto, il naso serrato fra due dita ed un boccale pieno di qualcosa non meglio identificato davanti alla bocca.

Troppo debole per opporre resistenza, obbedii, accogliendo credo la peggiore mistura che mai mente umana avrebbe potuto concepire. E se lo dico io, con il mio passato da garzone in una locanda, potete star certi che non sto mentendo. Nella mia vita, infatti, ho avuto spesso a che fare con orridi intrugli, creati a regola d’arte da Be’Sihl per permettere a qualche vittima dell’alcool di avere una rapida ripresa, allo scopo di ovviare agli effetti negativi di un’ubriacatura e ritrovare coscienza: ma tutte quelle pozioni, per le quali probabilmente qualche superstizioso fanatico avrebbe anche potuto ravvisare odor di stregoneria, ma si sarebbero poste in pari con quanto Lasim mi costrinse a bere in quel giorno.

« Trattieni il fiato e conta fino a trenta… poi rigurgita senza pudori. » sorrise, liberandomi ed offrendomi innanzi al volto un catino di legno.

Ancora remissivo, più per la confusione che mi ritrovai interiormente non comprendendo dove fossi finito di preciso, nonché per il disgusto di ciò che avevo appena ingoiato, fortunatamente per me non osai disubbidire a quell’ordine ed accettai il recipiente, benché, sinceramente, in quel momento avvisavo alcuna necessità di vomitare nuovamente. Sottolineo fortunatamente per me, in quanto in perfetta contemporaneità al numero trenta formulato nella mia mente, la peggiore esplosione di quella giornata, una deflagrazione priva di eguali, mi coinvolse senza concedermi possibilità di replica, senza permettermi alcun controllo: tutto quello che avevo buttato giù, con un coordinamento assoluto nei confronti delle parole offertemi, ritornò improvvisamente su, trascinando con sé molto altro ancora e lasciandomi, infine, stremato ma incredibilmente lucido innanzi ad uno spettacolo a dir poco osceno.

« Come ti senti, ragazzo? » domandò a quel punto il cambusiere, tendendo verso di me uno strofinaccio sul quale potermi asciugare la bocca.
Lievemente intontito dagli eventi, restai incerto sulla risposta da offrire, sbattendo le palpebre e risollevando lo sguardo verso il mio interlocutore: « Io… bene… credo… » balbettai, cercando in ciò di fare anche mente locale sugli ultimi avvenimenti, per comprendere dove fossi e come ci fossi arrivato.
« Antico segreto della mia famiglia… » commentò con aria bonaria l’uomo, annuendo soddisfatto in conseguenza alla mia risposta « Aspetta ancora qualche istante e vedrai che ti sentirai un uomo nuovo. »
« Dove… sono? Dove è la mia signora? » sussurrai, ancora confuso per quanto accaduto « Che luogo è questo? »
« Quante domande… » ridacchiò egli, ora voltandosi per riprendere le proprie occupazioni, lasciandomi tranquillo nell’angolo in cui mi accorsi di essere seduto, accucciato, quasi un randagio raccolto dalla strada « Sei sulla S’Ash, ovviamente… ancora al porto di Seviath. La tua signora, una figura veramente interessante se mi concedi il commento, credo sia attualmente impegnata nel prendere conoscenza con i propri nuovi incarichi a bordo della nave: sai, in fondo anche se tutte possono sembrare uguali, ogni imbarcazione ha una propria anima, da conoscere e rispettare nel volersi confrontare con essa… »
« In merito poi alla tua ultima questione… beh… » continuò, voltandosi verso di me e mostrandomi ora un coltellaccio che non ebbi difficoltà a riconoscere quale tipico utensile da cucina « Questa è la cambusa della nave… e tu, figliuolo, sei appena divenuto il mio mozzo. »

domenica 22 febbraio 2009

409


V
ano si propose il mio tentativo di difesa, innanzi a questioni troppo lontane dalla mia possibilità di comprensione, per quanto non fossi ancora in grado di apprezzare pienamente la mia immaturità in quel contesto totalmente nuovo e, in ciò, di comprendere il mio limite. Semplice fu, pertanto, per lei pormi a tacere, liquidando ogni ulteriore discussione con la retorica di una domanda e la naturalezza di una richiesta.

« Non avevo forse, poco fa, sottolineato come la questione non si stesse offrendo quale nuova innanzi a me? » sottolineò, osservandomi con serietà assoluta « Non desidero far gravare su di te la mia esperienza o il mio ruolo, ma ricordati sempre la veste nella quale hai deciso di accompagnarmi… scudiero. »

I toni proposti da lei ancora non mi soddisfecero, non riuscii ad accettarli quali destinati a me, non sentendo di aver violato alcuna peculiarità del mio ruolo, del mio incarico: del resto mi ero proposto al suo fianco con la massima disponibilità e mi ero dimostrato pronto ad uccidere in suo nome, per la sua protezione, secondo quelli che erano stati i principi inculcatimi nelle settimane di addestramento con Degan.
Ciò nonostante, pur non ritenendomi dalla parte del torto, restai in silenzio, non proposi più obiezioni: fino a quel giorno ella, nell’utilizzo del termine “scudiero” era sempre apparsa scherzosa, quasi non mi considerasse realmente tale ed in ciò trattandomi da compagno, da amico, se non addirittura da protetto, nel cammino che ci aveva visto giungere fino a quel punto. Ma in quella nota finale, nella conclusione di quella frase, apparve chiaro il suo desiderio di ristabilire una gerarchia, una divisione di ruoli e responsabilità esistente fra noi e, in fondo, da me voluta e cercata.
Forse mi ero fatto trascinare troppo dalle emozioni di quell’avventura, dalle continue scoperte di un mondo nuovo attorno a me, tanto da dimenticarmi chi io fossi e perché fossi lì. E per quanto il suo ricordarmelo, il suo pormi nuovamente al mio giusto posto, non potesse evitare di farmi male, ferendomi intimamente più di ogni possibile insulto, da parte mia sarebbe stato stolto rinnegare tutto ciò, infantile incapricciarmi per quanto accaduto.

« Ora andiamo. » concluse ella, voltandosi e riprendendo la via interrotta lungo il molo « Abbiamo già offerto eccessivo spettacolo e non vorrei che il nostro viaggio fosse rallentato per questo spiacevole incidente… »

Mantenendo il capo chino, risistemai il pugnale al suo posto e conteggiai ancora una volta tutti i bagagli in mio possesso, prima di incamminarmi a dietro di lei. Il mio sguardo si spostò ingenuamente a destra ed a sinistra, ricercando senza successo una qualche pietra da aggiungere alla mia collezione, in memoria di quegli eventi: con assoluta contrarietà, però, non potei evitare di constatare come in quel punto mai avrei potuto trovare quanto da me desiderato, essendomi io addentrato nel dominio delle acque, sospeso ormai sopra un vero e proprio avamposto verso il mare infinito. Invero, da quel giorno in poi, non ebbi più occasioni di ampliare la mia collezione, non potei più aggiungere altri sassi ai già numerosi che mi stavo portando ostinatamente dietro, dove, come ancora non mi era stato dato di sapere, non avrei più avuto modo di ritrovare contatto con la terra, da me tanto amata e tanto desiderata: fortuna, o sfortuna a seconda dei punti di vista, volle infatti che non solo una delle navi scelte da Midda quali candidate al nostro trasporto si offrisse quale effettivamente disposta a ricoprire simile ruolo, ma addirittura fosse in procinto di lasciare il porto.
La partenza della S’Ash, tale il nome di quello che solo in seguito scoprii essere definibile quale brigantino, era stata originariamente programmata per il giorno precedente e solo in conseguenza delle cattive condizioni del mare essa era stata rimandata fino ad allora.

« Gli dei devono avere la tua missione a cuore, Midda Bontor… » commentò in tal senso il comandante della nave, accogliendoci a bordo « Dove sono state scatenate le ire dei mari solo per offriti l’occasione di partire, difficile sarebbe non interpretare il segnale di una sicura accondiscendenza divina. »
« Non sono degna di simili parole, capitan Djohva. » sorrise la mercenaria, chinando il capo in segno di ringraziamento per tanto onore « Ritenere che Thyres si possa essere scomodata per così poco sa quasi di blasfemia e non intendo arrogarmi tanta importanza… »
« Lungi da me contrariare simile opinione. » sorrise l’uomo « Permettimi, però, di porti una banale questione in merito al viaggio che desideri condividere con la mia nave ed il mio equipaggio… considerai realmente il tuo scudiero quale indispensabile figura al tuo fianco? »

Se simile dialogo mi fosse stato proposto in riferimento ad un contesto diverso, impossibile sarebbe stato non ritenere offensiva la domanda proposta dal capitano, la supponenza nel ritenermi inadatto ad accompagnare ulteriormente Midda nella navigazione che avrebbe presto intrapreso.
Purtroppo, però, in quel momento l’oggetto di tanta diffidenza si stava ponendo bloccato ancora sul molo, osservando la passerella ondeggiante davanti a sé, il cammino che avrebbe dovuto aver già percorso da oltre mezz’ora e che, al contrario, lo stava inevitabilmente mantenendo pietrificato innanzi alla propria precarietà. Mentre, infatti, il mio cavaliere ed il capitano della nave stavano discorrendo ormai da tempo sul ponte del brigantino stesso, io non ero riuscito ancora a proporre il primo passo sopra l’estemporaneo ponte di corda e legno posto a collegamento fra l’imbarcazione ed il molo. Ogni volta che, con coraggio, mi ero spinto ad offrire un passo in avanti, salendo sopra la passerella, immediatamente un ondeggio inatteso, imprevisto, della medesima mi aveva fatto balzare all’indietro, quasi un gatto terrorizzato innanzi ad una vasca colma di acqua: invero mi stavo dimostrando, in quel momento, non diversamente da un felino domestico nel confronto con l’immagine offerta dal mare, per quanto paradossalmente fossero molti i gatti che, sornioni e quasi beffeggianti, si erano disposti ad osservarmi curiosi dall’alto dei ponti di diverse navi, inclusa la stessa S’Ash, dove essi prestavano quotidianamente servizio al fine di impedire ad eventuali roditori clandestini di porsi a minaccia dei preziosi carichi di quelle navi mercantili.

« Non è mai stato su una nave prima di oggi, come credo risulti evidente… » replicò sconsolata la donna guerriero, osservandomi e poi tornando a volgersi verso il proprio interlocutore « Ma è un ragazzo pieno di buona volontà che sono certo saprà rendersi utile una volta superate le proprie inibizioni. »
« L’oro è il tuo… e se desideri spenderlo per trascinarti dietro un simile ingombro non sarò di certo io a negarti simile possibilità. » sottolineò egli, aggrottando la fronte « Lavorerà in cambusa, sperando che almeno lì non si ponga d’intralcio. Quanto a te, naturalmente, sarai impiegata sul ponte insieme ai miei marinai: è da anni che sento mirabolanti cronache a tuo riguardo e sono sinceramente curioso di poterti vedere finalmente all’opera. »
« Ai suoi ordini, capitano. » annuì la mercenaria.

Per quanto non avessi ancora digerito le parole precedentemente rivolte dal mio cavaliere nel pormi quieto entro i limiti del mio ruolo, in quel momento una parte del mio cuore non poté evitare di offrire assoluta devozione nei confronti di Midda, per quella sua dimostrazione di fedeltà nei miei confronti. Quale scudiero, avrei dovuto essere per lei un aiuto, un supporto, ed al contrario fino a quel momento avevo concesso unicamente prova di essere un peso come giustamente mi aveva identificato il comandante: ciò nonostante, ella non aveva offerto il minimo indugio nel porsi nuovamente in mia difesa, nel richiedermi al proprio fianco, anche dove io stessi offrendo un sì triste spettacolo.
In opposizione, però, un’altra parte dei miei sentimenti non poté evitare che porsi in contrasto a tanta ostinazione da parte sua, alla scelta cocciuta ed irremovibile di condurmi per mare benché fosse chiaro come la mia natura non fosse quella di un marinaio.

« Ora trascina a bordo quel cencio e conducilo dal nostro cuoco. Ci penserà lui a fargli dimenticare ogni timore verso il mare… » concluse il comandante, nel mentre di quelle mie riflessioni, considerando definitivamente archiviata in quel modo la questione.

sabato 21 febbraio 2009

408


« N
iente armi. » mi impose la donna guerriero, con forza nella voce, un ordine innanzi al quale alcuna trasgressione sarebbe stata tollerata.
« Non comprendo… » commentai, osservandola e distraendomi nei confronti dei nostri avversari.

Quel fugace attimo mi costò molto caro, ponendomi di fronte all’evidenza di tutti gli insegnamenti offertimi da Degan sulla differenza fra allenamento e realtà: i quattro, infatti, credendo che oltre a me anche la mercenaria avesse abbassato la guardia in quel frangente, non esitarono nel concederci la propria carica, un proprio tentativo d’offesa. Forse, in simile scelta contrastante con quanto appena enunciato dalla mia signora in merito al loro normale comportamento, un ruolo di disequilibrio lo giocò proprio la mia presenza, proponendo ai loro occhi un qualche indebolimento per la Figlia di Marr’Mahew, per il suo animo o la sua aggressività. Ella negò comunque qualsiasi ipotesi in tal senso, gettandomi violentemente da parte, per non pormi quale distratta vittima di feroci aggressori, e liberandosi contemporaneamente la via per il combattimento ormai inevitabile per quanto, probabilmente, non desiderato. Ritrovandomi, in tal modo, scaraventato a terra senza riuscire neanche a comprendere cosa fosse accaduto, non potei che assistere tacitamente alla breve battaglia che coinvolse la mia signora, il mio cavaliere, quasi io non fossi neanche lì presente.

Midda prevalse.
Una conclusione ovvia, quasi scontata, anche innanzi al mio sguardo probabilmente ingenuo per molte dinamiche di quel nuovo mondo, le stesse per le quali io ero stato violentemente escluso dal conflitto. Non fu, però, tanto la sua vittoria a sorprendermi, a stupirmi, lasciandomi inebetito ad osservare la scena, quanto il modo in cui essa fu raggiunta, in movimenti testimonianza di un’indole guerriera priva di eguali. Abituato al confronto con il mio e suo maestro d’arme, non avrei dovuto avere occasione di sbalordimento, essendo già stato, per lo più, spettatore in passato di molte risse nella locanda di Be’Sihl aventi proprio ella quale principale attore se non, direttamente, unico fautore: in quel giorno, al contrario, mi venne concesso qualcosa di assolutamente inattendibile, imprevedibile, nuovo ai miei occhi, lasciandomi comprendere quanto ciò che normalmente era stata capace di offrire in opposizione ad avversari semiubriachi fosse, invero, ben minimo impegno rispetto alle proprie reali capacità.
Per quanto potrebbe essere mio desiderio impegnarmi a ripercorrere ciò che avvenne in quel giorno, non credo di avere possibilità di riuscirci, non per mancanza di volontà quanto per semplice assenza di effettive e precise memorie a tal riguardo: frammenti di immagine, brevi lampi di lucidità, sono tutto ciò che riesco a concedermi nel ricordare quei momenti, quasi non ne fossi stato diretto testimone. Posso rivedere la figura della mercenaria scivolare rapidamente a terra, appoggiando la propria schiena alla base offerta dal molo e concedendo, in tal modo, le proprie gambe ed i propri piedi ai primi due avversari, accogliendo la loro carica e reindirizzandola in avanti, per farli in tal modo ruzzolare senza possibilità di freno oltre se stessa. Ricordo come ella, compiuto ciò, tese immediatamente tutti i muscoli della propria schiena, delle proprie spalle, del proprio unico braccio sinistro a sollevare i fianchi da terra e, violentemente, proporre contro i volti dei due successivi nemici i propri talloni, costringendoli così ad arretrare gemendo per i colpi subiti. Sono incerto su come ella riuscì a rimettersi in piedi, sul movimento compiuto nel rivoltarsi all’indietro per riacquistare la posizione eretta forse in virtù di un’agile capriola, però non ho dubbi su come, a quel punto, arrestò un violento pugno rivoltole da uno dei due marinai prima gettati oltre di sé, già ripresosi ed attivo nel tentativo, vano, di privarla dei propri sensi con un diretto alla base del collo. Ella, percependo più che avendo possibilità di cogliere, simile movimento, sollevò il proprio gomito destro, in metallo, e ruotò il busto quanto necessario per offrire quello come unico obiettivo di tale offesa, con una dolorosa conseguenza per la controparte al momento dell’impatto. Credo, ancora, che i due avversari sorpresi dai suoi talloni tentarono di ritornare a lei, o comunque se non entrambi almeno uno di loro in combinazione con l’altro prima sbalzato sul molo: essi si mossero con meno enfasi di quanto fino ad allora dimostrato, cercando evidentemente di proporre una certa prudenza nel confronto con la mercenaria, forse addirittura volendo attuare una certa strategia nel coglierla su due fronti in contemporanea. La coppia, nonostante tutto, venne in ciò tristemente contraddetta dalle azioni che ella pose in essere a loro discapito, dal calcio che stroncò il primo alla bocca dello stomaco e dal… ceffone?... che prese in contropiede il suo compagno, fortunatamente per lui colpito dalla mano mancina della stessa. A simile ed inatteso gesto, poi, seguì l’invito altrettanto imprevedibile a non proseguire oltre, dimostrato dal suo dito indice levato fra loro nella direzione dell’avversario: in conseguenza di quel segno, o forse dello sguardo che insieme ad esso fu scambiato fra i due, l’uomo comprese come estremamente stupido sarebbe stato proseguire in un cammino di quel genere, in una sfida di quell’entità, e si ritrasse da lei giusto in tempo per assistere alla potenza del pugno di metallo della donna concedersi verso un ginocchio contro di lei levato da un terzo incomodo, nuovamente convinto di poterla cogliere di sorpresa.
Il rumore di ossa rotte che seguì, insieme al grido dell’uomo ritrovatosi improvvisamente un’articolazione tanto importante fracassata, fu il segnale inequivocabile del termine di quello scontro, decretando un’indubbia vittoria della mia signora.

« Se desiderate sporgere denuncia, le mie generalità vi sono certamente note… » commentò verso colui che aveva dimostrato un certo spirito di autoconservazione nel non proseguire in un masochistico combattimento dal quale non avrebbe potuto trovare possibilità di vittoria « Naturalmente in tal caso formulerò a mia volta un’ipotesi di aggressione, portando voi ed il vostro capitano innanzi alla giustizia di questa città… »
« Non credere che sia finita così… » sussurrò il marinaio da poco colpito alla bocca dello stomaco, ancora privo di fiato in conseguenza dell’attacco incassato.
« Capitan Lehn-Ha desidera incontrarti e non avrai pace fino a quando non acconsentirai in tal senso. » sottolineò l’uomo altresì segnato dallo schiaffo della donna, forse nella volontà di rendere meno equivoche le parole del compagno altrimenti troppo ambiguamente interpretabili secondo libertà d’intelletto.
« Di ciò che Lehn-Ha desideri non ho interesse alcuno. » replicò la mercenaria, con freddezza nella propria voce non inferiore rispetto al gelo concesso dalle proprie iridi « Ora sparite… ringraziando che le leggi di questa città non vedano di buon grado un omicidio, seppur per legittima difesa. »

Naturalmente il discorso, con i quattro, si concluse in quello stesso momento, con quell’affermazione, innanzi alla quale anch’io non potei che provare timore nell’immedesimarmi nel gruppo di malcapitati, nell’immaginare di essere al loro posto in contrapposizione ad una donna guerriero del valore di Midda Bontor. E di fronte a ciò, oltretutto, compresi anche le ragioni che avevano spinto la medesima ad allontanarmi dal conflitto, ad impormi di uscire dalla battaglia ancor prima che essa potesse avere inizio: non consapevole di quali potessero essere le mie intenzioni, provenendo io da una città ove l’omicidio è all’ordine del giorno, soprattutto per ragioni di legittima difesa, avrebbe corso un rischio inutile nella mia presenza in quel confronto, altresì tranquillo e di rapida risoluzione.
Del resto, come avrei mai potuto immaginare che in quella terra, addirittura, una persona non avesse il diritto di uccidere il proprio aggressore a tutela della propria sopravvivenza?

« Questo serva di lezione anche a te, scudiero… » mi rimproverò a quel punto, volgendosi nella mia direzione e non tendendo più alcuna mano in mio aiuto, per farmi rialzare da terra, come altresì era stato pocanzi « Mia forse è stata la colpa nel non averti illustrato completamente le regole di questo regno, e di ogni altro regno, in contrapposizione ai principi vigenti nella città del peccato… ma tua è stata un’inutile enfasi innanzi ad avversari indegni di trovare morte per un banale diverbio. »
« Diverbio? » esclamai, ferito da quel biasimo del quale non mi sentivo completamente meritevole « Ci hanno attaccato senza esitazione alla minima distrazione da parte nostra… da parte mia. » mi corressi prontamente, nel rendermi conto di essere stato il solo a perdere il controllo sugli eventi « E tu lo definisci diverbio?! »

venerdì 20 febbraio 2009

407


C
iò che più mi aiutò a superare quella spiacevole circostanza, fu l’accorgermi come alcuno sguardo attorno a me fosse impegnato nella canzonatura, quanto piuttosto in un’apparente e sincera preoccupazione. Nelle strade di Kriarya, una scena similare, sarebbe stata per lo più ignorata e dove ciò non fosse avvenuto sarebbe stata altresì apertamente derisa: sui moli di Seviath, parallelamente, fu ignorata dalla maggior parte dei passanti e, al contrario, attirò dei restanti non le risate quanto l’interesse, nel dubbio che mi fossi sentito male ed avessi bisogno di un aiuto medico, dell’intervento di un qualche cerusico.
Ovviamente se ciò, da un lato, mi evitò di sprofondare completamente nella vergogna, dall’altro aumentò lo sconvolgimento che già stava dominando in quel mentre il mio animo, innanzi a tutte le differenze fra i due regni, fra le due città. Per mia fortuna, a prevenire che tutto quello potesse divenire presto ragione per nuovo imbarazzo, quando apparvero chiare le ragioni di quella mia reazione, del mio malore, tranquilli sorrisi si diffusero sui volti di tutti ed essi, risollevati, non mancarono di offrirmi qualche parola di incoraggiamento prima di riprendere ognuno per la propria via.

« Sono un perfetto estraneo… addirittura uno straniero in terra straniera… » sussurrai al mio cavaliere, rialzandomi da terra, nel volerla porre a conoscenza dei miei pensieri, delle mie riflessioni « Eppure si sono interessati a me… che razza di città è questa? »
« Il mio animo vorrebbe risponderti dicendo “un luogo civile”, ma mi sento costretta a frenare il tuo entusiasmo, prima che esso possa trascinarti in erronee conclusioni… » commentò ella, in mia risposta, aiutandomi a rimettermi in piedi « Non esistono concetti assoluti nella vita quotidiana, e per quanto tutto ciò possa apparire strabiliante nel confronto con la città del peccato, ti consiglio di non farti attrarre ciecamente da tanto splendore: non è tutto oro quel che luccica, come dovresti sapere… »

E prima ancora che io potessi avere occasione di riflettere su simili parole o, addirittura, ipotizzare una replica alle stesse, forse una difesa in lode alle incredibili virtù della capitale tranitha in opposizione alla sua corrispettiva kofreyota, il fato volle offrire evidente ragione alle affermazioni appena enunciate, negandomi tale occasione. Simile ragione, in particolare, si poté identificare in un gruppetto di quattro uomini i quali, avanzando verso la nostra direzione, mostrarono scritto in volto il loro desiderio di confronto con noi o, meglio, con la mia signora.
Marinai, come definito dai loro tatuaggi posti in orgogliosa evidenza sulle forti braccia e sulle muscolose parti di torso visibili, e compagni, come sottolineato da un abbigliamento pressoché omogeneo in corti pantaloni ed ampie camicie parzialmente slacciate, essi si proposero innanzi a noi con espressioni cariche di determinazione e disprezzo, risultando pienamente consapevoli di ciò che sarebbe stato loro desiderio trovare e tutt’altro che ben disposti nell’assolvimento di simile compito.

« Midda Bontor, cagna mercenaria. » esordì a gran voce uno dei quattro, evidentemente portavoce nei riguardi dei compagni « In quale sfortunata circostanza hai deciso di riavvicinarti a questo porto? »
« Fatemi indovinare… siete agli ordini di Lehn-Ha? » domandò con evidente retorica Midda, sollevando sconsolata lo sguardo al cielo per poi scuotere appena il capo.
« Capitan Lehn-Ha… » ringhiò l’altro, arrestandosi con il proprio gruppo a quattro piedi da noi « Come osi pronunciare il suo nome con tanta confidenza? Reverenziale timore dovrebbe animare la tua voce… »
« Devo riconoscervi una certa tenacia… » replicò ella, aggrottando la fronte « Non si potrebbe, del resto, umanamente credere che ogni santa volta che passo per questi moli, qualcuno fra voi si presenti a me con questo stesso atteggiamento ed il solito ritornello per puro e semplice caso. »

Ai miei occhi apparve incredibile la calma che la donna guerriero riuscì a dimostrare in quell’iniziale e particolare frangente: non perché ella fosse solitamente una persona iraconda, capace di farsi trascinare dagli eventi o da in conseguenza ad elementari insulti, quanto piuttosto perché io stesso ero stato testimone di sue reazioni violente ad offese meno espliciti di quelle rivoltelle allora.
Al contrario rispetto a quanto mi sarei atteso avrebbe fatto, Midda non accostò la mano all’elsa della propria spada, non lasciò socchiudere i propri occhi con fare ferino nei riguardi degli avversari e, addirittura, non parve neppure voler esigere vendetta per quanto subito: ella propose semplicemente loro un tono volutamente sarcastico, ad offrire in ciò tutto il proprio impegno, tutto il proprio sforzo per lasciar precipitare la situazione. E nonostante il tutto apparisse quale già inevitabilmente compromesso ai miei occhi, innanzi al mio sguardo, nel cogliere l’esempio propostomi dalla mia compagna e padrona, non volli offrire nulla di diverso, non fu mio desiderio rischiare di agire in contrasto al suo tentativo: perciò restai quietamente immobile, pronto a reagire ma ancora sforzandomi di risultare sereno.

« Vedi… » si rivolse verso di me, quasi gli altri quattro non fossero presenti « Questa è il primo di due appuntamenti fissi ed evidentemente improrogabili… quasi una specie di rituale ormai, visto che si ripropongono in ogni occasione. Dopo un certo periodo di assenza dalla città, non appena vengo ai moli per cercare una nave loro si presentano insultandomi e cercando di farmi perdere le staffe, normalmente anche riuscendoci fra l’altro, ma ritirandosi sempre prima di uno scontro diretto. »
« Per quello tornano invece più tardi, dopo il calare del sole: loro, o eventualmente dei loro compagni, fanno in modo allora di incontrarmi fuori da qualche locale, sperando che io sia sufficientemente ubriaca per non opporre resistenza. Iniziano offrendosi con maggiore cortesia, un invito cordiale ad incontrare quell’idiota del loro “capitano”… » proseguì, sottolineando tono esplicitamente ed enfaticamente denigratorio l’opinione non altresì promossa a riguardo di tale figura « … salvo poi cedere alla rabbia e cercare di ricorrere alle maniere forti, o quelle che, per lo meno, loro giudicano come tali. Inutile che io ti spieghi come poi vada a finire ogni volta dove la loro insistenza ti può ben far intendere tale realtà. »
« Cagna! » intervenne di nuovo l’unico marinaio ad aver pronunciato verbo, mostrando fremente la propria muscolatura sotto la pelle abbronzata dal sole, resa lucida dal sudore.
« Non vi siete ancora stancati, per Thyres? » concluse la mercenaria, tornando verso di loro con il proprio sguardo.

Ai nostri… ai propri oppositori, però, ella non offrì più la medesima serenità dimostrata in precedenza, la stessa comprensione della quale si era voluta sforzare fino ad allora, forse ormai avendo considerato superato il proprio personale limite di sopportazione: i suoi occhi si concessero completamente di ghiaccio, lasciando smarrire all’interno delle loro iridi le pupille nere ridotte alle dimensioni di impercettibili capocchie di spillo, nel mentre in cui la mancina accarezzò l’elsa della spada bastarda, in un gesto più di sentenza che di intimidazione. Il messaggio offerto apparve, in tal modo, privo di possibilità di arbitrarie interpretazioni: qualsiasi destino di sconfitta fosse stato da loro ricercato, ella avrebbe saputo offrirlo con implacabile generosità.
Quando anch’essi accennarono un movimento offensivo, non potei evitare di temere il peggio. Rapido, quindi, cercai al mio fianco un corto pugnale con il quale mi ero armato in quei giorni, che avevo reso mio compagno per quell’avventura: un’arma minore, non confrontabile con una spada, non temibile come una sciabola, ma sufficientemente utile da assolvere al proprio compito dove una battaglia ci avesse atteso. Innanzi a quello scontro ero deciso a non tirarmi indietro, a non esitare, attaccando prima di attaccare, uccidendo prima di essere ucciso, nell’esecuzione degli insegnamenti del mio maestro e nel desiderio di rendere onore al mio cavaliere, gratificandola con la mia azione al suo fianco.
Ma proprio nell’istante fugace in cui la lama del mio pugnale scintillò sotto la luce del sole, fu la mano destra di Midda, fredda e metallica, a impormi un blocco, a chiedermi di non proseguire oltre, arrestando ogni mia azione in una morsa inviolabile che mi colse del tutto impreparato.

« Ma cosa…?! » esclamai, non comprendendo.

giovedì 19 febbraio 2009

406


N
onostante apparisse in quel momento decisamente calmo rispetto al giorno precedente, osservare da vicino il mare non poté che inquietarmi, se non anche terrorizzarmi, nel tragitto che mi vide seguire Midda lungo un intricato viluppo di moli. La funzione degli stessi, per quanto nessuno si fosse incaricato di esplicitarmela, apparve chiara anche al mio sguardo inesperto: essi erano fondamentali allo scopo di collegare le navi alla terraferma, alla costa, concedendo ai loro equipaggi di muoversi fra l’una e l’altra senza eccessiva difficoltà. Contrastanti, nel mio cuore, non poterono che risultare le emozioni suscitate anche dalle imbarcazioni: se da un lato, infatti, esse apparivano ai miei occhi come incredibilmente grandi, assurdamente smisurate, fossero esse di dimensioni reamente notevoli o banalmente minori, ed in ciò irrazionalmente pesanti negandomi la possibilità di comprendere in virtù di quale stregoneria potessero restare in sospensione sull’acqua, dall’altro lato le stesse non potevano evitare di essere da me giudicate quali sempre troppo piccole, soffocanti nello spazio concesso ad equipaggi anche molto numerosi. E nel pensiero di come tali uomini e donne si fossero votati a trascorrere una vita sopra il mare, il panico non poteva evitare di completare un razionale circolo nel tornare a volgersi alle acque ed alla loro immensità.
L’acqua del mare appariva chiara, cristallina, al punto che, dove non offuscato dal riflesso di superfici simili a specchi, le immagini delle navi, dei loro scafi e delle loro chiglie, come imparai a definirli solo in seguito, erano capaci di mostrarsi perfettamente definite, in una sospensione per me priva di logica nello stesso liquido nel quale affondavano. Dopo aver escluso l’ipotesi che tutti i figli del mare fossero anche stregoni malvagi votati ad oscure divinità ed, in ciò, capaci di concedere la capacità alle proprie navi di mantenersi all’interno delle acque senza sprofondare in esse, eventualità troppo fantasiosa ed assurda per poter perdurare più di qualche istante nella mente di chiunque, per quanto vergine nei confronti del mondo intero, molte furono le teorie che tentai silenziosamente di prendere in esame, anche allo scopo di distrarmi da ciò che mi era innanzi e, più in generale, attorno. Fra tutte, un’idea che particolarmente a lungo restò forte in me, fu quella che l’acqua del mare, a differenza di quella di un catino per il bagno, non fosse omogenea nella propria composizione, ma si dividesse fra una sezione più superficiale, morbida ed accogliente, ed una sommersa, rigida e sostenitrice quale una roccia stessa. Simile fantasiosa opinione, però, fu tristemente contraddetta nel denotare come non tutte le navi si inoltrassero nel mare con la stessa enfasi: quelle più grandi, più pensanti, risultavano spingersi maggiormente nella profondità delle acque in contrasto con le più piccole, minori, che quasi restavano sulla superficie stessa di quella realtà.
Nel mentre il mio sguardo, in simili ragionamenti, in tali filosofie, tentava di prendere confidenza con le acque, purtroppo, le stesse parvero respingermi, mostrandomi la propria minaccia, il proprio cupo potere. Osservare il moto ondoso, incessante, di quella superficie pur apparentemente quieta, mi colse impreparato nel contrasto ad un forte ed inatteso colpo alla bocca dello stomaco: un rantolio fu l’unico messaggio che riuscii a comunicare al mio cavaliere, prima di precipitarmi in ginocchio sul bordo del molo stesso, fortunatamente ad un passo dalla mia posizione, e dare libertà alla colazione di quella mattina che, calda ed abbondante, si riverso oscenamente nell’immensità del mare.

« Thyres… » esclamò, con sincera sorpresa, la donna guerriero, nell’assistere allo sgradevole spettacolo che non potei evitare di offrirle.

Imbarazzato, ferito in quell’unico briciolo di orgoglio che normalmente mi concedevo, in conseguenza di quel mio stesso gesto, restai piegato sul bordo del molo, da un lato temendo un nuovo conato e dell’altro non volendo affrontare lo sguardo della mia signora. Dove una parte di me era psicologicamente preparata all’idea di una simile reazione dopo un’eventuale prima battaglia, dopo un massacro, avendo sentito di come anche i più valorosi innanzi al cupo spettacolo di una strage non fossero in grado di mantenere il controllo sul proprio corpo, mai avrei potuto immaginare di concedere tanto semplicemente nell’osservare la superficie del mare e le sue leggere onde.
Che razza di uomo mi stavo dimostrando essere? Che idea avevo offerto a colei che tanto si era impegnata nella realizzazione di quel mio capriccio laddove, al primo banale sentimento avverso, già stavo permettendo al mio corpo di cedere in quel modo?
Purtroppo, quasi vittima di un incantesimo, di un maleficio offertomi dal mare stesso, nel riaprire lo sguardo e nel concentrarlo nuovamente sulla sua superficie, la medesima reazione appena vissuta non mancò di ripresentarsi, conducendo quel poco di cibo che ancora ero riuscito a conservare nello stomaco a riversarsi nelle acque innanzi a me.

« Non fissare le onde. »

Fu la voce della stessa Midda ad offrirsi a me in quello spiacevole momento, con tono caldo e comprensivo, forse materno, nel mentre in cui sentii la sua mano sinistra appoggiarsi delicata contro la mia schiena. Avevo temuto che ella potesse mal giudicarmi se non, addirittura, abbandonarmi a seguito di una tanto palese dimostrazione di debolezza, eppure così non era stato: al contrario ella si era chinata accanto a me, genuflessa al mio fianco per poter verificare la mia situazione, ed ora mi stava concedendo la propria esperienza, la propria conoscenza per superare quel momento di difficoltà.

« C-cosa? » risposi, con la bocca impastata nel tremendo sapore del mio stesso vomito.
« Non fissare le onde. » ripeté ella, con la stessa voce tranquilla, controllata « Offrire ad esse la tua attenzione ti porterà solo a nuovi conati. Prova a tenere chiusi gli occhi per qualche istante, poi risolleva lo sguardo, respira a fondo con il naso e cerca il cielo, non il mare… »

La ascoltai laddove, del resto, non avrei potuto o voluto fare altro.
Mi aggrappai alla sua voce con tutte le mie energie, cercando in essa di ritrovare la quiete perduta, la pace interrotta e seguendo quelle parole, quel consiglio, mantenni serrati i miei occhi nella volontà di non fallire nell’esecuzione di un tanto semplice comando. Stupidamente, però, ciò nonostante rividi innanzi a me il moto ondoso, rievocato dalla mia mente attraverso le immagini dei miei ricordi, e in conseguenza sentii il mio corpo tremare per nuova nausea.

« Dimentica le onde e dimentica il mare. » mi incitò la mercenaria, evidentemente comprendendo ciò che stava per accadere per la terza volta « Non ci pensare: concentrati sul cielo, ricorda le pianure attorno a Kriarya, il viaggio fra i monti Rou’Farth… »

Per quanto non fosse semplice respingere l’impeto di quel conato, tenni la bocca serrata quasi mi fossero state cucite le labbra con un filo di ferro e continuai a respirare con il naso, lasciandomi guidare dalle parole della mia signora verso le immagini di paesaggi a me più cari, ai quali soprattutto in quel momento non potei che sentirmi legato. Per tutta la vita, in Kriarya, mi ero ritenuto un estraneo, esterno a quella landa, alla mentalità dei suoi abitanti, ai parametri di giudizio lì vigenti: eppure, in quel momento, nel mentre della mia prima uscita in esplorazione del mondo circostante, non potei evitare che sentire nostalgia per la terra che solo allora riuscivo ad avvertire quale la mia terra.
Perdendomi in simili pensieri, in tali ricordi, sentii la nausea placarsi e, lentamente, risollevai il viso verso il cielo per poi riaprire, finalmente, lo sguardo. La crisi era stata superata.

« Come ti senti? » si informò la Figlia di Marr’Mahew, osservandomi con i suoi occhi di ghiaccio.
« Imbarazzato… » risposi, sottovoce, a labbra strette, non ancora voltandomi verso di lei nel temere un eventuale giudizio da parte sua.
« Non esserlo. » replicò ella, scuotendo appena il capo « E’ un malessere normale che colpisce spesso chi non è mai venuto a contatto con il mare prima. Vedrai che, con un po’ di impegno, supererai anche questa difficoltà: devi solo prendere confidenza con il nuovo ambiente e con le sue regole… e, naturalmente, offrire sempre il massimo rispetto verso esso e tutti i suoi dei. »

mercoledì 18 febbraio 2009

405


D
i fronte ad un simile avvertimento, per dare senso alla necessità del medesimo, alla sua ragion d’essere, non potei che temere ciò che in quell’urbe avrebbe potuto attendermi, offrendo cupi e fin troppo fantasiosi pensieri in merito a quale selvaggia genia avrebbe potuto abitare in un luogo tanto caoticamente realizzato. Ciò che, altresì, mi sfuggì innanzi a tante angosce fu il reale senso delle parole pronunciate dalla mercenaria, del suo avvertimento, non a voler indicare un ambiente, una società più pericolosa rispetto a ciò a cui ero abituato ma, altresì, semplicemente diversa.

Dopo aver trascorso la prima notte in una locanda sul limite della città, cercando rapido rifugio in essa per proteggerci dalle condizioni atmosferiche in continuo peggioramento, la nuova alba si propose a noi placida, serena, con un cielo terso e libero da ogni nuvola, per quanto piccola e passeggera, sorprendendomi ed offrendomi la possibilità di contemplare la pienezza di ciò che mi stava circondando, in cui ero giunto. Naturalmente, nonostante tutta la mia ingenuità, ero consapevole che non tutto il mondo fosse pari alla città del peccato, che al di fuori di essa esistessero realtà diverse, fondate su valori lontani da quelli di Kriarya: ciò che non avrei mai potuto immaginare sarebbe stata l’esistenza di una simile diversità la quale, come suggerita da Midda, non si limitava unicamente all’architettura cittadina ma comprendeva, soprattutto, l’animo delle persone al suo interno e, in ciò, ogni aspetto della vita quotidiana, anche il più semplice.
Fu nel momento in cui, seguendo il mio cavaliere, mi ritrovai a camminare per le vie della città portuale, che ebbi per la prima volta consapevolezza di come persone dello stampo di Be’Sihl non fossero eccezioni ad una regola universale, di come l’intera umanità non fosse condannata ad una reciproca ricerca di danno ad ogni costo. Il quotidiano offrirsi per le vie della provincia kofreyota nella quale ero nato e cresciuto, da sempre, si proponeva quale un gioco d’azzardo la cui unica posta sarebbe equivalza alla propria vita: ladri e prostitute erano, in Kriarya, il minore di tutti i problemi, l’aspetto più piacevole, probabilmente, dell’intera vita entro quelle mura dove, altresì, mercenari e sicari, nonché balordi di ogni genere, non avrebbero avuto esitazioni a pretendere la morte di qualcuno solo per uno sguardo ma impostato, per il colore di una veste non apprezzata o, peggio, per semplice divertimento. Anche il più forte dei guerrieri, il più esperto dei combattenti, quale la stessa Midda Bontor o Degan, suo e mio maestro, non si permettevano mai la leggerezza, la stolidità di proporsi indifesi innanzi agli altri abitanti dell’urbe, sicuramente non rinunciando alla propria fierezza, al proprio orgoglio, ma in ciò non peccando di superbia. Al contrario, sui volti, nelle posture, nelle voci stesse degli abitanti e dei visitatori in Seviath, risultò da subito trasparente, evidente, inconfondibile come alcun pregiudizio, alcun timore, alcun sospetto fossero presenti nei confronti del mondo circostante, di quella realtà non a loro necessariamente nemica ma, al contrario, potenzialmente amica. Espressioni serene, saluti cordiali, in contrapposizione a visi tirati, sguardi tesi dimostrare la propria superiorità psicologica ancor prima che fisica, ottennero sul mio animo un effetto dirompente, difficile da comprendere e da gestire.

« Cosa succede? » domandai alla mia compagna, accostandomi a lei con sospetto, con diffidenza.
« Stiamo passeggiando… dirigendoci verso la sede della capitaneria di porto per informarci su quali navi siano in partenza nella direzione per noi ottimale. » spiegò ella, evidentemente non cogliendo le ragioni alla base della mia questione.
« Ma… » insistetti, abbassando il tono di voce affinché nessun altro potesse udirci « Perché ci osservano tutti così? Siamo nei guai? »
« Credi di essere nei guai? » mi rigirò la domanda, non arrestando il proprio cammino.
« Non so cosa pensare, mia signora… » ammisi, incerto, osservando attorno e non notando reali ragioni per cui dover temere quel nuovo mondo, quella realtà apparentemente placida, cortese, disponibile.
« Ed allora ricordati del mio consiglio ed evita di pensare troppo… » suggerì ella, scuotendo il capo « Lascia che sia il tuo istinto a suggerirti come agire, come comportarti, sulla base di ciò che percepisci dall’ambiente attorno a te. Se ritieni vi sia pericolo, agisci di conseguenza… altrimenti rilassati quanto basta, senza esagerare ovviamente. »

Con il senno di poi, non che in questo momento, a contatto con la morte, esso mi possa servire particolarmente, riesco a comprendere come non errate si proposero quelle parole, quel consiglio, offertomi in simile frangente: conscia del minimo livello di pericolo all’interno di quella città, la mercenaria desiderava concedermi la possibilità di affinare quelle percezioni, quell’intuizione utile ad un guerriero, ad un avventuriero per comprendere in quali termini relazionarsi con la realtà a sé circostante, senza necessariamente conoscerla, né superficialmente né approfonditamente. Impossibile, infatti, sarebbe stato per chiunque avere nozione completa di ogni terra, di ogni regno, di ogni popolo, di ogni città, degli usi e dei costumi, delle leggi vigenti scritte o no, se non addirittura della stessa lingua parlata, in quel caso particolare, fortunatamente per me, comune ad entrambi i regni: nell’eventualità di profonde differenze, di possibili incapacità alla reciproca comprensione, pertanto, solo l’istinto avrebbe potuto essere di aiuto, forse sbagliando a volte, ma indubbiamente suggerendo in maniera naturale, animale quasi, quale atteggiamento assumere per meglio offrirsi all’esterno.
In quel particolare momento, comunque, difficile sarebbe stato per me immaginare di far ricorso al mio istinto nel momento stesso in cui ogni mio punto di riferimento appariva mutato, aveva assunto nuove forme, nuove connotazioni, tali da confondere completamente i miei sensi oltre che la mia stessa ragione. Sebbene riversassi in un tale stato interiore, nell’atteggiamento assunto dal mio cavaliere, nel suo portamento comunque marziale ma più rilassato, ebbi modo di comprendere la futilità dell’agitazione che mi stava dominando in quel frangente, dei sentimenti di timore che stavo permettendo si insediassero nel mio cuore: stavo fraintendendo ogni cosa, concedendo alla mia fantasia di cogliere pericoli là dove, invero, non vi si ponevano e, in ciò, avrei potuto commettere qualche sciocchezza o, addirittura, avrei potuto porre a rischio la mia signora. Solo nel timore di poter essere per lei ragione di imbarazzo, di farle riconsiderare la mia presenza al suo fianco, decisi di impormi maggiore quiete, maggiore controllo. La mia mano, fugacemente, corse ad insinuarsi in una pesante sacca che trasportavo a tracolla, separata dagli altri bagagli di cui mi ero comunque fatto carico nel mio ruolo di scudiero e che rendevano particolarmente impacciati i miei movimenti in quel cammino: all’interno di quella bisaccia, a placare il mio animo, ritrovai la presenza del mio tesoro, del parte migliore della mia intera vita, capace nel semplice contatto di trasmettermi serenità e pace… i miei sassi che anche adesso, nel mio estremo saluto all’esistenza ed al creato, mi sono ancora vicini, non mi hanno abbandonato.
Placando il mio animo nel mantenere strette in mano le mie pietre, riconoscendole una ad una nel semplice tocco, attraverso le loro superfici, le loro forme, seguii pertanto silenziosamente la Figlia di Marr’Mahew, restandole vicino ad osservando, curiosamente, tutto ciò che mi venne offerto.

In sua compagnia conobbi le autorità della capitaneria di porto, scoprendo come, al di fuori di Kriarya, predominante fosse il numero delle regole scritte rispetto a quelle non scritte, dei codici e dei regolamenti imposti da una comune autorità rispetto al frutto di più o meno volubili patti fra i detentori della forza e, in conseguenza, del potere. Riuscii quasi a divertirmi innanzi a tale spettacolo, all’operato volenteroso di tanti ufficiali preposti al controllo del porto e di tutte le sue attività, immaginando in che modo sarebbe mai potuto esistere un simile organismo per la gestione della mia città d’origine: l’unica flebile corrispondenza con esso, in verità, si sarebbe potuta ritrovare nella minima rappresentanza dell’esercito preposta alla sorveglianza dei quattro ingressi alle mura, il cui impegno, però, risultava essere puramente formale ancor prima che sostanziale, soprattutto in un confronto con ciò che in Seviath si trovava altresì offerto.
A seguito di una necessaria attesa, occorse meno di un quarto d’ora prima che la mia signora potesse ottenere le informazioni desiderate, ovviamente dietro il riconoscimento da parte sua di una tariffa fissata a tal riguardo: così, entrambi ci ritrovammo incamminati nel dedalo di moli antistante la città, assolutamente consapevoli, nonostante fossimo appena giunti, di ogni possibile obiettivo della nostra ricerca, di dove condurre i nostri passi e di quali nomi dover fare richiesta. O, per la precisione, fu Midda ad essere consapevole di ciò, laddove io mi impegnai semplicemente a seguirla non avendo ancora avuto modo di comprendere esattamente quanto fosse occorso.

martedì 17 febbraio 2009

404


« N
-no… » ripresi, prima incerto, poi costringendomi dimostrare e possedere una maggiore sicurezza, nel mantenere fede al mio ruolo, nel non concedermi debole innanzi a lei per una questione che avrebbe potuto considerare stupida, infantile, banale, nella sua natura di figlia del mare « Non avevo scherzato. Ma non ti offrirò ragione di dubbio nei miei confronti, mia signora. »
« Bene. » annuì ella, accettando le mie parole e considerando chiusa la questione, evidentemente comprendendo il mio stato d’animo e non volendo offrirmi pressioni maggiori rispetto a quelle di cui già ero vittima in quel frangente.

Superato l’inevitabile ed umano smarrimento di fronte alla terribile potenza del mare, potei offrire una parte della mia attenzione nei riguardi della città che, aliena, si presentò al mio sguardo dall’alto di quel passo.
Abituato unicamente allo stile architettonico kofreyota, regolare, geometrico, privo di ogni genere di morbidezza nelle proprie forme, di qualsiasi rotondità nelle proprie proporzioni, costituito da edifici prevalentemente alti, sprezzanti verso il cielo, disegnati in forti spigoli, avere l’occasione di osservare una capitale tranitha come Seviath si concedeva quale un’occasione unica, meravigliosa, forse irripetibile. Nonostante l’oscurità della giornata, per quanto le tenebre generate dalla tempesta avessero avvolto l’intero paesaggio, la lucentezza propria degli edifici posti non lontano da noi appariva in grado di proporsi ugualmente maestosa, entusiasmante, in contrasto con i colori nudi e piatti delle grigie pietre di Kriarya: innumerevoli si mostravano, infatti, i riflessi luminosi e colorati, generati dalla presenza di tasselli smaltati posti a preziosa epidermide sulle superfici irregolari, asimmetriche, forse prive di coerenza, di raziocinio di ogni edificio della città, ma in ciò molto più naturali rispetto a quanto offerto da quelli della mia terra di origine. Figli del mare ancor prima che della terra, gli architetti tranithi sembravano, nonostante tutto, essere più legati alla superficie del territorio di quanto non sarebbero mai stati i loro colleghi kofreyoti, non tendendo all’alto dei cieli, non spingendosi verso gli astri del cielo, così lontani ed irraggiungibili, ma conformandosi come un manto di muschio su tutto il litorale, per quanto esso non si concedesse amico dell’uomo, non si mostrasse collaborativo con un’ipotesi di insediamento, donando a quella parte di costa un connubbio stupefacente fra mare e monti, dove la lunga catena dei Rou’Farth, la loro stabile roccia millenaria, lì si poneva con vette più basse rispetto a quelle settentrionali in un incontro d’amore, in un morbido abbraccio con le maree e la loro mutevole potenza.

« Non ho mai visto nulla del genere… » commentai, scuotendo il capo nell’osservare il quadro offerto dall’urbe.
« Spero che il tuo tono sia di meraviglia e non di disgusto… » sorride Midda, concedendosi a me sorniona in quell’espressione « Mi dispiacerebbe il contrario. »

Invero difficile sarebbe stato rispondere a quella nota, a quella richiesta.
Troppe le emozioni, troppi i sentimenti che in tutto quello si stavano agitando in me, dividendomi fra il terrore verso il mare, messo a tacere ma non scordato, e la sensazione di estraneità impostami da quel paesaggio, da una realtà che mai avrei immaginato neppure nei miei sogni più assurdi. Abitazioni sviluppate in assoluta liberta, con forme caotiche, scale e passaggi arrotolati reciprocamente gli uni sulle altre, finestre e porte di ogni dimensione, in ogni prerogativa e, in tutto questo, alcuna barriera eretta a protezione della vita, dell’insediamento lungo tale costa, come se alcun nemico avessero da temere, alcun pericolo potesse essere loro imposto.
Che mondo sarebbe potuto essere quello che mi si stava offrendo innanzi? O, peggio, da quale mondo io stavo provenendo?

« Mi sento confuso… » ammisi, non volendole mentire, non desiderando offrire spazio ad alcun genere di dubbio o incomprensione fra noi, che potesse compromettere un rapporto appena incominciato « E’ tutto così… diverso… »
« Vieni da una delle più grandi città di questo angolo di mondo, considerata da molti centro assoluto di ogni male e perdizione, eppure sembri un innocente ragazzotto di campagna appena giunto innanzi alla capitale… » sottolineò, osservandomi divertita « Comunque posso comprendere il tuo disagio: il mondo è tanto ricco di varietà, di differenze fra loro spesso tanto contrastanti da incutere timore negli animi di coloro che non si riescono a porre aperti innanzi a tanta libertà. »
« Stai dicendo che… » tentai di difendermi, innanzi ad un’accusa di cui non mi sentivo colpevole.
« Non voglio dire nulla. » scosse il capo, levando appena una mano verso di me, a zittirmi « Sei ancora giovane e questo è il tuo primo viaggio: hai tanto da scoprire, molto più di quanto tu non avresti mai potuto immaginare, e non solo nelle grandi cose quanto, soprattutto, nelle piccole… »
« Sarà il tempo a definire che tipo di persona diverrai. » proseguì ella, con tono tranquillo, controllato, forse per molti considerabile freddo, privato di ogni emozione ma, dal mio punto di vista, più appassionato di molte futili grida « Il tempo e le scelte che nel corso del medesimo tu compirai, i giudizi che offrirai al mondo a te circostante, a tutto ciò che non rientra nella tua visione della realtà… »
« Il mio consiglio, per ora, è quello di lasciare che la tua mente si possa spingere oltre a tutto ciò che per te è stata la vita negli ultimi anni, in Kriarya. » concluse, spronando il cavallo a riprendere la discesa interrotta in quel breve dialogo « Non tutto ciò che conosci è il meglio o il peggio che il mondo potrà mai offrirti e rifiutare tale possibilità in virtù del timore del cambiamento sarebbe un grave errore. In fondo hai scelto di affiancarmi anche per questa ragione, per aprire gli occhi sulla realtà a te circostante e prima ignorata… o erro? »

Cercando di mantenere il passo al suo seguito, in posizione di chiusura rispetto alla carovana mercantile con la quale avevamo diviso il rischio e la fatica del viaggio verso Seviath, riflettei silenziosamente sulle parole offertemi, sui consigli che il mio cavaliere mi aveva deciso di concedermi come dono.
In ciò non potei fare a meno di notare come, incredibilmente, molteplici figure fossero comparse nella mia vita in quegli ultimi mesi, offrendosi a me quali reali ispirazioni a cui poter tendere, verso cui fare riferimento per trovare la mia strada. Be’Sihl, Degan ed, ora, Midda: da ognuno fra loro, per quanto assolutamente diversi, forse antitetici nei propri principi, nel proprio stile di vita, avrei potuto e dovuto apprendere un insegnamento, una serie di principi utili a rendermi veramente uomo laddove fino a quel momento, invero, ero rimasto ancora un bambino, incosciente verso la realtà a me circostante, ignavo nei confronti di ogni responsabilità. E nel rendermi conto di tale situazione, della fortuna che il fato mi aveva reso in tali presenze, pur non offrendo la mia fede verso alcuna divinità in particolare, pur dubitando dell’esistenza di un reale concetto di sacro in contrasto alla maggior parte delle credenze comuni, non potei evitare di ringraziare colui o colei che, superiore ed ineffabile, quell’opportunità mi aveva concesso, quei maestri aveva posto sul mio cammino di vita.

« No… non erri. » risposi, sottovoce, ritenendo di essere inudibile dal mio cavaliere, dove quelle parole non erano comunque state da lei richieste nella retorica della domanda ma dove, ugualmente, desideravo sottolineare la correttezza delle medesime, la mia comprensione su di esse e sul loro significato.
« Mi fa piacere questa tua conferma. » replicò la mercenaria, negando ciò che avevo dato per scontato e voltandosi appena verso di me nuovamente con aria divertita, forse trovando ragione di gaia distrazione dai propri pensieri nella mia insolita presenza al suo fianco « Comunque ricordati di ciò a cui ora stai offrendo ragione: a breve avrai modo di renderti conto di come le differenze fra Kriarya e Seviath non si limitino unicamente al gusto estetico nell’erezione degli edifici… »
« Cosa intendi dire, mia signora? » domandai, non cogliendo ingenuamente il senso di quelle parole.
« Te ne accorgerai presto… scudiero. » sorrise ella, tornando a guardare innanzi a sé, per accompagnare il cammino del proprio cavallo con attenzione assoluta « Te ne accorgerai presto… »