11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

lunedì 16 febbraio 2009

403


I
l mare: l’ultima grande frontiera dell’umanità.

Molte volte ho avuto modo di ascoltare descrizioni in merito ad esso con simili parole, con tali termini. Mai, però ed ovviamente, avevo avuto occasione di confrontarmi personalmente con esso prima del giorno in cui, accanto a Midda, raggiunsi le sue sponde nei confini della penisola maggiore del regno di Tranith e per simile ragione difficile sarebbe descrivere quali potessero essere le mie sensazioni nei suoi riguardi, il pregiudizio rivolto umanamente verso tale sensazionale entità prima di allora, in un tempo antecedente a quello in cui mi venne offerto innanzi allo sguardo. Ogni uomo e donna, per quanto ipocritamente possa velare tali emozioni dietro ad una razionale assenza di ogni preconcetto, non potrà mai sfuggire alla propria intrinseca natura, a quell’umana malizia tale per cui, anche e soprattutto nel non conoscere qualcosa, troppe idee, troppe sentenze vengano in merito addotte basandosi unicamente su ciò che viene riferito da terze fonti. Il problema con un fenomeno pari a quello in questione, però, in me nasceva in conseguenza di una decisa moltitudine di opinioni fra loro contrapposte, per quanto raggruppabili in due nette e distinte fazioni.
Ascoltando le parole dei figli del mare, di coloro nati e cresciuti a contatto con le sue sponde, capaci di nuotare ancor prima di camminare, esso si proponeva innanzi all’umanità come una vera divinità, una concreta dimostrazione di sacro come poche altre sarebbero mai state offerte ai mortali: misericordioso e generoso con i suoi fedeli, con la sua prole, capace di offrire loro vita, sostegno e rifugio, si sarebbe altresì concesso impietoso e tremendo verso tutti coloro che ad esso si fossero avvicinati con blasfemia, non onorando il suo potere, la sua maestosità. Ideali positivi, colmi di speranza, quelli che avrebbero animato in ciò gli animi nei riguardi dell’infinita distesa d’acqua, inesplorata e forse inesplorabile nella propria vastità: ma tale opinione si concedeva quale il giudizio di pochi, il pensiero di una minoranza, di coloro che, appunto, con il mare erano in grado di dialogare, di rapportarsi a livello emotivo, psicologico, spirituale e fisico in virtù di un diritto di nascita, una prerogativa negata persino ai più grandi sovrani laddove essi fossero nati sulla terraferma.
Innanzi allo sguardo del resto dell’umanità, di tutti quelli che, miei pari, erano nati e cresciuti a contatto con la solidità della terra, esso appariva altresì quale un mostro mitologico, padre di innumerevoli e terribili creature, la cui sola prerogativa, il cui unico scopo di immortale esistenza, sarebbe stata quella di annientare qualsiasi stolto che entro i suoi confini si fosse avventurato. Un dio, forse, ma ben lontano dall’essere buono e giusto, quanto piuttosto oscuro ed empio, da temere e dal quale cercare maggiore distacco possibile, con il quale non tentare mai alcun rapporto, alcuna conoscenza: spingersi in nave all’interno del suo regno maledetto sarebbe equivalso ad un suicidio, al condannarsi ad una morte orrenda che, in infiniti modi diversi, avrebbe comunque avuto modo di prevalere sulla carne umana, sull’esistenza mortale. Draghi ed ippocampi, sirene e serpenti, gorghi e calamari giganti, ed ancora pesci tanto smisurati nelle proprie dimensioni da poter inghiottire in un solo boccone un uomo intero… tremende, inimmaginabili ed indescrivibili erano le creature che avrebbero in esso atteso il momento proficuo per pretendere il proprio tributo di sangue e dolore. E queste voci, per quanto sicuramente più superstiziose, più enfatiche e meno realistiche rispetto ai racconti offerti da coloro che del mare avevano fatto la propria vita, non avrebbero potuto evitare di far leva sulle corde più profonde e sensibili dell’animo umano, sugli atavici terrori per l’ignoto, per una dimensione incomprensibile, imperscrutabile e, peggio, incontrollabile. Troppo saldi alla terraferma, troppo legati alla possibilità di dominare il territorio in cui viviamo e plasmarlo a nostro piacere: questo è ciò che tutti noi siamo sempre stati, ciò per cui non ci è concesso di comprendere ed apprezzare pienamente il mare, una realtà da noi non modificabile.
Ed io?
Analisi del comportamento umano. Prima lezione.
Scenario: prendete un giovane che ha fatto dei sassi una ragione di vita, che ha cercato nel cuore stesso della terra il fondamento per la propria esistenza, per tutto ciò che lo rappresenta nel mondo in virtù della loro solidità, della loro immutabilità, della loro concreta certezza, e ponetelo innanzi ad un orizzonte sconfinato quale quello del mare, in un momento in cui tutti i suoi dei sembrano aver deciso di scatenare in esso la propria furia, chiedendo in ciò ai padroni dei cieli di collaborare con una tempesta assordante, cupa, impenetrabile al punto di trasformare il giorno in notte.
Domanda: quale reazione può derivare logicamente da tale confronto?

« Q-q-quello… è… il m-m-m-m… » balbettai, fossilizzato innanzi allo spettacolo che, dall’alto del passo a nord di Seviath, mi fu offerto al termine del lungo viaggio verso la capitale stessa.
« Se intendi dire “mare”… la risposta è sì. » sorrise la mia compagna di viaggio, il mio cavaliere, evidentemente divertita dalla reazione che offrii « Allora non scherzavi quando hai detto di non averlo mai visto prima… quasi credevo volessi prendermi in giro. »

Ero determinato, ero deciso, ero convinto a portare a termine la mia missione al suo fianco.
Midda aveva domandato della mia presenza al suo fianco per un lungo viaggio in nave, un percorso attraverso il mare e le sue insidie diretti a sud, alle isole più lontane dell’arcipelago tranitha ed ancora più in basso, agli estremi meridionali del mondo noto, al di fuori di ogni giurisdizione. Là, in una delle tante piccole zolle di terra affioranti dall’infinità azzurra di quel territorio sconosciuto, quasi piccole efelidi su una pelle altrimenti incontaminata, ci attendeva la meta finale della nostra missione, se così si fosse potuta definire: mantenuti prigionieri, almeno secondo le informazioni che ella aveva ottenuto da lady Lavero come compenso per il recupero della corona della regina Anmel, erano i compagni che la mercenaria aveva perduto più di un anno prima a seguito di un naufragio, l’equipaggio, gli amici da cui era stata costretta a separarsi per i voleri del fato e che più non aveva avuto occasione di rincontrare. Ed ora, in mia compagnia, ella desiderava raggiungere quell’isola, riscattare la libertà di quelle donne e di quegli uomini e concludere, in tal modo, una questione rimasta in sospeso per troppo tempo, per la quale troppo a lungo aveva atteso.
Ma innanzi a quello spettacolo terrificante, tutta la mia buona volontà, tutta la mia fiducia nel fato, venne annientata di colpo… come avrei mai potuto confrontarmi con qualcosa di quel genere? Con un avversario temibile come il mare? Alcuno fra i miei addestramenti, alcuno fra gli sforzi che in quelle settimane avevo compiuto per prepararmi al mio ruolo da scudiero avevano mai preso in considerazione una tale situazione, avevano vagliano una simile eventualità: ero un abitante del continente, nato e cresciuto all’interno di solide mura di pietra, a contatto quotidiano con la certezza offerta dalla madre terra... in virtù di quale assurda ragione ella aveva supposto di potermi trascinare in tale impresa? In conseguenza di quale folle raziocinio poteva aver confidato che io le potessi essere d’aiuto proprio in tale frangente?
Purtroppo ormai era troppo tardi. Era troppo tardi per tirarsi indietro. Rinunciare a quel punto non solo avrebbe significato rinnegare il mio impegno ma, peggio, sarebbe stato chiara espressione del desiderio di disonorare tutta la fiducia che Midda stessa aveva riposto in me, per la quale aveva addirittura coinvolto Degan, promettendogli un adeguato compenso in cambio della mia formazione come solo per caso avevo avuto modo di scoprire nel corso del viaggio fra Kriarya e Seviath, impegnando in tal modo risorse ed energie per qualcuno che, in verità, nulla aveva mai fatto per guadagnarsi tanto onore, una simile attenzione.
Il mio maestro mi aveva ripetuto molte volte l’insegnamento, il principio in base al quale la forza di un avversario si misura in primo luogo sulla propria stessa debolezza e solo allora, paradossalmente, mi fu concessa occasione di iniziare a comprendere molti aspetti di una simile filosofia, di un tale pensiero, che prima non avevo avuto modo di capire, non avevo voluto apprezzare: un vero guerriero non si sarebbe mai distinto per la semplice consapevolezza sui propri limiti, quanto per la capacità di comprendere quando porli in discussione, quando decidere di tentare di superarli, lottando contro se stesso ancor prima che contro un nemico concreto o fittizio. Per simile ragione una donna come la Figlia di Marr’Mahew, capace di spingersi là dove nessun altro avrebbe avuto successo, non era in grado di trovare requie, non si poteva concedere possibilità di riposo, osando sempre di andare oltre, di negare le proprie debolezze… e per simile ragione un giovane come me, legato più di molti altri alla terra, avrebbe dovuto tentare in quell’impresa, nell’affrontare il mare a costo di trovare in esso il proprio tragico destino.

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