11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

domenica 31 agosto 2008

234


A
meno di cinque minuti dall’Arena un altro edificio d’importanza storica per la città di Garl’Ohr si presentava alla vista, così antico da non permettere a memoria d’uomo di ricordare in quale epoca tanto remota esso fosse sorto, forse addirittura da sempre esistito in quella posizione, su quelle fondamenta al centro della capitale: esso era la residenza Veling.
Ritrovando come unico attuale inquilino lo stesso lord Visga, ultimo erede della propria antica e nobile famiglia destinata con lui ad estinguersi per sempre a causa della sua incapacità a dar vita ad una nuova generazione, tale dimora si proponeva non dissimile alle altre erezioni gorthesi lì circostanti, in grezza e scura pietra non levigata, non levigata, priva di qualsiasi opera di abbellimento artistico o, semplicemente, visivo. Mai era stata intenzione di quel popolo, fin dalla notte dei tempi, la ricerca della bellezza, dell’estetica, laddove essa non avrebbe mai condotto ad un’utilità pratica, ad un fine ultimo necessario nella vita o nella guerra, soprattutto laddove i due concetti, vita e guerra, si ritrovavano ad essere considerati coincidenti in quelle terre. In tal modo, quindi, quel maniero si concedeva allo sguardo eretto su un’originaria ampia base quadrata, successivamente estesa con due ali per poter ospitare meglio i proprietari nei periodi in cui la famiglia si era ritrovata ad essere forte di una vasta progenie, non spingendosi però in altezza per oltre due piani, quasi temendo l’ascesa al cielo e preferendo in contrasto ad altri popoli il contatto ravvicinato con il terreno a cui i gorthesi sentivano di appartenere. Le camere patronali, le stanze in cui il solitario padrone della villa si ritirava alla sera, erano poste proprio nel cuore centrale della costruzione, delle più antiche pietre reggenti per quel luogo: al loro interno, in contrasto con quanto espresso esternamente, quelle stanze ritrovavano uno sfoggio di suntuosità quasi eccessivo, addirittura sgradevole, nelle ricche stoffe, nei preziosi ori e gioielli che tutto ricoprivano, creando un mondo alternativo a quello esterno, una realtà del tutto differente e, forse, blasfema, nella quale però le varie concubine scelte di volta in volta dal nobile non potevano evitare di ritrovarsi a proprio agio, vedendo in tanto sfarzo, in tanta ricchezza il proprio gusto tipicamente femminile vanir stuzzicato nei giusti modi, attraverso le migliori proposte loro possibili.
Quella sera, al pari del resto della città, anche la residenza Veling si sarebbe dovuta ritrovare privata di una propria vita, laddove ogni interesse era stato rivolto all’Arena ed allo spettacolo in corso in essa: certamente i servi non erano stati ammessi al circo, secondo le disposizioni da sempre esistenti in Gorthia, ma tale inibizione non li aveva ritrovati scontenti, potendo godere, in tal senso, della possibilità di lasciare il proprio lavoro e fare ritorno alle proprie famiglie, nella periferia della capitale, almeno per qualche ora, per il tempo in cui si sarebbero prolungati i giochi. E nella presenza di una sì importante ospite, era probabile che tale manifestazione non avrebbe trovato rapidamente fine, laddove anche al termine dei combattimenti, alla prevedibile vittoria di Midda Bontor, il vero spettacolo avrebbe solo avuto inizio, in una lunga notte di festeggiamenti, di riti in onore dell’Unico e dei guerrieri, o della singola donna guerriero, che da egli sarebbero stati benedetti nella propria sopravvivenza. Vuote, pertanto, avrebbero dovuto presentarsi quelle mura, senza timori per furti o per altri misfatti in una città, in un regno che non prendeva in considerazione alcun indice di criminalità, non per assenza di una legge a stabilire cosa fosse lecito e cosa no, non per assenza di organi atti ad amministrare simile giustizia terrena, altresì per l’estrema severità di tali provvedimenti che inibivano qualsiasi interesse da parte di malintenzionati nei confronti di quelle terre, di simili città. L’ultima esecuzione che si ricordava in Garl’Ohr risaliva, in effetti, a quindici anni prima di quel giorno, quando un servitore era stato sorpreso a sottrarre del cibo al proprio signore non contento del compenso quotidiano riconosciutogli per il proprio lavoro: in una realtà dove il sangue e la morte si trovavano ad essere non le principali ma le uniche unità di misura del valore di una persona, alcun interesse sarebbe mai stato rivolto verso un sistema carcerario o verso forme di punizione diverse dalla pena capitale per qualsiasi misfatto, fosse anche il più banale.

« Doveva essere tutto vuoto, vero? Tutto tranquillo, eh?! »

Invero, per quanto deserte sarebbero dovute essere le stanze della dimora di lord Visga, tutt’altro che tali esse risultavano: da un lato per volontà dello stesso proprietario, che accanto alle donne anche ad altri esseri viventi offriva il proprio amore, la propria passione, mantenendone quattro cani da combattimento sempre accanto a sé nella propria villa, in quell’ambiente altrimenti troppo solitario e triste; dall’altro lato per desiderio di un intelletto esterno a quel regno, che i propri piani avevano rivolto nell’occasione offerta, e volontariamente creata, dalla presenza di Midda Bontor nell’Arena per permettere a propri agenti di agire indisturbati, il più a lungo possibile, all’interno del vasto edificio, alla ricerca di un obiettivo ben definito. Purtroppo per i secondi, però, i primi erano stati una sorpresa non prevista, un dato stupidamente non considerato che, in quel momento, li stava vedendo confinati in uno stretto ripostiglio, con i quattro grossi ed inferociti animali ad attenderli in silenzio fuori dalla porta, pronti a sbranarli ad il minimo passo falso in tal senso.

« Te la prendi con me? Avrebbe dovuto essere premura di Carsa informarci di questi cuccioloni troppo cresciuti! Che colpa ne posso avere io? »
« E’ stata Carsa per caso a rifiutarsi di accoppare quelle bestiacce quando avremmo avuto comodamente la possibilità di farlo? »
« Stai iniziando a diventare noioso, Howe… » storse le labbra verso il basso l’imputato in quel singolare processo verbale « Ti da così tanto fastidio che io abbia anche una coscienza? »
« Non l’avrei mai definita “coscienza”, Be’Wahr… si chiama “idiozia” dalle mie parti! » rimproverò nuovamente l’uomo chiamato Howe verso il compagno, stretto davanti a lui « Fra tutti i dannati animali di questo mondo, proprio verso i cani dovevi offrire il tuo personale rispetto? Perché non ai gatti, per Lohr! Almeno con quelli il massimo pericolo che avremmo corso sarebbe stato di essere graffiati… »
« I cani sono creature meravigliose: se solo superassi i limiti della tua ignoranza riusciresti ad apprezzarli anche tu… »
« Vallo a spiegare a quel figlio d’una cagna che mi ha azzannato un braccio mentre cercavo di estrarre la spada: diamine, hai concesso a quel piccolo demonio di farmi più male di quanto non ce ne abbiamo fatto cinque cerberi poche settimane fa. »

Il silenzio calò per un istante fra i due, che nell’oscurità del loro rifugio non poterono neppure essere in grado di scambiarsi uno sguardo, di studiare le reciproche espressioni in quella situazione così paradossale dall’apparire assolutamente comica anche per loro stessi: una fra le migliori coppie di mercenari di tutti i regni del sud posta in assedio da quattro mastini. Nei lunghi anni della loro fraterna collaborazione, Howe e Be’Wahr erano stati in grado di tenere testa ad eserciti, di abbattere creature fantastiche di cui solo il pronunciarne il nome avrebbe diffuso il panico fra la maggior parte delle popolazioni, ed in quel momento, senza alcuna dignità, essi avevano cercato protezione in tre piedi di spazio contro quattro comunissimi cani, scendendo ad un livello tale nel quale neanche il più scalognato fra i ladri si sarebbe abbassato.

« Howe… » riprese dopo poco una delle due voci, rivolgendosi al compagno.
« Dimmi, Be’Wahr. » invitò l’altro, sospirando appena per il nervoso accumulato.
« A Carsa e Midda eviteremo di raccontare questi dettagli, vero? » domandò con il tono adatto ad un bambino desideroso di nascondere ai propri genitori l’ultima marachella compiuta.
« No. » negò con sarcasmo la controparte « Ovviamente racconteremo loro tutto quanto: come evitare di sottolineare questo meraviglioso risultato raggiunto, mentre una concupisce da due settimane il padrone di casa e l’altra rischia in questo stesso momento la vita nell’Arena per offrirci l’occasione di agire con la maggior discrezione possibile? La sincerità mi sembra la via migliore da seguire… assolutamente. »
Un altro momento di silenzio si propose a quell’affermazione, salvo poi essere infranto nuovamente dalla voce di Be’Wahr: « Sei arrabbiato con me, Howe? »
« Ovviamente sì. E mi domando in che modo tu possa averlo intuito… »

sabato 30 agosto 2008

233


I
mpetuoso come un atto di creazione, violento come uno di distruzione, il nuovo attacco incendiario del tifone vide un nuovo fascio di fiamme eruttare dai suoi polsi per spazzare in ampiezza tutta l’area a lui frontale, per uccidere senza alcuna remora e senza alcuna reale ragione chiunque si fosse spinto al confronto con lui in quella zona di combattimento, gli avversari posti davanti alla sua vista nella forma di un gruppo sparuto di fiere e di una sola, insignificante donna umana. Le carni che entrarono in contatto con quel fuoco si videro ridotte in polvere sul colpo, sbriciolate come un vecchio ceppo di legno secco gettato nel camino ardente: ancora una volta, i felini che, malcapitati, incontrarono l’offesa di quel potere, videro la propria vita interrotta in un istante, probabilmente senza neanche aver la possibilità di soffrire, di rendersi realmente conto di ciò che stava accadendo. E come già era accaduto precedentemente, la sabbia accarezzata da quelle fiamme, nuovamente, si cristallizzò, trasformandosi in una liscia distesa vetrosa, assolutamente perfetta, meravigliosa, quasi in contrasto con l’idea di morte da esse offerte.
Midda, impegnandosi in una folle corsa con tutta la velocità, con tutta la forza, con tutta la resistenza di cui poteva essere capace, di cui poteva richiedere alle proprie membra, cercò distanza fra sé e quel calore assurdo: in esso, in quell’energia tremenda e terrificante, persino il silenzio sulla folla di spettatori venne imposto, lasciando tutti ora attoniti di fronte a quello che, per loro, appariva sicuramente espressione del potere del loro dio Unico. Fortunatamente per la mercenaria lo spazio concessole dall’Arena si proponeva sufficiente a gestire la propria speranza di evasione, ed il calore trasmesso dall’aria fino a lei, per quanto ustionante, non si concesse maggiore di altre situazioni affrontate in tempi recenti, al confronto con il magma puro e mortale con il quale aveva avuto a che fare alcune settimane prima. Il di lei corpo, perfetto come solo la natura lo aveva saputo concepire, ineguagliabile come solo l’esperienza lo aveva forgiato ad essere, vide i propri muscoli muoversi con controllo totale, nonostante l’isteria che sarebbe stata comprensibile in una simile situazione: il respiro ritmico lasciava sollevare ed abbassare i di lei seni mentre il corpo, appena ripiegato in avanti, ondeggiava continuo con i movimenti costanti di gambe e braccia, combattendo contro il risucchio creato dall’ossigeno bruciato dalla fiamma alle di lei spalle e contro il terreno sabbioso, insidioso in un tale contesto.
La tensione di quel momento, in lei, negli spettatori e, forse, anche nel tifone, fecero sembrare eterni quei secondi, laddove l’intera azione non durò in effetti molto, non vide eccessivamente protratto il fuoco offerto dalla creatura, per quanto distruttivo, per quanto incontenibile. E prima di quanto chiunque avrebbe mai testimoniato, le fiamme che ormai si erano sospinte a lambire le vesti della donna e la di lei disordinata chioma corvina, si interruppero, trovarono fine, lasciando solo due contendenti ancora in vita all’interno dell’Arena, in quello spettacolo di morte tanto desiderato da quel popolo guerriero. Quella, pertanto, si offrì quale la prima e l’ultima occasione per la Figlia di Marr’Mahew di condurre il proprio attacco, la propria controffensiva a termine, laddove una terza fiammata avrebbe altrimenti segnato la di lei fine, la conclusione della sua esistenza.

« Thyres… » imprecò.

Ella, conscia di simile situazione, modificò la propria già larga traiettoria per sospingere il proprio corpo verso l’avversario, per dirigersi alla volta del proprio colossale nemico, nell’epica, nella dramma di un confronto diretto degno delle migliori ballate, di leggende destinate a perdurare per generazioni, a diffondersi in ogni terra. Forse chiunque altro, al di lei posto, avrebbe gridato pietà, avrebbe cercato un rifugio, avrebbe addirittura tentato di arrampicarsi sugli spalti e trovare fuga da quel destino crudele: una simile reazione, invero, avrebbe senza dubbio poi previsto la morte di tale individuo, se non per mano della creatura per quella degli stessi gorthesi, privi di pietà di fronte ad una simile mancanza di coraggio, di spirito combattivo. Ma per quanto guerrieri nel più profondo dell’animo, per quanto cresciuti fin da bambini nel votarsi unicamente al sangue ed alla guerra, tutti i presenti non poterono evitare di osservare con ammirazione l’indomito spirito di quella donna, decisa ad affrontare il proprio nemico viso a viso, correndogli incontro senza mostrare alcun timore.
La distanza fra Midda ed il mostro diminuiva sempre di più mentre il tempo, incontrollabile, trascorreva avvicinandola al momento in cui ella avrebbe incontrato nuovamente le fiamme avversarie se solo avesse fallito nel proprio piano. Il tifone, osservando quell’ultima preda, si protrasse in un nuovo lungo ed orrido grido, che vide ancora una volta la sua strana lingua serpentina uscire dalle sue fauci e dirigersi al cielo: non avendo ragioni per temere quell’insignificante essere, non avendo motivazioni per offrire timore alla mercenaria, esso restò immobile, ad attenderne l’arrivo, fremendo per il desiderio di stringerne le carni fra le proprie mani artigliate, di strapparne gli arti uno ad uno spargendoli in maniera raccapricciante attorno a sé.

« Due volte e mezza la posta… » sussurrò la donna, stringendo i denti.

Il momento finale così giunse, l’attimo decisivo si propose di fronte a lei, accogliendola nell’esultanza di una fine non desiderata, di un destino apparentemente segnato: le zampe del mostro, contemporaneamente, si aprirono e si chiusero nella sua direzione, allo scopo di accoglierla, di catturarla, di sottometterla alla propria volontà ed ella, fredda ed imperturbabile come sempre, spiccò un salto, lungo, perfetto, nell’evitare la di lui presa e nel ricadere, altresì, proprio su un disarmonico braccio, su quell’arto destro così grosso, così pesante, che sotto i di lei piedi si propose così come una passerella perfetta, a risalire fino alle spalle, al collo. Esso, comprendendo la propria vulnerabilità in quel frangente, cercò di ribellarsi, tentò di scuotersela di dosso, di colpirla con la mano mancina, ma ella saltò di nuovo, agile e incontenibile, arrivando alla propria meta, giungendo sulla verticale di quel collo taurino, la base di una testa tanto piccola per un corpo tanto grande, roteando la propria lama per porla in verticale, per mirare con la punta verso il basso e lì, con violenza, con forza distruttiva, scendere a conficcarsi nella carne e nelle ossa. La scelta compiuta dalla Figlia di Marr’Mahew aveva pertanto escluso di sfruttare la propria conoscenza in merito alla generazione del fuoco in quell’essere, l’esperienza conquistata nello scontro con il drago, per porre fine alla di lui vita: una simile azione avrebbe infatti posto un prezioso segreto d’arte a disposizione di chiunque, ingenuità che ella, pur sempre mercenaria per professione, non si sarebbe mai potuta concedere, non si sarebbe mai potuta permettere o perdonare. Così, pur rischiando la morte nell’azzardo di uno scontro fisico privo di trucchi, di un’offesa diretta senza particolari strategie a rendere paritario lo scontro, ella era giunta ugualmente al proprio obiettivo, alla propria metà, recidendo di netto la colonna vertebrale della creatura con la propria spada dagli azzurri riflessi, vincendo con la propria lama forgiata nei principi delle acque dei mari la forza impetuosa e distruttiva di quel fuoco delle montagne.
Con un ultimo, tremendo ed insopportabile grido di dolore, di sorpresa, di pena, di tradimento, il tifone rivolse un’invocazione al cielo, quasi stesse pregando il proprio padre divino di perdonarlo per il fallimento raggiunto, di vendicarlo per la morte subita, salvo poi vacillare e ricadere pesantemente a terra, infrangendo rumorosamente le lastre vetrose create davanti a sé. Midda, saltando agilmente all’indietro in un’elegante capriola, raggiunse il suolo come se nulla fosse, come se l’ennesima incredibile impresa compiuta non avesse valore alcuno, rialzandosi dopo il crollo del mostro da terra e ripulendosi poi con calma dalla sabbia prima di dirigersi a recuperare la propria preziosa arma, la propria fedele spada.
Il silenzio più completo permase attorno a lei in quella tranquilla passeggiata, in quel passo appena ancheggiante mosso fino al corpo privo di vita del rettile gigante, nella di lei serena arrampicata sui resti del proprio avversario abbattuto fino all’impugnatura emergente da dietro il di lui collo, dal punto della sua morte. Quel mutismo diffuso, in un misto di incredulità, sconcerto ed ammirazione, la accompagnò nell’estrazione della lama e nella sua successiva pulizia, fino al momento in cui essa non tornò a celarsi nel proprio fodero, a riposare nel proprio giaciglio: solo allora, solo in quell’istante, come se quel riporre l’arma fosse un segnale accordato con tutti, un boato di esultanza si levò corale dall’intera Arena, tale addirittura da sentirsi per tutta la città tanto fu il trasporto offerto dai presenti, l’entusiasmo donato a colei che era stata in grado di difendere davanti ai loro occhi il valore della propria stessa leggenda. La morte del tifone, della creatura di Gorl, il loro dio Unico, stava già venendo considerata parte della storia, per cui a lei mai sarebbe stato offerto rimprovero, mai sarebbe stata richiesta punizione: il Fuoco Eterno, ai loro occhi, in quell’uccisione, era stato più che onorato, più che glorificato, ed il nome di Midda Bontor a lungo sarebbe rimasto nelle loro menti e nei loro cuori quale quello di un profeta guerriero.

venerdì 29 agosto 2008

232


« T
hyres… » commentò la mercenaria, storcendo le labbra e riprendendo rapidamente il controllo della propria spada, laddove ormai le fiere non sarebbero più state per lei un problema « Fenici, cerberi, tifoni: se continua così penseranno che ho dichiarato guerra a tutti figli di Gorl! »

Nelle credenze comuni, infatti, il tifone, non diversamente dalle altre creature nominate da ella ed affrontate in tempi recenti, trovava la propria origine nella mano creatrice del dio Gorl, il dio Unico, come era altrimenti chiamato in Gorthia: nella sua forza, nel suo intelletto, simili meraviglie avevano trovato ragion d’essere e si contraddistinguevano da ogni altra creatura esistente al mondo per il proprio intrinseco rapporto con le fiamme, quel Fuoco Eterno a cui tanto offrivano devozione gli abitanti di quelle terre, riferendosi ad esso come alla stessa scintilla vitale di tutte le cose. E nell'Arena, senza perdere un solo istante di tempo, esso dimostrò subito questo potere, questo suo rapporto con il fuoco, vedendolo generato dai propri polsi, o per lo meno ciò che similmente si poteva considerare, per dirigersi in direzione della stessa mercenaria e dei nove felini, in guardia, in allarme non diversamente da ella.
La potenza distruttiva di quella fiamma fu impressionante, vedendo bruciare la stessa sabbia su cui l'incontro stava avendo luogo, al punto tale da portarla a cristallizzarsi e trasformarsi in una liscia lamina di vetro: in un rapido scatto il gruppo di attaccati riuscì quasi per intero ad evitare gli effetti non gradevoli di una simile forza, muovendosi abbastanza velocemente da portarsi al di fuori dalla linea di fuoco demarcata dal tifone. Purtroppo, però, alcune vittime si presentarono già in soluzione a quella prima offesa, nella violenza di quel mostro innaturale e incontrollabile: un leone ed una pantera non riuscirono a muoversi con sufficiente prontezza di riflessi, forse colti emotivamente in contropiede dall'orrenda apparizione loro proposta, ritrovando nella fiamma una morte pressoché istantanea ed indolore, venendo inceneriti in un istante, trasformati in polvere nel tempo di un battito di ciglia.

« Maledizione... questa gente è folle! » sussurrò la donna guerriero, rialzandosi rapidamente dalla scivolata appena compita per essere pronta ad un nuovo scatto, ad una nuova evasione dall'avversario « Ed io sono più folle di loro per aver accettato questo incarico! »

Purtroppo per lei ormai era in gioco e non si proponeva come parte del suo carattere rinunciare alla partita, tirarsi indietro da una sfida soprattutto laddove essa avrebbe potuto darle nuova prova del proprio valore, della propria forza, del proprio coraggio: roteando la spada attorno a sé a ricercarne l'equilibrio, la Figlia di Marr'Mahew analizzò con attenzione il nemico che le era stato proposto, cercando di comprenderne i gesti, di seguirne la natura per scoprirne le debolezze ed i difetti, i vantaggi che ella avrebbe potuto ritrovare in un confronto con esso. Il tifone, consumata la prima scarica infuocata, si mosse con passo pesante, con gesti lenti goffi, ad avanzare verso di lei e verso i felini, tutti decisi a non impegnarsi in un confronto diretto con esso, tutti consci dell'impossibilità di ingaggiare una lotta equa con un simile colosso. Le sue lunghe braccia, così sproporzionate nel confronto con il corpo ed un'ideale anatomico umano, si mossero una alla volta nell’evidente necessità di non lasciare gravare l’intero proprio peso solo sulle gambe, a spazzare l'area davanti a sé, cercando in quei gesti sicuramente forti di una potenza incomparabile, di giungere a colpire un avversario, di spingersi ad afferrare un nemico, per violarne l'integrità, distruggerne le membra, le ossa.
Tutt'altro che strano apparve quel comportamento agli occhi della sua spettatrice, laddove ella, sebbene in assenza di uno specifico ed edotto studio a tal riguardo, fosse consapevole che tanto i tifoni quanto altre creature simili ottenessero il proprio fuoco non in virtù di una strana stregoneria, come la maggior parte delle persone riteneva, ma in conseguenza di una reazione fra due diversi elementi presenti nei loro corpi, prodotti dai loro stessi organismi, in grado di dare vita ad un effetto incendiario. Tale conoscenza, in Midda, non era conseguenza di nulla di più della propria personale esperienza, derivante da antichi contrasti con un drago di fiume ucciso dopo un'aspra lotta proprio sfruttando contro egli il suo stesso potere, nel recidere, non senza un'alta percentuale di fortuna, i condotti attraverso cui i liquidi reagenti venivano incanalati fino alla sua gola. Trattandosi di una capacità naturale e non di un potere sovrannaturale, la generazione del fuoco non si concedeva mai in quegli esseri come inesauribile e costante: al contrario, momenti di attesa più o meno lunghi erano sempre da essi richiesti fra una fiammata e la successiva, in diretta proporzionalità anche della potenza espressa all'ultimo attacco. Per tale ragione, per quanto tutt'altro che sciolto o flessibile nei propri movimenti, il tifone era costretto ad un'offesa fisica nei loro confronti, in attesa del ritorno della possibilità di incenerirli. Dove tutto ciò era chiaro per Midda, dove simili conoscenze la rendevano assolutamente non inerme, non incerta di fronte ad egli, la donna guerriero non avrebbe mai potuto conoscere le effettive capacità, i reali tempi di recupero dell’avversario fino a quando egli non si fosse espresso con un nuovo attacco incendiario al quale, se fosse sopravvissuta, avrebbe potuto replicare con un reale controllo della situazione tale da poter sperare di abbatterlo.

« Attacca, razza di bestione senza cervello! » ringhiò a denti stretti, mantenendo i sensi all'erta per rispondere ad ogni minimo segnale di pericolo.

Alcuni fra i felini, per quanto impegnati come lei a non ingaggiare un confronto diretto, non riuscirono ad evitare i movimenti violenti del tifone, venendo sbatacchiati da un lato all'altro dell'Arena, morendo sul colpo per la forza dello stesso o, comunque, sopravvivendo temporaneamente con lesioni tali da non permettere più a loro di muoversi, di sfuggire all'ira della creatura. Anche Midda, più spesso di quanto non avrebbe preferito, si ritrovò a dover scartare con agilità, con destrezza, i colpi nemici, venendo solo sfiorata dallo spostamento d'aria causato da egli ed, in ciò, sospinta all'indietro ogni volta al punto tale da rischiare di perdere l'equilibrio.
La pelle dell'avversario, nei momenti in cui ebbe occasione di analizzarlo da vicino, richiamò alla sua memoria quella di un ippocampo, lasciandole temere in questo che potesse godere di una simile invicibilità epidermica, che quelle scaglie potessero contrapporsi anche al filo ineguagliabile della sua spada forgiata secondo antiche e perfette tecniche. Nella reazione di una tigre, però, catturata ed uccisa con violenza dal mostro, ella poté intravedere gli artigli della stessa solcare la di lui pelle, quella superficie argentata, danneggiandola: nulla di mortale, certo, nulla di grave per esso, che probabilmente lo avvertì allo stesso modo in cui ella avrebbe avvertito il graffio di un gattino, ma chiara evidenza di una vulnerabilità, di una possibilità di essere sconfitto.

« Attacca! » insistette la donna, sempre mantenendo assoluta calma, assoluto controllo.

L’unica ragione che la spingeva a desiderare al più presto l’attacco del proprio avversario era il timore che la creatura, pur avendone la possibilità, potesse trattenere le fiamme, offrendole così una falsa informazione in merito ai tempi ad esso necessari per tornare ad essere letale, per riprendere controllo del proprio fuoco, così da porre a rischio qualsiasi azione nei suoi confronti, a suo discapito: se, infatti, contro quel genere di mostri vi poteva essere speranza di vittoria in uno scontro fisico laddove si escludesse a priori quella capacità incendiaria, considerando la medesima nessun genere di tattica, soprattutto quando improvvisata come solo poteva esserla in quel contesto, avrebbe potuto offrire reali risultati in contrasto ad una sì potente forza distruttiva.

« Attacca! » chiese per la terza volta, a denti stretti.

Ed il tifone, inspirando profondamente l’aria nei propri polmoni, arrestando i colpi delle proprie mani per tornare a sorreggersi su tutti e quattro gli arti, si preparò ad offrire contro di loro un nuovo e letale getto infuocato, venendo finalmente incontro a quelle richieste, allo scopo di non lasciare in vita alcuno fra essi, di distruggerli tutti senza riconoscere pietà.

giovedì 28 agosto 2008

231


N
ove felini, nove predatori naturali, tre diverse specie e tre esemplari per ogni gruppo.
Per quanto Midda potesse essere abituata a sopravvivere ad ogni insidia, ad affrontare ogni pericolo, anche ella era e sarebbe restata sempre una donna, un nomale essere umano con i propri quieti limiti, quei confini che mai avrebbe potuto superare né con la volontà né in assenza di essa: consapevole di essi, non poteva evitare di temere l’eventualità di non riuscire a sopravvivere a quello scontro, di non riuscire ad abbattere ogni avversario prima di essere a sua volta abbattuta, nella rapidità di quelle fiere contro cui mai avrebbe potuto opporre la propria. In tale situazione, però, ella era anche cosciente che dimostrare i propri timori, simile incertezza e forse paura, non avrebbe mai condotto per lei ad una pur vaga speranza di sopravvivenza, laddove nei propri sentimenti avrebbe offerto forza ai propri nemici, stimolandoli, incitandoli ad agire contro di lei, per sopprimerla, per distruggerla; altresì, non poteva concedersi neanche la possibilità di imporre su di loro un comportamento aggressivo, che scatenasse un istinto reattivo, un attacco furioso come era stato quello degli orsi nel ritrovarsi da lei tanto direttamente aggrediti, così apertamente offesi. Una situazione di possibile stallo attraverso la quale, nel formulare tale analisi, nel soppesare i fattori in gioco e le forze coinvolte, in lei riaffiorarono fortunatamente alcune nozioni sul regno animale, sui rapporti che, in molte diverse specie, erano solite instaurarsi non solo fra i vari elementi di uno stesso gruppo ma anche nei confronti di elementi appartenenti a specie diverse: in simile ricordo, in tale memoria una flebile speranza di salvezza tornò a brillare per lei, nel di lei cuore e nel di lei animo, nella consapevolezza che se avesse saputo giocare bene le proprie carte, se fosse riuscita a gestire al pieno la situazione, forse non avrebbe dovuto neanche spingersi ad uccidere le bestie che erano state poste a di lei confronto, a di lei sfida.

« Ed ora? » domandò Cila, scuotendo il capo ed osservando la scena di fronte a sé « Che cosa ha intenzione di fare? »
« Non lo so… non lo riesco a comprendere… » sussurrò lord Visga, non osando, nonostante il caos attorno a loro, levare eccessivamente la voce quasi potesse essere di disturbo per la mercenaria in azione.

Abbassando la propria spada, rilassando i propri muscoli, Midda interruppe il lento retrocedere in atto, che ormai l’aveva condotta ad almeno sei piedi di distanza dagli orsi uccisi e poco più dai felini, per sciogliere la posizione di guardia e ritornare semplicemente eretta di fronte alle fiere. In lei, nei suoi occhi, nella sua mente, cuore, anima e corpo, si propose e si impose solo freddezza e controllo pressoché assoluti, tale da rallentare anche il battito cardiaco precedentemente ovviamente accelerato nell’enfasi della lotta. In lei non si propose più alcuna aggressività, alcuna ipotesi di offesa in direzione dei propri possibili aggressori, tanto che avrebbe potuto anche gettare a terra la propria spada laddove essa, in quel momento, risultava presente nella di lei mano per semplice inerzia; al contempo in lei non vi era alcun timore, alcuna paura nei confronti di quelle bestie feroci, affamate, gli artigli delle quali avrebbero potuto squartarle le carni, i denti delle quali avrebbero potuto dilaniarle il corpo: aveva superato tanto l’uno quanto l’altro stato d’animo, trascendendo simili emozioni in virtù di una sorta di consapevole superiorità, che la proponeva non più in competizione con le altre creature lì presenti.
Dove gli esseri umani raramente risultavano in grado di provare un minimo grado di empatia, tale da permettersi di non compiere scelte stupide nell’opporsi a chi non avrebbero dovuto offendere, gli animali apparivano invero possessori di una tale capacità, in conseguenza alla quale la donna guerriero non si propose più quale preda ai loro occhi, alle loro fauci, esattamente come l’un l’altro non si sarebbero mai considerati possibili vittime, possibili fonti di sazietà per la propria fame.

« Non è possibile… » commentò il nobiluomo gorthese nell’assistere a quell’evoluzione imprevista, a quell’evento privo di pari nel passato dell’Arena, scuotendo appena il capo.

Come egli in molti si ritrovarono ammutoliti nell’essere posti di fronte ad una simile scena, a quello spettacolo che non ritrovò le fiere affamate gettarsi contro la mercenaria ma, al contrario, contro gli orsi, non rivolgendo più ad ella alcuna attenzione, alcun interesse, quasi non fosse più presente all’interno dell’Arena. Addirittura qualcuno seduto negli spalti inferiori, più vicino alla scena, non accettando quella situazione, non gradendo simile reazione, provò a gettare delle pietre in direzione degli animali, per scuoterli, per spronarli alla lotta, ma dove essi puntualmente reagirono in modo violento, indirizzarono tale rabbia verso gli stessi spettatori, con forti ruggiti ed, addirittura, scatti furibondi a tentare di violare l’alta distanza esistente fra la sabbia e le fila più basse, continuando in ciò a non rivolgere altre attenzioni verso colei che, in modo assolutamente e freddamente tranquillo, manteneva la propria posizione fra essi.

« Per l’Unico! » fu l’unica voce possibile di fronte a tutto ciò, espressa fra l’altro anche da lord Visga, laddove le regole del combattimento sembravano violate eppur, allo stesso tempo, trascese.
« Bisogna considerare la sua vittoria? Oppure la sua sconfitta? E’ lei vincitrice o sono le fiere ad proporsi come dominanti? » chiese, retoricamente più che concretamente, la femminile presenza vicino a lui, comprendendone il disagio in quell’assenza di sangue a cui tale cultura non era abituata.
« Non c’è vittoria o sconfitta senza la morte di uno o dell’altro. » replicò egli, scuotendo il capo nell’enunciare un semplice e chiaro principio del proprio contesto sociale, della propria stessa fede « Tutto questo ha il sapore di blasfemia… e la mercenaria potrebbe essere abbattuta insieme alle bestie sue amiche in conseguenza di una tale situazione. »

A conferma di quelle parole, a sottolineare la comune condanna di quel popolo, di quella religione di fronte alla vittoria ottenuta da Midda nell'ammansire attorno alla propria figura le fiere, nel farsi accettare fra loro senza scatenarne le ire, nel negare il sangue richiesto dal dio Unico, fu la reazione degli organizzatori dell'Arena, dei gestori di quel circo. Dopo pochi minuti in cui la situazione restò bloccata in quello stallo, congelata nell’incertezza, nello scompiglio creato dalla donna guerriero, la sabbia di quel campo di lotta iniziò a vibrare, tremare vistosamente, creando evidenza dell’attivazione di un qualche meccanismo, probabilmente del tutto simile a quello che permetteva il movimento del presentatore ma, al tempo stesso, estremamente più grande, idoneo a trasportare qualcosa di più esteso, di più pesante. Ed il centro del teatro si aprì in quel mentre, vedendo emergere dalla terra, dalla voragine così offerta, una nuova figura, la sfida finale prevista per la Figlia di Marr’Mahew, liberata a concedere vendetta alla sete di sangue non saziata, per donare la giusta punizione a chi, con tanta noncuranza, aveva scelto di non onorare le regole del combattimento, continuando fino alla propria morte oppure alla morte dei propri avversari.
Il nuovo avversario proposto davanti alla mercenaria mostrò un corpo di aspetto umanoide, colossale nelle proprie dimensioni di oltre otto piedi in altezza e sicuramente cinquecento libbre di peso. La sua pelle, similmente a quella di un rettile, si presentava in una tonalità grigiastra composta da un’infinità di piccole scaglie, su un corpo praticamente nudo nell’unica eccezione dei fianchi, a cui era stato concesso un giusto pudore attraverso un ampio perizoma in pelliccia. Le sue gambe, se tali potevano essere definite, si conformavano come digitigrade, lasciando gravare il peso immane di quell’essere sulle punte delle sue dita artigliate; le sue mani, non diversamente, si concedevano con lunghi ed affilati artigli, in proporzioni superiori alla classica anatomia umana, tanto che esso poteva condividere il sostegno alla propria struttura anche sui propri arti superiori, in ampie spalle, in forti braccia. Il capo di quell’essere, infine, nelle proprie forme richiamava quello di una lucertola, nell’aggiunta presenza di zanne taglienti ad ornare una bocca priva di labbra: in ciò esso non appariva lontano da altre creature mitologiche già affrontate dalla mercenaria, forse derivanti da uno stesso ceppo evolutivo, quali idra, ippocampi e cerberi. Mai prima di quel momento Midda aveva avuto possibilità di confrontarsi con una tale presenza, con un nemico di quella razza che, al di là della conformazione umanoide, si presentava più animale che umana: nel momento in cui dalla sua bocca, spalancatasi per concedere all’aria dell’Arena un verso tremendo ed assordante, emerse quale sua lingua qualcosa di paragonabile ad un lungo serpente con tanto di testa, occhi e bocca, nessun dubbio però restò in lei sulla reale natura di quella creatura.

« Tifone… » sussurrò fra labbra appena dischiuse nello stupore provato.

mercoledì 27 agosto 2008

230


N
el comprendere di non avere alternative di fronte all’immediato attacco propostole dal terzo orso, Midda limitò i propri movimenti a quanto necessario per tentare di ridurre i danni, a ciò che doveva essere compiuto per ritagliarsi una speranza di sopravvivenza. L’azione fu così rapida, così subitanea, che agli occhi degli spettatori dell’arena mostrò semplicemente la violenza dell’animale abbattersi sul corpo indifeso della donna guerriero, bloccato sotto il peso della sua ultima vittima, tanto impietoso, tanto rabbioso, da veder l’enfasi di quella zampa sbalzare con prepotenza quella creatura tanto fragile a suo confronto di diversi metri in lontananza, come una bambola priva di anima, uno spaventapasseri senza consistenza. E in conseguenza a quell’azione, ella ricadde apparentemente morta, o forse solo svenuta, sulla sabbia dell’Arena, rotolando ancora a lungo prima di arrestarsi, supina e scoperta a qualsiasi nuovo attacco da parte dell’animale.
L’orso superstite, mantenendo con la propria possanza ancora a distanza i felini, che ne osservarono il combattimento con interesse ma senza indulgere nel tentare di intervenire in esso, si avvicinò alla propria vittima ora con apparente tranquillità, con curioso interesse, privo di aggressività, privo di violenza, muovendosi su quattro zampe e spingendo il proprio muso verso quella presenza ora immobile, apparentemente morta. Quasi fosse incerto sulla strada da preferire, sulle scelte da compiere, esso provò a sospingere con la punta del naso una gamba della donna, che in ciò si mosse per inerzia, senza un proprio controllo, senza una propria intrinseca forza.

« Dei… possibile che sia morta? » intervenne con preoccupazione e trasporto evidente Cila, stringendo le mani al braccio del compagno, quasi a cercarne la protezione « Midda Bontor sconfitta da un banale orso? »
« Così sembrerebbe… » commentò lord Visga, storcendo le labbra verso il basso, con chiara disapprovazione, con evidente rimpianto « Forse questa prova era eccessiva anche per lei, per un mito vivente suo pari. Forse l’Unico non ha gradito il suo paganesimo, la sua lontananza dalla sola vera Fede. »
« O… forse no! » esclamò improvvisamente la donna, indicando davanti a loro la scena in lontananza.

La Figlia di Marr’Mahew, già data per sconfitta, già considerata morta, si era in quell’esatto istante improvvisamente ripresa, scattando con rapidità ferina contro il proprio avversario chino su di lei per cavare freddamente i suoi occhi dalle orbite, per strapparli con forza e destrezza, nell’allontanarsi poi subito, rotolando, da egli, dalla di lui furia in conseguenza di un tale affronto, di un simile atto.
Sebbene probabilmente nessuno potesse essersi accorto di quanto era avvenuto, la mercenaria prima di subire inevitabilmente il colpo avversario, aveva provveduto a muovere con rapidità ed autocontrollo il proprio braccio metallico a protezione del proprio corpo, nella traiettoria evidente di quel gesto, di quell’attacco, ritrovando pertanto nel proprio arto già privo di vita, di esistenza, difesa per la propria vita, per la propria esistenza, incassando con esso il rischio più grande dell’offesa propostale e lasciandosi, nella sua violenza, trascinare senza opposizione. Non morta e non svenuta ella era rimasta, solo falsamente tale al fine di ingannare l’animale, la creatura che pur resa feroce da color che avevano allestito quello spettacolo, pur resa violenta dalla fame sopra di essa imposta, non poteva rinunciare agli istinti primordiali, quel comportamento per lui consueto che la sua avversaria ben conosceva ed aveva deciso di sfruttare a proprio favore. E così, nel momento in cui l’orso, nel desiderio di comprendere se ella era già morta o se ancora viveva, si era avvicinato a lei, si era posto a distanza sufficientemente ravvicinata, ella aveva agito, rapida e priva di pietà.
Negando così la facoltà della vista al proprio avversario, alla donna guerriero non rimase che muoversi con sufficiente velocità per raggiungere la spada conficcata nel corpo del primo animale abbattuto per rientrare in suo possesso e con essa decapitare rapidamente il bestiale colosso, ponendo fine alla sofferenza che lei stessa gli aveva imposto.

« Maledetti giochi… » sussurrò a denti stretti, nel vedere il sangue vivo e denso della creatura sprizzare al cielo in conseguenza del di lei attacco finale, di quel colpo di grazia « Maledetti… »

Senza ipocrisia Midda non poteva negare di aver già ucciso molti animali, oltre ad ogni altro genere di creature mitologiche e di avversari umani, nel proprio lungo passato di donna guerriero e di mercenaria, ma nel momento in cui attaccare un animale per mangiarne le carni o, semplicemente, per legittima difesa in un confronto paritario nel di lui naturale ambiente, era da parte sua e della sua coscienza tranquillamente accettato, il pensiero della carneficina, del massacro impostole da quei giochi a discapito di quelle fiere non la rallegrava, non la rendeva fiera di sé. Certamente non aveva alternative, non aveva possibilità di scelta, e di questo era assolutamente consapevole, non volendo esser uccisa e non volendo fallire in quella che era stata la missione assegnatale, ma nonostante tutto non poteva fare a meno di disprezzare l’organizzazione stessa di quei giochi per averle imposto una simile prova ed in cuor suo non poteva negare di preferire uccidere uomini ad animali, valutando, come tutti nella realtà in cui era nata, era cresciuta e viveva, minore il valore di un’esistenza umana rispetto a quella di una bestia, di altresì nobile utilità ed animo.
Muovendo lo sguardo con rapidità attorno a sé, verso i felini così rimasti ancora in circolazione, ormai a distanza decisamente limitata e conseguentemente pericolosa da lei, poté comprendere di essere ben lontana da raggiungere la salvezza, dal ritenersi al sicuro da ogni possibile danno: nove erano le fiere che ancora attorno a lei si muovevano spinte dalla fame, dalla brama di carne, ed ella continuava a rappresentare per loro ancora un ottimo investimento, un pranzo succulento da non lasciarsi sfuggire. Però, ora, ella non era più sola in tutto quello, in tale situazione laddove i tre orsi abbattuti attorno a lei si proponevano, in effetti, più interessanti rispetto alla sua misera forma tanto da un punto di vista qualitativo quanto da un punto di vista quantitativo: la loro offerta di carne era indubbiamente superiore alla sua ed, oltretutto, essi erano già morti, impossibilitati a ribellarsi agli spasmi della fame che stringevano i ventri dei possibili assalitori. Catturare la preda viva, squartarne le carni vibranti, sicuramente per loro si proponeva come un richiamo istintivo di indubbio valore, attirando la loro attenzione verso la mercenaria; ma altrettanto vero risultava il fatto che quegli orsi, di morte così recente, erano ben lontani dal potersi considerare quali carogne, tutt’altro che non apprezzabili nella loro presenza, assolutamente da non destinare ad animali minori, a necrofagi privi della loro stessa natura di cacciatori. Osservando una simile incertezza nei propri avversari, valutando la speranza che nei corpi morti degli orsi sembrava aprirsi per lei, ella mosse lentamente i propri passi all’indietro, evitando gesti bruschi, evitando qualsiasi movimento improvviso che avrebbe potuto scatenare in loro un richiamo istintivo, naturale: non doveva offrire loro una mancanza di rispetto, non doveva donare loro timore ma, al tempo stesso, non poteva concedere loro sprezzo, nel tentare di mantenere una situazione di coerente equilibrio che le permettesse di allontanarsi dal pranzo loro così proposto.
La folla, nuovamente in agitazione all’interno dell’Arena, non risultava essere effettivamente d’alcun aiuto alla donna guerriero nel proprio tentativo di ritirata, in quella ricerca di qualche secondo, qualche minuto di riposo, di pianificazione, per comprendere come poter affrontare i propri avversari, quelle bestie tanto temibili e con cui poca o nulla confidenza si poteva fregiare di possedere. Nelle grida di ammirazione, di incitamento offerte dagli spettatori, infatti, i felini non abituati a quel clima, a quel contesto, non potevano evitare di risultare innervositi, ed in questo più propensi alla lotta che, semplicemente, allo sfogo del proprio desiderio di cibo.

« Due volte la posta… » sussurrò in un lievissimo respiro Midda.

Quasi un sospiro leggero, carezzevole il suo in quel commento, scuotendo appena il capo e rimpiangendo quelle belle, classiche situazioni in cui ella si ritrovava indubbiamente e maggiormente a proprio agio, contro sciami di insetti giganti necrofagi, contro orde di zombie affamati di carne, contro interi eserciti di mercenari o di soldati pronti a farsi uccidere dalla sua spada: realtà assolutamente diverse da quella in cui ora doveva imporre la propria forza, la propria presenza, ma nella quale non aveva alcuna idea di come avrebbe mai potuto fare.

martedì 26 agosto 2008

229


F
ortunatamente per la donna guerriero, nonostante fossero visibilmente affamate le fiere non dimostrarono immediata confidenza con l’ambiente loro circostante: la presenza della folla entusiasta, di tutte quelle grida, di tanto rumore che si proponeva sovrastante su loro con irrefrenabile impeto, le lasciò per un momento distratte, confuse, nella necessità di comprendere ove si trovassero e quale scopo potessero prefiggersi. Evidentemente non si proponevano come animali già abituati a quel genere di spettacoli, già temprati in quell’ambiente e ciò avrebbe potuto consentire alla mercenaria qualche secondo, un minuto forse, per compiere le proprie scelte, per vagliare le strategie da attuare contro di essi. Un tempo estremamente limitato in un contesto di assoluto svantaggio quale era quello in cui si era ritrovata ad essere.
Incerta era la tattica verso cui poter rivolgere la propria attenzione: da un lato avrebbe, infatti, potuto affrontare per primi gli animali con cui aveva già confidenza, sperando di eliminarli in modo più rapido ed indolore possibile per abbattere numericamente la schiera dei propri avversari e poter successivamente rivolgere tutta la propria energia verso coloro che rappresentavano reale incognita, pericolo concreto per la propria sopravvivenza; dall’altro lato avrebbe, altresì, potuto dedicare le proprie forze in primo luogo proprio contro le fiere che non conosceva, quelle con cui non aveva avuto possibilità di confronto in passato, in modo da offrire loro il meglio di sé, il proprio massimale, rimandando solo a posteriori la necessità di sfida verso i nemici già noti. Entrambe le alternative proponevano dei vantaggi, delle situazioni di rischio, un fattore di vittoria ed uno di sconfitta: impossibile sarebbe stato per ella poter prevedere quale fra i due scenari sarebbe potuto essere il migliore da attuale, l'ottimo da perseguire; impossibile, anche, era esser certa che una fra quelle due alternative fosse realmente quella migliore da attuare, rispetto ad altre possibilità che non stava prendendo in esame, con cui non stava confrontandosi. Purtroppo, però, il tempo non si proponeva a di lei vantaggio, e la possibilità di pianificazione, di vaglio di ogni ipotesi le era preclusa nell'immediatezza richiesta da quella sfida, nei termini imposti dai propri avversari e dalle loro scelte.
Quando i primi ruggiti si levarono a sovrastare le grida della folla, ad imporsi su essa con la potenza della propria forza selvaggia ed incontrollabile, Midda non ebbe più tempo per pensare, non ebbe più possibilità per soffermarsi un solo istante di troppo. Ed in questo la sua scelta fu immediata, senza più alcun dubbio, senza più alcuna remora, riportandola alla sua classica freddezza, all'autocontrollo che le era proprio, che aveva contribuito alla creazione del mito, della leggenda attorno al di lei nome. Non più donna, non più umana, ma guerriero, priva di indugi, priva di compassione, forte nella conoscenza delle proprie capacità ed ancor di più dei propri limiti, quegli stessi tipicamente mortali che non voleva rinnegare ma che, al contrario, considerava continuamente nel desiderio di permettere la prosecuzione della propria vita anche laddove osava spingersi in imprese ritenute impossibili, insormontabili, ineguagliabili.

« Che cosa vuole fare? » domandò Cila, osservando con stupore, con timore, forse con ammirazione l'ardire offerto dalla mercenaria, ne spingersi in corsa in una chiara direzione, verso una decisa meta.
« Sembra che abbia deciso di ingaggiare lotta contro gli orsi... » rispose lord Visga, non staccando gli occhi dalla scena presentata, dallo spettacolo loro concesso dall'ospite d'onore di quella serata.

Effettivamente verso gli orsi la Figlia di Marr'Mahew si mosse rapidamente, correndo ad elevata velocità nel mantenere il proprio corpo piegato al suolo, parallelo alla fine sabbia, in una tecnica, in una postura estranea a quanto chiunque avesse mai avuto occasione di assistere prima, innaturale ed allo stesso tempo assolutamente armoniosa, indiscutibilmente perfetta. Per quanto apparisse a proprio agio in quella corsa, che tanto lontana la poneva dall'umana postura, dalla comune consuetudine, quel genere di movimenti non facevano parte di un'esperienza remota, di una conoscenza antica: ella aveva appreso solo di recente, in uno scontro mortale contro un temibile avversario, quella possibilità, imitandone sicuramente lo stile allo scopo di farlo proprio, di poterlo adoperare a proprio vantaggio, contro nemici già noti ma ugualmente temibili quali apparivano i tre orsi, nelle immani moli, nei corpi tanto pesanti, tanto forti per cui mai ella avrebbe potuto offrire una reale opposizione; negli artigli affilati, nei denti appunti, tanto letali per cui ella mai avrebbe potuto trovare una reale protezione. Essi, vedendola avvicinarsi con intenti evidentemente offensivi, si proposero immediatamente in posizione difensiva, ergendosi in tutta la propria altezza, nella possanza del proprio fisico, pronti a calare le pesanti zampe sull'avversaria, sulla di lei schiena così meravigliosamente loro concessa: un contatto, anche solo minimale, con quel loro potenziale di danno avrebbe visto il corpo della donna aprirsi senza indugio, squartarsi senza contrasto, diventando immediatamente un ammasso informe di sangue, carne ed ossa, del tutto privo di vita.

« Thyres… » invocò la donna, raggiungendo il punto di non ritorno.

Ormai la scelta era stata compiuta e da lì dove si era spinta ella non avrebbe più potuto retrocedere, ritornare sui propri passi, sulle proprie scelte. Spesso nell'umana esistenza, di fronte ad un gesto forte, ad un'evoluzione anche ricercata ma non sempre prevista in ogni sua sfumatura, l'animo mortale si ritrovava a rimpiangere la tranquillità abbandonata, la perduta certezza dell'immobilismo di un tempo: laddove però il salto fosse già stato compiuto, tentare di arrestare il cambiamento, di contrastare la spinta acquisita non avrebbe permesso il ritorno allo stato precedente, alla serenità apparentemente perduta, lasciandosi altresì trascinare in balia degli eventi, in un vortice non più controllato o controllabile. In virtù di tale consapevolezza, fisica e metafisica, Midda non poteva ormai concedersi di cambiare idea, di modificare la propria tattica, la propria strategia: aveva votato in virtù di quella strada e per essa avrebbe dovuto proseguire, ovunque si fosse ritrovata a giungere. E se anche avesse errato in questo, se anche avesse fallito, forse avrebbe avuto possibilità di riprendersi e di apprendere, in tale errore, un insegnamento per il futuro, così come sempre nell'umana esistenza era richiesto di fare.
Nell'enfasi del proprio attacco, nella forza dei propri gesti, nella velocità della propria corsa, ella puntò i piedi per compiere un improvviso salto in avanti, per gettarsi in aria. Nel contempo di tale azione, che la vide dirigersi alla volta di uno dei tre orsi, la di lei spada venne scagliata in un ampio gesto rotatorio contro un secondo esemplare, imponendosi nel proprio movimento simile più ad un enorme pugnale che ad un giavellotto quale altresì sarebbe stato ovvio si mostrasse: così, laddove la lunga lama dagli azzurri riflessi si proponeva a penetrare il forte collo dell'animale, affondando nelle di lui calde carni, nel suo folto pelo, ella portò il proprio corpo ad abbracciare quello del proprio obiettivo, della meta finale della propria folle corsa, evitando per semplice sorte, per un destino fortuito il movimento difensivo di una pesante zampa per raggiungere il di lui collo. Lasciandosi rotolare attorno ad esso, la donna si spinse verso la di lui schiena, per poter serrare con forza, con fermezza il proprio braccio destro, metallico, attorno alla possanza della bestia, creando una morsa con l'aiuto della mancina da cui esso non potesse liberarsi: l'animale, accorgendosi del tentativo offerto da ella, offrì verso il cielo un orribile grido, un verso violento e rabbioso che riuscì a far scendere il silenzio sull'intera Arena, rapita nell'osservare l'evoluzione di quel combattimento, le conseguenze di quella lotta. Il tempo parve bloccarsi nel contrasto fra la donna e la bestia, fra la tecnica e la forza, fra la morsa ed il tentativo di violarla, di evaderla. Per l'orso non vi era possibilità di raggiungere la propria avversaria in quella posa, ed in questo esso tentava senza tregua di scuoterla da sé, dalla propria schiena, imponendo su di ella la violenza di gesti disumani, che avrebbero dovuto vederla volare a terra e divenire, in questo, vittima, preda, un pasto per i suoi denti, trasformando il di lei sangue in dolce nettare per la sua gola riarsa. La mercenaria, però, non fu d'accordo con simile desiderio, con tale tentativo, tenendosi salda all'avversario, rinforzando la propria posizione nell'utilizzo delle gambe attorno al quell'immane schiena, ben conscia della sorte che l'avrebbe altrimenti attesa se solo avesse ceduto, se solo le di lei forze fossero venute meno: come già in passato, in quella che era una mossa per lei nota, l'attesa fu terribile, il confronto con l'animale apparve estenuante, feroce, coinvolgendo non solo il muscolo del di lei braccio sinistro e delle di lei spalle, ma ogni singola membra del suo corpo, obbligandola a tendersi con dolore tale da renderle difficile non gridare, non dare sfogo verbale a tanta sofferenza. Ma la di lei volontà, il di lei impegno trovò la soddisfazione ricercata, raggiunse lo scopo prefisso nel momento in cui l'ossigeno carente nei polmoni dell'avversario lo vide cedere, lo vide indebolire i propri gesti, le proprie reazioni, fino a perdere controllo e coscienza nel ricadere violentemente a terra. In tale atto, imprevedibilmente, l'orso abbattuto non precipitò in avanti, come ella evidentemente si trovava ad essere certa sarebbe avvenuto, ma all'indietro e, nella rapidità di tale evento Midda riuscì a tentare la fuga e non a completarla, ritrovando la propria gamba sinistra bloccata sotto il peso del proprio avversario. E davanti a lei, così in trappola, il terzo orso si ritrovò deciso a compiere ciò per cui i propri compagni erano morti.

lunedì 25 agosto 2008

228


D
opo che i fanti ebbero compiuto il proprio tempo, crollando nonostante le pesanti armature o forse proprio in conseguenza di esse, la donna guerriero si ritrovò per breve tempo sola al centro dell’Arena, con la pelle leggermente imperlata di sudore e abbondantemente sporca di sabbia, nell’ovazione generale di tutta la platea a lei inneggiante, a lei osannante. Conficcando la spada al suolo in quel momento di pausa, ella approfittò del medesimo per tentare di pulirsi dalla terra e dal sangue che la ricoprivano, impresa che avrebbe potuto portare realmente a termine solo dopo un buon bagno: sebbene fosse abituata, nel proprio stile di vita, a non ritrovare il proprio corpo terso come avrebbe altresì desiderato, ella non desiderava mancare di liberarsi, per lo meno, dalla parte maggiore di ciò che su di sé si accumulava a seguito di ogni scontro, in previsione di un possibile proseguo che, ovviamente, in quell’occasione non sarebbe mancato. In effetti, tale scelta, si poneva anche in conseguenza della necessità di mantenere il proprio fisico più sano ed agile possibile, ad evitare che anche il minimo impedimento a bloccarle i movimenti: sabbia, sangue e sudore, invero, avrebbero contrariato tale scopo, in particolare sul di lei braccio destro, nelle articolazioni metalliche che lo costituivano e che non si potevano permettere di risultare legate, limitate, rischiando altrimenti di riportare alla luce la sua menomazione nell’inefficienza che avrebbe derivato con quel surrogato, nell’assenza concreta dell’arto sostituito da quell’artefatto.
Esattamente nel punto in cui il presentatore dell’evento era scomparso prima dell’inizio degli scontri, egli ricomparve, ascendendo nuovamente alla superficie per riprendere il proprio ruolo, per richiamare l’attenzione della folla su quanto sarebbe presto accaduto. Anche Midda rivolse ad egli sguardo ed udito, laddove alcuna possibilità le era stata concessa di conoscere anticipatamente quanto i gorthesi potessero aver previsto per lei, in sua opposizione: di certo se ogni prova si fosse rivelata simile a quella appena superata, ella avrebbe potuto restare tranquilla, nella semplicità di portare a termine la parte del proprio incarico relativa a quel contesto, a quel circo, sopravvivendo al medesimo.

« Incredibile! Semplicemente incredibile ciò a cui abbiamo assistito! » esclamò l’uomo, facendo nuovamente rimbombare la voce nell’intero ambiente, imponendo il silenzio sugli spettatori « Se qualcuno fra voi avesse dubitato, nel giungere qui questa sera, che la donna presente fra noi fosse veramente Midda Bontor, credo che ciò a cui tutti abbiamo appena assistito avrebbe sciolto ogni incertezza, ogni sospetto a tal riguardo! »

Mentre quelle parole furono pronunciate, un gruppo di trenta inservienti, lavoratori di fatica nel circo, entrarono rapidamente in scena al fine di allontanare dallo sguardo del pubblico i corpi dei caduti, non tanto per timore che tale vista potesse risultare loro offensiva ma, più banalmente, per ripristinare lo stato iniziale dell’Arena in preparazione al successivo incontro. Tre fra loro, in particolare, si dedicarono alla stessa mercenaria, portandole una grande brocca d’acqua, un catino ed un panno pulito in lino a permetterle, se desiderata, la possibilità di dissetarsi, risciacquarsi ed asciugarsi: sebbene tale premura potesse apparire conseguenza dei di lei gesti precedenti, della di lei volontà proprio in tal senso, una simile procedura era uso comune nel corso di quegli spettacoli, nel rispetto e nell’onore che venivano riconosciuti ai combattenti, a coloro che all’interno di quella manifestazione mettevano in gioco le proprie vite in glorificazione della fede gorthese.

« Oggi il Fuoco Eterno sembra destinato a bruciare intenso come non mai, distruttivo come da tempi remoti non appariva in onore del nostro dio Unico. A lui la spada di Midda Bontor appare votata, nel cercare con tanta ingordigia, con tanta bramosia la carne ed il sangue dei propri avversari, degli sfidanti che contro di ella si sono schierati alla ricerca di vittoria o morte. »

La donna guerriero, nel contempo di quel monologo evidentemente volto a distrarre l’attenzione del pubblico dalle azioni di servizio volte alla riorganizzazione del palco, approfittò più che volentieri dell’offerta propostale, sciacquandosi abbondantemente la bocca, pur senza ingerire per evitare di appesantirsi, ed usando il resto dell’acqua per concedere al proprio corpo una rapida pulizia, nel gettare direttamente il fresco liquido sulla carne e sulle vesti senza troppe premure, senza eccessivo formalismo. Grazie ad essa la sabbia ed il sangue quasi essiccato contro di lei riuscì ad essere lavato, lasciandola nuovamente pura, candida, pronta al nuovo scontro che non l’avrebbe certamente fatta attendere: trascorso il tempo stabilito, infatti, i due inservienti si congedarono da lei nel seguire i propri compagni in allontanamento dalla terra dell’Arena, a permetterle di restare unica protagonista della scena allo sguardo del suo pubblico, davanti a quegli spettatori che con grida e versi quasi animaleschi, desideravano concederle il proprio appoggio, il proprio entusiasmo.

« Midda Bontor è stata in grado di dimostrare quanto la leggenda attorno al proprio nome fosse fondata nell’affrontare un gruppo armato scelto, a lei superiore in numero ed in equipaggiamento. Senza pietà ella ha imposto l’unico destino possibile ai propri contendenti, ma riuscirà a proporci le stesse emozioni, la stessa gloria contro le fiere più pericolose che abitano il nostro mondo, i più feroci predatori che solo i migliori cacciatori sanno trasformare in prede? »

Nuovamente, come già all’ingresso della fanteria, il presentatore scomparve nel terreno dell’Arena, attraverso il medesimo meccanismo già precedentemente adoperato, per porsi al sicuro dagli avversari scelti in quel momento per la mercenaria, contro cui, questa volta, tutta la di lei agilità e tutta la di lei velocità probabilmente a ben poco sarebbero valsi. Ancor prima che essi si potessero proporre apertamente alla di lei vista, ella già aveva intuito la loro natura, memore anche delle tante storie sentite in merito a quell’Arena ed a posti similari sparsi nel mondo: in sua opposizione sarebbero state offerte tigri, leoni e pantere, i più feroci predatori felini esistenti in natura, contro i quali lo scontro sarebbe stato ben diverso dal precedente. Tali animali, rari in quelle terre meridionali, abbondavano maggiormente risalendo verso settentrione, verso i regni desertici: in tali zone, pertanto, nascevano e venivano formati i cacciatori in grado di offrire loro competizione, di tenere loto testa quasi alla pari, abituati a comprenderne la mentalità, a prevederne le azioni, a contrastarne gli attacchi. E per di lei sfortuna, per quanto nella propria vita avesse combattuto contro quasi ogni sorta di creatura, affrontare simili bestie non era stata un’occupazione in cui si fosse mai impegnata o della quale avesse accumulato nozioni utili.

« Thyres… » imprecò a denti stretti.

Quando dai cancelli posti in corrispondenza ai quattro punti cardinali attorno a lei, pertanto, si presentarono a gruppi di tre tigri, leoni, pantere e, inaspettatamente, anche orsi, Midda non poté che storcere le labbra verso il basso per la disapprovazione nei confronti della scelta compiuta dagli organizzatori dell’incontro. Laddove contro gli orsi si era già ritrovata ad impegnare le proprie energie e con le pantere aveva avuto qualche scambio di opinione, leoni e tigri restavano animali a lei assolutamente ignoti, letali avversari che avrebbero potuto squadrare le di lei carni fra i propri denti, sotto i propri artigli, prima ancora che ella avesse potuto comprendere il movimento del loro attacco. In quel momento, riportando il pensiero ai fanti abbattuti, ella non poté evitare di rimpiangere sinceramente quelle meravigliose, ingombranti e pesanti armature, che avrebbero potuto proteggerla dalle fiere; ed esse, osservandola con interesse e curiosità, iniziarono ad allargarsi all’interno dello spazio loro concesso con passo tutt’altro che sereno, con espressioni tutt’altro che felici, nell’evidenza di un’assenza protratta di cibo loro imposta da chissà quanti giorni, ad assicurarne la massima ferocia verso quella che sarebbe potuta essere la loro vittima predestinata.

« E qui la cifra pattuita inizia a lievitare. » commentò, sfoderando la propria spada e preparandosi al peggio.

domenica 24 agosto 2008

227


« E
ccomi, mio caro. Spero di non essermi attardata troppo… »
« Non temere, dolcezza. I giochi sono appena incominciati. »

Il suo nome era lord Visga Veling, ultimo erede di una delle più antiche e prestigiose famiglie nobili di tutta Gorthia, residente da sempre presso la stessa città di Garl’Ohr. Superato ormai il traguardo dei quarant’anni, umiliato dall’onta di non riuscire ad avere un erede, aveva da lungo tempo rifiutato la presenza di una sposa al proprio fianco, di una compagna fissa con cui dividere la propria esistenza, non ritrovando alcun beneficio in una simile scelta laddove nulla li avrebbe mai legati al di fuori di qualche momento di piacere. E per tale ragione egli preferiva ricercare tali momenti con il maggior numero di concubine possibili, gorthesi e non, del resto appoggiato completamente dalla legge del regno che non imponeva né richiedeva alcuna forma di monogamia, subordinando altresì il ruolo femminile a quello maschile. Il suo aspetto, nonostante la giovinezza si fosse ormai allontanata, si proponeva ancora vigoroso, guerriero, con un corpo ancora perfettamente scolpito nei propri muscoli, nelle proprie proporzioni per quanto celato sotto una lunga veste di pelle e sotto un pesante manto di pelliccia, quest’ultimo legato al collo da una grossa catena d’argento. Il suo viso si offriva squadrato, con un naso corto ed un mento largo, due occhi castani dotati di un’estrema, intrinseca vivacità in contrasto con una pelle chiara e corti capelli un tempo castani, ora più sbiaditi, che si conformavano ai lati del viso in due lunghe basette. Sopra il capo, unico e prezioso ornamento, era una coroncina d’oro, composta a riprendere le sembianze di una corona d’alloro, antico simbolo di valore nella cultura gorthese, mentre alle di lui mani ed ai di lui piedi erano strette fasciature l’unica protezione presente: entrambi tali segni erano evidente retaggio d’un passato da combattente che non desiderava fosse dimenticato, che non voleva potesse essere posto in dubbio da alcuno.
La di lui attuale compagna, conosciuta solo pochi giorni prima e rapidamente resa propria, era una splendida giovane donna straniera, come la di lei scura pelle sottolineava in maniera chiara ed inconfondibile: presentatasi con il nome di Cila Gane ella era giunta in città al seguito del proprio fratellastro, un mercante kofreyota, lasciando ben presto il proprio ruolo accanto al parente in nel cedere alle lusinghe ed alle offerte concesse a lei da lord Visga. Lunghi capelli castani, raccolti in un’alta coda, circondavano un viso delicato, incantevole, leggermente ovale, dove due profondi occhi ugualmente castani e carnose labbra rosso sangue si ponevano attorno ad un naso sottile, elegante, aggraziato. Un’ampia scollatura, nella di lei veste violacea scendeva fino alle rotondità di due seni non eccessivi ma sodi ed assolutamente ricchi di eleganza, sopra i quali si adagiava un prezioso girocollo in diamanti ad attirare ancor di più, se necessario, lo sguardo verso tale desiderabile e desiderato punto d’interesse. Nella forma di un stretto corsetto era la parte superiore dell’abito, legato da molti lacci sul di lei ventre e coprente appena esso e parte delle di lei braccia e spalle, lasciando libera, altresì, la predominanza della schiena: in tal punto, osservandola con cura attraverso la lunga coda di soffici capelli, si poteva trovare la presenza di un meraviglioso tatuaggio sulle di lei scapole, a ritrarre un paio di ali piumate in posizione di riposo. Scendendo più in basso, da fianchi larghi dopo una stretta vita, si lasciava ricadere una lunga gonna completamente aperta nella propria parte anteriore, per mostrare lunghe e tornite gambe, color della terra, e lasciar intuire la presenza di un delicato perizoma a celarne le parti più intime. Alle estremità inferiori di tale figura si proponevano, infine, due sandali del medesimo colore violaceo dell’abito, che risalivano fino alle di lei ginocchia in un intreccio sensuale ed invitante per uno sguardo maschile, che mai si sarebbe stancato di posarsi su tale, meravigliosa, presenza.

« Ma davvero sta combattendo Midda Bontor? » domandò la donna, accomodandosi accanto al proprio compagno e portando, in ciò, le lunghe gambe ad accavallarsi con grazia « La famosa mercenaria del sud di cui tanto si parla? »
« Ammetto che anche io avevo dei dubbi all’inizio… » sorrise l’uomo, voltandosi per un istante verso di ella, nel portare in tal gesto la propria mano destra ad appoggiarsi sulla di lei coscia destra, superiore alla sinistra in quella postura « Ma dopo aver visto di cosa è capace, sono convinto sia proprio lei. »

Molti livelli sotto alla posizione in cui risiedeva la coppia, nella tribuna d’onore riservata alle personalità più importanti del regno, la donna guerriero in questione stava estraendo la propria spada grondante di sangue dal corpo del suo sesto avversario, per essere libera di gettarsi in corsa verso un nuovo gruppo di fanti, ormai davanti ad ella simili ad agnelli indifesi, a carne da macello più che ad un’elite scelta quali inizialmente dovevano apparire nei desideri degli organizzatori di quello spettacolo.

« E’ davvero così brava? » chiese ancora Cila, mostrandosi interessata ai giochi ed appoggiando le proprie mani sul braccio del compagno per accarezzarlo con dolcezza « Da quanto si dice dovrebbe essere più simile ad una figura mitologica che ad una donna comune… »
« Di certo non è una donna comune. » rispose egli, tornando ad osservare l’azione nell’Arena « La nostra fanteria pesante è rinomata in tutto il continente eppure ella si sta dimostrando in grado di abbatterli uno dopo l’altro, senza fatica, forse senza neanche un reale impegno, quasi fossero fantocci da esercitazione più che guerrieri scelti. »
« Oh… » offrì stupore la donna, portando anch’ella la propria attenzione all’evoluzione di quello spettacolo circense.
« Osserva i di lei movimenti. » indicò l’uomo, levando la propria mano libera ad indicare il combattimento in corso « Più che ad un guerriero, ella appare simile ad un’odalisca impegnata in una danza d’amore, di seduzione: scivola elegante fra i propri avversari, accarezzandoli con la lama della propria spada, imponendo loro la più dolce morte che mai avrebbero potuto desiderare. »
« Dovrei sentirmi gelosa? » lo stuzzicò a quel punto la donna, spingendosi con le proprie labbra ad accarezzare il lobo del di lui orecchio a lei rivolto « Sembra che parli di lei come della tua prossima conquista… »
« No… non temere. » scosse il capo egli, voltandosi a baciare le labbra così offertegli in un gesto fuggevole « Ci tengo alla mia vita e quella donna sarebbe capace di strapparmela con una sensualità tale, con un erotismo intrinseco così forte per i quali la ringrazierei invece di maledirla… »

Il confronto fra Cila e Midda appariva invero difficile, assolutamente impari: la prima, infatti, incarnava femminilità allo stato più puro, mostrando la propria assoluta beltà in ogni singola proporzione del di lei corpo, in ogni più minimo dettaglio, traspirando sensualità ad ogni proprio gesto, ammaliando con il proprio semplice respiro, il proprio portamento chiunque le si accostasse; la seconda, al contrario, proponeva un corpo indubbiamente femminile, come le proporzioni anche troppo abbondanti dei di lei seni, dei di lei fianchi non mancavano di ricordare, ma diverso dalla controparte, con muscoli più evidenti, più guizzanti sotto una pelle che non celava tanti piccoli segni di troppe avventure, con un viso più severo, più marziale, reso quasi sgradevole, in effetti, dallo sfregio che lo attraversava, dilaniandolo visivamente. Ma nonostante tutto questo, nonostante la bellezza pura di Cila, Midda si riservava un erotismo più unico che raro, espresso come giustamente descritto da lord Visga, anche nei gesti più letali, più mostruosi come quelli di un’uccisione a sangue freddo, laddove alcuna emozione riusciva a trasparire sul di lei viso, dai di lei occhi di ghiaccio.

« E’ una chimera… » soggiunse l’uomo, continuando ad osservarla in azione, falciare uno dopo l’altro i propri avversari.
« Come? » replicò la donna, non avendo ben inteso l’ultima frase nel caos che li circondava, nelle grida assordanti di tutti gli spettatori dell’Arena.
« E’ una chimera. » ripeté egli, con convinzione « Appare così seducente, così magnifica, in grado di soddisfare ogni più recondito desiderio che l’umana mente potrebbe mai concepire… ma solo in superficie, solo in apparenza, rivelandosi altresì mortalmente pericolosa, assolutamente letale. Un uomo potrebbe dannarsi nel desiderio di giungere a lei e lì arrivato si ritroverebbe ugualmente condannato ad una tremenda fine… come con una chimera. »

sabato 23 agosto 2008

226


I
primi avversari che, all’interno dell’Arena, si presentarono contro la mercenaria e la di lei lama dagli azzurri riflessi furono un gruppo di dodici combattenti gorthesi: davanti a lei, essi si offrirono interamente ricoperti con pesanti armature che ne celavano le fattezze dall’estremità dei piedi a quella del capo, aprendosi solo in sottili fessure utili a permettere loro una qualche possibilità di vista sul mondo esterno. Tali protezioni, tipiche della cultura e della tradizione del regno, non risultavano essere solitamente adottate negli scontri all’interno dell’Arena quanto nelle battaglie vere e proprie, proponendosi come la risorsa principale di una fra le fanterie pesanti più note e temute della parte meridionale del continente. Al contrario, per i combattimenti a fine ludico, se così potevano definirsi i duelli mortali condotti fino alla caduta di tutti i loro protagonisti su quella fine sabbia, generalmente si proponevano armature molto più leggere, che maggiore agilità, maggiore prestanza permettevano a coloro che sotto di esse cercavano protezione: era evidente, però, come qualcuno dovesse aver deciso che contro una leggenda vivente dello stampo di Midda Bontor, proporre normali guerrieri sarebbe risultato errato, una sottovalutazione tale da risultare addirittura un insulto più che una lode al dio Unico, portando in conseguenza alla scelta discutibile di far intervenire le forze migliori loro concesse, per quanto sotto simili placche di solido metallo agli uomini lì celati non sarebbe stata concessa né velocità né agilità in opposizione a ciò che sarebbe stato preferibile donare loro. Così come dal punto di vista difensivo quella dozzina di fanti era stata equipaggiata oltremisura, altrettanto sproporzionatamente essi si proposero da un punto di vista offensivo, trasportando, oltre al peso non indifferente di quelle armature, anche quello di molteplici armi in un assetto completamente da guerra: due erano infatti le spade pendenti dai loro fianchi, uno delle quali proponendosi nella foggia tipica degli spadoni; due gli stiletti presenti alle loro gambe; una la pesante mazza legata dietro la schiena; ed una l’alabarda che tutti loro reggevano fra le mani avanzando con passo lento ma costante.
Nel contesto di una guerra, per la quale un dispiegamento di armi e di protezioni era stato pensato e spesso utilizzato con grande successo, senza dubbio la presenza di una simile fanteria avrebbe creato un effetto travolgente negli avversari, nella compattezza e nella forza di un passo che nessuno avrebbe mai potuto arrestare, quello di un popolo che solo nella propria forza, nella battaglia, poteva trovare una ragion d’essere. Ma quella in corso all’interno dell’Arena non si proponeva simile ad una guerra e la Figlia di Marr’Mahew non si presentava simile ad un intero esercito a cui poter incutere timore ancor prima di offrire battaglia: osservando i propri avversari, ella non poteva fare a meno di essere sicura di come essi stessero marciando verso la propria fine, imprigionati all’interno di protezioni che, invece di difenderli, li avevano condannati nel momento stesso in cui avevano posto il primo piede sopra quella sabbia. Se anche non avesse voluto affrontarli in maniera diretta, ella avrebbe infatti potuto tranquillamente continuare ad evadere ad ogni loro gesto, ad ogni loro ipotesi d’attacco, con una rapidità tale che sarebbe apparsa quasi divina, nel confronto impari con la lentezza imposta dl peso di tanto metallo sulle loro spalle, ai loro fianchi: ma non era sua intenzione, per loro sfortuna, protrarre eccessivamente a lungo quell’incontro, spendere tempo ed energie contro di loro. Ella aveva sì un ruolo da svolgere, un compito che prevedeva di combattere in quell’Arena, ma nulla nelle istruzioni, nei comandi ricevuti le richiedeva di tergiversare per ore con ogni singola prova che gli organizzatori di quel circo avrebbero pensato per lei.
Levando la mancina, armata, verso il cielo, la donna guerriero rese in tal gesto omaggio a tutti gli spettatori giunti lì per assistere alla di lei gloria, muovendo lo sguardo di ghiaccio a percorrere l’immensità di quegli spalti nella curiosità di poter osservare all’opera la sua compagna, ovunque ella fosse.

« In tredici ora si muovono davanti ai nostri occhi, signore e signori. » riprese la voce del presentatore, ancora immobile nella sua posizione centrale « Dodici contro uno, per la prima prova offerta alla donna che si propone essere più di una comune mortale, nelle cronache delle proprie gesta. Riuscirà Midda Bontor a dimostrare ora, davanti a tutti noi ed allo sguardo onniveggente dell’Unico, a dimostrare il proprio valore? Solo il sangue saprà offrirci una risposta… »

In conclusione quelle parole, un sofisticato congegno a botola, sostenuto da un gioco di contrappesi, vide l’uomo scomparire lentamente, allontanandosi da quella che sarebbe stata l’area di lotta senza compiere un solo passo nell’immergersi in quelli che erano i sotterranei dell’Arena: rimasti soli, i tredici guerrieri avrebbero ora dovuto combattere fino allo sterminio di una delle due fazioni in contrapposizione fra loro, fino alla morte inevitabile dei fanti o della mercenaria. E quest’ultima, senza perdere un solo istante di tempo, scattò rapida e silenziosa verso i tre che le si proponevano di fronte, ad un centinaio di piedi di distanza, correndo nella loro direzione senza alcuna esitazione, senza alcuna incertezza, senza alcun timore.
I tre uomini, indubbiamente tali sotto le proprie pesanti armature laddove la fede gorthese non avrebbe mai permesso a delle donne non pagane il combattimento, non si fecero porre in soggezione dal movimento deciso dell’avversaria e continuarono a marciare compatti, in fila, abbassando le proprie alabarde a posizionarsi parallele al suolo con movimenti perfettamente coordinati fra loro. La distanza fra le due parti si accorciò rapidamente, vedendo la donna sempre più sfrenata verso gli avversari ed essi imperterriti nel proprio cammino, nel condurre passo dopo passo la propria strada verso di ella: cinquanta piedi di distanza, trenta piedi di distanza, quindici piedi di distanza, dieci piedi di distanza, e la situazione rimase immutata, verso lo scontro considerato ormai inevitabile fra loro, verso quelle picche affilate rivolte alla mercenaria, davanti alle quali tutti non potevano evitare di domandarsi in quale modo ella avrebbe mai potuto evitarle, come avrebbe mai potuto non infrangere il proprio corpo scoperto, praticamente nudo nel confronto con gli altri. Solo a sei piedi di distanza, al momento in cui le punte avrebbero dovuto squartare senza pietà il di lei ventre, tutto mutò inaspettatamente, vedendo la mercenaria gettarsi in una lunga scivolata in avanti, abbassandosi così al suolo con la propria schiena giusto in tempo per evitare il catastrofico impatto e, contemporaneamente, per cogliere di sorpresa i propri avversari: essi, lenti e legati quali si ritrovavano ad essere, con un’imposta riduzione di campo visivo data dagli elmi di quelle armature, percepirono semplicemente la scomparsa della propria preda divenuta predatrice, senza poter comprendere dove ella si fosse spostata, dove ella si fosse nascosta. Questo ovviamente almeno fino a quando, un istante dopo, la di lei impietosa lama non si insinuò attraverso le giunture della protezione considerata quasi perfetta indossata dal centrale fra loro, definendo indissolubilmente la prima di quelle che sarebbero state dodici morti, penetrando dall’inguine ed affondando con la propria spada bastarda fino a raggiungere il di lui cuore.
Un boato esplose nella folla, per l’esultanza di quel momento, per l’entusiasmo di quel primo sangue caldo sulla fresca sabbia dell’Arena, acclamando la straniera nel di lei rapido movimento che la vide rialzarsi da terra alle spalle dei due uomini rimasti solo per sferrare un secondo, violento ed infallibile attacco: ancora una volta, senza esitazioni, ella incuneò la propria spada nei sottili spazi concessi dalle articolazioni metalliche delle armature avversarie, infrangendo nuovamente un cuore nel giungere attraverso l’ascella del suo proprietario.

« Non prendertela… » suggerì ella, spingendo il corpo morto verso l’unico superstite nel liberare la propria spada « … ma posso assicurarti che mangiare una magnosa è sicuramente più complesso che superare le vostre difese. »

Il riferimento al crostaceo proposto dalla Figlia di Marr’Mahew ovviamente sfuggì all’uomo che, rigiratosi verso di ella e gettata a terra l’alabarda ormai inutilizzabile ad una distanza così ravvicinata, estrasse il proprio spadone nel desiderio di abbattere l’avversaria, nella certezza che se ciò non fosse avvenuto rapidamente sarebbe stato il suo sangue ad aggiungersi a quello dei due compagni perduti. Purtroppo per egli ogni resistenza era già da considerarsi vana in opposizione alla donna guerriero: i suoi gesti apparvero assurdamente lenti a confronto con quelli di ella, quasi fosse vittima di una sorta di incantesimo sebbene l’unico suo svantaggio risiedesse in un’errata pianificazione di tale incontro, nella scelta di quell’equipaggiamento ed anche laddove l’uomo riuscì a portare la propria pesante spada contro l’obiettivo prefissato, egli non raggiunse la di lei carne ma unicamente il metallo del di lei braccio destro, il quale non si dimostrò minimamente scalfito da tanta enfasi, dal peso di un simile attacco. In quel tentativo di offesa, al contrario, l’uomo si scoprì troppo, ponendosi completamente a disposizione di qualsiasi decisione della propria avversaria: senza trasporto, senza mostrare né particolare gioia né particolare dolore per i propri gesti letali, per quello che dal di lei punto di vista era un normalissimo lavoro, un incarico assegnatole che avrebbe condotto a termine per i propri benefici personali e per alcuna altra ragione, ella pose fine anche alla sua vita, scuotendo il capo nel lasciar cadere quel corpo a terra, così goffo ed impacciato nell’inutile tentativo di difesa rappresentato da quell’armatura.

venerdì 22 agosto 2008

225


« S
ignore e signori… è con enorme piacere che vi offro il mio più caloroso benvenuto. »

Donne e uomini, giovani e vecchi, borghesi e nobili, fra i quali si potevano annoverare lady e lord appartenenti alle più influenti famiglie di tutta Gorthia, si erano dati appuntamento all’interno di quel teatro, di quella colossale edificazione, accomunati non unicamente dai patrimoni posseduti e dall’importanza dei propri nomi, per assistere allo svolgimento di quella che era una delle più antiche e rinomate tradizioni del regno: il circo.

« Non senza emozione, non senza orgoglio, ma assolutamente privo di falsità, voglio annunciare a tutti voi che questa sera l’Arena offrirà scontri epici, imprese mai viste prima, nella presenza di un’ospite assolutamente unica! »

Garl’Ohr era in Gorthia una fra le maggiori capitali di tutte le province, più vasta e popolata della stessa sede del potere sovrano, della famiglia reggente. Sita a meridione, essa si proponeva quale primo avamposto di civiltà, primo segnale di vita umana a nord della regione vulcanica, avvelenata ed invivibile, comunemente conosciuta con il nome di Terra di Nessuno, spartita quale confine non desiderato fra lo stesso regno ed il confinante, Kofreya. Vicino al mare pur mantenendosi sufficientemente distante da esso per trovare non un porto cittadino ma una vera cittadella satellite preposta a tale funzione, Garl’Ohr si concedeva esteticamente specchio della civiltà che l’aveva eretta e che in essa viveva, una popolazione molto più rude e più violenta di quelle circostanti, la quale imponeva alla propria architettura solo forme basse, grezze, prive di armonia, di una reale bellezza: edifici costruiti in solida pietra, tagliata direttamente dalle montagne che costituivano la quasi totalità della superficie del regno, non lavorate, non rese lisce, lucenti, gradevoli, ma lasciate al naturale, in una sorta di barbara e selvaggia naturalità. Tale era del resto il carattere di quel popolo, di quella gente, che nella forza fisica, nello scontro privo di regole, cercava il proprio onore, la propria elevazione verso gli dei, verso il dio Unico riconosciuto in quell’area, lo stesso che altre nazioni confinanti amavano definire con nomi quali Gorl o Gau’Rol: figli della terra e del fuoco tali essi si consideravano, e della terra cercavano la solidità, del fuoco l’ardore, la passione. Guerrieri, quindi, ma che non vedevano la guerra come un affare, che non osservavano la battaglia quale una possibile fonte di potere, quanto semplicemente un’occasione di gloria, di elevazione verso l’ideale divino indicato dalla loro fede: nessun mercenario partiva da Gorthia diretto al resto del mondo, laddove alcun abitante di quelle dure terre avrebbe mai accettato l’idea di guadagnare in conseguenza del proprio credo, compiendo ciò che ai loro occhi non era diversa da una preghiera elevata all’Unico e che, in tal modo, sarebbe divenuta una blasfemia.

« Molti sono coloro che su questa sabbia hanno combattuto. Molti sono coloro che su questa sabbia hanno incontrato il proprio destino. Molti sono coloro che su questa sabbia hanno potuto elevarsi verso il Fuoco Eterno, in conseguenza del proprio valore, della propria forza, della propria fede. »

L’Arena di Garl’Ohr si posizionava nel centro della città, monumento principale in essa che sopra ad ogni altro si imponeva con le proprie dimensioni, con la propria massa, tanto colossale da essere visibile, qualcuno sosteneva, fin dalla cima delle montagne: invero enorme era quell’ambiente, realizzato in roccia grezza come ogni altra erezione in città, in una forma leggermente ovale capace di accogliere oltre la metà dell’intera popolazione, per essere in grado di offrire spazio ad ogni spettatore lì fosse voluto giungere. Al circo non potevano ovviamente accedere le classi meno abbienti, le caste inferiori, e per questa ragione se a simili appuntamenti fossero giunti soltanto ospiti dalla medesima città molto sarebbe rimasto lo spazio inutilizzato. Altresì, dall’intera provincia, dalle altre capitali, in molti lì arrivavano almeno una volta al mese, per assistere a quegli eventi settimanali, tanto da non concedere mai neppure un posto in piedi libero sugli spalti, sugli enormi gradoni che costituivano i sedili in tale area. Ogni occasione risultava sempre essere unica, importante, meravigliosa ed irripetibile, ma quella sera la folla si era accatastata in maniera disumana, stringendosi al limite del soffocamento, per riuscire ad entrare, per poter accedere ed assistere a quanto in programma.

« Una leggenda vivente è fra noi oggi, è qui in questa meravigliosa notte di Epipma, per combattere contro ogni sorta di avversario, ogni genere di pericolo, nell’onorare con il proprio braccio, la propria lama, la sabbia di questa Arena ed il nostro dio, per quanto pagana si proponga ella nel proprio cuore, nel proprio animo. »

Sebbene mercenari non fossero offerti al mondo dalla popolazione gorthese, essi risultavano altresì estremamente benvoluti in senso opposto, per quanto lontani dalla luce della fede, per combattere all’interno dell’Arena, per concedere, con la propria vita o con la propria morte, gloria all’Unico: maggiore fosse stato il valore riconosciuto a tale guerriero, maggiore sarebbe stata l’importanza di tale combattimento, il dono concesso al loro dio, e nelle ricompense materiali offerte dalla cittadinanza di Garl’Ohr lunga si proponeva la lista di coloro che lì desideravano spingere la propria audacia, dimostrare il proprio talento. Solo volontari erano così i lottatori, mai prigionieri, mai costretti nella sfida che prevedeva il confronto con altri guerrieri e con bestie di ogni sorta e natura, anche laddove il pericolo si presentava elevato, in una tenue possibilità di sopravvivenza che solo i migliori avrebbe visto vittoriosi, vincitori, glorificati ed osannati dalla folla.

« In tutti i regni meridionali il suo nome è entrato nel mito, cantato in dozzine di ballate che ne descrivono la forza, il coraggio, l’indomabile presenza! »

Al centro dell’Arena, del vasto spazio sabbioso sul quale tutti attendevano l’arrivo dell’ospite d’onore di quell’evento, tanto incredibile da essere considerato unico ed irripetibile, era il presentatore, la cui voce forte e roboante risuonava perfettamente fino agli spalti più elevanti, in un’acustica incredibilmente perfetta per quell’edificio apparentemente tanto grezzo, ma che evidentemente doveva essere stato studiato nel garantire ad ogni spettatore di poter godere del circo nel minimo dettaglio, nel più leggero ansimo da parte dei combattenti, nel minimo ringhio da parte delle fiere. Verso quell’uomo era l’attenzione di ognuno, nonostante il chiasso immancabile della folla, derivante dal desiderio ormai insostenibile di poter vedere quanto loro promesso, di poter incontrare, nei limiti della situazione, una figura per loro così nota che probabilmente mai si sarebbero attesi all’interno di quella seppur importante celebrazione del valor guerriero.

« Freddo come il ghiaccio è il suo sguardo; ardente come il Fuoco Eterno è il suo animo; priva di pietà è la sua mano; ricco di grazia è il suo corpo: potrete forse innamorarvi di lei, ma ella sarà capace di concedervi solo morte! »

Un tuonante rullo di tamburi impose il silenzio sulla massa nell’annunciare l’ingresso nell’area centrale dell’ospite desiderata, la quale avanzò con passo deciso, schiena eretta, testa alta, nello splendore di una chioma corvina, di due splendidi occhi azzurri, di un viso candido ornato da efelidi e sfregiato da una cicatrice all’altezza dell’occhio sinistro. Un corpo statuario, con proporzioni sensuali, ammalianti, in tondi e sodi seni stretti da una fascia e coperti dai resti di una casacca sdrucita, in lunghe e muscolose gambe celate da pantaloni tanto rovinati da apparire simili a stracci più che a vesti, fu quello che si presentò davanti agli sguardi di tutti. Con vigore, con orgoglio forse, in opposizione ad un braccio destro completamente metallico, da sotto la spalla fino alla punta delle dita, oscuro nelle proprie tonalità che, alla luce delle torce, risplendevano in riverberi rossastri, ella mostrava il proprio braccio sinistro di carne ed ossa, ornato da complessi tatuaggi di colore turchese, tipici dei marinai del sud, e da una meravigliosa spada bastarda trattenuta in tale mano: la lama, perfetta in ogni dettaglio, meravigliosa nel suo apparire, scintillava negli azzurri riflessi tipici di una misteriosa tecnica di lavorazione del metallo propria dei fabbri figli del mare, una civiltà così lontana da quella gorthese che pur tanto vicini all’infinita estensione d’acqua vivevano, osservando la stessa con diffidenza, timore e sospetto.

« Signore e signori… Midda Bontor! »

giovedì 21 agosto 2008

224


L
a donna che si era proposta di fronte alla mercenaria la entusiasmo decisamente meno della presenza attesa dei cerberi, i quali, per quanto orride creature, sarebbero stati preferiti a quella figura imprevista e sconosciuta della quale nulla sapeva ma che, nel conoscere il di lei nome, già di troppe informazioni era evidentemente al corrente.

« Chi sei? » domandò la Figlia di Marr’Mahew « Come mi conosci? »

Superato il primo iniziale momento di smarrimento a causa della sorpresa, il tono della voce di Midda tornò ad essere freddo e controllato, mentre le di lei membra si tesero con forza nel non abbandonare la postura aggressiva ed, anzi, nel prepararsi all’eventualità di un nuovo scontro, non più in opposizione a creature a lei potenzialmente superiori ma a semplici umani.

« Il mio nome è Carsa. » si presentò la sconosciuta a quella richiesta, tendendo verso di ella entrambe le braccia in segno di saluto, a dimostrazione dell’assoluta fiducia che desiderava offrire verso la propria interlocutrice nonostante l’evidente ostilità ricevuta « Ti stavamo aspettando e non nego che sia un piacere ed un onore incontrarti… »

La mercenaria socchiuse appena gli occhi, chiari e glaciali nell’oscurità in cui ormai si trovava ad essere immersa a seguito dello spegnimento della torcia, osservando con cura la propria controparte, nel cercare di recuperare dalla propria memoria informazioni riguardo a quel nome, a quel volto, senza ritrovare successo sebbene non apparisse completamente estranea al di lei sguardo, alla di lei mente: doveva aver già sentito quell’appellativo, forse addirittura già incontrato quella donna, per quanto in quel momento non riuscisse a ricordare nulla a tal riguardo.

« Dove sono i cerberi? » chiese, storcendo le labbra verso il basso in segno di disapprovazione verso se stessa per la mancata identificazione della potenziale avversaria.

La sconosciuta, a quella domanda, ritrasse le mani inutilmente tese verso di lei fino a quel momento, per voltarsi e compiere un paio di passi ad allontanarsi dalla soglia, invitandola in ciò, con un gesto della mancina, ad avanzare, indicando nel contempo qualcosa al di fuori del di lei attuale campo visivo: in un simile movimento, la schiena di ella venne concessa alla donna guerriero, che fra lunghi capelli scuri ondeggianti stretti in un’alta coda poté ammirarne la vellutata pelle scoperta ed un tatuaggio inciso all’altezza delle scapole, rappresentante due ali piumate poste a riposo, come se esse fossero parte di lei e come se da quel delicato punto potessero dischiudersi per concederle la possibilità di spiccare il volo. Fu quel particolare a scuotere la memoria di Midda, facendole rimembrare chi fosse colei presentatasi come Carsa: quel nome, che sapeva non esserle ignoto, era quello di una mercenaria abbastanza famosa, una donna guerriero esperta al punto da essere ottimamente valutata dai mecenati kofreyoti. Per quanto le fosse dato di conoscere, ella non si proponeva ai propri livelli, alle proprie quotazioni, ma nonostante questo non risultava neppure essere una principiante, sicuramente di abilità e destrezza superiori al molti altri combattenti nell’essere ancora in vita dato il proprio lavoro, lo stile di vita scelto per se stessa, nei propri limiti e nelle scarse speranze che esso offriva verso il futuro.
Per quanto sospettosa, nel riconoscere la propria interlocutrice e nel vedersi così invitata ad avanzare, la mercenaria mosse piccoli passi in avanti, fino a giungere sul confine di quell’ingresso, fino a porsi in posizione utile a gettare il proprio sguardo all’interno della sala che già aveva attraversato e che ricordava con non sufficiente positività, spinta dalla curiosità di comprendere di più su cosa stesse accadendo: ben diverso, però, si propose alla vista quell’ambiente noto rispetto a quanto ricordato, presentando uno spettacolo del tutto inatteso e, per certi versi, stupefacente.

« Thyres… » sussurrò a denti stretti.

Oltre a Carsa, due uomini erano presenti all’interno della sala, tranquillamente seduti al centro della stessa, apparentemente distratti da ciò che accadeva attorno a loro nell’impegno posto in una disputa a dadi: premio di quella partita d’azzardo, valuta adoperata in pagamento reciproco per le proprie sconfitte, erano i resti mutilati delle cinque creature precedentemente poste a guardia di quel complesso carcerario, forse fin dalla notte dei tempi idealmente situate lì per restare in eterno a custodia delle scelte della giustizia kofreyota che in quel luogo trovavano esecuzione. Quelle bestie mitologiche, possenti, indomabili, feroci erano state abbattute e ridotte a brandelli, ritrovando la propria carne, tranciata similmente all’opera di un macellaio su un bovino, utilizzata cinicamente dai loro presumibili uccisori senza alcun riguardo, quasi fosse la cosa più ovvia da fare, la scelta più normale del mondo. Midda, avendo avuto in passato possibilità di confrontarsi con tali animali, era conscia della loro mortalità, dell’umana possibilità di porre fine alle loro esistenze al di là di ciò che imponevano le leggende, ma nonostante tutto non reputava tale eventualità come banale, come banalmente scontata: i cerberi erano, similmente ad altre creature loro pari, meritevoli di ogni rispetto, non di timore, di terrore, ma sicuramente di ammirazione guerriera. Ed il pensiero che quel gruppetto ristretto, quel trio di combattenti, quali essi si proponevano, avessero abbattuto l’intera assemblea li presente non poté che lasciare nuovamente stupita la mercenaria: chiunque fossero, qualsiasi potessero essere le loro intenzioni, essi non sarebbero potuti essere considerati come normali avversari, semplici sfidanti con i quali, magari, intrattenersi anche volentieri in un combattimento mortale nella certezza della conclusione. Non erano molte le persone al mondo che avrebbero potuto tener testa ad un cerbero solitario, unici pertanto risultavano essere indubbiamente gli individui che avrebbero potuto abbatterne cinque contemporaneamente.

« Chi siete? » domandò nuovamente, mantenendo ora più che mai la posizione di guardia, conscia del pericolo che avrebbe potuto presentarsi su di lei « Cosa volete? »
« Siamo mercenari, esattamente come te. » spiegò tranquilla l’unica interlocutrice con cui aveva dialogato fino a quel momento, la sola del gruppo che sembrava offrirle interesse, tornando a voltarsi nella sua direzione « Probabilmente non ai tuoi livelli, sicuramente meno famosi, ma comunque siamo tutti stati capaci di costruirci una certa fama nel nostro ambiente… »
« Lo so. Non subito, ma ti ho riconosciuta… » confermò la prima, restando immobile ed attenta ad ogni minima evoluzione della situazione in corso, controllando con la coda dell’occhio anche i due uomini per quanto apparentemente distratti, cercando nel contempo di identificarli.
« Questo non può che rendermi orgogliosa! » ammise la seconda, mostrando un aperto sorriso « Comunque, siamo stati mandati qui da una conoscenza comune: lady Lavero. » continuò, sorridendole ancora tranquilla, come se stesse parlando con una cara vecchia amica d’infanzia « Ella aveva previsto che tu non avresti accettato l’ultimatum imposto con le quarantotto ore e ci ha inviato qui in attesa della tua evasione: del resto nessuno dubitava che ciò sarebbe avvenuto. »
Il silenzio Midda restò ad ascoltare quelle informazioni, cercando di mascherare dietro un’espressione fredda e controllata ogni emozione a quelle rivelazioni.
« Anzi, come mai ci hai messo tanto? » aggiunse Carsa, con evidente curiosità nella voce.
« Ho già detto a lady Lavero che ora non ho tempo da dedicare alle sue questioni… » rispose la donna, ignorando quell’ultima domanda « Credo che il vostro viaggio sia stato del tutto inutile. »
« Lady Lavero, invece, ritiene di avere qualcosa di interessante da offrirti, oltre a quanto già promesso, in cambio dei tuoi servigi. » replicò la controparte, sorniona verso di lei « Riguarda la Jol’Ange: la conosci vero? »
Cercando di mantenere l’assoluta freddezza impostasi fino a quel momento di fronte a quel riferimento esplicito nei riguardi della nave da lei ricercata, la Figlia di Marr’Mahew guardò con maggiore sospetto l’altra e mantenne di nuovo il silenzio, in un tacito consenso quale replica.
« La nostra nuova mecenate ha mobilitato le proprie risorse per entrare in possesso delle informazioni che cerchi in merito a quella goletta ed al suo equipaggio, le stesse per le quali ti sei fatta rinchiudere in questo luogo. » riprese a spiegare l’altra « Complimenti per l’audacia del piano, fra l’altro: personalmente non credo mi sarei mai spinta fino a questo punto per puro interesse personale. » aggiunse poi, apparendo nuovamente sincera in quell’ammirazione.

Midda restò ancora muta di fronte a quelle rivelazioni, che confermarono le impressioni avute in merito a lady Lavero al loro primo ed unico incontro: quella donna sapeva gestire le proprie risorse ed i propri affari in maniera non meno esperta di come lei stessa gestiva quotidianamente i propri, per quanto i relativi campi d’azione fossero diversi. Invero, quindi, esse sembravano proporsi quali due facce di una sola medaglia: così come la mercenaria riusciva a giostrare in guerra con agilità ed intelligenza, la mecenate appariva in grado di muovere la politica con simile bravura, con medesima mano ferma e mente concentrata. Ora, probabilmente in conseguenza di non semplici indagini, la nuova signora di Kirsnya non solo aveva compreso ogni mossa da lei attuata ma era stata forse in grado di ottenere quanto da lei desiderato e non raggiunto, nonostante l’incontro con Tamos, ed ovviamente, in quello che era il normale rapporto fra mecenate e mercenaria, per entrare in possesso di simili informazioni avrebbe dovuto accettare la missione per cui ella l’aveva cercata. Pur vero restava l’ipotesi di impegnarsi in altre vie per ottenere lo stesso scopo, provando a ricostruire autonomamente i dati in merito all’ubicazione della goletta, ma imprevedibile sarebbe stato il tempo e la fatica richiesta in un tale sforzo, in contrasto alla certezza altrimenti proposta dalla giovane nobildonna.

« Se non si può avere una persona con le cattive, perché non provare con le buone? » commentò in conclusione a tale pensiero, scuotendo il capo e rilassando finalmente il proprio corpo, in tacita resa.
A quelle parole, a simile decisione, per quanto scontata potesse probabilmente apparire, Carsa tese nuovamente le braccia verso di lei, tentando nuovamente di accoglierla con fiducia come aveva già fatto poco prima: « Benvenuta in squadra, sorellona. »