11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

domenica 30 giugno 2013

1987


Considerare, in quel di Rogautt, la Figlia di Marr’Mahew e chiunque a lei fosse vicino, chiunque a lei fosse amico, qual non propriamente amati, non esattamente benvoluti, avrebbe voluto significare unicamente peccare di eccesso di eufemia, in misura tale da minimizzare quello che, con maggiore puntualità, difficilmente avrebbe potuto essere riconosciuto meno che un odio viscerale, indubbiamente fomentato nella propria più pura essenza da colei che, entro tali terre e mari, entro quei confini, era acclamata qual unica e indiscussa sovrana, nel confronto con la quale alcuno avrebbe osato ipotizzare di levare non semplicemente il proprio braccio o la propria voce, ma anche, e soltanto, un semplice pensiero.
Sebbene infatti alcuno fra quei pirati, fra quegli uomini e quelle donne, avrebbe potuto vantare un personale trascorso con la donna guerriero o con qualcuno dei suoi alleati, il semplice pensiero derivante dalla consapevolezza di come il tributo alla dea Marr’Mahew fosse stato a lei associato in conseguenza allo sterminio di un’ottantina di loro compagni, presentandosi a loro da sola e armata, unicamente, della propria spada bastarda e di un martello da fabbro, non avrebbe potuto evitare di rappresentare un incentivo più che sufficiente, ove fosse stato necessario, per accogliere e condividere le negative emozioni di odio lei riservate dalla propria gemella. E tutti loro, avendo la possibilità di proporle sfida, speranzosamente associando il proprio nome alla notizia della sua mai prematura dipartita, o per lo meno tale dal loro personale punto di vista; non avrebbero esitato a scagliarsi in sua opposizione, in sua offesa, a suo discapito, cercando al contempo vendetta per i propri compagni da lei uccisi e, soprattutto, soddisfazione per se stessi, nel nome dell’imperitura gloria che, certamente, sarebbe derivata dal suo assassinio per il suo assassino, dalla sua uccisione per il suo uccisore.
Una feroce brama di sangue, quella che animò gli animi e le grida di tutti i pirati lì attorno presidianti, nel mentre in cui la Jol’Ange avanzava sotto stretto controllo verso la capitale, verso l’isola da tutti loro presidiata, che, ove possibile, risultò persino amplificata dalla consapevolezza di quanto, in quel momento, in quello specifico frangente, alcuna possibilità di azione, di movimento, di iniziativa, sarebbe stato loro permesso o perdonato, nell’essere, la mercenaria dagli occhi color ghiaccio, prigioniera del figlio della loro regina e, come tale, purtroppo o per fortuna, inavvicinabile. Perché, se solo non vi fosse stato quell’esplicito e indiscutibile ostacolo frapposto fra loro e il centro di tutte le loro più violente minacce, probabilmente minor enfasi le avrebbe allora contraddistinte, caratterizzate; alla rabbia lasciando prevalere l’istinto di conservazione e, con esso, la prudenza utile a tacere al momento più opportuno, per evitare troppo facili provocazioni che, disgraziatamente, avrebbero potuto condurli tutti soltanto a un fato di morte certa, a un destino di non migliore rispetto a quello che era stato riservato a tutti coloro che, in epoche precedenti, avevano compiuto quell’infausto passo, quell’insalubre scelta nei suoi confronti.
A buon dire, quindi, la presenza di Midda Bontor fra loro, e loro prigioniera, suscitò tante entusiastiche urla di condanna a suo discapito nella stessa misura in cui, nel profondo dei loro cuori, dei loro animi, suscitò allora inquietudine, nel rappresentare, nell’incarnare, dopotutto, l’esatta antitesi di tutto quello che, al loro sguardo, era e sempre sarebbe stata la loro sovrana, Nissa Bontor, promettendo loro morte e sofferenza non di meno di quanto quest’ultima sarebbe stata in grado di garantire loro vita e prosperità.
Così, nel colorito frasario che si ebbe a formare attorno a quel percorso, nel compimento di quel tragitto, di quelle ultime miglia prima del raggiungimento del molo e, con esso, della terraferma, quasi fosse stato diffuso un invito a concedersi ogni genere di sfogo verbale a discapito della prigioniera, a compendio di tutto ciò che, altresì, non avrebbero potuto allora compiere a suo discapito; espressioni abitualmente associate al suo nome da parte dei suoi antagonisti, quali “cagna” e ”vacca”, furono fra quelle che, in misura minore, predominarono sulle labbra di tutti, nel ritrovarsi affiancate e sostituite da molte altre più originali imprecazioni, nonché variegate promesse di stupri, mutilazione e morte, nel confronto con le quali, probabilmente, anche la più esperta prostituta di tutta Kriarya, avrebbe trovato ragione di che imbarazzarsi, di che arrossire, non di meno di una vergine del tempio. Ciò non di meno, forse animata dalla volontà di non concedere loro alcun genere di soddisfazione, o forse, e più semplicemente, perché da molto tempo superato qualunque genere di imbarazzo innanzi a qualsiasi possibile insulto, minaccia o quant’altro, nell’essere stata ben abituata dal proprio stile di vita a riceverne e riceverne in abbondanza; la Campionessa di Kriarya non si concesse la benché minima emozione innanzi a tutto quello, quasi non lo stesse neppure ascoltando, nel riuscire a conservare intatta, anche in quel momento, anche in quella condizione di potenziale condanna, anche laddove inginocchiata innanzi al proprio possibile boia, tutta la propria dignità e il proprio gelido distacco da tutto e da tutti, quasi nulla, in verità, stesse allora accadendo.
Solo nella forza da lei in tal modo dimostrata, solo nella superiorità da lei così manifestata innanzi a tutti, anche i suoi compagni e le sue compagne di viaggio, i suoi amici e le sue amiche, i suoi fratelli e le sue sorelle, complici in quell’ultima impresa, in quella forse conclusiva avventura, ebbero ragione di mantenere il giusto controllo, senza reagire, senza offrire ad alcuno il piacere derivante dal poterli vedere, alfine, reagire, e reagire in misura utile a giustificarne l’esecuzione, l’immediata condanna. Dopotutto, e a onor del vero, non tutti, fra quegli undici prigionieri, avrebbero potuto vantare eguale importanza non soltanto innanzi al giudizio dei pirati di Rogautt, quanto e ancor più della loro signora, della loro regina, la quale, in conseguenza, alcun genere di rimprovero avrebbe avuto ragione di sollevare nel qual caso in cui qualcuno fra essi non fosse riuscito a completare il proprio viaggio, a raggiungere, vivo, le coste della loro isola, della capitale del loro regno. Ragione per la quale, non semplicemente prudente, ma a dir poco saggio, sarebbe stato condividere il quieto silenzio che già la loro compagna dagli occhi color ghiaccio aveva reso proprio, accettando, laddove ella se ne stava dimostrando capace, di poter a propria volta sopportare quelle provocazioni, quegli insulti, quegli attacchi, con uno straordinario controllo, tale da dimostrare, anche in quella situazione, anche in quel momento di palese sconfitta, tutta la propria forza, in una misura alla quale mai alcuno fra quei pirati, uomini e donne che essi fossero, avrebbero potuto ambire.
Laconica processione, nel confronto con tutto ciò, alla luce di tali eventi, fu quella che vide accompagnati gli undici della Jol’Ange, più il loro carceriere, sempre più in profondità entro le spire di quell’enorme mostro rappresentato, idealmente e praticamente, dall’isola di Rogautt e dalle centinaia di navi lì attorno ormeggiate, navi che, se pur si aprirono innanzi alla loro pura, si richiusero rapidamente a poppavia, simili a gigantesche fauci di un’orrida creatura mitologica dal quale non avrebbero potuto, in fede, sperare di salvarsi, credere di sopravvivere. Non un mostro, non una creatura, tuttavia, quell’isola era, né erano quelle navi che, per quanto numerose ed equipaggiate da molti più pirati di quanti nessuno avrebbe avuto desio di conteggiare, di censire: quanto lì attorno loro presentato, in un frangente pur potenzialmente disperato, nulla di più e nulla di meno dell’opera dell’uomo avrebbe dovuto essere riconosciuto essere, un’opera che, così come era stata edificata, avrebbe potuto essere parimenti distrutta, avrebbe potuto essere rasa al suolo, destinata comunque, presto o tardi, a essere spazzata via, nella fragile precarietà tipica di qualunque mortale. E laddove, fosse lì stato presente effettivamente uno smisurato mostro, una creatura mitologica di dimensioni tali da poter inglobare al proprio interno, per intero, l’intera Jol’Ange con tutto il proprio equipaggio, non maggiore esitazione, non un più vivace timore per il loro futuro sarebbe stato loro riservato, nell’aver già affrontato, e vinto, esseri d’ogni forma, dimensione e natura; ancor meno ansia, ancor meno ragione di scoramento, avrebbe potuto essere loro riservata da un semplice, numeroso, certo, e pur semplice esercito di uomini e donne mortali, per distruggere completamente il quale, se fosse stata effettivamente loro intenzione, avrebbero dovuto spendere molto tempo, in un intendo che pur, ciò non di meno, avrebbero potuto riuscire a condurre a compimento.
Al centro d’ogni preoccupazione per la Figlia di MarrMahew e per i suoi dieci compagni e compagne, per coloro che avevano accettato di condividere, in quel giorno, in quel momento, la sua sorte, qualunque essa sarebbe stata, non avrebbe quindi dovuto essere inteso tanto quella flotta, o tutti i pirati che ancora avrebbero potuto attenderli per le vie di Rogautt. Perché tanto la mercenaria, quanto tutti gli altri, erano più che consapevoli di quanto il vero nemico, il vero mostro, avrebbe allor dovuto essere ricercato non tanto all’esterno dell’isola, quanto nel profondo del suo stesso cuore, il cuore pulsante attorno al quale tutto orbitava… Nissa Bontor.


sabato 29 giugno 2013

1986


Un’arma, quella contro di lei rivolta, che altro non avrebbe dovuto essere riconosciuta che la propria stessa spada bastarda, compagna di tante, e forse anche troppe, avventure e lì, spiacevolmente e terribilmente, rivolta a suo aperto discapito, a sua esplicita minaccia, dalla ferma presa dell’ultima persona dalla quale avrebbe mai potuto attendere un simile gesto di ribellione e di tradimento, benché, invero, tutto ciò fosse stato, da lei e dalla sua paranoia, ampiamente previsto nelle proprie eventualità, nei propri rischi e nelle nefaste conseguenze che da ciò sarebbero necessariamente derivate: Leas Tresand, il figlio che aveva desiderato e che non aveva mai potuto sperare di avere; l’erede del suo primo compagno, del suo primo amico, amante e complice, l’unico altro uomo, oltre a Be’Sihl, innanzi al quale si era realmente offerta, con tutta se stessa, non soltanto priva di inibizioni ma, soprattutto, in tutta la propria più vera essenza, in quello straordinario connubio di forza e di debolezza, di passione e di dolcezza, che al mito, alla propria leggenda, così come al mondo intero, sarebbe sempre stata negata possibilità di conoscere; e, purtroppo, ia progenie della propria stessa gemella, colei per la sconfitta della quale, in quell’infausto giorno, si erano tutti ritrovati riuniti in quel luogo, in quel preciso istante, a marchiare in maniera indelebile la Storia con le proprie azioni e i propri nomi, che per una ragione, o per un’altra, difficilmente sarebbero stati alfine dimenticati.
Probabilmente sciocco, sicuramente imprudente, era stato per Midda e per i suoi dieci alleati, accettare in fede l’ipotesi secondo la quale Leas, all’incirca ventenne, figlio della regina di tutti i pirati e pirata a sua volta, l’esistenza in vita del quale era stata scoperta, da parte loro, poco più di un anno prima, avesse a potersi accettare qual veramente cambiato, nelle proprie convinzioni, nei propri ideali, per una fortuita benevolenza divina, utile a permettergli di dischiudere gli occhi su chi realmente fosse sua madre e, soprattutto, sulla minaccia che ella, non soltanto per propria colpa, rappresentava. Promuovendo tale versione, simile testimonianza a proprio stesso supporto, quel giovane era stato catturato e tenuto prigioniero dall’equipaggio della Jol’Ange, nave un tempo appartenuta a suo padre e allora capitanata da Noal, a seguito di una breve battaglia che aveva visto coinvolte una corvetta pirata e la goletta del gruppo di Midda Bontor, al largo delle coste della piccola e pacifica isola di Bael. E promuovendo tale versione, quella particolare interpretazione degli eventi che, in verità, tutti loro desideravano poter ascoltare, nel ritrovare, osservandolo, il volto di Salge Tresand, amato da tutti e da tutti compianto, quel giovane era stato lentamente accettato, sino a essere riconosciuto, drammaticamente, parte della loro strana e variegata famiglia, così come tutti, in fondo, erano certi avrebbe reso onore alla memoria del prematuramente scomparso capitano, ucciso a tradimento per volontà della stessa madre di suo figlio, un figlio con lei concepito nell’inganno derivante dalla più totale mancanza di fattori di distinguo fisici fra le due sorelle, le due gemelle.
Purtroppo per tutti loro, e per la mercenaria dagli occhi color ghiaccio anche conosciuta, fra i più, con l’appellativo di Figlia di Marr’Mahew, dea della guerra di un pantheon in cui pur ella stessa non si identificava, qualcosa era trasparentemente sfuggito al loro controllo. Perché, alle porte di Rogautt, innanzi a una sterminata schiera di navi pirata lì attorno attraccate a difesa dell’isola eletta qual loro capitale da colei che in un’unica nazione li aveva riuniti tutti quanti; a essere mostrato quale ostaggio sulla coperta della Jol’Ange, a prua della nave, non accettò quietamente di permanere, anche soltanto per finzione, nella ricerca di un inganno utile a concedere a tutti loro possibilità di sopravvivere ancora per qualche altra ora, il giovane Leas, traditore dei pirati, nel preferire invertire violentemente le posizioni precedentemente concordate e assunte, per non essere più prigioniero quanto carceriere, per non apparire più qual condannato quanto boia. Un’inversione che, sorprendendo tutti, e la sua stessa zia in primo luogo, venne attuata da un rapido attacco, un colpo offerto con la nuca contro il naso della donna e una gomitata imposta a discapito del suo diaframma, in conseguenza al quale, per un istante, ella fu prepotentemente separata dalla realtà, concedendo al nipote, in tal modo, possibilità di compiere quanto pianificato, sottraendole la propria spada e, con un calcio, spingendola a inginocchiarsi definitivamente a terra, in una postura giudicata più comoda per mantenerla sotto controllo, nella minaccia non velatamente suggerita dalla fredda carezza di una lama… della propria lama contro il collo, pronta a sgozzarla se soltanto avesse compiuto un qualche audace gesto di ribellione qual pur, certamente, non avrebbe desiderato lasciarsi mancare.

« Midda! » esclamarono i dieci, in quello che risultò essere un coro di sconcerto, per quanto accaduto, per come accaduto e per quanto, in ciò, avrebbe potuto immaginare, senza particolare sforzo sarebbe ancora potuto avvenire, a loro condanna.
« Fermi! » ordinò Leas, secco verso il resto di coloro che, solo un istante prima, erano stati per lui compagni di ventura e che, ora, null’altro sarebbero risultati che avversari, antagonisti, nemici « Non un solo gesto, oppure… »

E l’alternativa da lui suggerita fu sì chiara che alcuno ebbe necessità di richiedere ulteriori spiegazioni, maggiori dettagli, nell’aver già drammaticamente colto tutto ciò che sarebbe stato necessario comprendere, non tanto sulle ragioni alla base di quel gesto, di quella ribellione, quanto e piuttosto sulle conseguenze che avrebbe necessariamente comportato qualunque altra libertà loro stessi si sarebbero potuti riservare.
Allora soddisfatto, nel non cogliere alcuna precipitosa brama di morte da alcuno degli uomini e delle donne della Jol’Ange, sia appartenenti alla più ristretta cerchia di coloro che, effettivamente, erano da sempre marinai a bordo della goletta, sia entrati ormai a far parte di tal gruppo per il non superficiale legame che li aveva visti tutti legati insieme in conseguenza alle azioni compiute, alle battaglie vinte e, ancor più, a quelle ancora da vincere, e per la conquista delle quali sarebbero stati tutti disposti a rischiare le proprie vite; Leas si concesse di rivolgere la propria attenzione verso colei scopertasi qual sua prigioniera, forse avvertendo la necessità di offrirle una qualche spiegazione o, forse e soltanto, nella volontà di ribadire la propria vittoria, la supremazia ottenuta.

« Per quello che può valere, ormai: mi dispiace… madre… » tentò di giustificarsi, quasi come se, una parte di lui, del suo spirito, avesse realmente creduto al proprio stesso inganno, alle parole da lui pronunciate in quegli ultimi giorni, quelle ultime settimane, per conquistarsi la fiducia sua e degli altri; e pur, malgrado ciò, non riuscendo ad apparire realmente credibile in simile affermazione, non soltanto per la lama allora appoggiata contro il collo di lei, quanto e ancor più per la scelta volta a riconoscerla esplicitamente, in maniera assolutamente inedita, qual propria genitrice, in termini ovviamente non biologici, laddove ella non lo era né avrebbe potuto esserlo, quanto e piuttosto sotto un profilo ideale, così come, purtroppo, sarebbe risultato soltanto spiacevolmente smentito dalle sue azioni e dalla sua, stupida, scelta di tradirli in maniera sì esplicita e plateale.

Non fosse stato quel giovane l’unica loro speranza per raggiungere, indenni, le spiagge di Rogautt, ancora a troppe miglia di distanza, e troppo ben sorvegliate, per poter credere di conquistarle semplicemente con la forza, in un numero così ridotto di risorse opposta e un quantitativo tanto straordinario di predoni dei mari; la Campionessa di Kriarya non avrebbe mai accettato di arrendersi senza lottare, senza reagire e, in ciò, senza dilaniare violentemente chi l’aveva aggredita in maniera sì indegna, aprendogli il ventre dal pube alla gola e lasciando le sue viscere libere di ricadere a terra, anticipandone la fine.
Purtroppo, al di là di ogni considerazione su quanto non semplice, non ovvio, non immediato sarebbe stato per lei riuscire a giustiziare in simile misura quel figlio negatole e colpevole, innanzitutto, di essere stato allevato nell’odio più puro nei suoi confronti e nei confronti di chiunque potesse esserle vicino; in quel momento Leas avrebbe dovuto essere riconosciuto, per loro, l’unica esile barriera esistente fra la vita e la morte, dal momento in cui, senza la sua presenza a bordo, nessuna fra le dozzine di navi che già li avevano circondati, avrebbe avuto ragione per trattenersi dallo scaricare contro di loro una vera e propria pioggia di dardi e di frecce. Ragione per la quale, al di là dei colpi subiti e del tradimento riservatole, ella non avrebbe potuto far altro che tacere… e tacere in attesa di un momento migliore per agire e restituire ogni addebito con i giusti interessi.


venerdì 28 giugno 2013

1985


Sarebbe un giorno giunto un momento in cui, eventi allora presenti, istanti lì non soltanto attuali ma straordinariamente vividi, e anche, e peggio, terribilmente letali, sarebbero forse entrati a far parte di una canzone o di una ballata, di una cronaca o di un racconto, nel quale tutti coloro che a tale mortale giostra avevano partecipato, sarebbero stati idealizzati al ruolo di eroi, astratti quali personaggi, ancor prima che persone, nel confronto con i quali cercare di identificarsi, nei panni dei quali tentare di porsi, per rendere ancora più viva un’esperienza divenuta Storia e, per questo, necessariamente appassionante, alla quale bramare di poter prendere parte quasi fosse stata un giuoco invece che una battaglia, e una terribile battaglia, per delineare, lungo il labile confine fra la vita e la morte, chi sarebbe stato su un fronte e chi, diversamente, su quello opposto, chi sarebbe sopravvissuto, per raccontare ai posteri quanto realmente occorso, in una verità che pur si sarebbe necessariamente persa, e chi sarebbe morto, commemorato qual martire, vittima di crudeli, feroci e sempre impietosi avversari. E quando ciò sarebbe avvenuto, particolarmente ampia non avrebbe potuto che essere accolta la varietà di scelta loro presentata, in un numero di protagonisti sì elevato da poter trovare uno spazio adeguato, e un archetipo opportuno, per ognuno di loro, per quanto, forse e invero, distante da quanto, altresì, avrebbe dovuto essere ricordato esser stato, nel ritrovarsi drammaticamente tradito dal proprio stesso mito, dalla propria leggenda.
Vi erano i giovani apprendisti, l’uno scudiero, l’altro mozzo, Seem e Ifra, pressoché coetanei, ormai non più i fanciulli che avrebbero potuto vantar d’essere un tempo e, ciò non di meno, sempre tali agli sguardi di coloro che li avevano visti crescere al proprio fianco e che pur, mai, avrebbero potuto smettere di considerarli quali due ragazzi, con più anni da vivere innanzi a sé di quanti non ne avessero già vissuti alle proprie spalle e, ciò nonostante, non privati dello stesso rispetto allora dovuto a chiunque altro lì presente, lì pronto a combattere e morire, laddove se la morte fosse sopraggiunta, non avrebbe certamente offerto distinzioni, non si sarebbe indubbiamente concessa scrupolo alcuno, fra coloro che, nel confronto con le comuni aspettative di vita, avrebbero ormai potuto esser considerati anziani e loro due, che in alcuna misura avrebbero in tal senso potuto essere equivocati.
Vi era la fanciulla da salvare o, per lo meno, colei che un tempo era stata tale, Camne, la quale, ormai a sua volta cresciuta, maturata e temprata dagli eventi di una vita sicuramente inattesa e che pur l’aveva entusiasmata, non aveva più ambito a far ritorno alla propria tranquilla isola, nell’estremo nord occidentale del continente di Qahr, benché null’altro, un tempo, le avrebbe fatto più piacere, l’avrebbe vista più felice rispetto a simile prospettiva. Già una volta soccorsa, e ormai non più da soccorrere, ella aveva acquisito infatti ogni competenza, ogni conoscenza, per poter essere in grado di prestare autonomamente attenzione alla propria salute, alla propria sopravvivenza, non più disposta a disporsi inerme innanzi agli scherzi del fato, ai capricci della sorte, e altresì sol desiderosa di lottare, se necessario anche con le unghie e con i denti, per difendere il proprio diritto a essere, la propria libertà e i propri sogni, per così come, con sì indubbia forza, con tanta straordinaria energia, avrebbe sempre difeso.
Vi erano i due guerrieri spacconi, amici dal giorno della propria stessa nascita, fratelli di vita sebbene non di sangue, Howe e Be’Wahr erano da sempre stati agli opposti l’uno rispetto all’altro, e pur sempre straordinariamente uniti, legati l’uno all’altro in misura tale che né l’uno, né l’altro, avrebbero mai saputo immaginare la propria esistenza senza quell’incomoda, ma affezionata, presenza. L’uno alto e magro, l’altro più basso e muscoloso; l’uno sfoggiante la carnagione bronzea tipica dei figli del lontano regno di Shar’Tiagh, che pur mai aveva conosciuto, insieme a lunghi capelli neri composti in piccole trecce, l’altro pallido e biondo; l’uno più arguto, l’altro… meno; essi avevano affrontato insieme molte più battaglie e molti più pericoli di quanti chiunque avrebbe mai potuto supporre nell’incontrarli e nel rapportarsi con loro, probabilmente non riuscendo a trovare un equilibrio che potesse porre in giusta relazione il loro carattere allegro e spavaldo con, effettivamente, il coinvolgimento a tanti orrori quali pur essi avevano affrontato, potendo sempre fare affidamento l’uno soltanto sull’altro, ed entrambi solamente sulle proprie forze.
Vi erano i giovani amanti, Masva e Av’Fahr, tali resi non tanto per la propria età, ormai distante da qualunque ipotesi di fanciullezza, quanto per la freschezza del loro sentimento, del loro amore, appena scoperto, appena sbocciato, appena fiorito e pur, apparentemente, già destinato a una tragica conclusione, nella maestosa, trionfale e, pur, non di meno, drammatica, dolorosa sorte che, in quegli eventi non avrebbe potuto che essere loro promessa. E pur complice, addirittura galeotto, avrebbe dovuto essere comunque considerato tanto avverso fato, nell’averli costretti ad affrontare i propri sentimenti, le proprie reciproche emozioni, senza concedersi più alcuna insicurezza, senza riservarsi più alcuna esitazione, ignorando i timori di ciò che avrebbe o non avrebbe potuto essere, trascurando le paura di quanto avrebbe o non avrebbe potuto succedere, e limitandosi, semplicemente e straordinariamente, a vivere quell’ultima occasione loro offerta per amarsi, per baciarsi o, fosse anche e soltanto, per sfiorarsi, in una silenziosa promessa volta a rassicurarli che, anche nell’aldilà, si sarebbero sempre ricercati, sempre rincontrati.
Vi erano, ancora, i compagni fedeli, Noal e Hui-Wen, legati l’uno all’altro da un amore che, qualche stolto, avrebbe potuto giudicare contro natura, estraneo a ogni prospettiva di riproduzione e di sopravvivenza della specie, e che pur, nel proprio sentimento, nel proprio rapporto, capace di dolcezza così come di passione, di ascolto così come di complicità, avrebbero potuto vantare un’unione, un vincolo, tanto forte quanto stupendo, in una misura che, alla maggior parte delle altre coppie scioccamente definite normali, avrebbe potuto soltanto giustificare malinconica invidia, per quanto avrebbero voluto essere egualmente capaci di vivere, nella propria quotidianità, nella vita di tutti i giorni. Per entrambi, trovarsi, non era stato immediato, non era stato scontato, e pur, da quando si erano conosciuti, da quando insieme avevano giaciuto per la prima volta, mai più avevano supposto di potersi lasciare, nell’aver trovato, ognuno, nella controparte, quella felicità da sempre inseguita, da sempre agognata, e che pur era stata temuta qual crudelmente negata da un qualche dio bigotto. E se non gli dei si erano dimostrati sì superficiali da fermarsi alle forme dei loro corpi, allorché alla sostanza delle loro emozioni, nessun altro, uomo o donna mortale, avrebbe avuto ragione a dimostrarsi sì arrogante dall’esprimere una qualsivoglia condanna a loro discapito.
Vi era, poi, il forte mansueto, Be’Sihl Ahvn-Qa, colui che più, fra tutti, avrebbe potuto essere lì giudicato fuori dal proprio contesto, lontano dal proprio ambiente, nell’aver speso oltre metà della propria esistenza qual locandiere, e il valore del quale, ciò non di meno, alcuno avrebbe osato porre in discussione, nel riconoscere, in lui, un’energia sconosciuta anche alla maggior parte dei guerrieri, una forza ignota anche a quasi tutti coloro che, abitualmente, erano indicati qual possenti, un potere derivante dalla propria temperanza e dalla purezza del sentimento che pulsava da venti lunghi anni nel suo cuore, per difendere il quale si era dimostrato disposto, persino, a porre in dubbio non soltanto la propria vita ma, ancor più, la propria anima immortale, così come pochi altri, o forse nessuno, sarebbe stato egualmente capace di fare. E al di là del proprio aspetto medio, della propria altezza media, della propria corporatura media, nulla di mediocre avrebbe mai dovuto essere considerato in lui, non, per lo meno, in misura tale da permettergli di conquistare l’amore della donna da lui desiderata… della donna più straordinaria che mai, probabilmente, il mondo stesso avrebbe potuto conoscere.
E, infine, vi era proprio lei, il cavaliere errante, Midda Bontor, figlia prediletta di Tranith, signora a furor di popolo della città di Kriarya, in Kofreya, e cittadina d’ogni terra emersa entro la quale aveva sospinto i propri passi, in una insaziabile brama d’avventura, in un’apparentemente inappagabile esigenza di nuove sfide nelle quali porsi alla prova, nelle quali dimostrare il proprio valore e, in tal modo, sperar di offrire un significato alla propria stessa vita. Ella, di tale storia, di quella vicenda pur corale, sarebbe stata sicuramente la protagonista più importante, contraddistinta tuttavia da un carisma e da un’autorevolezza tale per cui, difficilmente, qualcuno avrebbe mai potuto realmente sperare di immedesimarsi in lei, più vicina all’incarnazione di un principio, ancor prima che a una vera e propria figura mortale, più prossima a un concetto, a un’idea, ancor prima che a una donna, umana e fallibile, così come, all’inizio di quella stessa storia, avrebbe potuto tanto chiaramente potuto dimostrare l’affilata lama fermamente premuta contro il suo collo, promettendole morte se soltanto avesse tentato una qualsivoglia ribellione.


giovedì 27 giugno 2013

1984


« Il piano è semplice… » aveva suggerito la Figlia di Marr’Mahew, nel preferire, come sovente, strategie non eccessivamente complesse, non inutilmente macchinose, nel riconoscere il merito della semplicità e del valore della perfetta esecuzione di una tattica ben ponderata e pur non particolarmente elaborata, ove maggiori sarebbero stati i dettagli che avrebbero voluto riservarsi l’occasione di scolpire nella pietra, e maggiori sarebbero state le possibilità di fallire, di ritrovarsi a confronto con quell’unico, stupido particolare non considerato « Siamo soltanto in dodici, contro una flotta che, per quanto abbiamo potuto constatare, conta non meno di un centinaio di navi, nel considerare soltanto quelle attraccate nell’intorno di Rogautt. Ma, dalla nostra parte, abbiamo il vantaggio di avere qualcosa… qualcuno che, di certo, essi vorranno.» aveva quindi definito, includendo arbitrariamente nel conteggio delle loro risorse anche proprio nipote, a dimostrazione di come, ormai, non fosse, neppure da lei, considerato ulteriormente una minaccia.
« Quindi, dall’alto della tua esperienza bellica, ci stai suggerendo di arrivare, banalmente, alle porte del luogo più dannatamente pericoloso di tutto il mondo conosciuto e, lì, limitarci a salutare, mostrando Leas come ostaggio, come merce di scambio…? » aveva cercato di rendere più esplicito il capitano della Jol’Ange, nell’esprimere, in tal senso, un non troppo velato dubbio sull’efficacia, ancor prima che sull’efficienza, di una tale scelta « Cosa impedirà loro di massacrarci non appena saremo a tiro dei loro archi e delle loro balestre?! » aveva obiettato, non nel desiderio di contraddire colei che, della guerra, avrebbe potuto essere incarnazione, quanto e semplicemente a tentare di ottenere, da parte sua, rassicurazioni in tal senso, a negare simile, non imprevedibile, eventualità.
« In merito alla prima questione… qualcosa del genere, diciamo. » aveva annuito la mercenaria, apparentemente confermando un’idea simile a quella che Noal aveva appena definito senza troppi giri di parole, senza concedere ad alcuno la benché minima libertà di interpretazione nel merito di qualcosa di sì importante, di sì innegabile valore per delineare il loro futuro, anche laddove, da parte della donna, non era parsa essere altrettanta brama di trasparenza, fosse anche solo per un intento scaramantico « A riguardo della seconda domanda, invece, è da parte mia la speranza di poter replicare il successo della nostra ultima visita in quelle acque. Così come, nella scorsa occasione, dalla nostra era il possesso degli scettri pretesi dalla regina, ora è il possesso del figlio per riottenere il quale ci ha attaccato violentemente ben due volte in un solo giorno, salvo, successivamente, placare ogni offensiva. Leas è desiderato ancora in vita… e nessuno degli uomini e delle donne al servizio della mia gemella oserà agire in termini che potrebbero porre in dubbio questo pur non banale assunto. » aveva voluto azzardare, in un’ipotesi comunque non completamente priva di fondamento « Non, quantomeno, nel confronto con il rischio che una freccia o un dardo scoccati malamente, possa ferirlo o, peggio, ucciderlo nel mentre in cui nostra volontà appariva essere soltanto quella di restituirlo all’abbraccio della madre. »

Una posizione, alfine, quantomeno condivisibile, quella in tal modo promossa dalla Campionessa di Kriarya, che non aveva potuto evitare, pertanto, di risultare quietamente condivisa, anche e purtroppo nell’assenza di ipotesi non soltanto migliori ma, banalmente, alternative a quella in tal modo esposta.
Che la sfida rappresentata dall’isola di Rogautt, un tempo non più minacciosa di quanto non avrebbero potuto esserlo Bael o Licsia, o altre centinaia di piccole isole simili sparse in tutti i mari del sud, e in tutti i mari del mondo conosciuto, e pur ormai trasformata in quello che correttamente, legittimamente, inoppugnabilmente avrebbe potuto essere riconosciuto quale uno dei luoghi più pericolosi entro cui chiunque avrebbe potuto ipotizzare di sospingersi, in termini tali da lasciar apparire la stessa Kriarya, città del peccato del regno di Korfreya, pressoché un borgo adatto a educande, malgrado una popolazione costituita quasi integralmente da mercenari e assassini, latri e prostitute; avesse a doversi riconoscere nulla di meno di un’insana danza con la morte, l’esito finale della quale difficilmente avrebbe potuto concedersi possibilità di essere equivocato, difficilmente avrebbe potuto riservarsi occasioni di positiva incertezza, era sempre stato assolutamente e terribilmente chiaro in tutti coloro presenti a bordo della Jol’Ange, e che su quella goletta erano partiti dalla penisola maggiore di Tranith all’inizio del volutamente non breve viaggio che li aveva ricondotti sino a lì, sino a quell’appuntamento con il fato, con la sorte, con il proprio destino. Tutti loro, del resto, nessuno escluso, avevano già avuto occasione, solo un anno prima, di tentare la sorte in quello stesso maledetto angolo di mondo, lì proprio malgrado sospinti dalla necessità di riscattare le vite di Hui-Wen e di Camne, tratti prigionieri nella stessa azione nella quale la splendida Berah era stata oscenamente assassinata e, contemporaneamente, la medesima Midda Bontor, precedentemente a sua volta tenuta prigioniera a bordo della nave ammiraglia della gemella, era stata condotta in salvo. E tutti loro, in ciò, non avrebbero potuto definirsi in alcuna misura ignoranti nel merito di quanto a dir poco ineluttabile avesse allora a doversi considerare l’eventualità di una loro prematura dipartita, sola ragione per la quale, del resto, alcun tentativo volto a scoraggiarli, da parte della mercenaria dagli occhi color ghiaccio, aveva avuto il benché minimo successo, aveva avuto la più semplice, la più ovvia, la più banale possibilità di spingerli a rinunciare a quella pugna.
Che la sfida rappresentata dall’isola di Rogautt, tuttavia, avesse a dover essere fraintesa qual un comune tentativo di suicidio assistito, da parte di quegli undici e del loro dodicesimo, inatteso, alleato; soltanto falso e fazioso avrebbe dovuto essere giudicato, al di là di ogni apparenza, al di là di ogni ambiguità. Perché, nel conoscere perfettamente, tutti loro, i pericoli incontro ai quali si sarebbero sospinti in quell’offensiva, in quell’attacco al cuore di un regno illegittimo e contro il quale, ciò nonostante, alcun potere al mondo avrebbe mai avuto risorse sufficienti da schierare per tentare di abbatterlo; loro, malgrado tutto, era soltanto la volontà di trionfare, la brama di imporre la propria vittoria su tutto e su tutti, non combattendo per cercare la propria morte, quanto e piuttosto per difendere la propria vita, e il proprio diritto a poter, ancora, esistere. Solo in tal modo, del resto, a tutti loro era stato insegnato a vivere e a combattere. Solo in tal modo, ancora, tutti loro si erano sempre messi in giuoco in ogni singolo giorno della propria esistenza, della propria quotidianità, fosse anche, soltanto, nel loro confronto con il mare, con quella distesa infinita e meravigliosa nella quale erano nati, dalla quale avevano sempre ottenuto vita, gioia e speranza, e che pur, con l’indifferenza che solo un dio avrebbe potuto provare innanzi a una creatura mortale, avrebbe potuto spazzarli via senza la benché minima incertezza, senza alcuna esitazione, del resto polvere priva di valore all’interno dell’immensità Creato. In ciò, pertanto, non uno solo fra loro aveva compiuto tanta strada allo scopo di trovare prematura possibilità di morte, di raggiungere anzitempo i propri dei, qualunque nome o forma essi avessero, laddove, se così fosse stato, avrebbero probabilmente risolto in maniera più semplice l’intera questione provvedendo autonomamente al proprio suicidio, anziché sprecare tanto tempo e tante energie in quell’ultimo viaggio.
Animati dal desiderio di difendere la vita, e la vita nel proprio significato più ampio, sia nel proprio diritto alla stessa, sia e ancor più nel diritto di tutti a non ritrovarsi inconsapevolmente destinati agli orrori che al mondo intero avrebbero potuto essere imposti dal ritorno del dominio della regina Anmel Mal Toise e, con essa, dell’Oscura Mietitrice; quegli uomini e quelle donne sarebbero stati disposti a combattere con un’energia, con una forza e con una determinazione che avrebbe dovuto, oggettivamente, preoccupare qualunque esercito e qualunque flotta, fosse essa costituita da uomini mortali, quali pur erano e sempre sarebbero stati i pirati di Rogautt, così come da dei immortali. E non per mero principio, non per semplice retorica che efficacia avrebbe potuto vantare solamente all’interno di una canzone, di una ballata, e pur mai della vita quotidiana, nel confronto con il mondo reale, sì povero d’ogni qual genere di romantico spirito altresì abbondante in ogni cronaca, in ogni leggenda; quanto e piuttosto alla luce della concreta e incontestabile esemplificazione offerta da colei che leggenda era riuscita già a divenire in vita, nell’aver trasformato in realtà quanto, prima di lei, a stento riconoscibile addirittura qual mito. Perché se una sola donna, animata da una ferrea forza di volontà, da una straordinaria tenacia, era stata in grado di sopravvivere a ogni qual genere di mostro e non solo, sconfiggendo persino un dio, Kah signore degli istinti primordiali e padre di Desmair, del quale egli stesso l’aveva resa vedova; dodici, fra uomini e donne, animati dalla stessa volontà, dalla stessa tenacia, da quella fermezza innanzi alla quale persino un creatore avrebbe dovuto arrossire, nell’imbarazzo dei propri errori, delle propri mancanze, avrebbero allora rappresentato un contingente capace di rovesciare non soltanto quel regno perduto nei mari del sud ma, anche, l’intero ordine mondiale, da Qahr a Hyn, e più a nord verso Myrgan, se solo avessero avuto una solida ragione per scegliere di agire in tal senso, solida abbastanza quanto quella che, in quello stesso frangente, in quella stessa occasione, li aveva portati a dichiarare guerra alla crudele Nissa Bontor, e a ogni entità in lei avesse trovato rifugio.
Sicuramente, incontestabilmente, proprio su quella stessa, comune caratteristica, quella condivisa energia, forza e determinazione che, in gloria agli dei tutti, avrebbe loro permesso, ancora una volta, di compiere l’impossibile, di assoggettare nuovamente il fato ai propri desideri e di non vedere, il loro, essere ricordato dai posteri quale il viaggio dei folli; avrebbe dovuto essere riconosciuto qual in ampia misura fondato il semplice piano suggerito dalla Figlia di Marr’Mahew, dalla Campionessa di Kriarya, dall’alto della propria esperienza bellica, così come era stata riconosciuta dalle parole dello stesso capitano della Jol’Ange.
Ma dov’anche, nella banalità di quella tattica, altrettanto facile sarebbe stato per la stessa regina di Rogautt, per colei che, del resto, avrebbe potuto vantare la migliore, e più intima, confidenza con i percorsi mentali della propria sorella gemella, prevedere l’evoluzione degli eventi e impostare anticipatamente un’adeguata risposta a tutto ciò; sgradevolmente improbabile sarebbe stato parimenti presupporre quanto invece accadde in quel giorno fatidico, ciò che venne, a dispetto di ogni attesa, offerto innanzi allo sguardo delle navi pirata appartenenti alla cinta più esterna dell’ampia fascia di protezione sempre, naturalmente presente attorno alle acque di quell’importante capitale. Perché, all’ultimo istante, all’ultimo momento, ostaggio elevato davanti all’attenzione di tutta Rogautt, o quantomeno di quella parte della popolazione dell’isola lì loro offerta, non fu Leas Tresand, pur candidato eletto a tal ruolo con tanto di catene falsamente legate ai polsi per meglio sostenere tale, concordata, messinscena; quanto e piuttosto, la medesima Midda Bontor, in contrasto alla quale egli ebbe alfine l’ignobile audacia di ribellarsi, approfittando della libertà di movimento a lui garantita e, in grazia di ciò che pur era stata lei stessa a concedergli, colpendola nel centro del volto con un gesto secco della propria nuca, e nel bel mezzo del diaframma con una violenta gomitata.
E nel mentre in cui la paranoia abitualmente propria della donna guerriero non poté evitare di gridare entusiastica per la propria riscossa, per il riscatto in tal modo offertole dallo sviluppo degli eventi, quel gesto venne reso, ove possibile, più crudele e imperdonabile da ciò che fu scandito dalle labbra del traditore…

« Per quello che può valere, ormai: mi dispiace… madre… »


mercoledì 26 giugno 2013

1983


Quasi a voler compensare tutti i problemi con i quali erano stati costretti a confrontarsi a Bael, e prima ancora a Licsia, l’ultima parte del viaggio della Jol’Ange verso Rogautt, l’isola dei pirati, la capitale del regno che Nissa Bontor, in grazia alle sole proprie forze, alla propria straordinaria tempra e al proprio sensazionale carisma era stata capace di erigere, riunendo attorno a sé tutti i tagliagole e i predoni che infestavano, prima di lei, le acque di quei mari del sud; si dimostrò incredibilmente quieta, piacevolmente serena, permettendo a tutti loro di recuperare le energie perdute, di rimettersi in sesto e in forze.
Certamente, né Av’Fahr, né tantomeno Be’Sihl o Seem, avrebbero potuto vantare una piena e completa guarigione, e, probabilmente, neppure una reale riconquista di efficienza nei loro corpi, nelle loro prime, e forse sole, risorse in quella sgradevole lotta per la sopravvivenza, contro la triplice minaccia rappresentata da Nissa, dalla regina Anmel Mal Toise e dall’Oscura Mietitrice. Ciò nonostante, la pace che predominò in quell’ultima tratta, in quell’ultima tappa, fu sufficiente a concedere loro sufficiente riposo per non essere, semplicemente, di peso ai propri compagni e, con la giusta prudenza, con le giuste precauzioni, riprendere parzialmente anche la propria attività a bordo della goletta. E quasi, ancora, a voler compensare quella presenza necessariamente ridotta, in parte menomata, da parte dei tre feriti, di coloro che in misura peggiore erano rimasti coinvolti nell’attacco degli ippocampi, inattesa e pur, inevitabilmente, gradita sorpresa fu quella a tutti riservata da parte di Leas Tresand; il quale, giorno dopo giorno, con pazienza e cautela, nel doversi continuamente confrontare con il sospetto e la diffidenza alimentata dalla sua stessa parente nei suoi riguardi, riuscì a conquistarsi l’ombra di un ruolo all’interno dell’equipaggio un tempo agli ordini di suo padre, del padre che, solo in quelle ultime settimane, aveva avuto occasione di rivalutare, non più condannandolo qual crudele stupratore, ma, alfine, riconoscendolo per quanto era sempre stato: uno straordinario capitano e, pur senza canzoni a testimoniarne memoria, certamente un eroe.
L’inizio della collaborazione del giovane con l’equipaggio avvenne non per idea, né per esplicita volontà, della Figlia di Marr’Mahew, sua zia, quanto e piuttosto dell’allora attuale capitano della Jol’Ange, il quale, offrendo fede a una delle più semplici e fondamentali regole comuni a ogni figlio del mare, non poté ignorare come non avrebbe dovuto essere riservato alcuno spazio a passeggeri di sorta, a bordo di una nave, laddove tutti, chi in misura maggiore, chi in misura minore, avrebbero sempre dovuto offrire la propria collaborazione per il bene comune, per il successo della navigazione, un trionfo che non sarebbe mai stato di un singolo, neppure di chi in comando, ma sempre e solo del gruppo intero, di tutto l’equipaggio. In ciò, pur restando saldamente vincolato al freddo metallo delle proprie catene, e sotto attenta osservazione da parte di tutti, Leas intraprese quel lento cammino che, da mozzo, avrebbe potuto, speranzosamente, vederlo crescere nel corso del tempo, venendo di volta in volta riassegnato in base a quanto avrebbe dimostrato di saper compiere. E a sua volta figlio del mare, non per diritto di sangue, quanto e solo per propria intrinseca natura, nell’aver anch’egli imparato a nuotare ancor prima che a camminare, e nell’aver trascorso la maggior parte della propria esistenza a bordo di una nave, seppur di pirati; non difficile, non improbabile fu per lo stesso riuscire a dimostrare, anche agli sguardi più dubbiosi, più ostili nei suoi riguardi, quanto, comunque, il suo contributo avrebbe potuto essere utile alla vita di bordo, e a tutto ciò che essa avrebbe loro riservato.
E per quanto, obiettivamente marchiati, nel profondo dei propri animi e dei propri cuori, dai tradimenti già subiti, in misura tale da non poter escludere banalmente i timori palesati dalla mercenaria dagli occhi color ghiaccio, riducendoli a semplice paranoia; tutti, a bordo della Jol’Ange, non poterono che apprezzare l’umiltà e l’impegno con la quale il pirata si confrontò con ogni mestiere assegnatogli, con ogni compito riservatogli, mai lamentandosi, e mai dimostrando superficialità o, peggio, tedio, nell’essere, del resto, consapevole di quanto, in tutto ciò, ogni più flebile battito del suo cuore non avrebbe mancato di essere posto sotto analisi, allo scopo di cogliere quali messaggi avrebbe potuto celare, quali reali emozioni avrebbe potuto nascondere dietro a un volto fondamentalmente sereno e, da tutti, ineluttabilmente amato. Ogni complimento che, in quei giorni, gli fu quindi rivolto, e ancor più tutti quelli che gli vennero, altresì, taciuti, non poterono che apparire non soltanto sinceri ma, anche, indiscutibilmente meritati, a dir poco eccellendo in quanto, pur, avrebbe potuto essere considerato un asservimento ai propri carcerieri, ai suoi secondini. Ragione per la quale, nel momento in cui apparve palese quanto sprecato fosse il tuo talento nel costringerlo, solamente, a operazioni di pulizia e di manutenzione della nave; nessuno, neppure la Campionessa di Kriarya, ebbe di che lamentarsi all’idea di concedergli altre possibilità, altre occasioni.
Così, esattamente come suo padre, molti anni prima, era divenuto capitano non per una qualche benevolenza divina, e neppure per un’agiatezza economica utile a permettergli di acquisire quella nave senza alcun genere di sforzo da parte propria, quanto e piuttosto per il proprio impegno, per la propria dedizione e la propria passione in quel mestiere, e nell’opera necessaria a rimettere in sesto la carcassa dalla quale la Jol’Ange aveva avuto vita; in sola conseguenza al proprio impegno, alla propria dedizione e alla propria passione in quei compiti, parimenti, Leas Tresand riuscì a superare la maggior parte dei sospetti, delle condanne, a lui rivolte da parte di coloro che, per colpa di sua madre, di ordini da lei esplicitamente espressi se non, addirittura, per propria diretta mano, avevano veduto morire persone a sé care, amici, fratelli e sorelle che, purtroppo, mai più sarebbero ritornati. E laddove l’odio aveva diviso, ancora una volta, quasi miracolosamente, il mare sembrò essere in grado di riunire, di pacificare, con ogni benedizione da parte di tutti i propri dei, che fossero pregati con il nome di Tarth o con quello di Thyres.
Anche Midda Bontor, fra tutte costretta a essere la più severa, la più intransigente nei confronti del proprio nipote, nell’obbligarsi a ricordare di chi egli fosse figlio laddove, altrimenti, il suo cuore avrebbe gridato un impetuoso assenso a quella domanda di adozione da lui propostale, da lui suggeritale, non poté evitare di cedere, poco alla volta, lentamente, e pur inesorabilmente, lasciandosi sgretolare come la roccia più dura sotto l’erosiva azione continua dell’acqua. E per quanto, molto volentieri, avrebbe aggiunto ai già numerosi tatuaggi tribali intrecciati sul suo braccio mancino un avvertimento a chiare lettere nel merito di quanto non avrebbe dovuto concedersi la benché minima possibilità di fidarsi di quel ragazzo, non fino a quando la sua gemella fosse stata in vita e, forse, neppure dopo, consapevole che tale paranoia avrebbe potuto rappresentare, banalmente e inesorabilmente, la differenza fra la vita e la morte; proprio malgrado i suoi sentimenti iniziarono a prevaricare sulla sua ragione, le sue emozioni incominciarono a prevalere sulla sua razionalità, portandola, pericolosamente, a fidarsi del nipote, tanto da non porre alcuna protesta neppure il giorno in cui, a permettergli di arrampicarsi lungo le sartie della nave per salire lungo gli alberi a sistemare le vele, venne suggerito di liberarlo dalle proprie catene, dagli ultimi vincoli, fisici, rimastigli.
Fu in tal modo, in quel momento, che Leas da pirata e prigioniero, venne implicitamente da tutti riconosciuto qual un marinaio e un amico, un alleato, un fratello, accanto al quale si avrebbe continuato a navigare, si sarebbe combattuto e, se necessario, si sarebbe anche morti, senza la benché minima esitazione. Perché quella, e soltanto quella, era da sempre stata la filosofia propria dei marinai, di qualunque nazione, di qualunque etnia o di qualunque credo religioso: nessuno, a bordo di una nave, avrebbe potuto essere riconosciuto quale un singolo, avrebbe potuto conservare una propria identità autonoma, finendo per divenire, necessariamente e ineluttabilmente, parte dell’equipaggio e, con esso, della famiglia, e di una famiglia che insieme avrebbe sempre affrontato la vita, nella gioia e nel dolore, nei successi e nei fallimenti, sino a quando gli dei del mare avrebbero loro concesso la possibilità di navigare lungo le proprie acque, all’interno dei propri smisurati domini.
Fu in tal modo, in quel momento, tuttavia, che l’intero equipaggio della Jol’Ange, da Noal a Ifra, passando anche per Midda, Be’Sihl e ogni altro alleato lì a bordo presente, compirono una scelta che segnò, ineluttabilmente, il corso della Storia. Non soltanto della loro storia personale, ma di ogni storia, dal momento che, proprio malgrado, mai avrebbero dovuto dimenticarsi come, dietro a quell’ultima sfida, in quell’ultima battaglia, non si sarebbero decise soltanto le sorti di due sorelle in antica contrapposizione, ma anche, e peggio, quelle dell’intero mondo conosciuto, che avrebbe potuto essere, ancora una volta, tutelato da coloro lì inviati per volontà della Portatrice di Luce, o avrebbe finito per cadere in balia dei più orrendi capricci dell’Oscura Mietitrice…


martedì 25 giugno 2013

1982


« Io… credo di non aver mai smesso di amarlo. » ammise, chinando lo sguardo verso il suolo, quasi a esprimere, in ciò, un senso di disagio o di debolezza, o, persino, di disagio a confronto con quella che, evidentemente, riconosceva essere una sua debolezza, soprattutto nel ritrovarsi innanzi al volto dell’amato Salge in quello stesso momento, ringiovanito nelle fattezze di quel da lui mai conosciuto erede « Egli è stato il mio primo compagno e, mi spiace ammetterlo, fino a prima dell’inizio del mio rapporto con Be’Sihl anche l’unico a cui abbia mai realmente offerto una possibilità nei miei riguardi, una speranza con me. » storse appena le labbra verso il basso « L’unico o quasi… ma del “quasi” non intendo più parlarne né sentirne parlare, essendo stato uno dei più squallidi avvenimenti della mia intera vita, tale da spingermi a indurire il mio cuore più di quanto, già, non avrebbe potuto esserlo divenuto a seguito dell’addio a tuo padre. » puntualizzò, evidenziando quel dettaglio non per ispirare qualche interrogativo in tal senso, quanto e piuttosto per negarlo vigorosamente, appartenendo, realmente, quegli eventi a una delle poche tristi pagine del proprio passato che avrebbe volentieri stracciato se solo gliene fosse stata mai concessa l’occasione.
« E tutto quello che mi ha raccontato mia madre, di lui, è quindi falso…? » questionò il giovane, ancora una volta non palesando, quali propri, degli intenti polemici, né, fondamentalmente, dei dubbi, quanto e piuttosto un impropriamente infantile desiderio di conferme, utili a colmare un ampio spazio vuoto che, l’assenza di un padre biologico aveva da sempre lasciato nel suo cuore e nel suo animo, l’assenza di una confidenza con le proprie radici, e con radici tanto evidenti nel riflesso offerto quotidianamente dal suo specchio, avevano imposto in lui, profondamente.
« Se intendi riferirti al fatto che tuo padre abbia violentato tua madre dietro mia istigazione… sì! Assolutamente e completamente falso. » sancì ella, con fermezza, inappellabile, tale da poter escludere qualunque ambigua interpretazione a fronte di quelle propri parole, di quella propria replica, subito incalzando in tal senso « Innanzitutto tuo padre era un uomo d’onore, uno dei pochi realmente rimasti in un mondo ove questa parola è eccessivamente abusata e, in ciò, quasi completamente privata di qualunque significato. » precisò, rialzando gli occhi verso il nipote per non concedergli possibilità di credere che, distogliendo il proprio sguardo, ella fosse desiderosa di mentirgli « In secondo luogo, io aborro qualunque più vago pensiero di stupro, come non ti potrebbe confermare alcuno stupratore che io abbia avuto occasione di incontrare, a meno di interrogare il suo spirito laddove alcuna pietà ho mai rivolto verso una simile categoria di persone. E in questo, te lo giuro, ammesso di esserne in grado, potrei augurare alla mia gemella tutto il male di questo mondo tranne una violenza carnale. Follia ipotizzare che io ne potrei essere architetto. »
« Ultimo ma non meno importante… » proseguì immediatamente, incalzando a non permettersi possibilità di essere interrotta, nel desiderio di portare a termine quella spiegazione, di dire quanto avrebbe avuto allora desiderio di esprimere « Nel giorno in cui tua madre mi negò la possibilità di condividere con lei il volto, e in cui mi proibì di poter concepire un qualunque figlio… io dichiarai conclusa la mia relazione con tuo padre. E, non appena raggiungemmo terra, sbarcai, dicendo addio a tutti coloro che, in quegli ultimi anni, erano stati la mia famiglia. Fu dopo quell’addio che, certamente, tua madre approfittò della mia assenza per insinuarsi nel letto di tuo padre. E per quanto quello che avvenne, fu fondato su un inganno, sul falso presupposto che ella fosse me… sono ancora pronta a giurarti che da parte di tuo padre, in quell’occasione, fu solo sentimento sincero, vero amore, in misura tale, addirittura, che gli dei devono essere evidentemente adirati nei confronti di tua madre, imponendoti, in tutto e per tutto, il sangue dei Tresand, quasi tua madre non avesse avuto il benché minimo ruolo nella tua procreazione. » definì, in parole che solo una mente superficiale avrebbe potuto equivocare quali lesive per la dignità di Leas e che, allora, non vennero da questi certamente fraintese nel proprio reale valore « Tu sei Leas Tresand, figlio di Salge Tresand e di Nissa Bontor, non per una violenza, non per uno stupro, ma per un sincero e forse, persino, disperato atto d’amore da parte di tuo padre; il quale, fino all’ultimo giorno in cui ha vissuto, sino al momento in cui un pirata al servizio di tua madre gli ha conficcato un pugnale nella schiena, uccidendolo a tradimento, non ha mai smesso di guardarmi così come un tempo, così come mi ha sempre guardato, nonostante, fortunatamente e legittimamente, aveva trovato un’altra splendida e straordinaria compagna a cui rivolgere le proprie dolci premure e tutto quel sentimento che io, cedendo al ricatto di mia sorella, avevo scelto di rifiutare. »

Non figlio della violenza, ma dell’amore, Leas avrebbe dovuto incominciare a considerarsi, a rivalutarsi, in una verità che, per sua zia Midda, quella madre negatali, non era mai stata messa in discussione sin dall’istante stesso in cui, un anno prima, ne aveva scoperto l’esistenza, lo aveva intravisto, in lontananza, attraverso una finestra a quieto confronto con la sua reale madre, la sua genitrice biologica, in uno spettacolo tale per cui quasi aveva perduto il senno, tanta era stata l’ira nel comprendere immediatamente cosa fosse accaduto, come ciò fosse successo. Ma non l’ira per quell’evento di un passato ormai remoto, né l’ira ancor necessariamente vissuta nei riguardi di Nissa per tutte le macchinazioni da lei ordite a discapito suo e dei suoi amici, né, tantomeno, l’ira conseguente al pensiero di quanto, tutto quello, altro non avrebbe potuto che dimostrarsi l’ennesimo doloroso tradimento che, al momento meno opportuno, avrebbe veduto il nipote rivoltarsi a suo discapito; avrebbero mai potuto spingerla a negare la forza di quella verità assoluta, indiscutibile, quasi un dogma di fede in assenza del quale soltanto una blasfemia sarebbe stata protratta, a discapito non solo della memoria dello straordinario uomo che era stato Salge Tresand, ma, addirittura, degli dei tutti, e del loro intervento benevolo a evidenziare quanto sincero, quanto onesto e appassionato, fosse stato il suo contributo alla nascita di quel figlio che pur, mai, gli era stata concessa opportunità di incontrare, nel non essere stato posto neppure nelle condizioni di presupporne l’esistenza.
E le parole che, a conclusione di quel dialogo, di quelle spiegazioni, Leas volle pronunciare, per quanto nella consapevolezza di come, dopo simile ardire, difficilmente la conversazione avrebbe ancora potuto proseguire, avrebbe ancora potuto incalzare, a prescindere dal significato che alle stesse sarebbe stato associato dalla Figlia di Marr’Mahew; risultarono allora sì straordinarie da apparire, purtroppo, spiacevolmente ma prevedibilmente, quali necessariamente false, quali terribilmente malevoli e volte soltanto, ancora e innegabilmente, a cercare una indegna occasione per riservarsi un posto nel cuore della medesima, costringendola in ciò ad abbassare la guardia e ferirla con maggiore efficacia e maggiore ferocia, in tal modo distruggendola non soltanto fisicamente ma, anche e ancor più, emotivamente. Tuttavia, al di là della certezza di quanto tragicamente false essere avrebbero potuto risultare, la consapevolezza, da parte della mercenaria, di come quel giovane non fosse così ingenuo o, peggio, così stupido da poter realmente illudersi di coglierla in fallo in maniera tanto plateale, sì incredibilmente eccessiva; la spinse, paradossalmente, a poter ipotizzare che, dietro a tutto quello, potesse esservi un fondo di verità, potesse esserci una seria intenzione nei suoi riguardi. Un’infezione che, purtroppo, soltanto il tempo ed, eventualmente, il sangue e la morte, avrebbero potuto effettivamente dimostrare quali reali o quali, altresì, conseguenza dell’affetto che ella innegabilmente avrebbe sempre provato per lui e che, in conseguenza a ciò, non avrebbe potuto che lasciarla apparire più vulnerabile, più debole di quanto non avrebbe preferito continuare a credere di riuscire a essere.

« Desidero premettere che sono perfettamente consapevole di quanto questa affermazione potrebbe sembrare… un folle trucco per trarti in inganno. » introdusse il pirata, o un tempo tale, nel deglutire con trasparente esitazione sulle parole da poter lì impiegare, da rendere proprie per non rovinare, drammaticamente e ancor peggio, tutto quello, così come solo avrebbe potuto se avesse agito con eccessivo impulso, senza adeguata prudenza e, soprattutto, senza una corretta valutazione sulle proprie scelte, fossero anche e soltanto lessicali « Ma nel giorno in cui tutta questa assurda guerra dovesse concludersi, nel giorno in cui il confronto finale fra te e mia madre dovesse avvenire, e tu ne uscissi vincitrice… credi che potrebbe essere tanto sbagliato, da parte mia, se mi iniziassi a riferire a te come alla mia nuova madre? Alla mia… vera madre?! »


lunedì 24 giugno 2013

1981


« Conosci la storia di questa nave…? » domandò Midda quella stessa sera, poco dopo la partenza della Jol’Ange, rivolgendosi al nipote con tono che avrebbe voluto risultare freddo e distaccato, e che pur difficilmente sarebbe riuscito a trasmettere effettivamente tale impressione « Qualcuno te ne ha mai parlato, prima d’ora…? »
« Temo di no. » scosse il capo il giovane uomo, cresciuto come pirata e, forse, ancora tale, o forse no, senza dimostrare particolare segno d’intendimento nel confronto con ciò, con quanto da lei in tal modo suggerito « … dovrei? » domando poi, con tono necessariamente retorico, nel comprendere come ella non avrebbe mai preso parola in tal senso, in simile direzione, senza una ben motivata ragione a supporto di ciò, a giustificazione di simile interrogativo, tale da rendere quella storia probabilmente indispensabile da conoscere nel più minimo dettaglio per non affrontare quel viaggio alla cieca, in una misura, se possibile, persino maggiore di quanto non avrebbe potuto essergli propria, nel suo ruolo di prigioniero.
« Dovresti. » confermò ella, annuendo appena e, in un primo istante, nulla sopraggiungendo, quasi a voler porre in evidenza lo spiacevole limite in tal modo da lui stesso dimostrato qual proprio, quell’ignoranza, nel senso più stretto del termine, inadatta per lui… per colui che, allora, portava il suo nome.
« Immagino fosse la nave di mio padre… » si sforzò allora di ipotizzare, proponendo quell’idea, quella possibilità, quasi a colpo sicuro, non perché gli fosse mai stata presentata in effetti la Jol’Ange e il racconto del suo passato, quanto e semplicemente per logica deduttiva, partendo dal presupposto che suo padre, il padre che egli non aveva mai conosciuto, era stato capitano di una nave sino al giorno della propria morte, e che, in un mondo quale il loro, una nave, per quanto ipoteticamente modesta come una goletta, non era comunque e abitualmente un bene di sì ampio consumo, da poter prendere in esame l’eventualità che, dopo la sua morte, la nave che egli aveva comandato potesse essere andata semplicemente persa… nell’ammettere, paradossalmente, di poter smarrire una nave.
« Quasi. » confermò ella, riservandosi un nuovo momento di silenzio prima di riprendere autonomamente voce, nel voler alfine proseguire nella propria esposizione senza costringere l’interlocutore a strapparle le parole di bocca, quasi un interrogatorio in senso inverso « Questa non è stata soltanto la nave di tuo padre. E’ la nave che tuo padre ha praticamente ricostruito, in lunghi mesi di duro lavoro, asse dopo asse, sino al più piccolo dettaglio. » definì, non cercando di celare, insieme a quelle parole, un evidente moto d’orgoglio provato al ricordo dell’opera di Salge Tresand sulla Jol’Ange, dell’impegno che egli aveva posto per loro, per loro due, nel mentre in cui ella, non ritenendosi poi così adatta a quel genere di lavori manuali, si dedicò a una serie di piccole attività parallele utile a permettere loro di guadagnare oro sufficiente per completare il lavoro e per riportare la nave in mare.
« … come? » esitò Leas, guardandosi attorno con aria sorpresa e, benché fosse in quel momento trattenuto prigioniero nel ventre della nave, nella stiva riservata al carico di merci e di riserve di acqua dolce, non potendo ovviare a palesare uno sguardo diverso da quello pocanzi dimostrato, un’aria incuriosita e, soprattutto, desiderosa di meglio comprendere il mondo a sé circostante, per così come, in quella frase, inaspettatamente presentatogli « Cosa intendi dire…? »
« Nulla di meno e nulla di più di quanto non abbia appena detto. » puntualizzò la mercenaria, abbozzando in ciò un vago accenno di sorriso, impossibile tuttavia a tradursi in un segno di rilassamento psicologico da parte sua nei confronti del nipote, ancora, di principio, ritenuto un traditore « Quando tuo padre e io, persino più giovani di quanto tu non sia ora, decidemmo di lasciare la nave sulla quale ci eravamo incontrati ed eravamo cresciuti, acquisendo le competenze e l’esperienza per poterci considerare marinai e, addirittura, per ipotizzare di poterci mettere per nostro conto; ci recammo a uno dei tanti cimiteri navali presenti lungo le coste di Tranith, alla ricerca di un relitto che potesse incontrare il nostro interesse. » iniziò a raccontare, rievocando vicende di un passato ormai tanto lontano da apparire addirittura falso nelle proprie vicende, nei propri particolari, quasi come se un evento a tal punto perso nella Storia non avesse da ritenersi, ormai, null’altro che un racconto, una fola come tante altre utile a intrattenere l’attenzione di un eventuale ascoltatore « E quando egli vide lo scheletro, perché soltanto uno scheletro e nulla più era, di questa goletta, fu per lui una sorta di amore al primo sguardo. Ancora oggi non saprei dire come fece, ma riconobbe le potenzialità ancora qui dentro celate laddove chiunque altro, me inclusa, avrebbe visto soltanto del vecchio legno marcio… e subito decise che questa, e soltanto questa, sarebbe stata la sua nave. La nostra nave. »

Nessun commento, da parte del giovane, seguì quelle ultime parole, nel ritrovarsi egli evidentemente assorto nell’ascolto delle medesime per concedersi possibilità di interromperla, di intervenire con qualche parola che, necessariamente, sarebbe apparsa superflua o fuori luogo, almeno prima della conclusione della narrazione di quegli eventi.
E la Campionessa di Kriarya, forse desiderosa di rendere partecipe quel figlio così identico a suo padre, non tanto delle gesta, quando ti quei piccoli gesti che avevano reso suo padre un uomo straordinario, accetto tacitamente di continuare a parlare, di insistere nella narrazione, rievocando ancora una volta quegli anni perduti nella memoria…

« Solo per trascinarla a riva impiegammo, lui, io e un paio di bovi presi a noleggio, quasi tre giorni, lottando contro la corrente del mare che, a ogni passo compiuto verso il bagnasciuga, sembrava volerci riportare indietro di almeno due… » sorrise nuovamente, rendendo evidente quanto, allora, quel sorriso avesse a doversi interpretare qual rivolto a quelle immagini, a quei pensieri, ancor prima che al propri interlocutore, pur nulla volendo sottrarre al suo valore, alla sua importanza « E, come ti ho già detto pocanzi, tuo padre dedicò lunghi mesi, intere stagioni, per riuscire a riportare in vita quanto, allora, era solo uno scheletro marcio: non in grazia a stregoneria, non in grazia a negromanzia, ma, soltanto e straordinariamente, per merito del proprio duro lavoro, della propria costanza e della propria perseveranza, in quello che, da parte sua, non desiderava rappresentare soltanto il nostro futuro, quanto e soprattutto il nostro futuro insieme… un dono per me, che gli avevo chiesto di abbandonare quella che era stata la nostra vita sino a quel momento per cercare un nostro posto nel mondo, in autonomia. » rifletté ad alta voce, in pensieri che, forse, avrebbero dovuto restare intimi, avrebbero dovuto rimanere riservati, e che pur, purtroppo o per fortuna, presero altresì forma, riservandosi la possibilità di risuonare chiaramente udibili, e uditi, alle orecchie del proprio ascoltatore, di quel figlio mai avuto.
« … tu lo amavi? » sussurrò Leas, lì quasi timoroso di prendere voce, di interromperla per una domanda apparentemente banale e pur tutt’altro che tale, o non vi sarebbe stata, da parte sua, alcuna ragione a formularla, soprattutto laddove, volendo ingannarla, sarebbe per lui stato lì conveniente restare in silenzio e limitarsi ad annuire, con falsa comprensione.

Silenzio fu la prima replica della donna a quella questione, a quell’interrogativo pur non complesso, pur non improbabile da comprendere nelle proprie accezioni, nel proprio valore, e pur, apparentemente, si carico di dolorose emozioni, sì contraddistinto da una pena impossibile da comprendere per chiunque non avesse vissuto quanto ella era stata costretta a vivere, da rendere difficile ipotizzare una qualche risposta adeguata, una qualche replica opportuna, almeno nei toni che più avrebbero potuto essere riconosciuti quali confacenti a un argomento simile, sì importante.
Quando, alfine, ella recuperò comunque voce, ciò che volle riservarsi occasione di condividere con il proprio interlocutore fu una risposta assolutamente sincera, tanto da spingerla, in cuor suo, a pregare che egli non fosse il traditore che voleva pur insistentemente credere era, o tanta onestà, tanta trasparenza e tanta generosità nel condividere tutto quello sarebbe andata completamente sprecata, dissacrando in maniera blasfema l’importanza di quel ricordo e delle emozioni, tuttora, a esso collegate…


domenica 23 giugno 2013

1980


Anticipando di poco l’immancabile incontro fra il sole e l’orizzonte a ponente, dietro il quale, ogni sera, l’astro maggiore del cielo, l’unico, egocentrico protagonista della volta diurna, era solito immergersi con la stessa fedeltà propria del ritorno a casa del più onesto fra tutti gli sposi, del più sincero fra tutti gli amanti,  pronto a riabbracciare la propria compagna, la propria amata, dopo una lunga giornata trascorsa lontana da lei per il lavoro nei campi, nelle botteghe, al mercato o quant’altro; la Jol’Ange salpò alla volta di Rogautt, non lasciando alle proprie spalle alcuno dei passeggeri con i quali era sopraggiunta a Bael e, anzi, addirittura, acquisendone uno nuovo, benché con non poche ritrosie e opinioni contrastanti fra i più.
Nessuno, infatti, fra coloro presenti ad ascoltare quell’ultimo implicito invito alla rinunzia così formulato dalla Figlia di Marr’Mahew, si concesse un solo istante di esitazione, non per l’adrenalina conseguente alla battaglia appena affrontata, non per l’eccitazione del momento, così come una lingua malevola, nel riportare i fatti, avrebbe potuto testimoniare, quanto e piuttosto per una scelta consapevole, una scelta che tutti loro avevano compiuto diverse settimane prima, ormai, e che non li avrebbe mai veduti ritornare sui propri passi. E, nel merito di coloro lì non presenti, per cause di forza maggiore, per le ferite riportate nello scontro di soltanto poche ore prima, né Be’Sihl, né Seem, né tantomeno Av’Fahr, che a bordo di quella goletta avrebbe dovuto essere riconosciuto qual di casa, accettarono infatti l’ipotesi di poter essere lasciati indietro, nella tranquillità di quell’isoletta sperduta nei mari del sud, in attesa di un improbabile ritorno dei propri compagni, potenzialmente costretti in tal senso a trascorrere il resto della propria vita nel dubbio di quale sorte potesse averli contraddistinti e, ancor peggio, se la loro presenza, in ciò assenza, avrebbe potuto far la differenza, avrebbe potuto contribuire alla conquista di un ben diverso risultato.
Che la Campionessa di Kriarya, pertanto, avesse a considerarsi soddisfatta tale successo, per tanta partecipazione, o meno, sarebbe dovuto essere allora riconosciuto qual ormai una questione di minoritaria importanza, nel confronto con l’evidenza di come, ormai, tanto in un senso, quanto in quello opposto, non avrebbe mai potuto realmente dirsi felice, appagata, non desiderando porre in pericolo la vita di alcuno… e pur, umanamente, in una situazione tanto difficile, ritrovandosi costretta a confrontarsi con la propria umanità e, in tutto quello, con la necessità di condividere le proprie gioie, al pari dei propri dolori, con qualcuno, con qualcuno di caro, quali solamente avrebbero avuto a doversi riconoscere, in tutto ciò, quegli uomini e quelle donne, la sua famiglia. Anzi, addirittura, ella non avrebbe potuto negarsi, egoisticamente, un certo rimpianto per tutti coloro che, in quello stesso frangente, erano allora assenti, mancavano all’appello, non soltanto censendoli tristemente fra i defunti, fra coloro purtroppo persi e che più sarebbero ritornati, quanto fra coloro che, per una ragione o per l’altra, ormai, non erano più parte della sua vita, così come la già rievocata Carsa Anloch, amica e nemica, alleata e antagonista un numero così elevato di volte da essere per lei difficile non considerarla al pari di una sorella, e pur, tuttavia, una sorella che ormai era stata perduta irrimediabilmente, nell’essersi rivelata essere, malgrado tutto, soltanto il frutto di una fantasia malata, di una psiche turbata che, in quelle affascinanti forme, in quelle fattezze degne della principessa che si era effettivamente scoperta essere, aveva rielaborato quanto necessario ad affrontare le tragedie della propria giovinezza, della propria fanciullezza, dando vita a un’indomita combattente capace, addirittura, a tener testa, talvolta, persino alla donna guerriero più famosa di quell’angolo di mondo, a una leggenda vivente qual, a tutti gli effetti, Midda Bontor era divenuta da tempo.
Il passeggero aggiunto, l’incognita imprevista in quell’ultimo tratto di mare, in quell’ultima parte del loro viaggio verso quella che, un giorno, avrebbe potuto essere alfine ricordata quale la battaglia conclusiva della lunga canzone di Midda e Nissa Bontor, e della loro guerra durata, ormai, un’intera esistenza, altri non era che il giovane Leas Tresand, il figlio della regina dei pirati dei mari del sud preso prigioniero e, qual tale, allora ancora trattenuto, benché controversa non poté che risultare l’analisi comune nel merito di come potersi effettivamente rapportare con una carta tanto importante e, al contempo, tanto pericolosa. Se indubbio, invero, avrebbe dovuto essere rico0nosciuto il valore intrinseco in tal figura qual ostaggio, preziosa merce di scambio all’interno di un conflitto che non avrebbe mai potuto basarsi semplicemente sulla forza bruta, che non avrebbe mai potuto ridursi a un mero scontro diretto, nella necessità di giocarsi, ineluttabilmente, anche su un piano di natura squisitamente strategica, nella volontà di non ridurre il loro alla dimensione di un semplice martirio; altrettanto indubbio avrebbe dovuto essere altresì considerato quanto, quello stesso giovane, avrebbe potuto essere per loro probabilmente di maggiore aiuto, e di maggiore importanza strategica, qual alleato ancor prima che qual avversario e prigioniero, in quegli stessi termini nei quali anch’egli non aveva sino ad allora espresso mistero di volersi presentare, di volersi offrire. Una prospettiva, quella da lui in tal modo ostinatamente promossa, se non qual provocazione verso la propria inquisitrice, che, malgrado ogni possibile ritrosia espressa dalla sua stessa parente, dalla sua sola zia, a seguito dello scontro con le gargolle avrebbe potuto considerarsi qual meno improbabile, meno folle, di quanto, sino a prima d’allora, non avrebbe potuto definirsi. Perché, in quel momento, in quel contesto, a sostegno delle sue parole, delle sue intenzioni, non avrebbero potuto essere ignorati i fatti; e i fatti rappresentati, più precisamente, dai resti di una quarta gargolla, una quarta gargolla che, con maggior discrezione rispetto alle compagne, in suo favore evidentemente semplice diversivo, aveva tentato di concedere libertà al prigioniero, ritrovandosi, tuttavia, a doversi poi confrontare con la ritrosia di chi, a conti fatti, non desiderava assolutamente essere salvato.
In tutto ciò, quando la mercenaria dagli occhi color ghiaccio aveva fatto ritorno alla stanza nel quale aveva nuovamente abbandonato il nipote per fronteggiare le insidie in suo soccorso inviate dalla madre dello stesso, non aveva potuto in alcun modo ignorare l’evidenza del duro scontro lì occorso né, tantomeno, dei lividi e alle escoriazioni che lo stesso Leas aveva alfine riportato in conseguenza alle proprie azioni, a quel forse sciocco opporti al proprio ipotetico soccorritore. E se pur severa ella avrebbe voluto apparire, se pur impietosa avrebbe voluto imporsi nel confronto con il figlio che le era stato ingiustamente sottratto, difficile non poté che essere, anche per lei, restare sì impassibile innanzi a tutto quello, mantenersi impietosa nel confronto con quanto certamente avrebbe potuto essere soltanto l’ennesimo trucco, quanto certamente avrebbe potuto imporsi solamente come l’ultimo, e più riuscito, inganno, ma nel quale, purtroppo, non avrebbe potuto evitare di ricadere, fosse anche nell’insinuarsi del dubbio, nella sua mente, nel merito delle ragioni del nipote, nel merito della sua, effettiva, onesta. Così, benché ella avrebbe preferito restare immobile nelle proprie posizioni, nelle proprie idee, riconoscendo più semplice, più facile, escludere a propri ogni genere di emozione, di sentimento, nei confronti di Leas, ancor prima che rischiare di subire, da parte del medesimo, il dolore di un tradimento, qual a posteriori avrebbe potuto riservargli; il confronto con tutto ciò non poté che vincerne le più solide difese, dividendo, oltre al suo cuore e al suo animo, anche quelli dell’intero equipaggio della Jol’Ange, a bordo della quale, improvvisamente, nessuno avrebbe più saputo come potersi effettivamente rapportare nei confronti di quel giovane e di quanto da lui rappresentato.
Indiscutibile, e ormai improcrastinabile, avrebbe comunque dovuto essere riconosciuta l’esigenza di partire, di lasciare quanto prima Bael per non porre, nuovamente, in pericolo i sin troppo generosi abitanti di quell’isoletta, fra i quali nessuno, fortunatamente, aveva pagato il prezzo più alto per aver concesso loro asilo, per aver garantito loro ospitalità. E, per tale ragione, qualunque decisione nel merito della sorte del figlio di Nissa e di Salge Tresand, non avrebbe potuto che essere posticipata a un diverso momento, e, in ciò, inevitabilmente un momento a bordo della stessa goletta alla quale il suo stesso genitore aveva offerto nuova vita con il lavoro delle proprie braccia e il sudore della propria fronte, oltre, ovviamente, a un non banale investimento economico in tutto ciò. Una presenza, pertanto, che sotto molti profili… sotto ogni profilo, avrebbe dovuto essere allora riconosciuta qual più che naturale, nel ritrovare, finalmente, un altro Tresand al di sopra di quelle vecchie tavole di legno che tanta vita e troppa morte avevano veduto, e che pur, in quel particolare contesto, in quella specifica situazione, non poté che risultare quasi impropria, o, quantomeno, priva della stessa gioia che avrebbe dovuto, altresì, contraddistinguere quella riunificazione.


sabato 22 giugno 2013

1979


Al di là di facili battute, in un contesto laddove tutti, incluso il giovane Ifra, ebbero allora più di un’occasione per distinguersi in battaglia, per esprimere al meglio tutta la propria indole guerriera, senza restrizioni, senza esitazioni, senza alcun limite al di fuori di quello che avrebbero potuto eventualmente imporsi in maniera del tutto autonoma, del tutto personale; colei che, ovviamente e prevedibilmente, si volle riservare, fra tutti, maggiore spazio, con una presenza necessariamente più incisiva, ineluttabilmente più vivace e, quasi, prepotente, fu colei che la guerra aveva reso un’arte, e che in tale arte non avrebbe potuto evitare di eccellere oltremodo: Midda Bontor, Figlia di Marr’Mahew, Campionessa di Kriarya.
Ella saltò e menò colpi, fendendo l’aria con la propria spada e con la propria spada impattando violentemente sulla roccia delle gargolle, forse provando dolore per ciò a ogni singolo gesto, nella consapevolezza di quanto, tutto quello avrebbe potuto rovinare il filo altresì perfetto di quella straordinaria arma, e pur, neanche per un istante, neppure per un momento, ipotizzando di arrestarsi, supponendo di fermarsi, quasi in tutto ciò sospinta da un’energia mistica, da una forza trascendente i limiti propri della carne e della sua umanità, una volontà divina che, in tal senso, non le avrebbe mai permesso di fermarsi, non le avrebbe mai concesso la possibilità neppure di riprendere fiato, di rilassare, per un singolo, fugace istante, le proprie membra… non, per lo meno, fino a quando un solo avversario fosse stato ancora capace di combattere, fosse stato ancora capace di ferire o, peggio, uccidere qualcuno. Forse in ciò animata da un senso di responsabilità su tutti i propri amici, sugli ultimi compagni di una vita intera trascorsa a combattere, o forse, e ancora, in ciò ispirata semplicemente da una folle brama di battaglia, dalla necessità ormai ingestibile, incontenibile, di adrenalina, in sola conseguenza alla presenza, all’interno delle sue vene, della quale la sua intera vita avrebbe avuto un qualche significato, una qualsivoglia ragion d’essere; la donna guerriero, avventuriera, un tempo marinaio, ora mercenaria, si dedicò a quella danza di morte con lo stesso impegno che aveva da sempre posto in ogni propria missione, ovvero con tutto l’impegno di cui mai si sarebbe potuta dimostrare capace, e, ancora, qualcosa di più, quasi quella avesse da considerarsi la sua ultima pugna. E, probabilmente, il segreto della sua straordinaria abilità, divenuta leggenda, avrebbe dovuto essere ricercato nulla di meno che in ciò, in quel suo impegno assoluto e totale, e nell’agire, istante dopo istante, come se ogni respiro avesse a doversi considerare l’ultimo che le sarebbe mai stato concesso l’opportunità di vivere: non una scusa, una giustificazione utile a ignorare il valore della vita e la speranza di un indomani, trasformandola in ciò in una donna priva di paura ma, anche, priva d’ogni ragione di proseguire nel proprio cammino, nella propria esistenza quotidiana, con le sue gioie e i suoi dolori; quanto e piuttosto una mera consapevolezza nel merito della caducità della vita mortale e, con essa, la certezza di quanto, fra tutte le esistenze che mai avrebbe potuto concedersi possibilità di vivere, quella avrebbe dovuto essere riconosciuta, certamente, qual la più pericolosa, la più dannosa, nel vivere la quale, se solo non avesse posto tutto il proprio entusiasmo, tutta la propria più ferma volontà di proseguire, giorno dopo giorno, indubbiamente sarebbe già trapassata da lungo tempo, e il mito legato al suo nome non avrebbe mai avuto possibilità di imporsi.
In tutto ciò, Midda non si arrestò né quando la gargolla drago venne riportata al suolo, né quando anche la mostruosa creatura tentacolata subì il medesimo destino. Né, tantomeno, ebbe ragione di cercare un momento di riposo quando tutti gli arti della gargolla pantera vennero distrutti, o quando le teste e le ali delle sue due compagne subirono identica sorte. Né, ancora, ebbe motivo di ritrovare serenità quando della gargolla tentacolata non restarono null’altro che frammenti di roccia sparsi, e neppure quando in misura non maggiore venne ridotto anche l’artefatto con fattezze feline. Perché solo quando effettivamente di tutte le tre gargolle, dalla prima all’ultima, nulla restò al di fuori della memoria nelle loro menti, e di un cumulo di macerie ormai immobili, e prive di qualunque possibilità di ulteriore animazione, a prescindere da quanto potente potesse considerarsi la stregoneria posta in esse; ella riabbassò la propria lama bastarda per volgerne la punta verso il suolo e, con il metallo di quell’avambraccio destro mutilato tentò di tergersi, alfine, il sudore dalla fronte, ritrovandosi tuttavia costretta, proprio malgrado, a torcere le labbra verso il basso nel rendersi conto di come tutta quella polvere di pietra, mischiata all’umidità della propria pelle, stesse rendendo quel gesto spiacevolmente prossimo all’azione di una lima, irritandone l’epidermide molto più di quanto non avesse concesso occasione di compiere a quelle avversarie sino a un momento prima.

« Dannazione… prima di partire, dovrò proprio farmi un bel bagno. » commentò, non dispiaciuta all’idea di immergersi, finalmente, in quella tinozza colma di acqua calda che sognava sin da quando si era ritrovata ricoperta dal sangue e dagli altri fluidi corporei degli ippocampi, e pur, al tempo stesso, contrariata all’idea di dover ancora perdere tempo, così come, obiettivamente, non stava più venendo perdonata loro possibilità di compiere « Tutti noi dovremo farcelo… » soggiunse, osservando i propri compagni di ventura, in verità animata, in tal gesto, dalla brama di assicurarsi che, almeno in questa occasione, nessuno avesse riportato ferite degne di preoccupazione così come, sino ad allora, le era sembrato non essere occorso « State tutti bene…?! » domandò alfine in maniera esplicita, pur già quietata dall’evidenza di come, allora, fossero tutti in piedi attorno a lei, ansimanti, certo, sporchi oltremisura, indubbiamente, e pur vivi e, apparentemente, sani.
« … stiamo per partire? » questionò il capitano della Jol’Ange, riuscendo a cogliere il messaggio implicito nell’affermazione della donna, non confondendolo per un semplice scherzo, per un giuoco come altri, ma intendendolo esattamente per quanto avrebbe dovuto essere riconosciuto essere, ossia un invito a levare al più presto le ancore e a salpare alla volta della loro ultima meta… di Rogautt, l’isola dei pirati.

Una domanda, in tutto ciò, a dir poco retorica e che pur la mercenaria non si volle permettere di minimizzare qual tale, non si volle concedere la possibilità di trascurare, non concedendole replica di sorta o, forse e ancor peggio, rispondendo in maniera banale, in termini effettivamente retorici. Perché in quella risposta, in quell’invito, ella non avrebbe fatto altro che confermare anche quello rivolto a essere pronti a concederle la propria vita, a rischiare il proprio futuro, in un’avventura dal tragico esito a dir poco certo, qual solo avrebbe dovuto essere intesa quella contro Nissa, contro la regina Anmel e, ancor più, contro l’Oscura Mietitrice, principio stesso di morte, di distruzione, di annichilimento d’ogni cosa, e nel confronto con il quale, allora, per causa sua, per propria sola colpa, tutti loro si sarebbero sospinti a combattere, e a combattere sino alla fine.
Un breve intervallo di silenzio, carico di emozioni tutt’altro che allegre, tutt’altro che vivaci, seguì pertanto quell’esordio pur leggero, pur apparentemente scherzoso, giuocoso, nella necessità, per lei, di valutare al meglio cosa potersi permettere di dire e, per tutti gli altri, di attendere quanto ella avrebbe potuto desiderare condividere con loro, nella consapevolezza evidente, in conseguenza a quell’attesa, di come tutt’altro che semplice, ovvio o banale sarebbe stato il suo intervento.

« Purtroppo la battaglia è iniziata prima del tempo. A Licsia, innanzitutto, con primo-fra-tre, e ora qui a Bael, con i pirati al seguito di mio nipote, con gli ippocampi e con queste gargolle… » sospirò la donna dagli occhi color ghiaccio, non potendo che sentirsi sciocca per aver forse creduto di poter realmente giungere sino alla capitale del regno della propria gemella senza subire attacchi, senza incontrare ostacoli utili a ipotizzare la più semplice e assoluta assenza di qualunque ulteriore confronto, nell’anticipare l’ora del loro sterminio, della loro disfatta « … e questo non ci permette ulteriori esitazioni, non ci può perdonare la benché minima sosta, ove non strettamente necessaria. » soggiunse, giungendo in tal modo al nodo della questione, al centro del discorso, di quel breve discorso al quale pur non avrebbe potuto sottrarsi « Nel considerare quanto abbiamo già avuto occasione di affrontare, e nella tragica certezza di quanto il peggio abbia a doversi ancora attendere, non posso evitare di porvi una domanda, in risposta alla quale, devo essere sincera, non riesco proprio a immaginare cosa volermi attendere, cosa sperare di poter sentire, benché sia già certa di quanto, invece, sentirò: siete realmente sicuri di volermi accompagnare fino alla fine? »


venerdì 21 giugno 2013

1978


Ma ove confusa, probabilmente, avrebbe dovuto essere considerata la voce, non egualmente disorientante avrebbe dovuto essere altresì giudicata l’azione, nella quale, quasi immediatamente, non poté che risultare incredibilmente esplicito chi avesse invocato il nome dell’uno piuttosto che dell’altro. Perché, nel mentre in cui Camne si gettò verso Howe, Masva scelse altresì Be’Wahr, ed entrambe, in tal modo, poterono riservarsi una solida possibilità d’appoggio, un fermo trampolino, in virtù del quale concedersi occasione propizia di risalire verso l’alto dei cieli, di ascendere verso il sole, pur non desiderando, invero, raggiungerlo, non ambendo, in alcun modo, a conquistarlo, ma, ciò non di meno, lassù balzando a intercettare la loro comune avversaria, e a infierire in loro contrasto, in loro opposizione, con tutta l’energia, con tutta la violenza, con tutta la forza che entrambe sarebbero state in grado di richiamare a sé, e di imporre nel mentre di una pur non semplice posizione, di una pur non naturale, non ovvia, postura d’attacco, in grazia alla quale, comunque, poter ambire a porre reale sfida a quella creatura e, soprattutto, di trarla al suolo, di costringerla a lì precipitare, raggiungendo la compagna già crollata e che, presto, molto presto, sarebbe stata definitivamente distrutta, sarebbe stata, in tutto e per tutto, estromessa da quella battaglia, da quella sfida, da quel giuoco al massacro che pur, in primo luogo, era stato da loro preteso, era stato da loro stesse ricercato e invocato a gran voce, pur senza esprimere alcuna parola, il benché minimo verso.
Un duplice gesto, un duplice attacco, un duplice salto, nel vuoto, sì ammirevole e, finanche, stupefacente, per la riuscita del quale, allora, non avrebbe dovuto essere trascurato, non avrebbe dovuto essere ignorato, l’importante apporto proprio della coppia di fratelli e mercenari, i quali, pur necessariamente privi della medesima acquisita confidenza e coordinazione che avrebbe potuto caratterizzare le due donne, in quel particolare frangente così come in qualunque altro contesto della vita quotidiana, non mancarono dopotutto di assolvere al proprio ruolo, al proprio incarico, comprendendo repentinamente quanto a loro domandato e, provvedendo, in ciò, a porlo in essere, a non farlo mancare ad alcuna delle due rosse. Perché a poco o nulla, in verità, sarebbe valso tanto impegno da parte delle loro compagne, delle loro sodali in quel contesto di battaglia, allorché quei due avessero mancato di offrire loro il giusto supporto, l’idoneo slancio, qual pur, né l’uno, né tantomeno l’altro, vennero meno a presentare, addirittura, in un contesto sì pericoloso, nel cuore di una battaglia, nella quale pur essi lì si stavano ponendo, rinunciando persino alle proprie armi, sino ad allora ancora strettamente impugnate, per poter essere liberi di agire così come loro tanto concisamente domandato, tanto repentinamente invocato. Sia le mani, sia le braccia, e, più in su, le spalle dei due uomini, quindi, non mancarono di concedersi quali solidi sostegni, fermi appoggi, sui quali i piccoli, agili e straordinariamente forti piedi delle due donne, allenatisi in lunghi anni di vita in mare, poterono correre, prima di spiccare il volo e, dopo un intervallo di tempo e di spazio apparentemente infinito e illimitato, e pur, sostanzialmente, incredibilmente effimero e breve, tanto l’una, giungere al traguardo ricercato, al solo obiettivo desiderato.
Un obiettivo che, nella fattispecie, le vide affondare, l’una a destra, l’altra a sinistra, i propri martelli contro le apparentemente fragili forme della gargolla drago, sì ipotrofica nella propria struttura muscolare, cercandone un punto di debolezza, che per loro si sarebbe tradotto in forza, sul quale poter agire al fine di compiere quanto avrebbe dovuto essere compiuto, quanto avrebbe dovuto essere fatto per ridurla a un semplice cumulo di macerie. E se pur la violenza allora dall’una espressa a discapito di un ginocchio e dall’altra in opposizione a una spalla, non avrebbe potuto sperare, in alcun modo, di spingersi a livelli sufficienti a proporsi utili all’effettiva e completa distruzione di quel mostro, quanto insieme riuscirono a conquistare, non soltanto Masva e Camne, ma anche Howe e Be’Wahr sotto di loro, e pronti a concedere a entrambe tutto il supporto che mai avrebbero potuto richiedere, oltre al proprio stesso corpo sul quale riatterrare nel momento in cui fossero ineluttabilmente ricadute; fu allora sufficiente a incrinare pericolosamente la roccia in entrambi tali tanto delicati punti, in misura tale da poter cogliere alcuni frammenti distaccarsi dalla pietra comune e, soprattutto, da veder il drago essere in tutto ciò ancora una volta estemporaneamente respinto, costretto a rialzarsi, prematuramente, verso l’alto dei cieli per sottrarsi a un fato che avrebbe potuto dimostrarsi anche peggiore se solo si fosse lì soffermato ad analizzarlo.
Riportato, in ciò, un nuovo entusiasmante risultato, le due donne non poterono comunque sottrarsi alla più naturale fra tutte le leggi di natura, ricadendo, dopo una frazione infinitesimale d’istante, nuovamente verso il suolo, senza alcuna possibilità di opporsi a tale moto obbligato. Fu proprio in quel momento di bisogno che, non meno efficienti e non meno repentini di quanto non fossero stati pocanzi a reagire innanzi all’esigenza da entrambe dimostrate, che i due fratelli intervennero in nuovo sostegno, supporto e, forse, addirittura soccorso, di quella coppia di rosse, offrendo loro i propri corpi e, soprattutto, le proprie braccia, una soltanto nello spiacevole caso di Howe, privato della propria mancina e sostituitala con un arto dorato tuttavia rimasto completamente inanimato, qual speranzosamente comodo punto sul quale precipitare e, tuttavia, non infrangersi, non riportare neppure una pur semplice, e allora potenzialmente pericolosa, slogatura a una caviglia, in un gesto che, oggettivamente, non poté che essere apprezzato tanto dall’una, come dall’altra.

« Presa! » esclamò il biondo, nell’accogliere, nuovamente, a sé il pur lieve carico rappresentato dal corpo di Masva, a lui ritornata dopo quella rapida azione, dopo quel fugace distacco.
« E io ti ringrazio, per questo… » sorrise la rossa, schioccandogli un fuggevole bacio sulla guancia a lei rivolta prima di balzare a terra e predisporsi per un nuovo scontro, per l’ineluttabile sviluppo di quella battaglia, in qualunque direzione si sarebbe rivolta « … ma non ti fare idee sbagliate: ho già un uomo che aspetta il mio ritorno a casa! » commentò, in maniera in parte scherzosa e in parte seria, ironizzando in termini volutamente giocosi nel merito di qualche possibile malizioso fraintendimento da parte del proprio soccorritore, e pur sincera nel testimoniare il proprio sentimento per Av’Fahr, un’emozione che da troppo poco si erano concessi occasione di esplorare per permetterle di poter già sollevare dubbi di sorta a tal riguardo, e tornare a guardarsi attorno, a perscrutare quanto lì avrebbe potuto esserle in quello stesso frangente offerto, magari proprio dal buon Be’Wahr.
« E tu…?! Sei impegnata? » questionò in conseguenza a tale scambio di battute il mercenario shar’tiagho, prendendo voce verso Camne, a sua volta prontamente recuperata « Perché, nel qual caso, sappi che io sono assolutamente disponibile per attenderti a casa… »
« Grazie ma… no grazie! » ridacchiò l’altra rossa, non negando una fugace carezza al volto del proprio soccorritore salvo poi, non diversamente dall’altra, subito rifuggirgli, non tanto per un qualche timore nel confronto con quel contatto, con quella vicinanza, quanto e piuttosto per la stessa ragione che, in tal direzione, aveva sospinto anche la propria compagna, nel necessitare di recuperare quanto prima una posizione utile al combattimento, laddove le gargolle non avrebbero certamente mai atteso la loro disponibilità in tal senso « Fra l’altro, Midda potrebbe avere anche qualcosa in contrario in tal senso…! » suggerì poi, nell’offrire implicito riferimento al fatto di come, quasi dieci anni prima, la Campionessa di Kriarya si fosse elevata a sua protezione, a sua tutela e a sua difesa, quasi adottandola qual una sorella minore, seppur per un sin troppo breve periodo di tempo.
« … perché?! » obiettò Howe, pur consapevole di come, così facendo, non avrebbe fatto altro che offrire alla stessa mercenaria dagli occhi di ghiaccio occasione utile per minacciarlo ancora una volta, in quello che, seppur, un tempo, aveva anche preoccupato lui e il suo compare, ormai era riconosciuto semplicemente per quello che era, ossia un semplice ludo, un’occasione di distrazione psicologica, anche e soprattutto in momenti di crisi, come quello.
« Perché sebbene l’abbia involontariamente abbandonata troppo tempo fa, considero ancora Camne quale una mia protetta, razza di sciacallo che non sei altro… » esclamò immancabilmente la Figlia di Marr’Mahew, non sottraendosi all’invito in tal modo tacitamente rivoltole « E non permetterò mai a un poco di buono come te di poter approfittare di lei! » sancì, con un ampio sorriso a incurvarle le labbra.