Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.
Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!
Scopri subito le Cronache di Midda!
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E siamo a... QUATTROMILA!
Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!
Grazie a tutti!
Sean, 18 giugno 2022
Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!
Grazie a tutti!
Sean, 18 giugno 2022
giovedì 31 gennaio 2013
1838
Avventura
038 - La notte più lunga
« … tu?! »
Sorpresa sincera fu quella propria della Campionessa di Kriarya, nei ritrovarsi a confronto, dopo tanto tempo, con un avversario quasi dimenticato, e in favore al ricordo del quale, a ben vedere, non avrebbe potuto addurre particolare ragione, laddove, oggettivamente, questi non aveva compiuto nulla di particolare per meritare, da parte sua, simile attenzione. Giovane spadaccino in cerca di gloria, egli si era spinto, qualche anno prima, entro i confini di Kriarya alla ricerca di un’occasione di disfida con la Figlia di Marr’Mahew, uno fra i tanti, troppi duellanti accomunati da quell’unica, pericolosa brama, e a lei, in tale occasione, si era presentato con il nome di Rimau Coser, salvo essere in ciò del tutto ignorato e, altresì, rinominato dalla propria eletta antagonista con quello di Nessuno, in un giuoco di parole conseguente a una minaccia da lui addottale.
Animato, come molti sfidanti della mercenaria più famosa di quell’angolo di mondo, da un’eccessiva ed eccessivamente ostentata sicurezza per le proprie possibilità, sovente priva di un’effettiva maestria utile a giustificarla, Nessuno si era impegnato a lottare contro di lei in un momento nel quale ella, per ragioni personali e professionali, non avrebbe dovuto essere considerata particolarmente bendisposta e tollerante nei confronti degli sciocchi, qual pur egli si era dimostrato essere. Motivo per il quale, malgrado con una certa incoscienza di fondo si fosse impegnato in quella lotta addirittura impiegando qual proprie una coppia di sottili e agili lame, egli non vide tanta insolenza perdonata da parte della donna, la quale non lo uccise ma, dimostrando forse minor compassione di quella che, in tal senso, avrebbe potuto esserle proprie, lo mutilò ferocemente, privandolo, in un colpo solo, d’ambo le mani. Non che, prima di tal atto, di simile condanna, l’allora non ancor riconosciuta Campionessa di Kriarya gli avesse negato la possibilità di un’indolore ripiegata, avendo invero affrontato, e vinto, quelle due spade senza neppure estrarre la propria: tuttavia, nel confronto con l’ostinazione di un suicida, qual egli insistentemente aveva voluto dimostrarsi essere, altro non si era sentita cuore di compiere se non renderlo definitivamente innocuo, in quelle tanto spiacevoli implicazioni che, ella più di chiunque altro, avrebbe potuto dolorosamente comprendere in conseguenza alla propria tragica esperienza personale.
Qual Nessuno lo aveva considerato essere e qual Nessuno lo aveva ormai praticamente dimenticato, e di certo non lo avrebbe più ricordato se, in quel momento, egli non fosse tornato a offrirsi innanzi al suo sguardo, ai suoi occhi color ghiaccio. Un ritorno, pertanto, quantomeno sorprendente, nel riconoscersi qual completamente inaspettato… inaspettato soprattutto in toni nuovamente tanto irriverenti, quali quelli con cui egli, in quel momento, ripropose le stesse parole che già lo avevano contraddistinto anni prima.
« Rimau Coser… per servirti. » ironizzò l’uomo, tornando a presentarsi e, in tal senso, accennando un lieve inchino, accompagnato da un ampio sorriso sornione, lì incorniciato da un curato e sottile pizzetto, evidente elemento di novità su un volto più severo rispetto a quello sfoggiato in occasione del loro precedente incontro, per quanto ancora contraddistinto da una pelle delicatamente abbronzata, e sempre circondato da capelli biondi di media lunghezza, sebbene or non più ricadenti innanzi ai suoi verdi occhi in quella frangia eccessivamente lunga e disordinato che, allora, avrebbe dovuto essere riconosciuta qual fonte di disturbo, d’impiccio, più che di altro.
« Nessuno. » puntualizzò la donna, osservandolo con attenzione e studiando con cautela quanto da lui allora offerto a proprio riguardo, nel volergli riconoscere il beneficio del dubbio e, in tal senso, nel non volerlo giudicare tanto sprovveduto da fare ritorno a lei senza poter vantare, quantomeno, un’illusoria speranza di rivincita su di lei, di vendetta per quanto ella aveva compiuto e, in ciò, senza un’arma adeguata a sopperire all’imperdonabile sfregio con il quale ella lo aveva voluto marcare.
Malgrado lo sguardo inquisitore dell’avventuriera, poco o nulla poté soddisfare la sua curiosità d’inchiesta nei suoi riguardi, dal momento in cui, fatta eccezione per il suo volto, il resto del suo sempre apparentemente esile corpo, soprattutto nel confronto con le proporzioni eccessivamente muscolose della maggior parte dei passati avversari della donna, poco o nulla poté essere intuito, apparendo avvolto, nella propria intera estensione, in un lungo mantello, sotto al quale qualunque sorpresa avrebbe potuto essere allora celata e, chiaramente, stava venendo lì celata, a permettere all’uomo di riservare qual proprio, quantomeno, un pur effimero fattore di sorpresa nel confronto con le sue aspettative.
Ma a prescindere dall’effettiva natura di quanto, là sotto, egli stava celando, di difficile fraintendimento avrebbe dovuto essere riconosciuta la minaccia da lui stesso così rappresentata, laddove impossibile sarebbe stato supporre un suo ritorno alla città del peccato, e alla propria antagonista, per riservarsi con lei una semplice occasione di confronto verbale.
« Mi fa piacere constatare che ti rammenti ancora di me, a dispetto di quanto suggerito dall’epiteto che mi hai voluto attribuire… » osservò, risollevando il capo e, ancora, restando immobile sulla soglia laddove era comparso, ben attento a non spostarsi e, in ciò, a non permettere ad alcuno di intuire quali risorse avrebbe potuto vantare quali proprie, per riservarsi l’opportunità di porre sfida alla Campionessa della città.
« Di Nessuno conservo memoria… » replicò tuttavia ella, scuotendo il capo e rendendo propria, in tale affermazione, sufficiente ambiguità utile a non offrirgli soddisfazione e, anzi, a schernirlo ancora una volta, come già in passato « Del resto, Nessuno mi affrontò quel giorno e contro Nessuno rivolsi la mia lama, qual giusto monito per altri, possibili, stolidi candidati suicidi. Ragione per la quale il tuo piacere per quanto io rammento o non rammento è privo di ragione alcuna. »
Il silenzio allora venutosi a imporre all’interno della locanda al momento della comparsa dell’uomo, dello sfidante della Campionessa, continuò a perdurare per tutta la durata di quelle affermazioni, di quella schermaglia allora ancor solo verbale sebbene di chiaro preludio a un confronto fisico, e dimostrò, da parte di tutti, un interesse diverso da quello loro precedentemente tributato, dal momento che tanta quiete non aveva egualmente contraddistinto il precedente confronto fra le due figure in questione, fra i due avversari lì in tal modo contrapposti.
All’epoca del loro primo e unico scontro, infatti, i due si erano affrontati lungo le vie della città, in pieno giorno e nel bel mezzo di una folla brulicante composta da gente indaffarata che, a stento, aveva offerto interesse per quanto allora era accaduto, giustappunto concedendo loro un minimo di attenzione al momento in cui l’umiliazione si era imposta su quello sventurato sfidante. Da allora, quanto era cambiato nell’atteggiamento della popolazione di Kriarya non avrebbe dovuto essere considerato, tuttavia, un qualche interesse generico in merito agli scontri armati, ai duelli o, anche e più banalmente, agli agguati, lì all’ordine del giorno nella stessa misura degli assassinii, degli stupri e dei furti, e, per questo, del tutto privi di un qualche interesse in chi lì aveva preso dimora, accettando di convivere con quella realtà per lo più perché facente parte della stessa, in un modo o nell’altro. A essere mutato, altresì, era l’interesse specifico per quanto concerneva in particolare la figura della stessa Midda Bontor, la quale, dall’alto della propria nuova posizione di rispetto, non avrebbe potuto essere sfidata senza attrarre, in ciò, parecchio interesse da parte dei propri concittadini e, a conti fatti, dei propri protetti.
Motivo per il quale, oltre ovviamente all’attenzione di Howe, Be’Wahr, Be’Sihl, e a quella di altre figure care alla mercenaria e che a cuore avevano il suo fato, quali quelle del suo scudiero Seem e della di lui compagna Arasha, questa impiegata qual seconda in comando all’interno della locanda; si aggiunse l’interesse di qualunque altro avventore della locanda, che non sembrò in grado di proseguire nella propria cena, o nella propria bevuta, come se nulla stesse accadendo.
mercoledì 30 gennaio 2013
1837
Avventura
038 - La notte più lunga
Assolutamente meritevole di rispetto avrebbe dovuto essere riconosciuto, in tutto ciò, il contegno e l’autocontrollo di cui Be’Sihl Ahvn-Qa si dimostrò essere allora capace, laddove qualunque altro uomo, al suo posto, nei suoi panni, avrebbe avvertito probabilmente le proprie tempie esplodere improvvisamente per l’eccitazione incontenibile, e non sarebbe stato in grado di trattenersi così come egli si dimostrò essere, non tradendo, in tal senso, la fiducia in lui riposta dalla compagna. Abituatosi, dopotutto, per tre lunghi lustri a mantenere i propri sentimenti per quella straordinaria donna ben celati nel profondo del proprio animo, infatuato di lei sicuramente sin dal primo giorno, innamorato probabilmente a partire già dal secondo, e pur timoroso di poterla perdere con la stessa facilità con cui avrebbe perduto l’acqua del mare, o la sabbia del deserto, attraverso le proprie dita se solo avesse tentato di trattenerla; egli era riuscito, proprio in grazia di ciò, a compiere quanto nessun altro uomo prima di lui aveva avuto successo a compiere: legarla a sé… e legarla a sé indissolubilmente.
Beninteso come Be’Sihl non fosse stato il primo amante della Figlia di Marr’Mahew, non fosse stato il suo primo compagno né il suo primo amore; egli, nella benevolenza degli dei, sarebbe infatti e probabilmente e comunque stato l’ultimo, laddove, in quell’eterno corteggiamento, nel legame di profonda complicità, intima amicizia che era riuscito a edificare giorno dopo giorno, con la propria presenza costante al suo fianco, con la solida certezza rappresentata dalla propria partecipazione alla sua esistenza, era riuscito a rendersi non solo desiderato, ma addirittura irrinunciabile nella sua stessa vita, in una misura che persino ella avrebbe dovuto essere, ed era, oggettivamente spaventata ad ammettere qual tale. Né Salge Tresand, primo vero amico e amante di un’ancor fanciulla Midda Bontor intenta a solcare i mari del sud qual marinaia; né Ma’Vret Ilom’An, antagonista e complice nei primi anni della sua carriera qual mercenaria e avventuriera; due fra le più importanti e prolungate relazioni sentimentali che avevano visto impegnata quella particolare figura, erano stati in grado di trattenerla a sé, malgrado ogni sforzo da entrambi in tal senso. Al contrario Be’Sihl, forse più saggio, o forse più maturo nel proprio rapportarsi con lei e con i propri sentimenti, aveva compreso quanto controproducente sarebbe stato, per lui, cercare di imporle la propria presenza, tentare di imporle il proprio pur sincero sentimento, preferendo a tale possibilità, a simile scelta, quella altresì volta a legarla a sé, al di là di ogni razionalità e di ogni emotività, in una misura tale per cui, anche innanzi a qualunque ostacolo, a qualunque imprevisto, ella non sarebbe stata in grado di sfuggirgli, in quanto avrebbe significato sfuggire anche a se stessa.
Quindici lunghi anni di attesa erano così stati necessari alla Campionessa di Kriarya per maturare la consapevolezza di non poter né voler più vivere lontana da quell’uomo. Quindici lunghi anni, comunque, che erano stati per lui tutti ampliamente ripagati, e ripagati dal ciò che, alfine, aveva ottenuto, aveva conquistato: non solo un rapporto d’amore contraddistinto da una passionalità travolgente, da un ardore incandescente più di quello proprio del sole; non solo un’amicizia e una complicità difficili persino a considerarsi qual reali, qual esistenti, nella propria completezza; quanto e ancor più un legame in grado di superare qualunque ostacolo, fisico e non, quali pur, praticamente subito, non erano loro mancati. Per tal ragione, benché ella stessa non si fosse negata un tentativo utile a sottrarsi da lui, con tanto di dolorosa lettera d’addio nella quale dichiarava la propria ferma intenzione a considerare la loro relazione qual conclusa; quand’egli era riuscito nuovamente a raggiungerla, a porsi innanzi a lei, irrefrenabile come la vita, inevitabile come la morte, il loro amore non aveva potuto essere nuovamente rifiutato, il loro legame non aveva potuto essere infranto. Né allora… né successivamente.
« Non so per quale strana ragione, avverto un’impellente necessità di chiudere anticipatamente la locanda, questa notte… » si concesse, nonostante tutto, occasione di replica egli, al di là di ogni pur ferma capacità di autocontrollo costretto a un profondo respiro per non cedere a quell’evidente, maliziosa e divertita provocazione, che non avrebbe potuto evitare di stuzzicarlo nel vivo, in quanto, comunque, costituito da calda carne viva e pulsante, e non da fredda pietra morta e inanimata qual solo avrebbe dovuto essere per ignorarla completamente « E questo malgrado le consumazioni stiano andando decisamente bene. »
« Mmm… questo sarebbe un grave errore da parte tua, mio buon locandiere. » constatò ella, socchiudendo appena gli occhi nell’osservarlo con occhi di ghiaccio fra lunghe palpebre nere « Per quanto affascinante e con un paio di glutei niente male, difetti un po’ nella gestione degli affari, a quanto sembra… » lo rimproverò, con giocosa dolcezza, scuotendo appena il capo « Come, del resto, dimostra il fatto che mi hai fatto pagare sempre troppo poco l’affitto a uso continuato ed esclusivo della mia camera. »
« E da quando saresti un’esperta in questo genere di cose?! » domandò, raccogliendo nuovamente il vassoio, opportunamente svuotato, dal bancone, per prepararsi ad allontanarsi da lei quanto sufficiente ad andare a recuperare un nuovo carico di boccali vuoti, in ciò riservandosi tempo sufficiente a sbollentare, almeno in minima parte, l’eccitazione, altrimenti insostenibile.
« Dimentichi forse quanto io sia solita farmi pagare almeno cinque o sei volte tanto il compenso inizialmente pattuito, per le mie imprese? » obiettò la donna, strizzando l’occhio sinistro con fare complice « Se desideri, potrei darti delle lezioni di economia, più tardi… ma ti avviso, sono un’insegnante estremamente severa. E non tollererò alcun genere di distrazioni da parte tua. » soggiunse, lasciando chiaramente intendere come, tuttavia, si sarebbe impegnata con tutte le proprie energie per negargli qualunque possibilità di concentrazione.
Con un nuovo, profondo respiro, Be’Sihl si costrinse, letteralmente, ad allontanarsi da lei, incerto di poter ancora a lungo altrimenti resistere a quei suoi insistenti attacchi.
In effetti, fatta eccezione quei brevi intervalli riservatisi nello sparecchiare i tavoli o nel servire i clienti, affiancando in tal senso i propri garzoni, in quella serata al locandiere non stava venendo concessa occasione di tregua da parte della donna, la quale in tal senso sembrava intenta a cercare di sopperire all’assenza di una bella rissa, di quelle che ella aveva sempre gradito, ma che, nel proprio nuovo ruolo di Campionessa della città, erano divenute ormai sempre più rare. Una comprensibile scarsa predisposizione all’autolesionismo, del resto, doveva essere giustificata nelle sue potenziali controparti in quel genere di attività da lei considerate ricreative; dal momento in cui, dopo averla vista affrontare e vincere quanto di più simile a un esercito di colossali divinità oscure precipitato ad assediare la capitale, soltanto folle sarebbe stato presupporre una qualsivoglia ricerca di competizione con lei, anche in termini non necessariamente letali quale pur una piacevole zuffa avrebbe potuto essere. E anche se non avrebbe potuto che iniziare a temere quell’erotico assedio al quale, istante dopo istante, diventava sempre più difficile resistere; il locandiere shar’tiagho, da sempre critico nei riguardi di un simile genere di intrattenimento per la propria amata, non avrebbe comunque potuto che apprezzare nei termini più assoluti, l’idea di non vederla più costretta a una continua e ossessiva serie di scontri motivati soltanto da futili motivi, il più sciocco fra tutti i quali, certamente, avrebbe dovuto essere riconosciuto, da parte sua, quello volto a ottenere, nella sconfitta e, meglio ancora, morte della Figlia di Marr’Mahew, il retaggio di gloria derivante da tale impresa.
Una serenità pertanto gradita, la quale, purtroppo per lui, non avrebbe dovuto essere considerata qual destinata a perdurare, così come una voce a lui del tutto sconosciuta volle evidenziare con due semplici parole: « Bella spada… »
Un’affermazione apparentemente innocua, quella allora espressa da una sconosciuta figura maschile ferma sulla soglia d’ingresso de “Alla Signora della Vita”, che, malgrado la confusione presente all’interno dell’amplio locale, risuonò qual perfettamente intellegibile e costrinse tutti a un immediato silenzio, nella comune e sin troppo banale intuizione della sola, possibile destinataria di una tanto gratuita provocazione…
martedì 29 gennaio 2013
1836
Avventura
038 - La notte più lunga
Sin dal giorno del suo arrivo, quasi vent’anni prima, molte volte, troppe volte, era cambiato il riconoscimento offerto a Midda Bontor all’interno della città del peccato.
Qual giovane donna, in una capitale la cui popolazione femminile era da tempo immemore prevalentemente impiegata nella professione considerata qual la più antica del mondo, per lei non era stato facile, non era stato immediato essere accettata, essere accolta, qual una mercenaria, sì, ma non specializzata in questioni d’amore, quanto, e piuttosto, in tematiche antitetiche, quali quelle caratteristiche della guerra. E, a tal pur legittimo fine, la sorprendente esuberanza delle sue forme non era stata d’aiuto, non era stata per lei ragione di positiva promozione, così come avrebbe potuto indubbiamente esserlo ove avesse scelto quella stessa soluzione per lei augurata dai più. Malgrado ciò, era stato sufficiente, per lei, adornare con rosso sangue la propria candida pelle già naturalmente decorata con diverse spruzzate di efelidi, per attrarre l’attenzione dei più saggi, primo fra tutti un ex-mercenario di nome Brote, che, di lì a breve, e non senza una gradevole spinta offerta dalla propria presenza al suo fianco, avrebbe iniziato a essere conosciuto con il titolo di lord, carica che, entro i confini propri di Kriarya non avrebbe dovuto essere considerata in alcun modo qual offerente riferimento alcuno a un qualche retaggio nobiliare, a una qualche ascendenza aristocratica, così come nel resto del regno.
Al servizio di lord Brote, pertanto, ella aveva prima conquistato la dignità propria di una donna guerriero, mercenaria e avventuriera, così come desiderato, e successivamente quella fama utile a rendere la sua testa sufficientemente ambita da altri professionisti della guerra che, dalla sua morte, avevano desiderato ottenere un livello di notorietà pari e addirittura superiore a quello da lei sino ad allora accumulato. Molti, troppi, in conseguenza a ciò, erano stati i cadaveri di duellanti, tal volta addirittura codardi, di cui ella aveva dovuto costellare il proprio cammino, la propria strada come tante pietre miliari disposte a distanza costante, regolare, quasi in assenza delle quali non le sarebbe stato possibile riconoscere la via sino ad allora percorsa. E, malgrado tutto quello che ella, nel corso di quegli anni, di quei lustri aveva compiuto, malgrado il quantitativo esorbitante di morti accumulati alle proprie spalle, ancora qualcuno, di tanto in tanto, non mancava di presentarsi a lei, bramoso di vincere l’occasione della propria esistenza, utile a trasformarsi da perfetto sconosciuto a uccisore di colei che anche conosciuta con l’altisonante appellativo di Figlia di Marr’Mahew, nome con cui la dea della guerra era conosciuta all’interno del pantheon proprio di un arcipelago di piccole isole a ponente rispetto a Kofreya.
Al di là di tali fugaci occasioni di intrattenimento, ancor prima che di effettiva sfida, per Midda Bontor quegli ultimi mesi, quelle ultime stagioni, in Kriarya, avevano rappresentato un’importante momento di svolta, laddove, da semplice soggetto di sfida, spesso in più o meno aperta antipatia a qualunque mecenate della città al di fuori del lord suo amico, ella aveva avuto occasione di elevarsi al rango di Campionessa della città, per voto unanime di tutti i signori locali. Un titolo che, anche laddove supposto qual effimero, qual estemporaneo, si era incredibilmente dimostrato tutt’altro che tale, perdurando gradevolmente non solo sulle bocche, ma ancor più nelle menti della popolazione locale in una misura, invero, sorprendente persino per lei, benché l’evidenza di aver salvato almeno due volte l’intera città da una fine disastrosa doveva aver riservato qual proprio un qualche valore in tal senso, a tal riguardo. Ragione per la quale, in termini per lei quasi imbarazzanti, malgrado tutta la negativa nomea della città del peccato, malgrado tutti i mercenari e gli assassini presenti in città, accanto ai ladri e alle prostitute, camminando lungo le vie dell’urbe ella non era più oggetto di sguardi avversi, di reazioni di più o meno aperta ostilità, quanto e piuttosto, di cenni di rispetto, gesti di saluto più o meno palesi e pur tutti, insolitamente, amichevoli.
E sebbene, offrendo costante riferimento alla propria indole sospettosa e paranoica, ella non avrebbe mai concesso alla propria attenzione occasione utile a calare, ai propri sensi una qualche possibilità per distendersi e rilassarsi, ancor tutt’altro che dimentica di tutti gli attentati subiti nel corso del tempo, ultimo e più eclatante fra i quali quello che l’aveva spinta a inscenare la propria morte offrendo alle fiamme una parte della locanda di Be’Sihl; parimenti Midda non avrebbe potuto negare una certa, intima e assolutamente umana soddisfazione al confronto con quanto, alfine, aveva ottenuto, aveva conquistato, lì partendo completamente dal nulla. Da straniera, a stento considerata più di un’interessante occasione di intrattenimento sessuale, a mercenaria professionista della guerra, bramata dai propri alleati e odiata dai propri avversari; da professionista della guerra, sempre meglio quotata e, di conseguenza, pur sempre osteggiata, a Campionessa, da tutti riconosciuta qual eroina, qual riferimento della capitale, in una misura forse e persino maggiore a quella propria di tutti i lord signori della città.
Tutto ciò senza considerare la soddisfazione conseguente, su un fronte ben diverso, all’idea di possedere, finalmente e nuovamente, una casa avvertita realmente qual propria…
« Sai… è strano vederti sorridere così. » commentò Be’Sihl passandole accanto, nel trasportare un vassoio carico di boccali vuoti, esprimendosi in un lieve sussurro, praticamente inudibile e che pur, alle orecchie a cui quella voce era tanto cara, risuonò senza la benché minima possibilità di fraintendimento, quasi fosse stato gridato.
« Mi stai dando forse della musona?! » protestò ella, sottovoce, aggrottando appena la fronte in replica a quelle parole, benché dal suo viso il sorriso che aveva attratto tale commento non accennò a svanire « Per tua informazione, io ho uno splendido sorriso, mio caro… »
« Che il tuo sorriso sia splendido è fuori da ogni possibilità di discussione. » convenne egli, consegnando il vassoio a uno dei propri garzoni, dietro al bancone, per poi voltarsi nuovamente verso di lei, a riprendere il discorso « Dico solo che, in genere, non lo dispensi tanto generosamente… c’è qualche ragione particolare dietro a tanta trasparente e contagiosa gioia? »
« Gioia… » ripeté la mercenaria, soppesando quella parola, quasi a tentare di analizzarne il significato più recondito, a cercare di comprenderla in profondità e non soltanto nel proprio aspetto più superficiale « Sai… è strano. Pensando a tutto ciò che mi attende, nella guerra contro Nissa e contro Anmel, probabilmente non dovrei concedermi troppe possibilità di sorridere. » rifletté, in un profondo sospiro « Tuttavia… mi guardo attorno, vedo quello che abbiamo realizzato insieme, e non posso fare a meno di essere felice. » soggiunse, a spiegare il proprio stato d’animo, condividendolo con l’uomo amato in quel momento di rubata intimità.
Una nuova battaglia avrebbe dovuto essere considerata alle porte per la Figlia di Marr’Mahew, per la Campionessa di Kriarya. Una battaglia che, nelle proprie premesse, nelle proprie dinamiche e nella posta in palio, avrebbe dovuto essere riconosciuta, probabilmente, qual la più importante, la più difficile, e la più letale battaglia che ella avesse mai affrontato, superiore, persino, al recente scontro che l’aveva vista schierarsi in opposizione a un dio. Un dio minore, e pur sempre un dio.
Ma, ciò nonostante, o forse proprio in conseguenza a tale consapevolezza, a simile ineluttabile evidenza, ella aveva rinunciato a ogni preoccupazione, a ogni possibilità di ansia, preferendo, molto più semplicemente e piacevolmente, godere di quanto a lei lì offerto, per come a lei, allora, lì offerto. Perché se anche ella non fosse più riuscita a fare ritorno a Kriarya, alla propria locanda, le sarebbe quantomeno rimasto nel cuore un ricordo felice, un ricordo sereno, di quella propria ultima dimora e della quiete che, paradossalmente, alfine le era stata concessa nella città più pericolosa di tutta Kofreya e di tutto quell’angolo di mondo.
« Non so se considerarmi rasserenato o turbato da tutto ciò… » ammise il locandiere shar’tiagho, incrociando le braccia al petto nel guardarsi, per un attimo, attorno, a non permettere a sguardi curiosi di intendere eccessiva complicità fra loro, così come ella aveva deciso essere necessario per la loro reciproca incolumità, benché le chiacchiere a loro riguardo, oggettivamente, si sprecassero « Tu cosa mi consigli? »
« Non saprei… » esitò ella, imitandolo nei propri gesti, benché l’assenza della propria destra rendesse meno naturale tale posa « Fossi in te, credo proprio che mi sentirei eccitato, al pensiero di quello che potrà attendermi fra poche ore, alla chiusura della locanda… » suggerì poi, con sorriso pressoché inalterato, benché ora trasudante di vivida sensualità.
lunedì 28 gennaio 2013
1835
Avventura
038 - La notte più lunga
Con un corpo mantenuto incredibilmente tonico da una vita intera di costante addestramento, nonché di mirabolanti avventure, straordinarie imprese compiute nei peggiori campi di guerra così come nei più profondi e dimenticati dedali sotterranei ricolmi di pericoli mortali; con delle forme che, sin dagli anni della propria fanciullezza, avevano posto sfida a qualunque legge naturale, offrendosi straordinariamente generose e ancor conservandosi qual tali, malgrado il passare del tempo; e, soprattutto, con un carisma straordinario, tale da permetterle di trasudare sensualità in ogni proprio più semplice gesto, fosse anche un letale fendente offerto dalla propria affilata spada bastarda; in effetti ella, ancor prima che invidiare una qualunque fra le prostitute lì presenti, non avrebbe potuto evitare di essere invidiata da tutte loro: malgrado una coppia di occhi color ghiaccio, e apparentemente privi di qualsivoglia barlume di umanità; malgrado lo sfregio che, in corrispondenza al suo occhio sinistro, ne deturpava longitudinalmente il volto, dalla fronte alla guancia; malgrado un braccio sinistro completamente adornato da tatuaggi tribali che la identificavano qual un tempo marinaia di origine tranitha; e, ancora, malgrado un braccio destro proprio malgrado perduto anni prima, successivamente sostituito da una protesi stregata, che le aveva permesso di recuperare, in pur minima parte, la mobilità perduta, ma, in tempi ancor più recenti, nuovamente mutilato, e allora sfoggiante, al termine di quell’avambraccio in nero metallo dai rossi riflessi, solo uno spiacevole vuoto, laddove avrebbe dovuto essere la sua mano. Perché, anche i più gravi difetti fisici, qual lo sfregio o la mutilazione, così come quei tatuaggi, così distanti dall’idea di eleganza femminile per come suggerita dai canoni in auge, o quegli occhi color ghiaccio, terribilmente alieni; a nulla sarebbero valsi nel confronto con il profilo di quello straordinario corpo, e con il fascino di quell’incredibile personalità, di quello spirito indomito e indomabile, per sperare di conquistare il quale qualunque uomo, e persino diverse donne, avrebbero volentieri dannato la propria anima immortale.
« Campionessa… » esclamarono, quasi in coro, le quattro prostitute, ritraendosi appena quasi ella avesse da considerarsi costituita di fiamme ancor prima che di carne e ossa, qual pur, oggettivamente, era.
« Nessun fraintendimento… » specificò la donna dalla voce roca, cercando di dimostrarsi serena, distesa, in un quieto sorriso, benché la sua tensione avrebbe potuto essere quietamente letta lungo ogni pollice della sua chiara pelle decisamente poco coperta, in una repentina increspatura che l’aveva coinvolta da capo a piedi « I tuoi amici sono nostri amici. »
« E gli amici non si derubano… » sorrise la mercenaria, piegando appena il capo di lato, come un felino a curioso confronto con la propria prossima preda « Soprattutto non in casa mia. » soggiunse, specificando, non senza un certo piacere, la propria appartenenza a quel luogo ancor prima che l’appartenenza di quel luogo a lei.
Ancor prima che colei conosciuta anche con l’appellativo di Campionessa di Kriarya, così come evidenziato dalle quattro professioniste, avesse offerto alle fiamme parte di quell’edificio, per poi finanziarne la ricostruzione e l’ampliamento, ottenendone di conseguenza metà della proprietà; ella aveva iniziato già da diversi anni a considerare quella qual propria dimora e, forse, il locandiere suo proprietario qual il proprio compagno. Così, quando alfine, nella bizzarra concomitanza della parziale distruzione della locanda originale e dell’esplosione di quel tutt’altro che inatteso, ma non per questo meno sorprendente, sentimento d’amore fra lei e Be’Sihl Ahvn-Qa, ella aveva potuto realmente considerasi lì finalmente qual a casa, minimale era stato lo sforzo d’adattamento richiestole da quella nuova, apprezzabile e apprezzata, condizione, da quella nuova, gradevole e gradita, situazione.
E sebbene, per tutelare l’incolumità del proprio amato e amante, ella aveva loro imposto una certa riservatezza al nuovo rapporto esistente fra loro, rinunciando a qualunque genere di effusione in pubblico, benché, in sua compagni, non desiderasse altro che a lui gettarsi contro, senza imbarazzi, senza inibizioni; simile pacatezza psicologica e fisica non era stata ritenuta necessaria in riferimento al nuovo rapporto esistente fra lei e quella locanda, motivo per il quale, allora ancor più che in passato, la sua familiarità con quelle mura, con quell’ambiente non era celata, non era negata e, anzi, era promossa a ogni occasione possibile, animata in tal senso da un incommensurabile piacere di fondo all’idea, che pur mai avrebbe ammesso pubblicamente, di essere nuovamente legata a un luogo, a una casa, dopo troppi anni di vita vagabonda, dopo un’esistenza intera spesa senza alcun genere di riferimento stabile e duraturo.
Per tal ragione, dov’anche dal giorno della ricostruzione della locanda rinominata “Alla Signora della Vita” per le stesse ragioni per le quali ella aveva conquistato il titolo di Campionessa di Kriarya, nell’aver salvato l’intera capitale da un’invasione negromantica, prima, e da un osceno assedio di colossali mostri, poi, ella fosse rimasta decisamente poco a godere del proprio nuovo possedimento; l’investimento compiuto nell’opera di ristrutturazione di quell’edificio, nel quale un’ampia porzione di tutti i risparmi di una lunga vita di straordinari successi mercenari erano andati spesi, non era da lei mai stato rivalutato in negativo, non era mai stato considerato qual una perdita di tempo e, soprattutto, uno spreco d’oro, ritrovandola quanto mai convinta della saggezza della propria scelta, dell’oculatezza della propria decisione.
« Non temere… » prese alfine voce colei che, per prima, aveva dimostrato un particolare interesse nei riguardi dei volumi posseduti da Be’Wahr, allora ritornando ad adagiarsi sorniona contro al torace di Howe, il quale non seppe se considerarsi felice o no per tale evoluzione, per simile conclusione, dal momento che tale risultato pur desiderato non era stato ottenuto in grazia a un qualche effettivo apprezzamento per lui, per il suo valore, per la sua dignità « Tutto ciò che sottrarremo loro sarà soltanto quanto ci guadagneremo nel corso di questa lunga notte insieme! » annunciò, nel mentre in cui, notando una certa freddezza nel proprio cliente, volle sondarne l’interesse lasciando calare una sapiente mano in direzione del suo inguine, ottenendo da questi un inevitabile sussulto ricolmo di piacere « Nulla in contrario, Campionessa?! » sorrise, con soddisfazione per la pronta risposta ottenuta dall’uomo.
« No… direi proprio di no. » scosse il capo Midda Bontor, per nulla posta in imbarazzo da quella scena pur sufficientemente esplicita, laddove, più che confidente con ogni dinamica caratteristica della sessualità, e priva di particolari dogmi a discapito della medesima, non le sarebbe stato offerto motivo utile ad arrossare le proprie guance per la vergogna neppure nel momento in cui quella donna si fosse impegnata a cercare il piacere del proprio estemporaneo compagno anche in termini ancor più palesi rispetto a quello, così come, del resto, non ne aveva resi propri neppure nell’attraversare con passo sereno e distaccato la casa di Tahisea, il lupanare più celebre di tutta Kriarya, con tutte le proprie ben poco discrete orge « Ogni lavoro merita il pagamento del giusto prezzo… » accordò, in replica alla propria interlocutrice e ai dubbi della medesima a proprio riguardo.
« Midda cara… » volle allora intervenire Howe, dimostrando egli tutto l’imbarazzo del quale la sua alleata non aveva concesso soddisfazione di palesare « … senza offesa. Benché apprezzi sinceramente il tuo interesse per la nostra incolumità in una situazione di terrificante pericolo qual quella presente, e benché comprenda che il tuo senso del pudore non abbia mai avuto ragione di svilupparsi al pari di quello di chiunque fra noi; potresti, per bontà divina, trovare un qualunque altro genere di occupazione lontano da qui?! » le suggerì, desiderando sinceramente che quel dialogo fra la mercenaria e la prostituta non avesse da proseguire un istante di più « Ci sarà pur qualcuno con cui attaccar rissa da queste parti... » consigliò, nel citare quello che, era consapevole, aveva da considerarsi quale uno dei più apprezzati passatempi serali dell’altra, fosse anche e solo al fine di sciogliersi dalla tensione dopo una lunga giornata.
E qual sola risposta a quella preghiera, avvertita allora qual terribilmente sincera, laddove la sua presenza stava imponendosi qual ragione di inibizione per il lui, la donna dagli occhi color ghiaccio non fece altro che esplodere in una gioiosa risata, tanto dirompente nella propria ilarità da costringerla, addirittura, a spingere il capo all’indietro, per lasciarla eruttare in maniera libera e incontrollata.
domenica 27 gennaio 2013
1834
Avventura
038 - La notte più lunga
« Cosa vorresti alludere?! » esclamò il biondo Be’Wahr, aggrottando la fronte con aria incerta, evidentemente indeciso fra l’arrabbiarsi vanamente con il proprio fratello di vita, in un’eventualità che era consapevole non lo avrebbe condotto ad alcun risultato utile; e il lasciar correre l’ennesima provocazione del tutto gratuita appena rivoltagli da parte del medesimo, della quale, ovviamente, l’altro avrebbe potuto fare tranquillamente a meno, ma alla quale, inevitabilmente, non aveva voluto rinunciare, cogliendo al volo l’occasione in tal modo riservatagli.
« “Alludere”? E’ questa la parola del giorno che hai imparato dal tuo nuovo libro?! » lo provocò Howe, ancora una volta, mostrando in un ampio sorriso una lunga fila di bianchi denti attraverso sottili labbra color della terra, in tono con la pelle abbronzata non per effetto del sole, quanto e piuttosto per il proprio sangue shar’tiagho, retaggio di quella terra del lontano nord, in prossimità ai regni desertici centrali, che aveva ospitato i natali dei suoi genitori, poi emigrati verso meridione e, in particolare, verso Kofreya, là dove avevano incontrato coloro che, da lì a qualche anno, sarebbero divenuti i genitori di quel futuro compagno d’arme e di vita per il quale sarebbe stato pronto a morire mille e una volta, e che pur non avrebbe mai smesso di tormentare con i propri scherni, con le proprie derisioni per le questioni più banali.
« Figlio d’un cane! » replicò il primo, sgranando gli occhi e subito vedendo la propria pelle chiara avvampare di imbarazzo per quell’affermazione, quel riferimento al dono che solo qualche mese prima aveva voluto riconoscergli una loro comune amica, nella speranza che, l’analfabetismo che entrambi avevano, in diversa misura, iniziato a combattere in grazia a un altro volume, a un altro testo già da qualche anno in loro possesso, potesse subire per mezzo di ciò una violenta sconfitta, sollevandoli in ciò dall’abisso di ignoranza nel quale, per tutta la vita, si erano entrambi crogiolati « Eravamo d’accordo di non parlare di certe cose quando siamo in dolce compagnia! »
Una dolce compagnia, quella a cui, in tal modo, aveva voluto accennare Be’Wahr, di nome shar’tiagho soltanto in conseguenza all’amicizia che aveva unito i suoi genitori a quelli di quel suo a volte insopportabile fratello; nella definizione della quale avrebbero dovuto essere incluse quattro affidabili professioniste di Kriarya, una delle capitali del regno di Kriarya, per fama conosciuta dai più con la poco gratificante definizione di città del peccato.
Non fanciulle di nobili origini, virginali promesse dai tempi dell’infanzia, quanto prostitute, erano coloro oggetto di tanta premura da parte del biondo; prostitute quali quelle che, praticamente da sempre, tanto lui, quanto il suo compagno, erano soliti frequentare, e alle quali erano, di conseguenza, soliti destinare la maggior parte dei propri compensi qual mercenari; nella più totale indifferenza di quell’ipocrisia mediocre dietro la quale non pochi avrebbero condannato un simile comportamento, allo stesso modo, del resto, in cui sarebbero parimenti stati pronti a condannare anche la loro stessa professione da guerrieri e avventurieri al soldo del miglior offerente. Fortunatamente, però, in Kriarya, la cui popolazione era prevalentemente costituita da mercenari e assassini, ladri e prostitute, certe ipocrisie risultavano essere del tutto assenti, addirittura immotivate, benché, con eccessiva sollecitudine, sovente sostituite da altre, di diversa natura. Quali, prime fra tutte, quelle a difesa dell’ignoranza e dell’analfabetismo, in una misura utile a tutelare la condizione propria della maggior parte della popolazione mondiale e, in particolare, entro quelle alte mura erette su una base geometrica dodecagonale, di una popolazione che troppo facilmente avrebbe potuto aprire la gola di chiunque, in conseguenza a ciò, si fosse divertito a offrire qualsivoglia beffa.
Motivo per il quale, paradossalmente, per canzonare un guerriero qual pur Be’Wahr desiderava essere legittimamente riconosciuto essere, fosse anche per tutte le battaglie che aveva affrontato e vinto nel corso della propria vita e, ancor più, di quegli ultimi anni; non sarebbe stato necessario puntare l’attenzione sulla sua condizione di basilare ignoranza, quanto e piuttosto sul suo tentativo volto al riscatto da simile profondo e oscuro baratro. Tentativo che, in verità, stava vedendo non di meno coinvolto anche lo stesso Howe, ma per il quale il suo troppo ingenuo compare non l’avrebbe mai beffeggiato.
In quel particolare momento, tuttavia e incredibilmente, o per lo meno tale dal punto di vista dello shar’tiagho, la beffa gli si ritolse contro, nel trovare le quattro professioniste straordinariamente attratte dalla questione, in misura sufficiente a vederlo improvvisamente abbandonato dalle due che lo stavano abbracciando, dalla sua parte del comune tavolo, per reindirizzare il proprio interesse e la propria curiosità in direzione del biondo…
« Il tuo amico dice la verità?! Possiedi realmente un libro? » questionò una delle due ragazze solo un istante prima avviluppate attorno al petto seminudo di Howe, e lì intenta a stuzzicargli il lobo dell’orecchio sinistro con le proprie carnose labbra, del tutto indifferente alla protesi metallica, e inanimata, contro la quale il suo corpo non avrebbe potuto evitare di essere così premuto, presente in sostituzione all’originale braccio mancino recentemente e dolorosamente perduto, nell’essere abituata, nella propria professione, a confrontarsi con mutilazioni esteticamente ben meno gradevoli rispetto a quell’altresì persino elegante braccio dorato.
« Ehy… » protestò lo shar’tiagho, temendo di aver commesso un madornale errore di valutazione e, ciò nonostante, non apprezzando l’eventualità di essere posto da parte, cercando di allungare la propria destra, l’unica estremità superiore in carne e ossa sulla quale gli fosse rimasta opportunità di controllo, per richiamare a sé una delle due, ritrovandosi a essere, tuttavia, posto a tacere con un leggero schiaffo sulle dita, delicato avvertimento destinato a suggerirgli di restare per un momento tranquillo, laddove l’interesse delle proprie accompagnatrici era stato distratto da quell’inattesa rivelazione.
« Beh… sì. » annuì Be’Wahr, sorpreso da quella svolta inattesa… inattesa tanto da lui quanto e ancor più dal suo compare, il quale, senza volerlo, gli aveva offerto la possibilità di concentrare a sé l’attenzione di quelle quattro splendide e seminude donne, con sguardi improvvisamente carichi di un interesse decisamente più acceso, più vivo di quanto non avrebbe gli fosse mai stato rivolto « In effetti ne possiedo due… » soggiunse, bramoso di non rinunciare a quel fugace momento di gloria, e, anzi, desideroso di vederlo incrementarsi oltremisura, a proprio giovamento.
« Mmm… » mugolò un’altra prostituta, quella stretta alla propria destra, a quelle parole premendosi maggiormente a lui e, soprattutto, facendo attenzione affinché i propri generosi e sodi seni avvolti in sin troppo leggera, e trasparente, seta, fossero premuti contro di lui, contro quel suo muscoloso torace, avviluppato da inevitabilmente sporchi bendaggi, lì preposti non tanto a protezione di una qualche ferita, quanto a celare allo sguardo del mondo una serie di tatuaggi da lui desiderati in gioventù, e che, tuttavia, non era ancora desideroso di mostrare al mondo, rendendo la propria figura troppo facilmente identificabile ai più « Non hai idea di quanto sia eccitante sapere che dietro a un corpo così magnificamente scolpito si celi anche una mente edotta… » esplicitò, con voce sapientemente modulata in misura da apparire leggermente roca, e trasparente di un vivo desiderio sessuale verso di lui.
E se già la mente del povero Be’Wahr aveva perduto ogni possibilità di cognizione in conseguenza a quella situazione dal suo punto di vista comprensibilmente idilliaca; in suo soccorso, in sua utile difesa intervenne allora non tanto la voce del fratello di vita, altresì intento a rodersi metaforicamente il fegato per la rabbia di quello sviluppo imprevisto e tale da vanificare ogni suo sforzo a discredito del compare; quanto quella di una quinta donna: una figura femminile che, sebbene contraddistinta da un’età proprio malgrado nettamente superiore, se non addirittura doppia, rispetto a quella di ogni prostituta presente all’interno della sala principale di quella locanda; e facente propria una professione sì mercenaria, seppur in un settore completamente estraneo a quello della sessualità; poco o nulla avrebbe potuto invidiare a quelle dispensatrici professioniste di piacere…
« Ritengo utile sottolineare, a titolo generico, che quei volumi hanno da considerarsi un mio dono. » proclamò Midda Bontor, accostandosi con serena indifferenza al tavolo dei propri colleghi e compagni d’arme, quasi come se stesse di lì passando per puro caso, nel girovagare entro i confini di quell’edificio che, per metà, avrebbe dovuto essere ricordato qual di sua proprietà « Giusto per amor di dettaglio… e a prevenire spiacevoli e dannosi fraintendimenti. » soggiunse, strizzando con fare complice il proprio occhio sinistro verso le quattro prostitute, certa che non avrebbero frainteso il significato del proprio avvertimento.
sabato 26 gennaio 2013
1833
Avventura
037 - Eufonia
« Io… conobbi?! » esclamò la prima, non riuscendo a comprendere a cosa potesse star offrendo riferimento con quelle parole, che nella propria assurdità la colpirono molto più di qualunque altro riferimento a oscuri poteri arcani, e, tuttavia, nel profondo del proprio spirito, vennero comprese quali lontane dal poter essere una menzogna… e non soltanto perché a lei proposto da quella particolare figura.
“Sì. Tu conoscesti.” ripeté e confermo l’altra, animata dalla propria consueta e apparentemente inamovibile quiete “Perché, così come per due volte hai valicato i confini del tempo e dello spazio in grazia agli scettri del faraone, proiettando la tua coscienza nel futuro e cogliendo fugaci visioni di ciò che potrebbe essere, di uno dei molteplici futuri che, dalle tue azioni, dalle tue scelte potrebbero derivare; tali non sono stati gli unici viaggi che hai compiuto, le uniche vite alternative che hai vissuto.”
Troppe parole insieme. Troppi significati insieme, di valore ben superiore a quello dei significanti scelti.
E benché la Vedova di Desmair, in quel momento, stesse vivendo un momento di particolare apertura mentale, in conseguenza a quella particolare epifania, difficile sarebbe stato per lei valutare a quale fra le innumerevoli questioni suggerite offrire priorità, riconoscere maggior peso. Perché se da un lato, una parte di lei avrebbe gradito approfondire l’accenno all’impredicibilità del futuro, argomento che da sempre le era stato a cuore e che, in conseguenza all’arrivo di quei dannati scettri nella propria vita sembrava essere stato posto in serio dubbio; da un altro fronte non avrebbe potuto permettersi di trascurare la richiesta di un approfondimento nel merito dei presunti viaggi che avrebbe compiuto attraverso lo spazio e il tempo, in quella che non avrebbe esitato a riconoscere qual una follia se solo, in quegli ultimi anni, non avesse vissuto, conservandone memoria, situazioni estremamente analoghe, ultima ma non meno importante quella che l’aveva veduta riunirsi, sino a pochi istanti prima, con altre sei se stessa.
Così, fra tutte le domande che avrebbe potuto esprimere a contorno di quell’asserzione, ciò che ella si riservò di definire fu una questione decisamente meno profonda, meno filosofica, e pur più pratica nel merito di quanto fosse accaduto e soprattutto del perché…
« … non rammento nulla di tutto ciò?! » questionò, aggrottando la fronte con espressione sinceramente turbata, non tanto dall’idea di aver vissuto tali esperienze, quanto e piuttosto di non conservarne alcuna memoria, a dispetto di quanto, una simile avventura, avrebbe sicuramente richiesto da parte sua « Quando è successo? Come è successo?! »
“Due volte. La seconda per mezzo della stessa Oscura Mietitrice, decisa a servirsi di te per recuperare qualcosa che Anmel desiderava possedere e che, scioccamente, non aveva previsto le sarebbe stato negato proprio a causa tua.”
« Gli scettri…?! » ipotizzò ella, interrompendo fugacemente tale replica per cercare conferma a quella repentina illuminazione attorno a tal definizione.
”Esattamente.” confermò la fenice, subito proseguendo ”La prima per tua stessa scelta, per tua sola colpa, benché anche in quel frangente la nostra comune antagonista non abbia allor mancato di intromettersi nella questione, rendendo possibile il mio intervento.”
« … rendendo possibile il tuo intervento?! » ripeté Midda, perdendosi nel mentre di quelle spiegazioni come solo poche volte, nella propria vita, era accaduto, ritornata improvvisamente a essere la vivace bambina di un tempo, intollerante a quello che considerava troppo cianciare da parte di sua nonna Namile, benché, a posteriori, non avesse mai mancato di ringraziarla in cuor suo per tutto il tempo dedicato all’istruzione sua e della sua gemella, in assenza della quale sarebbe stata soltanto l’ennesima ignorante in un mondo dominato dall’analfabetismo ma controllato da coloro che, altresì, avevano avuto l’occasione di un’educazione.
“Temo che troppe nozioni insieme possano generare qual effetto finale quello dell’assenza della trasmissione di qualunque informazione.” commentò l’altra, senza in ciò, comunque, lasciar trasparire la benché minima ragione di scoramento “Comunque sia, è necessario che tu comprenda come fra l’Oscura Mietitrice e me il contrasto è antico ancor più del Creato stesso. E sebbene nemiche da sempre, la nostra esistenza è del tutto complementare: io esisto in quanto ella esiste; ed ella esiste in quanto io esisto. Nessuna di noi potrebbe esistere in assenza dell’altra e nulla, in questo e in altri universi, potrebbe esistere in nostra assenza.”
« Tu… tu sei la Portatrice di Luce? » esitò la Figlia di Marr’Mahew, iniziando a comprendere o, quantomeno, sperando di star iniziando a comprendere.
“E’ uno dei numerosi nomi con la quale sono stata indicata, così come questa è una delle numerose forme con le quali sono conosciuta.“ annuì la fenice, con una semplicità a dir poco sconvolgente, quasi ciò di cui stesse parlando “Puoi considerare l’Oscura Mietitrice e me quali due principi fondamentali dell’esistenza stessa, o, per meglio dire, due aspetti contrapposti di un solo, unico, principio fondamentale.”
« Vita… e morte. » suggerì, in un filo di voce, nell’iniziare a intuire, soltanto tardivamente, quanto avesse sottovalutato sia la fenice, sia Anmel, non semplicemente due possibili avversarie dotate di un incredibile potenziale distruttivo, ma qualcosa di superiore e, forse, addirittura trascendente il concetto di divinità.
“Qualcosa di simile…” confermò nuovamente la Portatrice di Luce, senza, in ciò, offrire tuttavia una conferma assoluta, e alimentando, di conseguenza, il dubbio che la realtà sarebbe dovuta essere riconosciuta qual ancor più complessa, ancor più imponente, ragione per la quale sarebbe stato meglio, per la donna mortale lì presente, evitare di sospingersi eccessivamente in un tentativo di comprensione che avrebbe potuto costarle il senno “Ti basti ora sapere che entrambe, in conseguenza alla nostra stessa condizione, non abbiamo la possibilità di interagire in maniera diretta con la realtà… con alcuna realtà, motivo per il quale l’Oscura Mietitrice ha dovuto attendere l’occasione offertale da un’ambiziosa monarca per tentare di espandere, ancora una volta, la propria influenza sul mondo intero. E non solo…”
« Anmel! » esclamò Midda, per poi arrestare repentinamente il proprio stesso respiro, e con esso, quasi, il battito del proprio cuore, nel comprendere quanto Anmel non fosse stata l’unica ambiziosa attrice coinvolta in quello strano giuoco delle parti, laddove, proprio malgrado, altre donne, dopo di lei, avevano contribuito a restituire all’Oscura Mietitrice la possibilità di espandere la propria ombra sull’umanità intera… e non solo, come puntualizzato dalla fenice « E io che, guidata dall’ambizione, ho recuperato la corona perduta. E Lavero che, spinta dall’ambizione, l’ha pretesa qual propria. E Nissa che, ispirata dall’ambizione, l’ha indossata, facendone proprio l’osceno retaggio. »
“E anche colei che si faceva chiamare Carsa Anloch.” puntualizzò l’altra, senza rimprovero, senza critica nel proprio incedere, ma a semplice completamento dell’elenco da lei suggerito “Sì… tutte voi, in una misura o nell’altra, avete contribuito all’ascesa della mia complementare, benché alcuna di voi, a parte Anmel, avrebbe potuto, né potrebbe, considerarsi un’ospite perfetta per l’Oscura Mietitrice.” soggiunse, in quella che, forse fraintendendola, la Campionessa di Kriarya volle considerare pari a una possibilità di redenzione innanzi al giudizio degli dei per tutte loro “In un futuro che tu hai vissuto e di cui non conservi chiara memoria, laddove la tua mente potrebbe spezzarsi peggio di quella della tua amica Ah’Reshia se solo non ti fosse stata negata simile consapevolezza, se solo non ti fosse stato sottratto il peso di due intere vite vissute in tempi e luoghi diversi da quello che per te è considerato familiare; era stata proprio Carsa ad accogliere, in sé, il retaggio di Anmel e dell’Oscura Mietitrice. Ma, in tal gesto, ella era stata ispirata dall’amore che provava per te… che prova per te: un sentimento che non avrebbe mai potuto permettere, pertanto, alla mia controparte di trionfare. Così come, effettivamente, non è accaduto.”
Lungo, in conseguenza a quelle parole, fu il tempo che la Figlia di Marr’Mahew volle riservare alla riflessione, non tanto e solamente su quegli ultimi accenni, sulle ultime questioni così proposte, quanto e ancor più sull’intera faccenda, sulle dinamiche conflittuali esistenti fra la Portatrice di Luce e l’Oscura Mietitrice, sino a quel momento ritenuti due appellativi attribuiti storicamente alla leggendaria regina Anmel e solo allora scoperti, invece, qual indicativi di due entità ben distinte e fra loro interagenti soltanto in maniera indiretta, così come, almeno dalle parole della fenice, sembrava essere trapelato.
In tale folle giuoco, tuttavia, pur avendo ben compreso il ruolo occupato da Anmel e, in conseguenza, da sua sorella Nissa quali ospiti della forza malevola definita qual Oscura Mietitrice; Midda non aveva ancora ben compreso qual altro ruolo avrebbe dovuto occupare ella stessa, ove, sicuramente, non avrebbe dovuto essere considerato quello di ospite per la Portatrice di Luce, dal momento in cui, se così fosse dovuto essere, sarebbe sicuramente già stato da tempo, risparmiandole, per inciso, l’inimicizia della Progenie…
« Sono confusa. » ammise pertanto, riprendendo alfine voce « In tutto questo io quale posizione dovrei occupare? Hai accennato alla necessità di una mia collaborazione… di un mio sacrificio, addirittura, per riportare a nanna la tua vecchia amica. Ma come potrei mai io oppormi a qualcosa del genere? Come potrei mai io essere in grado di contrastare l’oscena alleanza di Nissa, Anmel e dell’Oscura Mietitrice, laddove a stento, in questi anni, sono riuscita a sopravvivere alle insidie soltanto della prima?! » spiegò, non negando la propria evidente inferiorità alla sorella, per quanto ciò fosse estremamente sgradevole da dichiarare e dichiarare apertamente così come stava compiendo allora « Senza nulla voler togliere alla tua capacità di giudizio… credo che tu mi stia valutando decisamente meglio di quanto io non sia in realtà. » definì, storcendo le labbra verso il basso « Per quanto mi sia spinta sempre al di là di quelli che i più considerano quali propri limiti, non mi illudo di essere un’eroina mitologica… sono solo una donna mortale. Estremamente donna ed estremamente mortale. »
“Tu sei questo… e sei molto di più di questo, bambina mia.” la corresse la Portatrice di Luce, scuotendo lentamente e armoniosamente il proprio capo dalle fattezze di uccello di fuoco “E anche la nostra avversaria ne è consapevole, per quanto, a oggi, le emozioni della sua ospite non le abbiano ancora permesso di agire così come avrebbe potuto fare per distruggerti.” esplicitò, in quello che, pur volendo apparire qual un commento rassicurante, sembrò riservarsi l’occasione opposta “E per quanto io non abbia la possibilità di intervenire direttamente in questo conflitto, così come forse potresti credere sarebbe meglio per tutti noi; sappi che, ogni qual volta l’Oscura Mietitrice ha cercato di allontanarti da questa realtà, da questo spazio e da questo tempo, per impedirti di combatterla, tu non sei mai stata sola contro di lei.”
« Senza offesa, ma, se il tuo voleva essere un tentativo di incoraggiamento, avresti dovuto cercare di impegnarti un po’ di più. » ironizzò Midda Bontor, con un sorriso tirato, ancor lontana dal potersi considerare realmente convinta, e pur cosciente di non potersi sottrarre da tale guerra, fosse anche e soltanto perché, inconsapevolmente, aveva contribuito a darle inizio « Per il resto… da che parte iniziamo?! »
venerdì 25 gennaio 2013
1832
Avventura
037 - Eufonia
« D’accordo. Ho detto un’idiozia. » ammise, sollevando nuovamente la propria spada bastarda solo per riporla, con delicatezza, all’interno del proprio fodero, con un gesto meno controllato di quello che avrebbe potuto gradire compiere, in conseguenza alle spiacevoli condizioni del proprio braccio mancino, destinato soltanto a peggiorare di istante in istante, di ora in ora, fino a quando, per lo meno, non fosse tornata in città e non avesse trovato un bravo cerusico che potesse rattopparla in maniera adeguata « Una nuova idiozia. Speriamo l’ultima. » soggiunse, sospirando.
“Dopo tutto quello che hai vissuto, è comprensibile che tu sia stanca.” osservò la fenice, con un tono per il quale Midda avrebbe potuto dirsi certa che stesse sorridendo “Non temere, pertanto: da parte mia non sussiste alcuna brama d’accusa a tuo discapito; alcun desiderio di rimprovero a tuo sfavore.”
E quasi a dimostrazione di quanto quelle parole non celassero alcuna menzogna, non che la Figlia di Marr’Mahew avrebbe potuto prendere in esame una tale eventualità in associazione a quella particolare figura, a quella straordinaria creatura; essa… ella si mosse con grazia incommensurabile, con leggerezza straordinaria, scivolando lungo il bordo del vulcano artefatto, straordinario monumento concepito per lei forse qual rifugio, forse qual ara, sino a raggiungerla e, ancora una volta, come già in passato, abbracciarla, avvolgendola nel calore delle proprie fiamme.
Fiamme non di morte, così come la donna guerriero non avrebbe potuto che ricordare perfettamente, nel volgere la propria memoria a uno dei rari momenti di assoluta pace nella propria complessa e combattuta esistenza; quanto e piuttosto fiamme di vita, di vita e di rigenerazione, di rinascita, nella benedizione delle quali ogni affanno sarebbe stato dimenticato, ogni dolore sarebbe stato obliato, ogni ferita sarebbe stata curata. Un dono, quello che la fenice le volle così concedere per la seconda volta, del quale mai come allora non avrebbe potuto evitare di avvertire qual immeritato da parte propria, lei che sino a quel tempio sotterraneo si era sospinta, sino a un istante prima, sol animata dalle peggiori intenzioni. Un dono, tuttavia, che non le venne negato e che, inevitabilmente, fu da lei non soltanto apprezzato, ma addirittura adorato, idolatrato, in una misura che, ne era al contempo certa e imbarazzata, tutti gli uomini e le donne che si proclamavano Progenie della Fenice non avrebbero mai potuto realmente rendere propria. Perché se solo essi avessero avuto occasione di godere di quanto ella stava lì allora godendo, non avrebbero mai potuto fallire, non avrebbero mai potuto perdere, né contro di lei, né contro alcun altro avversario, umano o divino che esso fosse, dal momento in cui per alcuna ragione al mondo, neppure la morte, si sarebbero negati la possibilità di tornare a beneficiare di tutto quello, di quell’abbraccio nella dolcezza del quale l’intero Creato avrebbe smarrito qualunque significato.
Più di qualunque lussuriosa passione, più di qualunque afrodisiaco nettare, più di qualunque eccitante droga, tanto era inebriante, sconvolgente e assuefante il contatto con la fenice, in una misura tale per cui, nel momento in cui esso fosse venuto meno, troppo semplice sarebbe stato il rischio di una crisi isterica, di un subitaneo moto di depressione, qual sola e ineluttabile risposta all’astinenza che, in ciò, sarebbe stata imposta. E neppure per la Campionessa di Kriarya ciò avvenne in maniera indolore, per quanto, come già in passato, mirabile effetto collaterale di quell’unione avrebbe dovuto essere riconosciuta una miracolosa rigenerazione di tutto il suo corpo, non soltanto limitatamente alle ultime ferite subite, ma anche, e ancor più, a qualunque senso di stanchezza, di frustrazione e di impotenza qual, malgrado le sconvolgenti imprese da lei compiute, da ormai troppo tempo gravavano sul suo cuore e sul suo animo, oltre che sul suo corpo e sulla sua mente, effetto di quel vortice negativo di eventi che, sin dal proprio ritorno dal lungo viaggio in Shar’Tiagh insieme all’amato Be’Sihl, l’avevano vista quasi sempre protagonista e, in una misura indubbiamente sgradevole seppur relativamente minore, talvolta vittima.
Simile a un divino colpo di spugna, quindi, si era nuovamente dimostrato quell’abbraccio, quel gesto apparentemente semplice e del quale, comunque, non esisteva alcuna testimonianza, non limitatamente, quanto meno, alla conoscenza di Midda dei miti e delle leggende, per lei pur irrinunciabilmente necessari nell’esercizio della propria professione, laddove, nella maggior parte delle proprie avventure, solo in grazia al vasto bagaglio di conoscenze sulla mitologia e sulle meno comuni credenze, ella aveva avuto occasione di salvezza. In grazia a esse, e alla propria mente che in tal senso aveva rivolto riferimento, ancor prima che ai propri muscoli, ove se così non fosse stato qualunque spacca crani avrebbe potuto raggiungere la gloria che soltanto lei era altresì riuscita a conquistare.
“Spero che ora tu possa sentirti più tranquilla…” definì, ritraendosi da lei e, in ciò, allontanandosi di sei piedi dal suo corpo, pur, nella propria accecante luminescenza, riscaldandone ancora le carni con la propria imparagonabile energia.
« Più… tranquilla?! » ripeté l’altra, sgranando gli occhi con aria attonita, quasi le fosse stato comunicato di come la terra avesse preso il posto del cielo, e il cielo quello del mare « Dei… se fossi più tranquilla di così, sarei morta. » sorrise, sincera in quell’espressione forse sin troppo colorita nel rapporto con una creatura qual la propria particolare interlocutrice in quel momento « Morta e cremata, per la precisione. » specificò, laddove troppe volte si era venuta a scontrare con dei morti che, malgrado tutto, non erano poi così morti come avrebbero dovuto essere.
Improvvisamente guarita da ogni ferita, improvvisamente sanata da ogni stanchezza, debolezza o ansia, la Midda Bontor già chiamatasi Monca, visse allora due reazioni emotive, in rapida successione: un momento di incontenibile ilarità, nel quale esplose a ridere e a ridere di gusto, per la sensazione della quale stava nuovamente godendo, di quella serenità che, da troppo tempo, non era in grado di avvertire più qual propria; e, subito dopo, un momento di probabilmente inevitabile eccitazione, fisica e mentale, emotiva e spirituale, per la quale, allora, avrebbe voluto essere con il suo adorato locandiere ma, anche, avrebbe voluto essere nuovamente a cospetto della propria duplice avversaria, Nissa Bontor e Anmel Mal Toise, certa che, in entrambe le condizioni, avrebbe avuto ragione di indicibile divertimento.
E fu proprio quel pensiero fugacemente rivolto a colei che, sotto ogni profilo, avrebbe dovuto essere considerata la propria nemesi, che la costrinse a ritornare seria e concentrata sul presente, e sulla fenice innanzi a lei, laddove, se dalla medesima non avrebbe potuto pretendere vendetta, ingiusta e immotivata, quantomeno avrebbe potuto richiedere una qualche spiegazione…
« Credo che sia giunto il tempo che tu mi spieghi qualcosa, vecchia mia… » riprese pertanto voce, a lei… o essa, rivolgendosi con la stessa familiarità ricevuta. « Cosa sta accadendo? Al centro di quale guerra sono, inconsapevolmente, precipitata?! »
“Dici bene.” annuì l’altra, piegando appena il capo in avanti, nel mentre in cui continuò a fissarla con i propri immensi occhi neri, allora più che mai dominanti su di lei a una distanza tanto ravvicinata “E’ giunto il tempo che io ti spieghi tutto. Perché, al di là del proprio immotivato fanatismo, coloro che si definiscono mia Progenie hanno ragione su una questione: il ritorno di colei che chiami Anmel Mal Toise, l’Oscura Mietitrice, potrebbe segnare la fine di tutto.”
« E’ già la seconda volta che ti appelli ad Anmel definendola come “colei che io chiamo”… perché questa precisazione? Perché questa necessità di puntualizzazione? » domandò la Figlia di Marr’Mahew, tornata a essere così lucida, così padrona di sé da non potersi concedere opportunità di indifferenza attorno a quella particolare definizione, per così come scandita « Non è forse ella la defunta regina Anmel? Colei che le leggende ricordano come la Portatrice di Luce e come l’Oscura Mietitrice? »
“Sì… e no.” confermò e negò, ancora una volta, la fenice, ribadendo in ciò quanto superficiale avesse da considerarsi la consapevolezza della sua interlocutrice su quanto stava accadendo attorno a lei, tale da concederle soltanto mezze verità, mezze verità in conseguenza alle quali una probabile vittoria avrebbe potuto trasformarsi in una sicura sconfitta “Perché a dominare la tua sorella gemella Nissa, non è soltanto l’ombra di colei che tu conoscesti con il nome di Amie, figlia dell’ultimo dei faraoni di Shar’Tiagh, ma anche un potere più arcano, un principio più antico, che in lei ebbe occasione di crescere rigoglioso, nutrendosi della brama di dominio, e di dominio assoluto, che la spinse, ancora fanciulla, a ordire la morte del suo stesso padre, che pur lei aveva sempre e oltre luogo amato pur consapevole di come ella sarebbe stata la fine del regno del popolo eletto per così come era stato decine di secoli.”
giovedì 24 gennaio 2013
1831
Avventura
037 - Eufonia
Privo d'ogni vago compiacimento,
e, con esso, di altro sentimento
al di fuori d’ovvio turbamento,
un'occasione di ravvedimento
il pavido Lohn cercò con tormento
temendo rapido decadimento.
Ma allorché muto ravvedimento,
lì insistette con affannamento
a dichiarare il proprio lamento,
per ottenere qualche giovamento,
a colpa imponendo mutamento
a sé obliando riferimento.
« Credi, parlo senza ingannamento,
nel considerar fraintendimento,
in te, signora dello scoramento!
Perché non mio è l'accanimento
a tuo presunto dispiacimento,
non pocanzi, non in questo momento! »
Nondimeno, alcun convincimento
poté far proprio quello sciocco vento,
del tutto privo di discernimento.
E del pavido Lohn, non un portento,
non un genio, eppur sempre contento,
non restò neppur un solo frammento!
... buona notte, povero, pavido Lohn!
Pavido, il protagonista di quella filastrocca, avrebbe dovuto essere riconosciuto a dispetto dell’apparente, e sicuramente folle, coraggio nel rapportarsi a viso aperto con l’incarnazione dell’ultimo, ineluttabile traguardo d’ogni mortale; proprio in conseguenza al suo stolido tentativo di salvaguardare la propria integrità, la propria salute, il proprio futuro, a qualunque costo, fosse anche quello di spingersi a ricusare apertamente le proprie responsabilità, la propria parte di colpa, sino a considerarsi addirittura una vittima innocente.
Un comportamento vile, con se stessi ancor prima che con gli dei tutti, del quale, proprio malgrado, anche la Figlia di Marr’Mahew si era macchiata nel momento stesso in cui si era lasciata convincere dall’evidenza delle proprie visioni a considerare qual sol responsabile, sol colpevole per ogni propria disgrazia non tanto colei il cui volto avrebbe potuto cogliere riflesso in qualunque superficie metallica. E del quale, ancora, si stava dimostrando straordinariamente convinta in termini addirittura imbarazzanti, nell’insistere ad accusare la fenice per quanto, palesemente, era stata ella a compiere, senza alcuna possibile costrizione esterna, neppur da parte di una creatura tanto potente qual, certamente, essa era. Perché la corona perduta della regina Anmel era stata da lei recuperata nel mentre di una missione come molte altre ella aveva affrontato in passato e molte altre ancora avrebbe avuto piacere di affrontare in futuro, a soddisfare la propria inesauribile brama di avventura, di sfida, di pericolo, a livelli sempre più alti.
Così, a meno di non voler rinunciare a ogni pudore intellettuale, e con esso a qualunque barlume di amor proprio, quell’oscena imitazione del povero, pavido Lohn avrebbe dovuto interrompersi al più presto. E, per quanto spiacevole a pensarsi, doverose scuse avrebbero dovuto essere concesse a chi, pur, non le aveva ancora offerto trasparenza di desiderar imporre la benché minima rimostranza…
« D’accordo… d’accordo… » sospirò, mantenendo la punta della propria spada, stretta nella mancina, rivolta verso il suolo e sollevando appena la destra innanzi a sé, a palesare la propria resa « Qualunque cosa stia accadendo, ho indubbiamente iniziato questa cosa con il piede sbagliato. E, per questo, domando il tuo perdono. » proclamò, sincera, e, nel profondo del suo cuore, lieta di essere rinsavita, sotto una simile prospettiva, sotto un tale punto di vista.
“Per quanto le tue parole siano gradevoli e gradite, ti assicuro che non è mio interesse pretendere od ottenere da te una qualche richiesta di scuse.” negò la fenice “Ciò di cui ho bisogno è della tua collaborazione, del tuo impegno, del tuo sacrificio, ove necessario, per rimediare all’errore compiuto pur in buona fede nel restituire a colei che chiami Anmel la possibilità di nuocere all’umanità intera. Oggi come in passato.”
« Ed è per questo che mi hai scatenato contro quei fanatici…?! » esitò la Campionessa di Kriarya, non comprendendo come tali parole potessero collidere con l’evidenza del comportamento adottato dalla sua interlocutrice negli ultimi mesi, nell’averla trasparentemente marchiata qual avversaria ancor più che qual possibile alleata.
“Ti prego di non offendere la tua stessa intelligenza ancora una volta, bambina mia…” le suggerì la creatura di fuoco, senza rimproverò, senza aggressività, ma semplicemente qual amorevole consiglio, lo stesso che una madre avrebbe potuto rivolgere alla propria figliuola innanzi a un comportamento errato della medesima “Credi veramente che potrei mai recarti offesa?”
Una domanda tutt’altro che retorica, quella in tal modo formulata, laddove, addirittura, la stessa mercenaria sua interlocutrice l’avrebbe scandita in termini leggermente diversi e tali da richiedere se, veramente, si avrebbe potuto credere nella necessità di coinvolgere quegli stessi fanatici nella questione, laddove vi fosse stata volontà di eliminarla. Tuttavia, tenendo fede alla propria immagine, alla propria straordinaria figura, la fenice non suggerì alcuna possibile minaccia, né diretta né indiretta, né esplicita né implicita, preferendo, invero, focalizzare il nocciolo della questione su un aspetto assolutamente antitetico, qual la stessa possibilità di recare in qualunque modo offesa, con o senza uno stuolo di esaltati a operare in proprio nome.
Una domanda tutt’altro che retorica, e che, ciò nonostante, per così come allora formulata, non avrebbe potuto evitare di includere nella propria stessa definizione anche la risposta che ne sarebbe allora dovuta conseguire, nella negazione più completa di una simile ipotesi, di una tale eventualità, riconosciuta, allora, del tutto estranea alla stessa e intrinseca natura della fenice, incarnazione del concetto stesso di vita e di salvezza, e non di morte o di perdizione. E benché la stessa Midda Bontor lì rimasta a confrontarsi con tale creatura, qualche anno prima l’avesse veduta distruggere senza esitazione alcuna il folle che aveva cercato di conquistarla, di soggiogarla, di asservirla; impossibile sarebbe stato fraintendere, pur malevolmente, la natura di quegli eventi, volti a preservare, in quella sola morte, la salvezza di troppi pargoli innocenti e, soprattutto, non reale conseguenza di un’azione della fenice, quanto, e piuttosto, dell’assenza di una qualunque azione della medesima, all’epoca lasciatasi uccidere e, successivamente, divorare da quel folle antagonista, nei termini che questi aveva desiderato, aveva preteso e che, alla fine, lo avevano condannato.
Soltanto una risposta, pertanto, avrebbe potuto scaturire allora dalla gola dell’avventuriera più famosa di quell’angolo di mondo, qual giusta replica non tanto alla fenice quanto, e piuttosto, alle proprie stesse accuse a suo discapito…
mercoledì 23 gennaio 2013
1830
Avventura
037 - Eufonia
« Ma… cosa…?! »
Sette Midda Bontor erano state sino a un istante prima di superare la soglia della sala del vulcano, quello straordinario altare eretto per celebrare il mito della fenice, per rendere grazie alla sua esistenza, per onorare la sua divinità. Una sola fu colei che si ritrovò oltre quel varco, quell’apertura, privata delle proprie compagne con maggior semplicità, con maggior banalità, di quanto non avrebbe potuto esserlo nel venire separata da un sogno al momento del risveglio mattutino.
Tuttavia il suo non era stato un sogno; non era stata un’illusione; non era stato un miraggio. Quanto era accaduto era accaduto realmente, così come avrebbero potuto ben testimoniare le sue ferite ancora sanguinanti e a stento fasciate, primitivamente medicate. Quanto era occorso era accaduto realmente… sebbene secondo alcuna logica, secondo alcun raziocinio, secondo alcuna ragione, quanto era avvenuto avrebbe dovuto essere riconosciuto qual veramente avverabile, violando ampiamente addirittura i confini abitualmente caratteristici dei sogni, propri delle più sfrenate fantasie. In termini che, beninteso, mai avrebbe potuto riconoscerla coinvolta, ove mai era stato suo interesse, sua brama, quella di ritrovarsi a confronto con altre sei versioni di se stessa, neppur immaginando, oggettivamente, che potessero esistere.
E se quell’improvvisa e repentina scomparsa, qual già la straordinaria e imprevista comparsa, non avrebbe potuto essere in alcun modo da lei giustificata; in suo soccorso, in suo aiuto, venne allora l’ultima fra tutte le figure che mai si sarebbe potuta attendere le avrebbe offerto spontaneamente una qualche spiegazione, benché, di base, ella lì si era spinta animata dalla speranza di riceverne molte. Perché fu proprio allora che la voce della fenice, se tale avesse potuto essere definita, tornò a risuonare nel profondo della sua mente e, forse, della sua stessa anima, accarezzandola in maniera così intima da dover essere condannata quale un’esperienza disturbante, se solo non fosse stata tanto piacevole, se solo non fosse stata sì gradevole al punto tale da domandarsi in qual modo le fosse stato possibile sopravvivere sino a quel giorno senza di lei…
“Non preoccuparti per la sorte delle altre… ognuna è tornata alla propria realtà, alla dimensione dalla quale l’avevo sottratta.”
Parole prive di suono, e che pur risuonarono allora qual straordinariamente quiete, serene, e capaci di acquietare, rasserenare qualunque cuore, fosse anche il più tormentato, il più combattuto, qual, sicuramente, in quel momento era quello della Figlia di Marr’Mahew, della Campionessa di Kriarya, la quale non avrebbe potuto che definirsi estremamente lieta, gaudente addirittura, all’idea di esser ritornata a confronto con quella cara, vecchia amica, e pur, al contempo, non avrebbe potuto evitare di essere sconvolta dalla rabbia, dall’ira, nell’impossibilità a comprendere per quale assurda ragione ella… essa… si fosse dedicata a giuocare con il suo destino, così come le era stato rivelato essere avvenuto.
« L’avevi… sottratta?! » ripeté la donna, cercando di non lasciarsi eccessivamente sorprendere da quella diversa forma di comunicazione, già sperimentata, già nota, e pur sempre straordinaria, qual straordinaria era la creatura che, ancora in lontananza, le si stagliava innanzi « Quindi è vero. E’ tutto vero quanto mi è stato mostrato dagli scettri. Mi stai trattando come una pedina del chaturaji! … ci stai trattando… tutte noi! » accusò e puntualizzò, nell’estendere l’argomento anche alle proprie ormai non più presenti sei compagne, avvertendo già, nel profondo del proprio intimo, un certo disagio per quel distacco, una certa nostalgia per la loro presenza negatale.
“Mentirei se ti rispondessi di no. Eppure mentirei persino se ti rispondessi di sì.” replicò la fenice, osservandola dall’alto della propria posizione con i propri grandi e profondi occhi neri, nei quali già in passato ella aveva avuto timore di potersi smarrire e, al contempo, era stata desiderosa di perdersi “Perché se è vero che sono intervenuta nel corso del tuo destino; è altrettanto vero che non ho in alcun modo influenzato le tue scelte, le tue decisioni: quanto hai deciso di fare, l’hai fatto sempre in assoluta autonomia, bambina mia….”
« Ma io non ho mai desiderato scatenare una guerra santa contro il dannato spettro di una regina morta secoli fa! » obiettò, storcendo le labbra verso il basso, in aperta critica alla posizione assunta dalla propria interlocutrice, sebbene non accennò un solo, singolo passo verso di la medesima, quasi allora dimentica di ogni proposito offensivo a suo discapito « Quella è la tua guerra, non la mia! »
“Ancora una volta non hai torto. Per quanto, tuttavia, tu non abbia neppur ragione.” rispose la creatura, senza scomporsi, senza offrire la benché minima evidenza di inquietudine, di ansia o anche solo di eccitazione nel confronto con lei e con le sue accuse “Perché se è vero che questa guerra è la mia guerra; è comunque vero che quanto hai compiuto, per come l’hai compiuto, ti ha coinvolto a pieno titolo nella questione, per quanto questo possa non piacerti.”
Tutt’altro che stolida, anche laddove trascinata, proprio malgrado, in una questione chiaramente più grande di lei, Midda comprese perfettamente il significato di quelle parole e la responsabilità che, in esse, avrebbe dovuto esserle attribuita. Nonostante ciò, ella si sforzò di negare l’evidenza, ove, se solo l’avesse abbracciata, avrebbe anche dovuto ammettere quanto la ragione fondamentale di quello stesso viaggio, di quel lungo peregrinare sino a quel tempio sotterraneo, con tutti gli ostacoli, le sfide e le battaglie combattute lungo la strada, fosse stato pressoché inutile, quantomeno nel confronto con la speranza che l’aveva accompagnata e che l’aveva spinta a credere che, malgrado tutto, le sarebbe stata concessa la possibilità di uscire dalla questione con maggiore dignità di quella che aveva già dato prova di meritare, al di là della propria nomea, della propria straordinaria fama.
Perché lì, ella aveva sospinto i propri passi rinvigorita dall’idea di reindirizzare una parte delle proprie responsabilità, delle proprie colpe, a discapito della stessa fenice, benché obiettivamente non fosse stata la fenice a costringerla a disseppellire la corona perduta della regina Anmel e, con essa, a liberare il funesto spirito che a essa era rimasto legato, qual un’oscura maledizione. E in tale, ottuso comportamento, ella non era stata migliore per povero, pavido Lohn, protagonista di una filastrocca per bambini che ella conosceva fin dalla più tenera età e che pur avrebbe dovuto esserle di insegnamento, guida con la propria saviezza popolare e pur mai priva di solide ragioni…
Non un genio, e neppur un portento,
il pavido Lohn viveva contento.
Passeggiando con passo un po' lento,
non temeva alcun peggioramento.
Fino a che, folle sconvolgimento,
contro Morte inciampò disattento.
« Chi sei tu, o giovane irruento... »
interrogò senza divertimento
« ... che su me cadi senza pentimento,
laddove tutti hanno sol spavento? »
« Non mia colpa è dell'abbattimento!»
disse « M'hai quasi rotto il mento! »
« Proprio a me parli d'abbattimento? »
sorrise « Io, per tuo chiarimento,
son colei contro cui alcun cimento,
è mai valso quel sol patimento
che in me trova suo compimento…
io che di Vita son ribaltamento! »
martedì 22 gennaio 2013
1829
Avventura
037 - Eufonia
« Thyres… » non poterono evitare di gemere tutte e sette, in un inquietante ridondanza della medesima voce nello scandire le medesime sillabe, quell’unico nome con un solo tono, offrendo risalto, mai come allora, a quella folle eufonia da loro stesse rappresentata, non semplicemente in quanto versioni alternative di una comune figura, ma, ancor più e soprattutto, in quanto manifestazioni di un solo spirito comune, una sola straordinaria coerenza con se stessa, così come mai avrebbe dovuto essere considerata ovvia, banale, scontata, naturale e implicita.
Forse in grazia alla benevolenza della propria dea, o forse e soltanto in conseguenza alla propria mera, e stupefacente, abilità, Monca ebbe allora occasione di ovviare al peggio, all’eventualità, quantomeno irritante, di quel volo verso la distruttiva potenza del magma, nel confronto con il quale di lei non sarebbe rimasta null’altro che la memoria. E superato quel momento di incertezza nei riguardi del proprio avvenire, nulla avrebbe potuto trattenerla, né la trattenne, dal completare quell’invisibile tratta, e dal raggiungere, in conseguenza, le proprie compagne, le proprie pari, che, malgrado avessero tutte già raggiunto occasione di salvezza al di là della sala, non avrebbero potuto evitare di temere accanto a lei, insieme a lei, l’eventualità di quella sempre prematura fine, soffrendo con lei quella comune pena e, soprattutto, godendo insieme a lei di quell’ancor più comune vittoria, di quello straordinario trionfo finale.
Un’esultanza la loro, la quale, tuttavia, si dimostrò allora destinata a una vita spiacevolmente breve, smorzata nelle proprie ragioni, nella propria gioia, dalla consapevolezza di quanto, superata anche quell’ultima prova, null’altro avrebbe potuto attenderle se non il confronto finale, e già troppo a lungo rimandato, con la fenice. Un confronto, in verità, l’idea del quale non avrebbe potuto trovare alcuna fra loro particolarmente galvanizzata… non in misura maggiore, quantomeno, a quella che avrebbe potuto caratterizzare un bambino posto a spiacevole confronto con l’evidenza dell’inconsistenza dei propri sogni, delle proprie fantasie, dei propri fanciulleschi eroi. Tale, del resto, si era imposta la fenice nelle loro menti, nei loro cuori, sin dal giorno del loro primo incontro, trasparente di una meravigliosa e sovrannaturale perfezione entro il calore e la luce della quale ogni affanno, ogni dolore, ogni paura, sarebbe stato alfine dimenticato, dolcemente obliato, così come solo avrebbe potuto essere a chiunque riservato dall’abbraccio di una madre, una madre amorevole e caritatevole, sempre pronta all’ascolto, sempre aperta al perdono per ogni marachella, laddove, in fondo, ma nulla sarebbe stato più che tale, non, quantomeno, ai suoi occhi, al suo sguardo che mai malizia avrebbe potuto cogliere.
Inevitabile, ragionevole, addirittura necessaria, in ciò, avrebbe dovuto essere considerata la loro ritrosia all’idea di sospingersi sino alla pur tanto ricercata conclusione di quella loro avventura e, con essa, al confronto con la verità celata dietro all’immagine che avevano voluto rendere propria della fenice sino a quel giorno, a quel momento. Ciò nonostante, alcuna fra loro avrebbe potuto definirsi una bambina; alcuna fra loro avrebbe potuto vantare qual propria necessità quella dell’abbraccio consolatorio di una madre, benché tale figura fosse tutte loro prematuramente mancata; e, in conseguenza, alcuna fra loro avrebbe potuto scegliere di celare la testa sotto delle metaforiche coperte, rinunciando alla consapevolezza propria della verità, della realtà, in favore all’illusione caratteristica dei sogni, per quanto indubbiamente più piacevoli, più gradevoli, più confortanti. Motivo per il quale, facendosi coraggio e impugnando saldamente ognuna la propria spada prediletta, le sette avanzarono compatte in direzione di quell’ultima soglia, e da lì alla stanza della fenice, al cuore di quel tempio dimenticato e da lei… da loro, da tutte loro, per due volte conquistato.
« Comunque vada… » sussurrò Destra, prendendo flebilmente voce verso le compagne, quasi avesse timore di poter disturbare la sacralità propria di quel momento con il proprio irrispettoso intervento « … e qualunque cosa succederà fra poco, sappiate che sono stata felice di conoscervi. Per quanto tutto questo potrebbe apparire estremamente egocentrico. »
« Credo che ciò valga per tutte noi. » si azzardò a ipotizzare Rossa, per tutta risposta, senza nulla voler negare al valore delle parole espresse dalla compagna, e pur appropriandosene, quasi avessero a considerasi patrimonio dell’umanità o, quanto meno, della minuscola porzione di umanità da loro stesse ìì rappresentata « E’ stata un’esperienza indubbiamente… significativa. » cercò di espandere il concetto, offrendo in tale termine il proprio punto di vista, per quanto, probabilmente, atto a intendere tutto e nulla al tempo stesso.
« Significativa e… divertente. » annuì Amazzone, non negandosi l’occasione di un sorriso, per quanto leggermente tirato, per quanto necessariamente teso, fosse anche e soltanto nel confronto con il contesto nel quale quelle parole stavano venendo pronunciate.
« Direi persino inquietante. » suggerì Treccia, aggrottando appena la fronte « Senza offesa… ritrovarmi a far conversazione con me stessa è qualcosa che mi capita sovente, ma non in questi stessi termini. E non sono ancora certa di quanto tutto ciò mi piaccia e di quanto, invece, mi spaventi. »
« Se ti può consolare, non credo che avremo altre occasioni di ritrovarci in futuro… » commentò Nera, in replica alla compagna piagata dalle ustioni « In linea generale, non sono neppure certa che ci sarà concesso di capire come o perché ci siamo ritrovate già ora. » soggiunse poi, sebbene, a dispetto di tali parole, in lei, così come nelle compagne, fosse la speranza di comprendere, quanto prima, anche quel particolare, insieme a ogni altro dubbio nel contempo accumulato.
« Comunque sia, è stata indubbiamente un’esperienza interessare, di quelle con le quali riempire le serate di chiacchiere a casa, quando ci torneremo… » concluse Corazza, con un sospirò quasi nostalgico all’idea così rievocata, e al carico di emozioni a essa collegata « Già immagino le risate di Brote all’idea di vedermi posta a confronto con altre sei me stessa, in ogni combinazione immaginabile. »
Fu proprio in quel momento, in quel singolo istante che, con un piede ormai oltre il varco d’ingresso al cuore del tempio, Monca si voltò in direzione dell’ultima compagna ad aver preso voce, concedendosi un’espressione a metà fra lo stupore e la curiosità, nel cogliere, in quelle parole, una strana peculiarità.
« … Brote?! » ripeté, in cerca di una qualche conferma, implicitamente volta a un concetto ben più esteso di quello così banalmente suggerito.
Perché se, nel mentre in cui l’altra aveva parlato, anch’ella aveva reso propria, nell’intimità della propria mente, un’idea estremamente simile, del tutto equivalente; tale immagine aveva visto coinvolto, qual suo primo e possibile interlocutore, non tanto il suo pur apprezzato mecenate e amico, lord Brote, quanto e piuttosto il suo dolce locandiere, Be’Sihl, fra le braccia del quale ormai era prossima a non sperare più di potersi nuovamente immergere. E, così come ella aveva volto le proprie fantasie, le proprie ambizioni all’amato shar’tiagho, sarebbe stata pronta a scommettere che Amazzone aveva fatto altrettanto, offrendo personale e silenzioso riferimento al fiero Ma’Vret, suo sposo.
Ragione per la quale, pertanto, improbabile sarebbe stato ritenere che la scelta compiuta da parte di Corazza in favore del mecenate avesse da considerarsi qual frutto di una semplice casualità o, anche, di un pur non comune rapporto di amicizia e di complicità...
« Certo… » confermò la mercenaria in armatura, così interrogata, voltandosi a sua volta a osservare la compagna con aria interrogativa, non cogliendo la motivazione alla base di quell’apparente disorientamento da parte della stessa « Anche perché se non dovesse credermi il mio compagno, chi altri potrebbe farlo?! » sorrise, facendo spallucce.
Ma prima che a Monca fosse concessa occasione di ribattere, di dimostrare la propria sorpresa a quella scoperta persino più sconvolgente dell’ormai assimilato matrimonio fra Amazzone e Ma’Vret; il passo oltre la soglia alla dimora della fenice venne compiuto e, in conseguenza a quanto allora accadde, e a come ciò accadde, ogni possibile commentò a quell’ultima affezione venne privato di significato…
lunedì 21 gennaio 2013
1828
Avventura
037 - Eufonia
Ritornate a costituire un unico gruppo, le sette Midda Bontor non sostarono troppo a lungo innanzi al baratro dischiuso al di sopra del fiume di lava. Benché, infatti, all’apparenza non vi fossero vie utili a passare oltre, a superare la morte certa dal medesimo rappresentata a discapito di chiunque, lì, avesse osato spingere i propri passi, sette menti quali le loro, addestrate in anni di avventure e disavventure oltre ogni umano limite, non vennero rallentate eccessivamente da tale ostacolo, da simile impiccio, riuscendo sin troppo rapidamente a comprendere come, ancora una volta, in loro contrasto stesse evidentemente giocando una stregoneria, un inganno volto a dimostrare l’assenza del ponte di cui tutte avevano memoria, posizionato al centro della sala, così come degli apparentemente più pericolosi gradini ricavati siti altresì lungo i bordi esterni e in letale prossimità al magma incandescente sotto di loro.
Non sono improbabile, ma addirittura impossibile, sarebbe stato infatti ritenere che la Progenie della Fenice, pur dimostratasi tutt’altro che lungimirante nelle proprie scelte, nelle proprie valutazioni, fosse stata tanto ottusa e estremista nella propria posizione contro di loro da spingersi ad abbattere completamente ogni possibilità di passaggio, isolando in maniera irrecuperabile, in tal modo, il cuore stesso del tempio e, con esso, negandosi ogni possibilità di contatto con quella stessa creatura che pur avevano eletto al centro di quel loro insano culto, con la fenice della quale si proclamavano discendenti, per quanto simile definizione non potesse far altro che confermare la follia intrinseca nella propria professione di fede.
Così, dopo un’accurata ricerca lungo tutta la sala o, quantomeno, laddove avrebbero potuto essere in grado di spingersi, le sette si accorsero di come, al di là di ogni apparenza, di ogni evidenza visiva, esistesse ancora un sottile passaggio proprio al centro della stanza, in sostituzione alla passerella che tutte loro ricordavano esistere, sebbene in dimensioni decisamente più contenute, più ristrette, e tali da rendere quella prova più simile a un atto di fede allorché a un vero e proprio ostacolo da superare. Una fede che, certamente, ad alcun membro della Progenie della Fenice sarebbe mancata, proponendosi questi sin troppo integralisti, fondamentalisti, estremisti, per non essere più che ben disposti a gettarsi all’interno di un fiume di lava per guadagnarsi il diritto a incontrare la propria signora, la propria dea prediletta; e che pur, invece, non avrebbe potuto egualmente animare i cuori di tutte loro, decisamente più affezionate alla propria esistenza in vita per potersi permettere di metterla in forse per soddisfare le fantasie autolesioniste dei propri avversari. Ciò nondimeno, ognuna di loro avrebbe dovuto essere riconosciuta qual più che motivata a spingersi sino in fondo alla questione, non desiderando né considerare sprecato tutto l’impegno e tutto il sangue sino ad allora versato, né, ovviamente, rinunciare al completamento di quella sfida quand’ormai si ponevano essere così prossime al traguardo finale, all’obiettivo prefisso.
Animante, pertanto, da tale più che solida motivazione, e sospinte a un senso d’urgenza non soltanto dalla brama di concludere quanto prima quell’avventura, facendo ritorno ognuna alla propria dimora, quanto e soprattutto di ovviare all’incursione di qualche nuovo esaltato portavoce della Progenie in sostituzione a quello appena ucciso, e successivamente scaricato all’interno della lava bollente allo scopo di assicurarsi per il medesimo una degna, seppur non meritata, sepoltura; le mercenarie non avrebbero potuto che dimostrarsi desiderose di affrontare, quanto prima, quella traversata, per quanto tutte consapevoli della difficile prova che, nel corso della medesima, sarebbe stata loro imposta, a confronto con l’insopportabile e ustionante calore proveniente dalla lava sotto ai loro piedi. Ma dove già una volta quella traversata era stata completata, a maggior ragione non avrebbe potuto che esserlo anche in quella seconda occasione, che nulla di nuovo, a parte l’avanzare inesorabile dell’età e una più ristretta, e invisibile, via di passaggio, avrebbe potuto addurre a quella precedente, tale da giustificare un qualche, eventuale fallimento.
In non rapida, e pur psicologicamente tale, successone, pertanto, le sette mercenarie più famose di quell’angolo di mondo, nei propri, rispettivi sette mondi, spinsero pertanto i propri passi lungo quella via apparentemente inesistente, offrendo l’impressione di star camminando sul vuoto, e pur, non di meno, appoggiando i piedi sopra un solido supporto, la resistenza del quale, comunque, non vollero porre alla prova, evitando di calcar eccessivamente il passo sul medesimo e, soprattutto, evitando di muoversi in più di una singola unità alla volta sulla sua superficie, non potendo valutare, in alcun modo, se e per quanto avrebbe mai potuto resistere a eventuali sollecitazioni. E dovendo scegliere qual fra loro promuovere a eletta, per affrontare per prima quella traversata, la decisione non aveva potuto che ricadere su colei che già si era guadagnata il secondo soprannome di Fortunata, offrendole, quasi in maniera scaramantica, l’occasione di sperimentare per prima quella via.
« Desidero sottoporre alla vostra attenzione come questa faccenda dell’essere fortunata mi stia venendo un po’ a noia… » aveva commentato Destra, storcendo le labbra nel mentre in cui era stata costretta, dal fato e dalla propria stessa volontà, ancor prima che dalle proprie compagne, a sospingere la punta del proprio piede mancino in avanti, a tastare quell’invisibile supporto sul quale avrebbe dovuto avanzare in esplorazione « Se fossi veramente tanto fortunata, a quest’ora sarei a casa, immersa in una vasca di acqua calda e saponosa, con un calice in mano a brindare all’ennesimo successo insieme al mio uomo, invece che essere qui, pronta a impegnarmi in questo nuovo ed entusiasmante ballo con la morte. »
Dopo che Destra ebbe superato quella traversata, era stato il turno di Amazzone, seguita, di lì a breve, da Nera, la quale si era, nel frattempo, dichiarata qual nuovamente padrona di sé in misura sufficiente dall’ovviare a uno spiacevole tutto nel magma incandescente. Un’asserzione, la sua, non gratuita, non trasparente di mero entusiasmo e desiderio di non sfigurare innanzi alle compagne, ma evidenza di un realmente ritrovato controllo sui propri muscoli dopo la dura prova alla quale questi erano stati sottoposti nella sfida al gigantesco mastino del genocidio, i cui dettagli non avevano ovviato di essere riferiti alle altre se stessa quando, nel mentre in cui tutte loro si erano impegnate alla ricerca di una via per proseguire oltre, non avevano perso occasione di aggiornarsi reciprocamente.
Raggiunta anche Nera l’altra sponda, era poi sopraggiunto il turno di Treccia e, dopo di lei, quello di Rossa, alle spalle della quale si era voluta impegnare Corazza, non per ultima e, tuttavia, neppur per prima, nella consapevolezza, poi condivisa, di quant’anche questa prova avrebbe potuto rappresentare per lei fonte di disagio. Fortunatamente, però, nel ritrovarsi a percorrere una via sostanzialmente retta, e priva di particolari ostacoli, ella non dovette affrontare le stesse difficoltà del percorso precedente, sopra l’oscuro abisso di morte nel quale aveva anche rischiato di precipitare, benché, comunque, il calore lì sviluppato dal fiume di lava non riuscì a esserle d’aiuto, di conforto, soprattutto nel considerare a proprio discapito, anche la presenza di una pesante, e lì soffocante, armatura a peggiorare la già pessima percezione del calore nel mentre di quel tanto particolare percorso.
Ultima, per ordine ma non per importanza, aveva alfine desiderato essere Monca, la quale, più di tutte le proprie compagne, aveva necessitato di un intervallo di tempo utile a riprendersi, e a contrastare gli effetti negativi del non banale dissanguamento sino a quel momento subito. E benché, abbattuto Eunuco, fosse stato subito interesse di tutte le altre Midda Bontor quello di soccorrerla, decisamente precaria e insufficiente era stata la medicazione lì impostale, la fasciatura lì riservatale, a stento utile a contenere la perdita di sangue, a tamponare quella continua offerta nei riguardi del mondo circostante, che, alla lunga, avrebbe potuto costarle la vita. Perfettamente conscia, in tutto ciò, di essere ben distante da poter vantare la propria forma migliore, nulla desiderando sottrarre a Nera o a Corazza, comprensibile avrebbe dovuto essere riconosciuto il suo desio di mantenere per sé l’onere di chiudere quella sofferta processione verso il rifugio della fenice, nella speranza di riuscire, comunque, ad arrivare allora stesso, malgrado tutto.
Una speranza che, sfortunatamente, per un fugace istante sembrò maledettamente posta in dubbio, e in grave dubbio, da un’esitazione, da un tentennamento, in conseguenza al quale ella ondeggiò pericolosamente al di sopra dello stretto, e invisibile, ponte, rischiando in misura eccessiva di ritrovarsi catapultata al di fuori dello stesso, e in direzione di quel rovente abbraccio dal quale non avrebbe avuto occasione di salvezza…
domenica 20 gennaio 2013
1827
Avventura
037 - Eufonia
Un consenso, quello così ricevuto, che non trovò alcuna esitazione, alcuna incertezza nella donna guerriero verso la quale simile invito era stato rivolto, vedendola agire immediatamente, e agire con fermezza a dir poco spietata… non crudele, non malevola, e pur spietata. E se, in conseguenza a tutto ciò, allo sventurato Eunuco venne concessa o meno una reale consapevolezza sulla propria sopraggiunta fine, sulla conclusione della propria esistenza, non fu data occasione ad alcuno di saperlo, benché i più, fra i testimoni allora presenti, sarebbero stati disposti a scommettere sull’eventualità negativa.
Perché quando Monca ricevette quel beneplacito a proseguire, a incalzare, a concludere l’azione e, con essa, la battaglia sin troppo a lungo protrattasi, egli non si fece cogliere del tutto impreparato, non si limitò ad accogliere, quietamente, l’occorrenza della propria fine, altresì, ancora una volta, reagendo innanzi alla stessa, e reagendo con tutta la forza, con tutto il potere concessogli in grazia alla propria lunga asta, a quello strano bastone nero dalle estremità argentate che già più volte, in quell’ultima ora gli aveva concesso l’opportunità di confidare in un’indomani, in un qualche futuro, e in un futuro di gloria, nel quale, accanto al suo nome, sarebbe stato ricordato quello scontro, e la volta in cui egli aveva avuto la meglio su Midda Bontor, su ogni Midda Bontor, nemica della fenice. Così, benché il colpo, uno straordinario affondo condotto, necessariamente, da solo la mancina della propria controparte, fosse stato diretto verso il suo cuore, verso il centro del suo petto, l’intervento di quella propria straordinaria risorsa da lui magistralmente manipolata, gli permise di credere, ancora una volta, nella propria salvezza e, soprattutto, nella possibilità di imporre l’ennesima dolorosa ferita a quella sciocca che, lentamente e pur inesorabilmente, sarebbe riuscito a scuoiare viva, un attacco dopo l’altro. Tuttavia, in quell’occasione, la stessa sciocca in questione non si limitò a osservare passivamente il proprio colpo venir ridiretto verso una nuova destinazione ma, nell’assistere a ciò, decise di imporre nuova energia al proprio braccio, al proprio polso, a costo di vederlo spezzarsi in conseguenza all’impeto del confronto, dello scontro, per rendere propria la possibilità di scegliere l’obiettivo finale, così come sua intenzione sin dall’istante in cui aveva diretto la propria lama verso il cuore avversario.
Laddove disgraziatamente reale fu il rischio di vedere effettivamente il suo polso, o il suo intero avambraccio, spezzarsi in conseguenza al terribile sforzo richiesto da tale azione, da simile strategia; più che apprezzabile fu, parimenti, il risultato allora conseguito, nel riuscire a opporsi al tragitto scelto dal nero bastone e rivolto, ancora, al suo braccio sinistro, contro il quale già tanto si era accanito, in favore del suo collo, obiettivo inedito e immacolato. Collo contro il quale, senza concedersi possibilità di timore, di terrore inibente per quanto avrebbe potuto pur accadere, ella si volle abbattere con violenza quasi disturbante, spingendo la propria temibile lama dagli azzurri riflessi attraverso quella esile forma, quella fragile presenza, impossibilitata a riservargli maggior ostacolo rispetto a quanto non avrebbe potuto offrirle del burro caldo, spingendosi da un fronte a quello opposto e, ancora, proseguendo oltre, quanto sufficiente, addirittura, a divellere dalle mani del proprio antagonista la sua malefica arma stregata.
« Thy… »
E se, per un fugace istante, non solo Monca, ma anche Amazzone, Treccia, Corazza, Destra, Nera e Rossa, ebbero ragione di trattenere il fiato, nel timore di poter vedere non tanto il capo dell’uomo, quanto quello della donna sua antagonista, decollare, nel separarsi senza pietà alcuna dal resto del corpo, del tronco; l’estenuante, apparentemente eterno e pur tanto rapido da apparir effimero, evolversi degli eventi, vide un fiotto di sangue macchiare, per la prima volta, la carne dell’uomo, prima che, simile a un conato di vomito, a un rigurgito, la sua testa fosse rigettata dalla propria naturale posizione a opera di un nuovo e più vivace flusso di sangue e ricadesse al suolo, seguita, rapidamente e inderogabilmente, dalla restante parte del suo cadavere, di quell’esile presenza ormai completamente privata di qualunque possibile fattore di minaccia.
« … res! »
Stremata dalla tensione, oltre che, necessariamente, dal parziale dissanguamento e dall’affaticamento fisico conseguente a quel lungo confronto, Monca crollò a sua volta a terra, inginocchiata, prima, e quasi prostrata, poi, gemendo il nome della propria dea ora indubbiamente simile a una preghiera, a un inno di ringraziamento, di lode per quanto, in sua grazia, le era stato possibile compiere. E, in tal caduta, ella volle riservar qual proprio non tanto un accenno di sconfitta, quanto e piuttosto un momento di riposo, di requie, nella consapevolezza di quanto, malgrado tutto ciò, la loro sfida non avesse da considerarsi già conclusa, ma solo, e semplicemente, appena iniziata, nella misura nella quale, purtroppo, ancora la prova del fiume di lava le stava attendendo e, dopo di essa, il confronto finale con la ragione della loro comune venuta in quel tempio sotterraneo e dimenticato dagli dei tutti… la fenice.
Ma prima di proseguire oltre, prima ancora di dover riservare alle proprie compagne una legittima e doverosa spiegazione nel merito di come potesse essere accaduto quanto era accaduto, la sconfitta di Eunuco a dispetto di ogni evidenza in senso contrario, ella si volle concedere quell’occasione di pausa, quel momento di riposo, distaccandosi, un attimo, dall’intero universo a sé circostante, qualunque esso fosse, per tornare a concentrarsi soltanto su se stessa, sul proprio corpo, sulle proprie ferite e sulla propria stanchezza, allora ben lontane dal potersi definire sgradevoli o sgradite, in quanto riprova palese del fatto che ella, malgrado tutto, fosse ancora in vita. Perché se pur concreta avrebbe dovuto essere riconosciuta la sua vittoria sul proprio avversario, a discapito di ogni stregoneria, altrettanto concreto avrebbe dovuto essere riconosciuto il rischio da lei corso in quell’azzardo, in quella tattica priva di certezze, priva di sicurezze e, soprattutto, priva d’ogni possibilità di errore.
A suo vantaggio, a suo sostegno, infatti, si era offerta solo l’evidenza di quanto, al di là del proprio potere, al di là della propria palese capacità di trasferire i danni riportati su coloro che li avevano causati; il suo antagonista non avesse ma ridiretto un loro attacco in direzioni potenzialmente letali, ma sempre e solo utili a generare danni superficiali, tagli certamente dolorosi ma non per questo mortali… non, quantomeno, nell’immediato. Una scelta, quella da lui compiuta, che non avrebbe potuto essere in alcun modo giustificata se non con un’inespressa, e pur presente, ritrosia all’idea di poter subire un’offesa più incisiva, un’aggressione peggiore, al di là della propri apparente invulnerabilità. Una ritrosia, di conseguenza, che non avrebbe potuto essere in alcun modo giustificata se non con un’inespressa, e pur presente, incapacità a gestire un’offesa più incisiva, un’aggressione peggiore, quasi come se il potere intrinseco nella sua arma, nel suo bastone, non avesse da considerarsi un dono in termini assoluti, quanto, e piuttosto, una risorsa da dover adeguatamente gestire, da dover impiegare per la propria difesa in maniera consapevole. Motivo per il quale, se solo un attacco fosse stato tanto violento da strappargli, repentinamente, la vita dal corpo, forse… e solo forse… egli non avrebbe potuto impiegare alcuna stregoneria in propria difesa, a propria protezione, così come, in grazia alla benevolenza della sua dea prediletta e degli dei tutti, era avvenuto.
« Monca! » esclamò la voce di Amazzone, improvvisamente accanto a lei, sopra di lei, nel trasmetterle l’evidenza di come, nel mentre in cui la sua mente si era separata dal resto dell’universo, questa fosse sopraggiunta allo scopo di assicurarsi delle sue condizioni « Monca… stai bene?! »
« Non direi proprio, proprio bene… » sorrise la mercenaria così interrogata, sforzandosi di alzarsi da terra quanto sufficiente, per lo meno, a permetterle di ritornare a porsi in ginocchio « Comunque sono ancora viva… e questo è un inizio. »
« Sì… » annuì l’altra, rasserenata dalla sua replica, trovandola adeguata alla condizione in cui ella riversava « Direi sicuramente è che un inizio per noi. » confermò, appoggiandole delicatamente la mancina sulla schiena, quasi, in quel contatto, volesse rassicurarla della propria presenza accanto a lei, per qualunque necessità le sarebbe potuta essere propria « Mentre per il nostro amico è decisamente una fine. » soggiunse, a sottolineare la morte dell’eunuco, ove ve ne sarebbe potuta essere necessità.
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