11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

www.middaschronicles.com
il Diario - l'Arte

News & Comunicazioni

E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

venerdì 29 febbraio 2008

050


N
essuno si pose a bloccare il cammino dei due mercenari verso l’uscita, forse eseguendo un ordine specifico da parte del signore della torre. La coppia, ridiscendendo così dalla via principale, abbandonò l’edificio conquistato con tanto vigore, con tanto ardimento, rioffrendosi alle vie notturne della capitale, affollate di una vita chiassosa e pericolosa non meno che quella diurna, dove ladri e prostitute, assassini e mercenari dettavano ancora la propria legge.
Nelle strade della città di Kriarya l’umana esistenza sembrava aver valore alcuno, di notte ancor più che di giorno, come se le tenebre in qualche modo rappresentassero un velo dietro al quale ogni peccato poteva essere celato e dimenticato: le risse, che pur non mancavano sotto la luce del sole, diventavano la principale attività pubblica sotto la luce della luna, con altresì sola alternativa quella offerta dal piacere a pagamento di una fugace notte fra le braccia ed i seni di una meretrice. Sesso e violenza erano così le principali, se non uniche, offerte della capitale e proprio per tale ragione Midda aveva deciso di nascondere Camne ad una simile realtà nella prima notte della loro permanenza ivi: nulla di buono sarebbe potuto esserle altrimenti concesso, nonostante il clima protetto e quasi familiare della locanda di Be’Sihl. Quel luogo, come rari altri in città, per quanto fosse di libero accesso al pubblico risultava essere una delle poche oasi di pace in città, ove chiunque avrebbe potuto trovare adeguato rifugio e sicurezza: gestito con impegno dal proprio proprietario, attraverso una serie di accordi con diversi signori locali riusciva a mantenersi indipendente da qualunque mecenate ed esterno alla quasi totalità delle normali attività dell’urbe. Ovviamente, però, per quanta cura e buona volontà verso l’ordine ed il controllo potessero offrire i rispettivi possessori, anche in quelle riserve di quiete la natura della capitale non sarebbe mai potuta restare completamente esclusa: qualche camera doveva essere riservata alle prostitute, qualche rissa doveva essere accettata di buon grado, dato che cercare di modificare, di rinnegare la realtà di quei fatti sarebbe stato come pretendere che un agnello avesse potuto riposare accanto ad un lupo, che un pesce avesse potuto spiccare il volo salendo nel cielo con gli uccelli. Forse, anzi, quegli eventi innaturali per quanto assurdi sarebbero potuti essere considerati possibili rispetto al pensiero che in Kriarya, città del peccato, una notte in una locanda sarebbe potuta trascorrere senza una rissa, un morto o qualche ora di piacere a pagamento.

Camminando con passo deciso, ma restando avvolta nel proprio mantello con il cappuccio sollevato a celarne l’identità per ridurre il rischio di attrarre l’interesse dell’ignoto attentatore che già aveva cercato di ucciderla, la donna guerriero attraversò le strade della capitale con innata fierezza, seguita dal tranitha ormai di lei ombra. Ben diverso fu camminare per quelle stesse vie di notte piuttosto che di giorno: dove nel secondo contesto una certa quiete riusciva a far apparire la città quasi normale, nel primo caso ogni passo si trasformava in un confronto continuo, un’impresa che doveva essere affrontata senza mai arrestarsi, senza mai retrocedere. Se solo fosse stata dimostrata la benché minima debolezza, Kriarya l’avrebbe fagocitata nei propri meandri, nelle spire della propria perdizione, non diversamente dalla maledetta terra di Grykoo. Neanche la presenza del di lei compagno poteva scoraggiare il turbine selvaggio di quella marea umana, ed anzi anche egli era costretto ad aprirsi passo a passo la strada con la propria forza, in un impegno certamente minore rispetto a quello offerto nella torre ma assolutamente non scontato.

« Scusa se lo domando, sfregiata, ma dove stiamo andando di preciso? » esordì l’uomo, dopo un lungo periodo di silenzio che proseguiva da ancor prima dell’incontro con lord Bugeor « Non avrai intenzione di affrontare da sola delle truppe della Confraternita nella piana di Kruth, spero. »
« E’ così che nascono le leggende… non lo sai? » rispose la donna, mentre con il braccio destro liberava la propria via, colpendo con violenza il mento di un aggressore semiubriaco davanti a lei.
« Peccato che la maggior parte delle leggende narrino la morte dei loro protagonisti… » replicò egli, storcendo le labbra e tirando una gomitata contro il cranio di un ladro interessato a ciò che pendeva dalla di lui cintola.

Nessun commento seguì quell’affermazione mentre il passo della donna, sempre cadenzato in maniera ritmica a scandire forse il di lei stesso calmo battito cardiaco sul selciato dell’urbe, non si arrestava né si rallentava, non trovando in alcuno di coloro che tentarono di intralciare tale percorso un degno avversario: del resto a quell’ora i guerrieri meritevoli di un simile attributo non perdevano il proprio tempo nell’ebbrezza futile dell’alcool ed in quella superflua delle liti da strada. Gli unici che avrebbero mai potuto confrontarsi forse equamente con lei, in quel momento, cercavano certamente il riposo dei giusti o, eventualmente, il caldo abbraccio acquistabile con uno o due pezzi d’oro in un letto fin troppo frequentato: per le strade restavano così un’alta percentuale di balordi di poco conto mischiati a pochi, pochissimi, elementi seri e pericolosi. Ma la probabilità che tali elementi avessero potuto incrociarsi senza desiderarlo, risultava così minima da permettere al tragitto di Midda di apparire come un discreto allenamento fisico, quasi piacevole per certi versi.

« Perché hai così voglia di morire? » riprese l’uomo, non volendole offrire fuga nel silenzio « Sei appena scampata ad essa per puro miracolo… perché sembri così disinteressata alla tua vita? »
« Sbagli! » rispose la donna con enfasi, arrestandosi e voltandosi verso di lui, guardandolo seriamente con occhi lucenti sotto la luce argentea di quell’incompleta luna celeste « Io non cerco la morte ed amo la mia vita. E proprio perché amo la mia vita, non posso sopportare l’idea che altri decidano su di essa al mio posto, come quel figlio d’un cane di Bugeor spera di fare ricattandomi. »
« Ma sei una mercenaria. » commentò il tranitha, con smarrimento evidente nel volto e nel proprio unico occhio « Vendi la tua vita al miglior offerente… come concilia tutto questo con le parole altisonanti che hai appena pronunciato? »
« Sbagli nuovamente, guerc... »

La frase però fu interrotta nel momento in cui due uomini, guidati forse dall’estasi del vino, si rotolarono verso la coppia, azzuffandosi fra loro in un turbine di movimenti non distinguibili nel loro essere confusi ed intrecciati. Il mercenario, seriamente infastidito da quell’imprevisto atto solo ad interrompere il dialogo, si chinò sui due uomini per colpirli lui stesso, contemporaneamente con entrambi i pugni: un gesto forse privo di eleganza, ma efficace al punto tale da far perdere i sensi ai due litiganti senza ulteriori indugi.

« Dicevi? » domandò egli, nuovamente verso la donna.
« Dicevo che stai ancora sbagliando. » scosse il capo lei, addolcendo appena il tono come una madre di fronte agli errori privi di malizia del proprio bambino « Io non vendo la mia vita, non l’ho mai venduta né mai la venderò: ciò che io compio è solo per mia libera scelta e nessun mecenate, nessuna ricompensa potrà mai privarmi di questo. »
L’uomo la osservò per un lungo istante, in silenzio, per poi ammettere: « Non comprendo… »
« Non ne sono stupita… e lo dico senza volerti offendere. » sorrise lei, riprendendo il cammino « Molti mercenari non si limitano ad offrire il proprio lavoro, il frutto delle proprie azioni: arrivano, al contrario, a concedere il proprio libero arbitrio, oltre al proprio corpo, per pochi soldi. E neanche una prostituta arriva a tanto… »
« Ed il tuo “libero arbitrio” ti spinge a rischiare l’osso del collo in imprese come quella che ti ha condotto sfidare la palude di Grykoo? » intervenne il tranitha.
« E’ una mia scelta quella di pormi sempre in discussione… di non considerare mai concluso il mio cammino… di cercare sempre nuove sfide da affrontare senza timore per la morte ma con amore per la vita: non vedo alcuna colpa nel riuscire ad accumulare qualche denaro compiendo quello che è il destino che ho scelto. » fece spallucce ella, in quelle parole « Se avessi affrontato quella terra maledetta solo per l’oro della ricompensa sarei morta o avrei rinunciato: un ideale tanto blando non può sorreggere un cuore, un corpo, una mente, un’anima… »

Nel pronunciare quelle parole, la donna aveva condotto i propri passi ormai nei pressi dell’ingresso settentrionale alla città, sbarrato come sempre per la notte. La vasta porta delineata nella pietra della cinta muraria presentava così un pesante ed unico blocco di metallo, liscio e privo di qualsivoglia decorazione, a proprio sigillo impedendo l’ingresso o l’uscita dalla capitale per chiunque. Solo dall’alba al tramonto, infatti, era permesso varcare le quattro soglie: chiunque fosse stato all’interno o all’esterno di Kriarya al di fuori di tale arco temporale non avrebbe avuto possibilità di cambiare la propria situazione, a meno di non poter attraversare la materia solida che la fortificava o volare al di sopra di essa.

« Non hai alcun obbligo nei miei confronti. » concluse Midda, voltandosi ancora verso di lui « Non mi seguire ulteriormente: non vi saranno ricompense per le tue azioni, non in oro, non di altra natura. »
« La premura che dimostri nei miei riguardi quasi mi commuove… » sorrise l’uomo a quelle parole.

Ma la donna non replicò ulteriormente, girandosi ad offrire nuovamente le spalle all’uomo e dirigendosi verso un angolo nei pressi della porta cittadina, dove avrebbe cercato un po’ di riposo in attesa dell’alba non troppo distante. La di lei decisione era presa e niente o nessuno avrebbe impedito il confronto che al sorgere del sole avrebbe macchiato la verde erba della piana di Kruth con troppo sangue.

giovedì 28 febbraio 2008

049


« P
iana di Kruth. »

La voce, inattesa, attirò l’attenzione dei due mercenari verso l’alto. La coppia, i cui cuori battevano ancora ad un ritmo accelerato muovendo i rispettivi petti in un respiro concitato, si voltò verso l’origine di tale suono in una naturale posizione di guardia: la lotta era conclusa ma i loro sensi, i loro corpi erano ancora rivolti verso l’impegno guerriero che li aveva coinvolti, pronti a scattare contro qualsiasi nuovo avversario si ponesse sul loro cammino.
Ma apparentemente non un nemico si offrì ai loro volti, per quanto egli comunque non fosse amico: un uomo maturo, dalla pelle abbronzata e solcata dai segni di troppe avventure, si presentava sprezzante fiero nel volto marcato da due profondi occhi verdi e labbra sorridenti, circondato da corti capelli bianchi posti sul capo in un’elevata stempiatura. Scure erano le sue vesti, in gran parte non visibili coperte quali erano da un ampio manto di egual tono, decorato attorno al collo da disordinato piumaggio nero e lungo la superficie da ripetute ed elaborate decorazioni pregiate. Nessuna arma fra le sue mani lo vedeva come un possibile avversario, anche se la forza interiore emanata in maniera tanto naturale da ogni aspetto di lui, sguardo, postura, espressione, lo identificava chiaramente come il solo ed unico signore di quella torre: lord Bugeor.

« Midda Bontor, suppongo. » continuò lui, senza avanzare di un solo passo verso di loro « Nessuna maschera potrebbe celare la tua natura, mia cara. »

Come lord Brote, anche per egli quell’età non più giovanile era chiaro segno di valore e potere: nessun uomo da poco conto, nessuno sprovveduto sarebbe potuto ascendere alla di lui posizione. Chiunque come egli poteva permettersi di dominare su una parte di Kriarya, chiunque come egli era stato in grado di superare il pieno del proprio vigore fisico e nonostante ciò era ancora in grado di continuare ad imporsi sugli altri, meritava la posizione che si era conquistato, il rispetto dei propri uomini ed anche quello dei propri avversari.
La donna guerriero, sciogliendo la posizione di guardia, decise che effettivamente non aveva più ragione di continuare con quella mascherata, portando così la propria mano a liberare il viso per rioffrirlo in tutta la propria dura bellezza, per fronteggiare a viso aperto il mandante del rapimento di Camne.
Il tranitha, al contrario, restò immobile, mantenendo la propria posizione di guardia ed il viso celato.

« Le descrizioni che ho sentito non ti rendono il giusto onore, Midda. » sorrise il mecenate, annuendo a quel di lei atto « Come donna e come guerriero difficilmente credo che tu possa conoscere eguali: spero che tu ti renda conto di essere sprecata al servizio di Brote. »
« Come decido di gestire la mia vita sono affari che non ti riguardano. » rispose lei, non risparmiando i propri toni sprezzanti « La mia spada è al servizio di chi io reputo degno di tale onore… e di certo non un uomo che arriva a servirsi di ricatti a spese di fanciulle indifese per derubare altri dei propri beni. »
« La fierezza non manca di certo nel tuo cuore, anche se l’acume nella tua mente, forse, non è sua pari. » commentò l’uomo « E non lo dico solo perché rifiuti di schierarti dal lato del migliore, al mio fianco: sei caduta in trappola molto, troppo facilmente, mia cara. »
« Trappola? » domandò la donna, guardandosi attorno in un lento giro sul proprio baricentro « Se pensi che questa possa considerarsi un trappola, l’assenza di acume non è solo un mio difetto. »

L’uomo restò in silenzio, osservando intensamente la donna: non era abituato ad avere a che fare con un simile sarcastico comportamento, irriverente nei propri riguardi, verso il proprio ruolo, la propria esperienza. La fama della mercenaria, comunque, la precedeva, facendo risuonare vigorosamente il di lei nome nelle vie della capitale spesso anche più di quelli dei vari signori locali, più del di lei stesso mecenate. Di fronte ad un simile valore, che non poteva essersi formato sul nulla, chiunque sarebbe stato uno sciocco ad agire in maniera troppo sicura contro di lei, sottovalutandola.

« Piana di Kruth. » ripeté lord Bugeor, non offrendo replica alle ultime parole pronunciate « Un’intera armata di mercenari della Confraternita del Tramonto è lì accampata, ai miei ordini, al mio servizio: lì è tenuta ospite la tua giovane amica, al contrario di ciò che tu e chiunque altro avesse potuto pensare. »

La zona in questione era un’ampia radura posta a nord-ovest rispetto alla città, verde di fresca erba ma priva di alberi o arbusti, ideale ad ospitare eventuali contingenti militari: non a caso, proprio in tale luogo sostavano continuamente le legioni dirette al fronte, per la guerra con Y’Shalf. In quel caso, se quelle parole corrispondevano al vero, non un plotone militare ma una divisione armata privata stava occupando tale spazio e, per permettersi tanto ardire, non doveva essere certamente formata da un gruppo limitato.
Midda strinse i denti, in un istinto di rabbia per quella notizia: assaltare una torre, per quanto rischioso ed improbabile, era un’impresa ancora fattibile. Ma pensare di poter giungere di soppiatto fino alla piana di Kruth per liberare Camne senza dichiarare guerra a tutti i membri della Confraternita lì presenti non sfiorava semplicemente la follia: diventava direttamente masochismo ed istinto suicida. Non vi sarebbe mai stato modo, neppure per una sola persona esperta in attività di dissimulazione, di poter prendere di sorpresa un accampamento all’interno di quella zona, troppo aperta, troppo libera, senza nessun limite alla visuale, senza impedimenti alla sorveglianza.

« Me la pagherai… » sussurrò la donna, socchiudendo gli occhi in quelle parole mentre le di lei pupille si comprimevano al punto tale da risultare quasi invisibili nell’iride.
« Per favore, risparmiami questa retorica scontata. » la derise il mecenate, scuotendo la testa « Sappiamo bene entrambi quale unica soluzione ti resta a disposizione, sempre ammesso che tu sia davvero interessata a ritrovare la tua protetta. Il resto è semplice e futile chiacchiera. »
« Non ti consegnerò mai le gemme di Sarth’Okhrin. » replicò ella, mentre a stento riusciva ora a trattenersi dal gettarsi contro l’uomo, nel desiderio di vedere il di lui sangue mischiarsi a quello delle guardie a lui fedeli.
« E’ inutile che tu ti agiti tanto, Midda. » scosse il capo egli « Non puoi levare un dito contro di me. »
« Thyres! »

La mano destra del tranitha, libera dalla midrath, si pose a sfiorare delicatamente la spalla della donna, per riportarla alla realtà, per liberarla dal vortice di emozioni in cui quel dialogo la stava evidentemente trascinando. Il gesto, per quanto semplice, ebbe l’effetto desiderato, concedendo alla donna guerriero di ritornare padrona della propria mente, del proprio cuore.

« Hai ragione. » ammise la mercenaria, volgendo le spalle al proprio avversario e facendo per allontanarsi « E’ inutile che io mi agiti tanto: la tua decisione è chiara e se è tuo desiderio perdere ogni uomo a te devoto, non ho nessun diritto di impedirtelo. »
« Cosa…? » tentò di domandare il mecenate colto in contropiede a quell’affermazione fredda e misurata.
« Osserva bene questa scena… ricorda questo sangue e questa morte… rammenta la mia figura al centro di questo cimitero… perché questo è ciò che tu hai sentenziato per il futuro della piana di Kruth. »

mercoledì 27 febbraio 2008

048


D
ue contro quaranta: tale era la sproporzione esistente fra i mercenari e le guardie della torre che, dall’alto e dal basso, si accalcarono attorno a loro, pressandoli in una morsa di lame e picche. In una spontanea divisione nata dall’esigenza di non essere colti di sorpresa alle spalle, la coppia si spartì i nemici cercando di aprirsi strada in entrambi i fronti.
Lo stile di combattimento del tranitha era simile a quello che si sarebbe potuto attendere in una chiassosa rissa da bar: egli muoveva in gesti violenti e distruttivi entrambi i pugni chiusi, stordendo con la mano libera ed uccidendo con la mano armata. La medrath, per quanto fosse un’arma tozza e primitiva, rivelava in momenti come quello tutta la propria efficacia, non offrendo compassione per alcuno nel falciare i corpi avversari non diversamente da contadino con il grano maturo. Il vigore dell’uomo era tale da farlo apparire simile a gigante contro i propri avversari: se anche un paio di colpi avevano sfiorato la di lui pelle, aprendo tagli superficiali sulla stessa in posizioni non vitali, la maggior parte delle offese a suo carico venivano parate o deviate, quasi fossero giochi fra bambini con spade di legno.
Midda al contrario, privata della possibilità di utilizzare la propria spada, era costretta a scontri fisici diretti con le sentinelle, ricorrendo all’unico braccio rimastole ed alla durezza che esso sapeva offrire nella propria metallica corazza. Scintille esplodevano da ogni contatto delle spade avversarie con la nera superficie dai riflessi rossastri, mentre la donna parava gli affondi ed i fendenti a lei destinati con precisione letale, rigirando quasi sempre le armi dei propri nemici verso i loro stessi corpi. Per quanto in inferiorità fisica rispetto ad essi, oltre che numerica, ella non appariva in eccessiva difficoltà aiutata anche dagli stretti spazi in cui si era ritrovata a combattere: questi erano infatti tali da impedire a troppi avversari di circondarla, costringendoli al contrario ad uno scontro quasi sempre paritario da cui lei non poteva uscire sconfitta.

« Quanta foga… » commentò sarcasticamente ella, come era solita fare per combattere anche su un livello psicologico oltre che fisico i propri avversari « Da quanto tempo non avevate occasione di avvicinarvi ad una donna, ragazzi? »

Soltanto per un istante ella si ritrovò seriamente in difficoltà, ossia quando nell’enfasi della lotta uno dei suoi avversari perse in controllo e cadde verso di lei, andando a colpire con violenza il lato sinistro del di lei corpo. Per un lunghissimo istante, che parve quasi eterno, tutto attorno ad ella si tinse di rosso per il dolore conseguente a quel contatto, pena che solo la di lei sovrumana forza di volontà riuscì a contenere evitando di farla gridare. Quello stesso dolore la rese cieca per la rabbia conseguente, facendole vibrare un pugno così violento da sfondare letteralmente il cranio del colpevole di tale atto: la materia grigia della guardia si riverso in un macabro schizzo sui volti di coloro che erano alle di lui spalle, bloccandoli in un istintivo senso d’orrore per quello spettacolo. Una figura femminile che combatteva con una sola mano tenendo testa a venti uomini poteva forse essere accettabile razionalmente, ma una figura femminile che rompeva un cranio con un solo pugno non poteva evitare di suscitare una superstiziosa reverenza verso di lei.

« E’ un demone! » sussurrò qualcuno.
« Nessuno può combattere così! » rispose qualcun altro.
« Siamo finiti… » propose un terzo.
« Avanti! » gridò, in contrasto, un’ultima voce dal gruppo « Sono solo due pezzenti… facciamoli a pezzi! »

Con rinnovato vigore le guardie tornarono alla carica contro i due mercenari, cercando di trarre forza dal loro stesso numero, pur ormai quasi dimezzato, ed ispirazione da quelle parole. Non erano concesse possibilità di fuga alla coppia e l’unica loro speranza appariva nella vittoria. Era evidente come, infatti, la resa non sarebbe stata accettabile neanche nel momento in cui le loro identità fossero state rivelate: il sangue versato era divenuto ormai troppo ed il turbine della violenza avviatosi non avrebbe trovato facilmente arresto se non dopo la loro morte.

« Guercio… mi sto iniziando ad annoiare! » commentò la donna guerriero.
« Dai, in fondo si stanno impegnando… » replicò l’uomo, accennando un lieve sorriso a quelle parole.

Comprendendo l’esigenza di dover cambiare le carte in tavola, Midda si slanciò in avanti appoggiando il piede sinistro sulla coscia di un avversario per poter fare lì leva e gettarsi in contrapposizione all’indietro, compiendo un’amplia capovolta che la condusse fino alle spalle del gruppo di nemici affrontato dal compagno. Egli, intravedendo quella mossa con la coda dell’occhio, non perse tempo e si voltò per non rischiare di restare con le spalle scoperte, affidando la propria protezione sul lato precedentemente frontale alla donna. Ritrovandosi così a ruoli invertiti, i due mercenari colsero di sorpresa i propri avversari che videro mutati radicalmente i propri obiettivi: chi pensava di dover affrontare una donna disarmata si ritrovò al contrario a fare i conti con l’arma impietosa del tranitha, gestita con una furia priva di controllo, mentre gli altri si videro attaccati alle spalle da una nemica inattesa, che fece calare sui loro corpi la violenza del proprio braccio metallico.

« Meno tre… » esclamò ella.

Tre erano infatti gli uomini di guardia rimasti ancora in piedi a combattere contro di loro in quel momento, due di fronte a lei e l’altro di fronte al di lei compagno. Strappando una lancia di mano ad una delle sentinelle rimaste, la donna guerriero propose una serie di cinque rapidi ma violenti colpi contro il viso di egli, senza che alcuna difesa potesse essere proposta in quell’azione tanto rapida: prima ancora che il malcapitato potesse comprendere quanto stava accadendo, egli perse così i sensi, ritrovando il proprio volto tramutato in un’informe maschera di sangue.

« Meno due! » rispose egli.

Due erano così le guardie ancora combattive nel momento in cui il mercenario fendette per un’ultima volta l’aria, in un gesto che disegnò una parabola ascendente, amputando di netto le due braccia che, sollevate ed unite nelle mani attorno all’impugnatura di una lama, miravano a lasciar abbassare un colpo di spada contro di lui. In un grido orribile, l’uomo ferito ebbe pochi istanti per contemplare i resti sanguinanti dei propri arti prima che un atto, ormai di grazia, gli concedesse di terminare la propria esistenza senza ulteriori sofferenze.

« Meno uno? » domandò a quel punto la donna.

La questione, in effetti, era rivolta non tanto verso il compagno d’arme quanto verso l’unico avversario ancora in piedi, che ella disarmò rapidamente per poi bloccarlo con una morsa della propria mano al di lui collo, quasi soffocandolo per non permettergli di tentare altre azioni offensive ma, al contempo, stando attenta a non farlo svenire. Aveva molte domande e qualche risposta le era dovuta, dopo tutto quello che era accaduto.

« I-io… non so… nulla… » balbettò la guardia, quasi non udibile.
« Risposta sbagliata. » scosse lei il capo, stringendo per un istante maggiormente quel collo.
« No… non… » tentò di nuovo di dire, gemendo per il dolore.
« Ci attendevate? Era una trappola? » incalzò lei, quasi retoricamente.
« S-s-s-s-sì… » ammise il prigioniero.
« Dove è la ragazza? Dove avete portato la giovane dai capelli rossi? »

Ma nessuna risposta fu concessa a quella richiesta: nell’enfasi della lotta, nel trasporto della sete di conoscenza in quell’interrogatorio, Midda non si accorse di aver stretto eccessivamente il collo dell’uomo, facendogli irrimediabilmente perdere i sensi.

martedì 26 febbraio 2008

047


L
a risalita dei due mercenari fu più lenta e difficoltosa del previsto. Per quante il numero di guardie in quell’orario notturno fosse ridotto e le poche in circolazione non fossero esattamente al pieno del proprio potenziale, non attendendosi ovviamente un attacco, diversi furono i momenti in cui i due dovettero scegliere fra stordire ed uccidere qualche sentinella, agendo puntualmente con rapidità ed efficienza degne del compito che si erano scelti.
Midda, pur meno offensiva rispetto alla norma a causa del braccio sinistro legato al corpo ed a causa della convalescenza rifiutata a seguito della ferita subita, risultava essere sempre degna della propria fama, del mito attorno al proprio nome, incantando chiunque con la velocità dei propri movimenti: questi conducevano il braccio destro ad impattare di volta in volta in punti più o meno vitali dei propri avversari, per far loro perdere i sensi o la vita, in neri e lucenti guizzi metallici fuoriuscenti dal mantello rosso che ancora l’avvolgeva.
Il tranitha, dal proprio canto, cercava di non essere da meno della compagna, pur ovviamente non mostrando stile e classe a lei paragonabili: i gesti d’offesa dell’uomo, però, vedevano compensare la scarsa conoscenza della lotta con una forza indomabile, selvaggia quasi, in grado di fracassare un cranio con un gesto singolo o di squarciare un corpo, servendosi della propria medrath, con la stessa semplicità con cui avrebbe aperto un pomo maturo. Osservando quell’innata combattività, la donna non poté evitare di considerare che se egli avesse avuto un giorno l’occasione di incontrare un buon maestro e la pazienza di seguirne gli addestramenti, sarebbe senza dubbio potuto divenire un guerriero degno di rispetto.
Il silenzio e la velocità sarebbero dovuti restare i loro punti di forza: se fosse stato dato un allarme generale, non avrebbero potuto sperare di uscire vivi da quella torre. Ma fino a quando riuscivano a risalire mantenendo un basso profilo come stavano facendo, le loro speranze di successo sarebbero rimaste intatte.

« La tua fama non è immeritata, sfregiata. » commentò ad un certo punto l’uomo, continuando a risalire la scala a chiocciola alle spalle della compagna.
« Io mi sono fatta da sola, guercio. » accennò lei un lieve sorriso.

In quelle parole una sentinella piombò all’improvviso contro di loro, forse posta in allarme da quel lieve sussurro. La donna guerriero, però, non di fece trovare impreparata: levando la propria mano destra parò il fendente che l’avversario stava cercando di calare sopra la di lei testa con una corta spada, strappandogli poi la stessa di mano per rigirarla contro di lui, trapassandogli il collo da parte a parte, impedendogli di emettere un qualsiasi suono, fosse anche un rantolio di morte. Il tranitha, stupito, si ritrovò a pulirsi il viso macchiatosi con il sangue di quella rapida uccisione: non si era quasi accorto del tentativo d’offesa a loro discapito ed i gesti della donna, a difendere e rispondere allo stesso, apparvero tanto rapidi da non permettergli di seguirli in tempo reale, ma solo di ricostruirli ipoteticamente a fatti compiuti. Ogni dubbio che avrebbe potuto avere nei riguardi della donna fino quel momento sarebbe scomparso: l’uomo, in effetti, aveva sentito la notizia della di lei ultima impresa presso la palude di Grykoo e l’aveva ritenuta un’esagerazione, una leggenda nata da una fantasia eccessiva. Ma di fronte alla terribile e letale soavità di quei movimenti di morte, davanti alla perfezione di un corpo tanto bello eppur così mortale, nonostante il tremendo limite imposto dall’impossibilità all’uso della mano sinistra, non poteva conservare ulteriori indugi di fede: di fronte a quello spettacolo unico, era impossibile non convincersi che ella avrebbe potuto compiere qualsiasi missione si fosse imposta e niente o nessuno sarebbe riuscito a fermarla.
L’ascesa verso i piani superiori continuò, vedendo alternarsi di volta in volta l’uomo e la donna in avanscoperta, a raggiungere posizioni sempre più elevate, lasciando dietro di loro un numero sempre maggiore di guardie. Quando ad un ennesimo piano si ritrovarono di fronte ad una porta in legno scolpito, con elaborate decorazioni in avorio e pietre dure, compresero di essere di fronte al loro obiettivo. Aiutata dal compagno, Midda mascherò il proprio viso con un panno di tessuto bianco che avvolse completamente le di lei fattezze, al fine di non permettere un univoco riconoscimento della di lei identità. Anche il guercio, dopo essersi occupato di lei, coprì il proprio volto per la medesima ragione: possibilmente, oltrepassando quella porta, si sarebbero ritrovati a fronteggiare il signore stesso di quella torre, lord Bugeor, e proteggere le loro identità sarebbe stato essenziale alla conservazione degli equilibri di potere all’interno della capitale.

« Pronto? » domandò la donna, preparandosi all’attacco finale.
« Ci sono nato, sfregiata. » sussurrò l’uomo, levando il braccio armato di medrath verso la porta in legno.
« Aspetta… » lo bloccò, ponendo la mano sulla di lui schiena, per impedirgli di proseguire nella foga dell’azione « Non serve. »

Egli la guardò con aria interrogativa, riabbassando il braccio, mentre ella invitandolo a farsi da parte si pose di fronte alla porta e, con delicatezza, invitò la maniglia della medesima ad abbassarsi, non trovando ostacoli nell’apertura: sorridendo verso il proprio compagno, la donna guerriero spalancò così la porta, ponendosi di fronte all’oscurità di una stanza in cui anche le finestre apparivano sbarrate. Quella situazione non le piacque, mentre la di lei consueta paranoia iniziava a cercare di suggerirle la somma di tanti diversi elementi, tante diverse coincidenze che insieme facevano risultare quell’assalto fin troppo semplice, quella risalita fin troppo elementare: brevi combattimenti a parte, infatti, si era ritrovata più ostacolata nel chiedere udienza al proprio mecenate che nel prendere di prepotenza l’ingresso a quella fortezza.
Ma prima che ella potesse pensare di ritirarsi, prima che potesse suggerire al compagno di arretrare, gli eventi precipitarono e la di lei eccessiva prudenza ignorata in quella pianificazione d’attacco gridò soddisfazione nella di lei mente: era stata una sciocca a credere che un piano tanto semplice avrebbe potuto concedere un reale frutto, a meno che qualcuno non avesse utilizzato ogni propria risorsa per renderlo possibile. La luce di diverse lampade, infatti, venne improvvisamente svelata nella stanza, mostrando in tutta la propria pienezza la guardia personale di lorg Bugeor: non più poche sentinelle addormentate, ma un vasto manipolo di uomini, tanto folto da saturare l’intero ambiente, più che allerta e pronti all’attacco, all’offesa contro di lei, all’azione coordinata con i propri compagni che giunsero rapidi dalle scale dietro alla coppia.
Erano caduti in una trappola.

« Maledizione! » digrignò i denti il tranitha, stringendosi in una posizione di guardia.

La donna guerriero si rimproverò per la propria manifesta stupidità: lei che era solita pianificare nel minimo dettaglio ogni strategia d’azione, aveva commesso un’imprudenza eccessiva nelle scelte tattiche di quell’attacco ed, ora, ne stava pagando il giusto pegno. Forse aveva avuto ragione Be’Sihl nel suggerirle ulteriore riposo, forse se si fosse concessa il giusto tempo per rimettere in forze il proprio corpo, anche la di lei mente avrebbe offerto migliori risultati. Ormai, però, perdere tempo a riflettere sulle colpe e sui meriti non sarebbe servito: era giunto il tempo di combattere, lottare per la propria vita, come sempre del resto.

« Sapevo di essere attraente… ma non avrei mai pensato che tanti maschioni si sarebbero ammassati in questo modo solo per me. » esclamò a quel punto Midda, comprendendo che il tempo dei silenzi era concluso « Uno alla volta, per carità… cercherò di offrire a tutti voi ciò che meritate. »

lunedì 25 febbraio 2008

046


C
ome non era solita sottovalutare un avversario, così la donna guerriero non era solita rifiutare di riconoscere i meriti di chiunque, quand’essi fossero evidenti e sinceri. Appesa come era alla corda, ella si ritrovò ad essere quasi trascinata di peso dal tranitha, più che semplicemente aiutata nella risalita: raramente Midda aveva dato atto a qualcuno di sapersi arrampicare come lei se non addirittura meglio, ma in quel caso non poté evitare di ammettere che il suo compagno d’arme era stato da lei decisamente sottostimato al loro primo incontro. Per quanto animalesco potesse essere il suo aspetto, per quanto brutale potesse apparire il suo corpo, per quanto non fosse un guerriero formato come tale, l’uomo era ben più del semplice spacca teste che aveva reputato inizialmente. Il di lui corpo si muoveva in maniera perfettamente coordinata, priva di incertezze in quell’ascesa decisa, tirando con sé l’intero peso della donna come se lei neanche esistesse appesa alla fune: ella, quasi, faceva fatica a stare dietro a quell’enfasi, a quella velocità, risultando praticamente più d’impaccio che di aiuto. E tutto quello la imbarazzo in maniera non banale: da un lato perché non era abituata a trovare aiuto in altri, dall’altro lato per tutte le inutili raccomandazioni che non aveva risparmiato al compagno prima della risalita.
Prima ancora che potesse rendersene conto, la donna guerriero si ritrovò così sollevata fino al bordo del muro esterno, protetta dall’oscurità agli occhi assonnati o assopiti delle guardie sotto di loro. Senza una parola, attenendosi al piano il tranitha scattò agile e silenzioso, simile ad una grossa pantera, verso il lato opposto della torre: in quel punto la luna con il suo quarto splendente li avrebbe impietosamente svelati a qualsiasi sguardo attento, ma in quel versante avrebbero corso meno rischi a saltare la distanza che li divideva dalla parete in pietra dell’alto edificio per la diversa posizione delle sentinelle. La donna guerriero, senza offrire il minimo rumore come già il compagno, si mosse in assoluta coordinazione con egli, seguendolo passo a passo, movimento a movimento, per non rischiare di far tendere la fune fra loro, quella stessa fune che ancora sarebbe servita ad aiutare la loro ascesa.
Giunti al punto prescelto, praticamente sulla verticale dell’accesso al primo livello di guardia, i due mercenari verificarono di non avere attirato attenzioni non gradite prima di prepararsi al balzo: nove piedi divideva la coppia dalla superficie di fredda pietra su cui avrebbero continuato la loro arrampicata, trenta piedi li separava dal suolo su cui, se avessero sbagliato traiettoria, si sarebbero ritrovati a precipitare. Non potevano permettersi il lusso di lanciare dei rampini o di servirsi di qualsivoglia altro aiuto in quella scalata: la presenza di artefatti simili avrebbe infatti potuto destare l’interesse di qualche guardia all’interno dell’edificio, eliminando loro ogni vantaggio offerto dal fattore sorpresa e, soprattutto, esponendoli a maggiori rischi di quanto non avrebbero corso senza. Veder tagliata una corda durante la risalita, infatti, sarebbe equivalso immediatamente a morire. La scelta migliore che potevano compiere era quindi l’arrampicata a mani nude e, consci di tale realtà, i due spiccarono impavidamente il volo, gettandosi in un’improvvisa estensione muscolare oltre il baratro davanti a loro per andare a trovare appiglio sulla parete verticale della torre. Se per il tranitha il salto fu rischioso ma non impossibile, trovando immediato sostegno con le dita delle mani e le punte dei piedi contro la roccia grezza di quel muro fra le congiunzioni delle varie pietre, per Midda l’operazione fu meno scontata: la situazione del di lei braccio sinistro non le poteva concedere la possibilità di andare ad impattare contro quella parete con quel lato del proprio corpo o avrebbe rischiato di far saltare i punti e riaprire la ferita. Per questo il di lei balzo fu compiuto tendendo in avanti il braccio ed il piede destro e lasciando indietro il resto di sé, in un negativo posizionamento del proprio centro di equilibrio che rischiò di farle perdere la presa e di vederla precipitare nel vuoto: fortunatamente l’uomo intervenne in di lei soccorso, portandole il proprio braccio destro dietro la schiena prima che fosse troppo tardi ed aiutandola, così, a stabilizzarsi in una presa più salda. Gli occhi azzurro ghiaccio della donna non poterono non rivolgersi verso l’unico occhio di egli, offrendogli un istante di sincera gratitudine per la di lui presenza a cui il mercenario rispose con un semplice e naturale sorriso, prima di iniziare la nuova fase di arrampicata che li attendeva.
Nonostante il ristretto campo visivo offerto dalla sua infermità permanente, l’uomo non sembrava assolutamente posto in difficoltà: le di lui mani si muovevano continuamente, raggiungendo agili e rapide i punti d’appoggio di cui necessitava, per sollevare tutto il peso del proprio corpo e gran parte di quello della donna a lui collegata. Pelle bronzea che risultava risplendere delicatamente sotto la luce lunare, per effetto del sudore che sul di lui corpo si presentava come una patina lucente risaltandone maggiormente la potenza, il vigore dei muscoli guizzanti. Midda, sotto di lui, procedeva ormai affidandosi a quella forza, a quel sostegno, impegnandosi nel non risultare di eccessivo ingombro e peso per il di lei compagno: la mano destra ed i piedi si muovevano con lo stesso ritmo di quelli dell’uomo, raggiungendo con egli una meravigliosa armonia fisica. I doccioni furono così presto raggiunti, con le loro chimeriche forme, nel mischiarsi di troppi animali fra il mito e la realtà: sporgendosi di quasi tre piedi dalla torre, quelle statue in pietra si presentarono come perfetti appigli, su cui il tranitha poté fare affidamento per risollevarsi oltre quel bordo, oltre quel limite posto a metà della torre, per guardare al di là e prevenire eventuali pericoli. Sul bordo in pietra, derivato dalla differenza di ampiezza fra i due livelli dell’edificio, non apparivano ostacoli e così, senza indugiare oltre, egli si catapultò in quello spazio, sdraiandosi ivi con la schiena e tirando con la forza delle proprie braccia la fune che lo collegava alla donna a permetterle di raggiungerlo. Ella, imitando i di lui gesti, trovò sostegno in un doccione con il proprio braccio destro, risollevandosi a sua volta accanto all’uomo.
Immediatamente, sempre senza offrire parola all’uomo, la donna guerriero gettò il proprio sguardo oltre la finestra bifora che si presentava a loro vicina: una sola sentinella sembrava presente, appoggiata fortuitamente per lui di spalle contro la colonnina centrale dello stesso varco, ignaro della loro presenza. E fu proprio tale posizione a concedergli salva la vita, nel momento in cui ella fece piombare violentemente il di lei pugno di ferro alla base della nuca della guardia, stordendolo come alternativa alla di lui morte. Se egli si fosse voltato verso di loro, se avesse tentato di attaccarli o di lanciare un allarme, sarebbe sicuramente stato ucciso prima ancora di poter pensare a compiere una tale azione: quel suo essere inconsapevole della realtà a lui circostante, altresì, rendeva superflua la sua stessa morte, considerabile in quel contesto come un gratuito omicidio.

« In fondo sei un cuore tenero, sfregiata. » sussurrò il tranitha verso la compagna.
« Non ho interesse ad uccidere se non ne ottengo un tornaconto in cambio. » rispose lei, ora fredda e controllata anche nella voce, già proiettata psicologicamente all’azione che li avrebbe attesi « Per questo tu sei ancora vivo, guercio. »
« Giusta osservazione. » ammise egli, non potendo replicare a quell’affermazione.

Midda, dopo aver constatato che non vi fossero pericoli, oltrepassò la finestra, seguita a ruota dal compagno. Davanti a loro si offrì una struttura semplice, quasi spartana, che denotava l’evidente scopo militare a cui quel piano era dedicato: in maniera non dissimile dalla torre di lord Brote, anche quella costruzione concedeva probabilmente la maggior parte dello spazio alle guardie personali del padrone di casa, relegando solo alla zona superiore e conseguentemente più protetta il compito di dimora vera e propria per quest’ultimo. Al centro dello spazio si mostrava una scala a chiocciola, in pietra, per salire o discendere lungo la verticale della torre.

« Ed ora? » domandò l’uomo, quasi inudibile nel tono di voce contenuto.
« Risaliamo. » rispose la donna « A costo di sembrare retorica, sono convinta che Camne non sia rinchiusa in una fredda e buia cella, ma sia ospite di lord Bugeor in persona. »

domenica 24 febbraio 2008

045


A
l nome di lord Bugeor rispondeva uno dei vari signori della città, mecenate al pari di lord Brote per molti mercenari: questi ultimi, all’interno di Kriarya non si ritrovavano uniti in un’unica egemonica organizzazione e ciò permetteva di conseguenza un’equilibrata divisione della forza armata fra le varie figure di potere della capitale stessa. Se un’organizzazione come la Confraternita del Tramonto avesse, infatti, imposto il proprio controllo su ogni mercenario anche in quella città al pari delle altre capitali kofreyote, solo un mecenate avrebbe potuto godere di tali servigi e, quindi, solo egli avrebbe potuto imporre il proprio volere nel territorio dominato. In un accordo non scritto, i signori della città avevano tacitamente stabilito di evitare il ricorso all’azione della Confraternita, preferendo non correre il rischio di arrivare a situazioni di reciproco ed aperto conflitto: servirsi di mercenari autonomi concedeva altresì un facile mantenimento dello status quo, laddove ogni mecenate avrebbe potuto asservire solo il numero di mercenari che fosse riuscito fisicamente a mantenere. La notizia che qualcuno, nella fattispecie lord Bugeor, si fosse affidato alla Confraternita aggravava la già spiacevole situazione che lo vedeva tramare ai danni di lord Brote: politicamente parlando, l’azione di Bugeor avrebbe potuto innescare una reazione a catena che avrebbe potuto condurre alla distruzione del sistema su cui l’intera Kriarya fondava la propria esistenza.
Per Midda, comunque, quell’intero discorso non aveva sinceramente valore: la di lei fedeltà a Brote era tale entro i limiti della ricompensa che egli poteva offrirle e se anche il mecenate fosse un giorno decaduto per lei nulla sarebbe cambiato, lasciandolo affondare da solo e cercando, altresì, nuove fonti di sostentamento a lui alternative. Nonostante questo, ovviamente, non era così priva di rispetto per se stessa da vendersi ad altri mecenati prima di un tale evento e, soprattutto, non era così priva d’onore da poter tradire il proprio per i desideri di un altro signore locale. Se poi tali desideri, invece di essere espressi in giusti termini economici, cercavano di imporsi attraverso il sopruso di un rapimento e di un ricatto, l’unica conseguenza che avrebbero ottenuto dalla donna guerriero sarebbe stata una violenta risposta.
Attaccare lord Bugeor a viso aperto, comunque, non sarebbe stato possibile: per quanto egli stesse violando i taciti accordi con gli altri signori della capitale, solo attraverso una decisione comune degli altri mecenati si sarebbe potuti intervenire a suo discapito senza rischiare di arrivare comunque al conflitto totale. La donna guerriero ed il suo temporaneo alleato, quindi, avrebbero dovuto operare nell’ombra, senza farsi notare e, soprattutto, senza farsi riconoscere o i loro rispettivi mecenati avrebbero dovuto rispondere delle loro azioni.

La residenza di Bugeor, non diversamente da quella degli altri signori della città, era rappresentata da un’alta torre in pietra. Su pianta esagonale, la costruzione si offriva con due diversi livelli: per i primi ottanta piedi circa essa appariva ampia almeno trenta piedi per lato, salvo poi restringersi di netto per i successivi ottanta piedi in una larghezza praticamente dimezzata. Lungo l’intera superficie della torre, sia nella parte inferiore sia in quella superiore, classiche finestre trifore e bifore si mostravano nello stile kofreyota, interrotte nella loro regolarità unicamente nella congiunzione fra i due livelli: in tale perimetro, una successione di dodici doccioni si apriva circondando l’intera torre, a permettere lo scolo dell’acqua piovana che si sarebbe potuta accumulare in quello spazio. In un eccesso desiderio di protezione, non a sproposito in effetti, ad una distanza di circa nove piedi dalle mura in pietra grezza un secondo margine difensivo abbracciava la torre stessa, rappresentato da un’alta cinta muraria: l’ingresso alla tale esterna protezione e l’accesso all’edificio risultavano fra loro opposti, presentandosi rispettivamente il primo rivolto verso nord ed il secondo verso sud, in mondo da offrire una migliore gestione della sicurezza anche con un numero limitato di guardie.
Attendendo il calare delle tenebre per il perseguimento della propria missione, i due mercenari si presentarono allo scoccare della mezzanotte sul versante meridionale della torre, ai piedi della solida roccia grigia che sopra le loro teste si estendeva per circa trenta piedi: meno esposto a sguardi esterni quel punto si concedeva come il migliore per tentare un accesso alla fortezza, anche se sul lato interno si sarebbero ritrovati proprio di fronte all’ingresso alla torre ed alle guardie lì presenti. Il loro piano era semplice quanto rischioso: avrebbero dovuto arrampicarsi lungo le pareti della torre, ascendendo fino alla congiunzione fra i due livelli; da lì avrebbero tentato di forzare la sicurezza della costruzione, non escludendo la possibilità di scontri armati con qualche guardia non ancora addormentata, ed avrebbero così raggiunto l’area di detenzione, ovunque essa fosse, liberando Camne. L’ipotesi alternativa di violare quella fortezza dall’ingresso principale sarebbe stata un assurdo pensiero suicida: neanche con una dozzina di guerrieri al loro fianco avrebbero potuto dichiarare guerra a quella costruzione sperando di poter sopravvivere ad una tale avventata scelta. Per tale ragione, per quanto considerabile forsennata, la decisione di arrampicarsi lungo la verticale della torre appariva la migliore che potevano permettersi di compiere.
In condizioni normali, una simile risalita non avrebbe comportato problemi per la donna guerriero, abile nello scalare le pareti più lisce non meno che nel combattere. Ma a seguito della ferita subita, e dell’impossibilità a muovere il braccio sinistro, la situazione risultava drasticamente mutata dalla norma. Un’arrampicata anche più banale di quella sarebbe risultata estremamente difficile potendo fare affidamento solo sul di lei braccio destro: un percorso simile a quello che li attendeva, di conseguenza, appariva praticamente impossibile a meno di non poter, per una volta, fare affidamento su qualcun altro. La vita aveva duramente insegnato alla mercenaria a non avere mai bisogno di niente e di nessuno, ad affrontare ogni impresa contando unicamente sulle proprie risorse, sulle proprie energie: in quell’occasione, però, Thyres sembrava richiederle di superare questo suo limite diventato quasi peccato d’orgoglio per collaborare con il proprio compagno, al fine di riuscire dove da sola sarebbe stato impensabile avere speranza di successo.

« Dobbiamo procedere il più rapidi possibili. » ricordò ella al tranitha, mentre controllava il nodo attorno alla propria vita della fune che la collegava ad egli « Le guardie dell’ingresso, ammesso che siano sveglie, non dovrebbero notarci se riusciremo ad essere abbastanza silenziosi e lesti: arrivati in cima alle mura esterne dovremo muoverci velocemente, per portarci sul versan… »
« Sfregiata… mi hai già spiegato quattro volte il piano. » sorrise l’uomo, bloccandola prima della nuova ripetizione « Vuoi avere un minimo di fiducia in me, per favore? »
« Se io non avessi molto più che un minimo di fiducia in te non accetterei tutto questo. » replicò lei, storcendo le labbra e sollevando la corda fra loro, come a mostrarla meglio.
« Se tu non fossi ferita, non ti saresti mai sognata di accettare tutto questo. » scosse lui il capo « Non prendermi in giro. »

Midda tacque a quelle parole. Il guercio aveva ragione di pronunciarle, per quanto il concetto che esprimevano non fosse generoso nei di lui confronti: ella aveva chinato il capo di fronte a quella situazione solo perché costretta dal destino. Se solo avesse avuto controllo sulla spalla e sul braccio sinistro, ferita o non ferita, sarebbe proceduta da sola in quell’impresa.
Senza aggiungere altro, l’uomo si voltò verso la parete di fredda pietra, resa appena umida dalla notte, per esplorarla con le dita prima di iniziare l’arrampicata: sei piedi di solida fune separavano il di lui addome da quello della donna e per mezzo di tale congiunzione la forza di egli avrebbe permesso a lei di sopperire al proprio handicap, risalendo a sua volta lungo la parete.

sabato 23 febbraio 2008

044


L
a donna offrì un sorriso tanto aperto quanto minaccioso, non diverso da quello di uno squalo di fronte alla sua preda: era certa che Ma’Zahr avrebbe avuto qualche informazione da offrirle ed il fatto che lui stesso, stupidamente, avesse negato di avere notizie su Camne ancor prima che lei avesse la possibilità di chiederglielo aveva eliminato ogni dubbio.
Quell’uomo sapeva ogni cosa ed ella, presto, si sarebbe impadronita di tutto ciò che avrebbe desiderato conoscere, non offrendo alternativa allo stesso se non parlare ed essere felice di farlo.

« Hai mai sentito nominare Morlo, signore dell’antica città di Lomnia? » sussurrò a quel punto, piegando le gambe per avvicinarsi all’uomo, chinandosi su di lui quasi volesse confidargli un segreto.
« N-no… » rispose egli, non comprendendo il senso della domanda.
« Morlo era un grande sovrano, molto ambizioso e cinico. » iniziò a raccontare « Sapeva esattamente cosa desiderare e come ottenerlo, soprattutto da coloro che, sciaguratamente, venivano condotti nelle segrete del suo castello… »

L’informatore restò in silenzio ad ascoltare il racconto di Midda, sperando che in quella narrazione ella si potesse scordare dei propositi violenti nei suoi confronti, si potesse ammorbidire abbastanza da permettergli di passarla illesa.

« Quando desiderava ottenere delle informazioni da un prigioniero e questi non collaborava, Morlo gli faceva amputare la prima falange del mignolo della mano sinistra, coprendo poi la ferita con il sale e lasciandolo così a riposare per due giorni. » continuò ella, andando ad accarezzare con la propria mano destra la mano sinistra di lui, in corrispondenza della falange indicata « Dopo tale tempo, egli tornava a porre la domanda a cui desiderava risposta e, non ottenendola, proseguiva amputando la prima falange dell’anulare della mano sinistra, coprendolo ancora con il sale ed offrendo altri due giorni di riposo. »

L’uomo suo prigioniero iniziò a tremare vistosamente in conseguenza di quelle parole. Una parte di lui iniziava ad intuire la minaccia tutt’altro che velata in quella storia dal sapore di leggenda, ma l’orrore che intravedeva era tale da non volerlo razionalmente accettare: neanche la donna guerriero si sarebbe potuta dimostrare tanto crudele. Tutte le testimonianze in merito alle di lei imprese, alla di lei forza, al di lei coraggio non potevano lasciar spazio ad un simile sadismo.

« Scaduto il nuovo termine, Morlo tornava a porre la domanda e non ottenendo ancora risposta, indovina cosa faceva? » domandò ella, sorridendo « Amputava la prima falange del dito medio della mano sinistra. Raramente qualcuno riusciva a mantenere il silenzio tanto a lungo da terminare le falangi di entrambe le mani, ma laddove questo fosse successo l’interrogatorio poteva ugualmente continuare con le dita dei piedi. »
« N-no… » rantolò egli, contorcendosi sotto la sua aguzzina nel movimento della mano metallica di lei che andava di volta in volta a sfiorare le parti del corpo di cui narrava.
« Oh… sì, invece. Facendo un paio di conti, Morlo solo con le falangi poteva portare avanti un interrogatorio fino ad un totale di quasi tre mesi. » replicò lei, continuando a parlare con tono sommesso, quasi dolce se non fosse stato per i terribili contenuti proposti « Non so se qualcuno fosse mai sopravvissuto per così tanto tempo: ammesso ma non concesso che ciò sia mai accaduto, egli avrebbe potuto ancora continuare, iniziando ad affettare le mani ed i piedi… e poi le braccia… e le gambe. »
« Io… non so nulla… » supplicò l’uomo, terrorizzato a quella prospettiva.
« Prova a pensare tagliando un pollice di carne ogni due giorni, quando potrebbe durare un corpo umano… » commentò lei, sospirando come innamorata di quella macabra idea « Comunque non ti preoccupare… io non ho né mesi né settimane e neanche giorni di tempo da perdere. » sorrise cambiando tono di voce, quasi allegro ora, nel rialzarsi in piedi « Anzi, penso che potrei permettermi il lusso di spendere al massimo un paio di ore… ma con la sufficiente pazienza e la giusta quantità di sale, penso che un bel torso umano si possa anche riuscire ad ottenere in così poco tempo. »

Il silenzio calò nel vicolo in cui i tre si trovavano, mentre anche il tranitha dovette ammettere in cuor suo che la donna sapeva offrire un controllo assoluto delle proprie emozioni, concedendo una recitazione superba, in una crudeltà priva di eguali. Se egli non avesse avuto la possibilità, negli ultimi tre giorni, di vederla fra la vita e la morte, sofferente come qualsiasi comune mortale, avrebbe senza dubbio preso per vere quelle parole, quell’efferata ed inumana crudeltà. Ma in quell’ultimo periodo, nello scontro con lei, nel soccorrerla più morta che viva dopo la caduta, nel restarle a fianco durante la febbre bruciante, aveva conosciuto un aspetto della donna che probabilmente pochi al mondo potevano aver avuto occasione di conoscere. In lei c’era molto di più della forza, della freddezza, del coraggio, del valore che dimostrava, per cui era diventata famosa e temuta: e quell’aspetto nascosto, quel lato più umano di lei era qualcosa di unico e meraviglioso.

« Non… non puoi essere tanto crudele… tanto sadica… » sussurrò Ma’Zahr, sciogliendo il silenzio.
« Come dicevo non è politicamente conveniente per me farti del male… » rispose ella, a quel punto, facendosi da parte per offrire spazio al proprio compagno.

Con assoluta freddezza, cercando di essere all’altezza dell’interpretazione della donna, l’uomo fece roteare la propria arma sulle palme delle mani, come a controllarne il perfetto bilanciamento: impugnando poi saldamente quella lama tanto grezza eppur efficace, fece atto di chinarsi verso il prigioniero.
Midda conosceva abbastanza l’animo umano da essere consapevole che i limiti offerti agli altri erano da sempre gli stessi che si offrono a sé stessi: se avesse narrato la leggenda lì raccontata ad una persona come Be’Sihl, egli non avrebbe mai creduto alla di lei minaccia perché una simile crudeltà era oltre il di lui animo, oltre alla di lui concezione dell’esistenza. Ma la sottospecie di verme che strisciava in quel momento ai loro piedi, privo di ogni onore, privo di ogni valore, avrebbe personalmente offerto una crudeltà anche peggiore se solo avesse avuto l’occasione di farlo. Per tale ragione egli non poteva riuscire ad escludere che un’altra persona non avrebbe potuto comportarsi in egual modo a suo discapito: ed in questa di lui intrinseca crudeltà, la di lei minaccia poteva avere effetto.

« Bugeor! » gridò l’informatore, chiudendo gli occhi ed accartocciandosi terrorizzato, mentre un violento odore di ammoniaca si diffondeva nell’aria « Lord Bugeor ha dato l’incarico alla Confraternita del Tramonto di rapire la tua amica. Lui vuole le gemme di Sarth’Okhrin, temendo che Brote le possa adoperare per destabilizzare l’equilibrio nella capitale! La ragazza è tenuta prigioniera nella sua torre, controllata a vista dai mercenari della Confraternita! »

La donna sorrise per un istante a quella confessione, dimenticando però la soddisfazione raggiunta con la medesima nel considerare ciò che quelle parole comportavano per il di lei immediato futuro. Leggera come uno spettro, ella si voltò per allontanarsi, seguita in breve dal di lei compagno che, risollevandosi altrettanto in silenzio, lasciò il loro prigioniero al proprio destino.

« Ti prego! Ti prego! Ti supplico! » pianse l’informatore, bagnandosi nuovamente con la propria urina nella paura più folle che lo possedeva in quel momento, senza neanche rendersi conto di essere rimasto solo « Non uccidermi… non uccidermi! »

venerdì 22 febbraio 2008

043


« A
-avevano detto che eri morta! »

Ma’Zahr era un omuncolo dalla corporatura esile e la pelle abbronzata, di etnia non meglio identificata ma sicuramente comprendente i peggiori difetti di ogni terra di cui avesse ereditato il sangue. Per certi versi era l’opposto di Be’Sihl: laddove uno raccoglieva il meglio di ogni stirpe, l’altro ne possedeva il peggio. E così il volto spigoloso e quasi scheletrico dell’uomo si presentava calvo e segnato da un tempo maggiore di quanto realmente ne avesse vissuto, con occhi grigi e spenti, denti gialli e cariati e labbra secche, quasi indistinguibili dal resto della pelle. Il corpo, avvolto in abiti privi di qualsivoglia propria caratterizzazione, erano di colori piatti, fra il marrone della terra ed il grigio della pietra, troppo grandi per le sue magre fattezze al punto tale da ricadere in maniera scomposta da ogni parte del suo corpo. Se a questo si aggiungeva un’altezza al di sotto della media, in egli si aveva il perfetto esempio di ciò che difficilmente sarebbe sopravvissuto in una città come Kriarya, a meno che non avesse avuto qualcosa di importante da offrire alla stessa. Ed in effetti Ma’Zahr aveva qualcosa di importante da offrire, al di là delle sue pessime sembianze: privo di proprie forze per potersi difendere, per potersi procurare di che vivere, sfruttava altresì ciò che invece aveva, ossia occhi per vedere, orecchie per sentire e bocca per riferire, risultando uno dei migliori informatori, o spie che dir si volesse, di tutta la capitale. Raramente qualcosa accadeva senza che egli ne venisse a conoscenza e tutto ciò che egli sapeva, per il giusto prezzo, poteva essere venduto a chiunque lo desiderasse.
Fra Ma’Zahr e Midda non vi era mai stato un rapporto di fiducia o di stima e ciò era degenerato a partire dal giorno in cui egli l’aveva ingannata, facendola cadere in una trappola escogitata con false informazioni da chi aveva offerto più soldi di lei. La donna guerriero, ovviamente, non aveva digerito l’accaduto, ma per quanto spregevole potesse apparire quella specie di uomo, ella non lo avrebbe potuto uccidere a sangue freddo, unicamente per consumare una futile vendetta. Un simile atto sarebbe stato ritenuto un omicidio perseguibile per legge e dati i servigi che egli offriva a fin troppe persone altolocate per lei sarebbe stato decisamente sconveniente perseguire un tale intento.

« Non è la prima volta che lo dicono… eppure sono sempre qui. » sorrise lei, avanzando verso l’uomo.

Al proprio tradizionale abbigliamento, Midda aveva dovuto aggiungere un mantello di colore rosso scuro, che dal di lei capo scendeva alle spalle ed ai piedi, coprendola integralmente e celando, in tal modo, il braccio fasciato. Mostrarsi per le vie della città così debilitata sarebbe stata un’imprudenza assolutamente gratuita che non aveva alcuna intenzione di compiere: meglio, anzi, sfruttare a proprio vantaggio le voci che, come anche Ma’Zahr aveva confermato con il proprio stupore, la davano già per trapassata, mostrandosi più viva e letale che mai.
Dietro di lei, imponente nel proprio fisico scolpito ed appena velato da una tunica sgualcita, era il tranitha, armato della propria medrath. L’uomo avrebbe compensato con la propria forza e la propria combattività la debolezza della donna guerriero, ma a lei sarebbe rimasta la scelta sulle decisioni da compiere, prima fra tutte la raccolta di informazioni sul luogo ove Camne poteva essere stata portata. La fama di Midda, del resto, lo precedeva ampliamente pur non essendo egli un emerito sconosciuto in città: agire in senso opposto, per quanto più prudente date le condizioni della donna, sarebbe risultato fuorviante.

« Ti avevano vista cadere colpita a morte dalla cima di un palazzo tre giorni fa. » gemette per la paura l’informatore, cercando scampo ma trovando solo un muro compatto alle proprie spalle.

A quelle parole, Midda scattò in avanti, leggermente più lenta del suo solito ma abbastanza rapida da risultare comunque stupefacente: la di lei mano destra, nella lucentezza del metallo nero della sua superficie, si mosse da sotto il mantello a prendere al collo l’uomo, sbattendolo con prepotenza contro il muro e sollevandolo in quel gesto appena da terra.

« Ti sembro forse defunta? » sorrise lei, accostando il proprio viso a quello della preda « Il mio corpo ti sembra privato della sua forza? Della sua passione per la vita? »
« N-no… » rantolò l’uomo, agitando in maniera confusa le gambe in un futile tentativo di liberarsi da quella morsa.

La donna liberò improvvisamente il proprio prigioniero dalla presa, lasciandolo ricadere violentemente a terra. Egli, impattando al suolo, gemette per il dolore del colpo, raggomitolandosi poi in posizione quasi fetale, per proteggersi istintivamente da nuovi attacchi.

« Come sai, politicamente parlando, non mi conviene farti del male. Ne avrei tutte le ragioni, ma la tua morte potrebbe portarmi più problemi che vantaggi. » riprese la donna, camminandogli di fronte a testa alta e sguardo fiero « Si da però il caso che al mio compare qui presente non possa interessare molto la politica cittadina: è ancora abbastanza giovane, deve ancora farsi un nome, ma lavorando con me può avere la possibilità di entrare nel giro che conta, di conoscere le persone giuste. »

Midda stava recitando a soggetto, ovviamente, ma la sua voce era totalmente calma, quasi suadente come sempre, che quelle parole parvero essere l’unica verità esistente all’universo: il tranitha, d’altra parte, reggeva il proprio ruolo alla perfezione, mostrandosi assolutamente serio, inespressivo.

« Ma l’altro giorno ti ha attaccato davanti a mezza città… » piagnucolò l’informatore, sollevando appena il viso verso di loro « Come puoi portartelo dietro con tanta sicurezza? »
« Diciamo solo che gli ho offerto buone ragioni per esser con me piuttosto che contro di me… e poi mi piacciono i suoi tatuaggi. » rispose lei, sorridendo sorniona.
« Io non posso dirti dove hanno portato la ragazza… » cercò immediatamente di difendersi egli, gettandosi ai di lei piedi, afferrando le di lei caviglie con aria supplicante « … non ne so nulla! »

giovedì 21 febbraio 2008

042


I
l quarto attore apparso nella stanza non fu un volto nuovo per Midda, che al contrario ne riconobbe immediatamente la voce, scattando di piedi e portando il braccio destro in posizione di guardia. Davanti a loro, infatti, era il nerboruto tranitha che la donna aveva affrontato al suo ritorno nella capitale quand’egli, ubriaco, aveva tentato di attaccarla dopo aver insultato lei e Camne.

« Come osi, guercio? » esclamò ella, con una nota d’ira di fronte a tanta imprudenza.

Ma, inaspettatamente, Be’Sihl si parò davanti a lei, appoggiando entrambe le mani sul metallo nero dai riflessi rossi del di lei braccio, come a trattenerla. La donna si ritrovò confusa da quel gesto: si sarebbe attesa, al limite, che il locandiere si gettasse contro l’intruso per allontanarlo o, al limite, davanti a lei per coprirla, non per fermarla.

« Pensavo che avresti offerto un minimo di riconoscenza al tuo salvatore, Midda Bontor. » sorrise il tranitha, incrociando le braccia tatuate al petto « Anche se in effetti vederti così mi ripaga più che ampiamente. »
« Cosa stai blaterando? » domandò la donna, riabbassando il braccio destro e gettando sguardo interrogativo anche verso lo shar’tiagho.
« Dice il vero, Midda. » intervenne il locandiere « E’ stato lui a soccorrerti, trasportandoti priva di sensi fino a qui, proteggendoti da chiunque e restandoti poi sempre vicino ad evitare nuovi attentati alla tua vita. »

Quella notizia colse in assoluto contropiede la donna che, stupita, tornò a sedersi sul letto, spostando lo sguardo fra i due uomini come a cercare di accettare una verità tanto insolita. Ella aveva umiliato il guercio di fronte all’intera città, eppure egli l’aveva aiutata nell’unico momento in cui lei si era ritrovata inerme: l’uomo avrebbe potuto approfittare di lei, avrebbe potuto vendicarsi in mille modi, avrebbe potuto anche rivenderla ai di lei nemici… ed invece aveva deciso di aiutarla, di portarla là dove sapeva che ella sarebbe rimasta al sicuro, trovando asilo. In quella città di ladri, prostitute, assassini e mercenari, l’idea di un gesto di simile altruismo era sconvolgente.
In silenzio, sotto lo sguardo dei tre presenti, ella riprese a vestirsi, coprendosi i seni con la solita stretta fascia, serrando i denti per il male che si ritrovò a provare nel momento in cui dovette per forza muovere il braccio sinistro. Nessuno ora si mosse a bloccarla, nessuno intervenne con mezza parola, comprendendo il momento di smarrimento in lei e la necessità di ritrovare qualche punto di riferimento.

« Perché? » domandò la donna, infine, verso il tranitha, mentre si chinava in avanti per cercare di indossare nuovamente i propri pantaloni.

Be’Sihl, accettando ora il di lei volere, si inginocchiò di fronte a lei per aiutarla laddove la mobilità ridotta le rendeva più difficile il gesto, lasciando all’altro uomo il diritto di offrire la propria spiegazione sui fatti occorsi: Midda, ingoiando il proprio solito orgoglio, accettò silenziosamente quell’aiuto non richiesto, ringraziando altrettanto tacitamente la comprensione offerta dall’amico.

« L’altro giorno sono stato un idiota ad affrontarti in quel modo. » rispose, con tono ora tranquillo, il guercio, senza sarcasmo o ironia « Avresti potuto uccidermi ed avresti avuto tutti i diritti di farlo. Ma non lo hai fatto: perché? »
« Perché la tua morte non avrebbe avuto senso. » replicò ella, sollevandosi dal letto per tirare su i propri pantaloni « Non uccido senza una ragione. E non avevo ragioni per ucciderti. »
« E’ un tuo codice d’onore? » domandò l’uomo.
« Credo si possa definire così. » annuì ella, tornando a sedersi per potersi dedicare agli stivali, che Be’Sihl, silenziosamente, aveva già recuperato per aiutarla ancora senza più opporsi.
« Anche io ne ho uno. » riprese il tranitha, sorridendo « Tu mi hai risparmiato potendo al contrario rivalerti della mia vita. E questo mi ha posto in una posizione di debito verso di te. Come tu non hai approfittato della mia debolezza, così non avrei permesso a nessuno di approfittare della tua. »

Quello scambio di domande e risposte reciproche sarebbe apparso incomprensibile alla maggior parte delle persone, trovando assurda l’idea dell’esistenza di una morale, di un codice d’onore, in chi come loro passava la propria esistenza ad offrirsi al miglior offerente, combattendo, uccidendo e rischiando continuamente di essere uccisi per soldi e non per un qualche ideale superiore. Ma tanto in uno quanto nell’altra esisteva più di quanto sarebbe emerso ad uno sguardo superficiale: al di là della loro scelta di vita, dell’impiego per cui si offrivano ogni giorno, c’era un’altra realtà molto più complessa. Una realtà che portava anche in Kriarya ad azioni atte a compensare debiti d’onore, come in quel caso.

« Siamo pari, ora. » concluse la donna, accennando per la prima volta un sorriso.
« Siamo pari. » concordò l’uomo.

Aiutata da Be’Sihl, Midda concluse la propria vestizione, facendosi poi legare in una stretta fasciatura il braccio destro sotto i seni: come era vero che non poteva utilizzarlo, era altrettanto vero che non poteva neppure permettersi di preoccuparsi per esso ad ogni proprio movimento, rischiando che un dolore improvviso la piegasse nel momento meno opportuno. Così bloccato, invece, seppur dolente non sarebbe stato un intralcio ai di lei movimenti.

« Sei sicura di voler proseguire in questa pazzia? » domandò il locandiere, non potendo celare una certa preoccupazione « E’ il primo giorno in cui la febbre ti lascia libera di riprendere conoscenza: se ancora debole ed avresti bisogno di nutrimento e riposo. »
« Accetto volentieri il nutrimento, ma quanto al risposo è un lusso che per ora non posso concedermi. » rispose la donna, ferma ma dolce nel tono « Camne è nuovamente nelle mani di un gruppo di invasati… e non intendo lasciarla al proprio destino. »
« Allora io verrò con te. »

Quelle ultime parole non furono pronunciate dalla voce dello shar’tiagho, quanto da quella del tranitha, attirando ancora una volta lo sguardo della donna verso di sé.

« Mi pare avessimo detto di essere pari. » disse Midda, rialzandosi ed infilando la propria spada, pur inutilizzabile nella mano destra, nel proprio fodero « Perché desideri accompagnarmi? »
« Beh… ho ripensato alla visione che mi hai offerto poco fa. Come ho detto prima, tale spettacolo poteva ripagarmi più che ampliamente di ogni impegno svolto nei tuoi confronti: in effetti, quindi, non siamo ancora pari… » rispose l’uomo, sorridendo ironico e malizioso all’accenno al corpo nudo di lei.
« Non mi va di scherzare, guercio. » replicò la donna « Non metto in dubbio il tuo vigore, ma la Confraternita è un osso troppo duro per uno come te. Finiresti ucciso. »
« Se tu difendi il tuo diritto di scegliere di che morte morire contrastando le richieste del moretto, perché vuoi negare a me tale possibilità? » scosse il capo il tranitha, in risposta « Forse, come guerriero, varrò solo la metà rispetto a te. Ma, ora, anche tu sei a metà delle tue possibilità. »

La donna osservò il guercio con intensità, occhi di ghiaccio che mostravano le pupille nere al loro interno contrarsi e dilatarsi quasi ritmicamente, come a cercare di mettere a fuoco qualcosa di ben oltre alla semplice apparenza. Forse si era sbagliata nel giudicare quell’uomo, commettendo gli stessi errori di tutti coloro che in passato avevano deciso di valutare lei stessa: non era di certo un guerriero, non ne aveva il talento e l’esperienza per potersi definire tale, per competere con dei veri guerrieri, ma il di lui animo era libero. E forte.
Thyres le aveva bloccato la mano, impedendole di levare un colpo di grazia contro di lui quando ella aveva occasione e diritto di farlo. E forse, tale scelta, non era stata fine a se stessa.

« Due mezzi guerrieri per averne uno intero? » domandò lei, accennando un sorriso di fronte a quella logica.

mercoledì 20 febbraio 2008

041


A
ll’alba del terzo giorno dall’attentato subito, la donna guerriero riprese piena conoscenza. La febbre che aveva dilaniato il di lei corpo, originata dall’infezione frutto della ferita alla spalla, l’aveva finalmente abbandonata, concedendole per la prima volta un reale e sereno risveglio.
Riaprendo gli occhi la prima immagine che vide fu quella di un soffitto a lei noto, a cui seguirono rapidi i mille piccoli particolari contraddistintivi della di lei camera da letto nella locanda di Be’Sihl: era tornata nel luogo per lei più simile ad una casa, sdraiata nel di lei letto, avvolta in lenzuola pulite e lievemente profumate di fresco. La vista di quel luogo così familiare la tranquillizzò, evitando alla sua solita prudenza di costringerla a scattare in piedi alla ricerca della propria arma: al contrario, lo sguardo di lei restò per un lungo momento rivolto al soffitto ed alle mille sfumature dello stesso a lei più che note, concedendosi un istante di assoluto vuoto mentale prima di iniziare a riprendere il filo interrotto dei propri pensieri. Nel muovere solo lo sguardo attorno a sé, scorse due figure all’interno della stanza, semiaddormentate su due sedie non lontane dal letto ove lei era distesa: la prima figura era quella del locandiere, avvolto in una coperta multicolore dai riflessi vivaci a protezione dell’umidità e degli sbalzi di temperatura della notte; la seconda figura era quella di uno dei garzoni che solitamente aiutavano il proprietario nella gestione della locanda, a sua volta stretto in un’altra coperta, quest’ultima di lana grezza. I capi di entrambi, in quello stato di dormiveglia, erano appena ripiegati in avanti, appoggiando il mento contro il petto e generando, di conseguenza, un lieve russare. Il volto del shar’tiagho, appena corrucciato da un lieve velo di preoccupazione, appariva comunque sereno, come era sempre da quand’ella lo aveva conosciuto la prima volta: era la di lui voce che la donna aveva udito nel delirio in cui era rimasta immersa negli ultimi giorni, quel suono che non l’aveva abbandonata nelle oscure maree dell’oblio della morte, aiutandola a riemergere da esse. Un nuovo debito che ella sentiva così di avere nei confronti dell’unica figura amica in quella città rinnegata anche dagli dei.

Concedendosi sufficiente tranquillità mentale e fisica, Midda iniziò ad effettuare un classico controllo sul proprio corpo, a comprendere il livello di danno che aveva subito e quanta autonomia poteva esserle offerta. Non aveva idea di quante ore o giorni avesse dormito, ma sapeva di non potersi permettere una lunga convalescenza: in Kriarya non vi era posto per i deboli e se lei si fosse dimostrata debole, l’inferno che aveva appena attraversato sarebbe risultato quasi piacevole in confronto a ciò che l’avrebbe attesa. Iniziando dalla mobilità del capo, fu soddisfatta di constatare che solo un lieve dolore conseguiva al tentativo di ruotare il volto verso destra, tirando conseguentemente i muscoli ed i tendini connessi alla spalla lesa. Al contrario, meno contenta fu per la situazione degli arti superiori: laddove il braccio destro risultava perfettamente operativo, il braccio sinistro si ritrovava ad essere praticamente immobilizzato. La ferita alla spalla era ancora troppo fresca, troppo viva per tentare qualsiasi movimento ed, anzi, se si fosse sforzata di certo i punti che percepiva sulla propria pelle sarebbero saltati portandola a rischiare di morire dissanguata. Una prospettiva tutt’altro che piacevole, considerando ciò che aveva passato. La freccia, comunque, non doveva aver fortunatamente intaccato i polmoni o alcun altro organo vitale, altrimenti non sarebbe sopravvissuta per essere lì a constatarlo. Al di là del braccio destro, l’addome e le gambe parvero rispondere come sempre, rassicurandola sul proprio stato di salute e sulle proprie possibilità di sopravvivenza: il braccio sinistro era temporaneamente andato e con il destro non avrebbe mai potuto gestire la spada, ma nonostante quello ella restava ancora una formidabile avversaria per la maggior parte degli abitanti della capitale, membri della Confraternita compresi.
Completato quel controllo fisico, decise di provare a rialzarsi, approfittando del sonno di Be’Sihl, certa che altrimenti egli non le avrebbe concesso di muoversi ancora per lungo tempo. Nel contrarre delicatamente gli addominali al fine di recuperare posizione eretta, non poté evitare di denotare la propria nudità al di sotto delle coperte che l’avvolgevano, fatta eccezione per un ovvio e doveroso stretto bendaggio che le copriva l’intera spalla sinistra, avvolgendosi parzialmente anche attorno ai seni: la cosa non la imbarazzò, non avendo nulla di cui vergognarsi nel proprio corpo, ma introdusse un fattore di svantaggio nei piani di movimento che aveva in mente dato dall’assenza dei di lei abiti. Lo sguardo della donna, quindi, si mosse nell’intero perimetro della stanza alla ricerca dei propri quattro stracci, ritrovandoli puliti, anche più del solito, e ripiegati sulla scrivania: evidentemente il locandiere aveva avuto la premura di non liberarsi dei di lei vestiti, per quanto rovinati, arrivando addirittura a lavarli per farglieli ritrovare pronti per l’uso. Egli la conosceva abbastanza, infatti, da sapere che la donna teneva troppo a quei vestiti, se così si potevano definire, per pensare di sostituirli.
Scoprendosi dalle coperte e tenendo stretto a se il braccio sinistro con il destro, per non sforzarlo, ella adagiò delicatamente i piedi sul pavimento della camera, leggera e silenziosa come un gatto: dalla spalla ferita arrivavano spesso dolorosi avvertimenti, ma la di lei mente si impegnava a filtrarli, al fine di renderle possibile e sopportabile l’utilizzo del proprio corpo nei limiti di quanto le potesse essere concesso da quella lesione. Sollevatasi dal letto, sempre in assoluto silenzio, si mosse accanto al locandiere con la propria naturale grazia, superandolo e dirigendosi alla scrivania vicino alla quale stava riposando, per altro, il garzone. Giunta alla medesima, lasciò per un momento il proprio braccio sinistro per allungare il destro a impossessarsi nuovamente dei propri abiti ma in quel movimento, nel lieve spostamento d’aria conseguente a quell’atto, il garzone si ridestò: in un primo istante egli dischiuse gli occhi velati dal sonno, ad osservare il mondo attorno a sé senza però comprenderlo; poi, quando riuscì a mettere a fuoco le immagini, si ritrovò involontariamente ad esclamare un verso di stupore non meglio definito nell’incontrare le forme nude della donna guerriero davanti a sé, in uno spettacolo che, nonostante il bendaggio, offriva molte ragioni di meraviglia.

« Cosa succede? » farfugliò la voce di Be’Sihl, a sua volta risvegliatosi per colpa di quel gemito.
« Io… io… » balbettò il giovane aiutante, non riuscendo a staccare gli occhi dal corpo della donna ed, al tempo stesso, non riuscendo ad evitare di esplorare tutte le tonalità possibile di rosso con il proprio viso per l’imbarazzo.

Midda, dal canto suo, sbuffò sonoramente, impadronendosi senza più troppe premure dei propri abiti e ritornando verso il letto, desiderosa di rivestirsi e rimettersi in azione. Se solo quel ragazzo avesse continuato a dormire sarebbe potuta allontanarsi indisturbata, invece ora non avrebbe potuto evitare di sorbirsi una predica dal suo benefattore.

« E riprenditi. » commentò ella fra il severo e l’ironico, verso il garzone « Sembra che non abbia mai visto una donna nuda in vita tua… »
« Dove diavolo pensi di andare? » intervenne il locandiere, alzandosi di scatto nel vederla tentare di rivestirsi « La ferita non si è ancora rimarginata… »
« Avrà tempo di richiudersi quando saremo in viaggio verso Dairlan… non sai che è un viaggio lungo? » sorrise lei sorniona per tutta risposta, mentre con non poca difficoltà tentava di indossare il proprio perizoma.
« Tu sei pazza! » esclamò a quel punto Be’Sihl, muovendo una mano al fine di impossessarsi degli abiti di lei e costringerla, così, a restare a letto.
« Non ci provare. » lo fulminò con lo sguardo, ora seria, la donna, bloccandolo con la mano destra « Quei figli di cane hanno rapito Camne e mi hanno quasi uccisa. Vado solo ad esigere la vendetta mia di diritto: la legge me lo consente. »
« Ti farai ammazzare… » replicò egli, a denti stretti.

Nel vivo di quella discussione, nessuno si accorse della comparsa di una terza figura maschile sulla scena, che restò per un primo momento in divertito silenzio, salvo poi intervenire a stemperare gli animi.

« Sinceramente non mi interessa se vuoi farti ammazzare o meno, ma concordo sul lasciarti ancora un po’ nuda… sei un gran bello spettacolo, sfregiata. »

martedì 19 febbraio 2008

040


I
l sole era già tramontato e nuovamente risorto quando Midda riprese per la prima volta i sensi. Per lei fu come svegliarsi da un’abbondante bevuta di pessima qualità: pochi soldi di spesa per un mal di testa ed un senso di nausea senza eguali. Per coloro che vegliavano al di lei capezzale, invece, fu un momento di esultanza, arrivando a conoscere sensazioni di sollievo mai provate prima di quel giorno: era stata una pessima notte per tutti, non solo per la donna guerriero, ma alla luce di quella nuova alba tutto parve migliore.
Per ella non fu facile riuscire a porre nuovamente a fuoco le immagini del mondo attorno a lei. Per certi versi le parve di venire nuovamente alla luce, nascere sorgendo dall’oscurità del ventre materno alla luminosità di forme e colori della vita, così confusa eppur così indispensabile. Tre erano le sagome che la donna distinse attorno a sé, come contrasto d’ombra su uno sfondo chiaro. Sebbene l’aspetto più paranoico del di lei carattere le gridasse di prestare attenzione a quelle figure, di non concedersi un attimo di ulteriore tranquillità in una situazione di potenziale pericolo, il di lei raziocinio le fece fare mente locale sui suoi ultimi ricordi, sull’attacco a tradimento da lei subito durante il salto, sulla caduta verso l’abisso, impossibile da evitare. Se era ancora viva come sentiva di essere, le figure non identificate attorno a lei non potevano rappresentare un pericolo immediato. E, comunque, a stento riusciva a riconoscere il proprio respiro, il battito del proprio cuore: pretendere dal proprio corpo un’azione evasiva o, più semplicemente, un movimento anche banale era improponibile. La di lei logica si dimostrò vincente sull’istinto di sopravvivenza, permettendole dopo lunghi minuti di iniziare ad individuare meglio i bordi delle immagini: la vista stava iniziando a tornare chiara, ed insieme ad essa mille diverse percezioni sensoriali da tutto il corpo.
Dolore, innanzitutto, dolore diffuso, a partire dalla spalla sinistra, dove era stata colpita, per proseguire in ogni membra. Anche le tempie iniziarono a palpitare in maniera ossessiva, gridando nella di le testa per una sofferenza non ingestibile seppur molto forte, non straziante seppur assordante. E proprio alle orecchie di lei giunse il frastuono di un rimbombo, con il vigore di una frana, con l’impeto di una cascata di montagna: se solo avesse potuto, se solo fosse riuscita a muovere le mani, si sarebbe tappata le orecchie, ma in quel momento si sentiva come legata, impossibilitata fisicamente a qualsiasi atto. Il rimbombo, lentamente, calò, diventando meno distruttivo, assumendo una tonalità riconoscibile, trasformandosi nel suono di una voce.

« Non ti agitare. La febbre è ancora alta. »

Pace. Armonia. Serenità. Quelle erano le sensazioni che in quell’inflessione le furono offerte. La voce era nota, amica, ma non riusciva a riconoscerla, non riusciva ad associarla ad alcun volto. Ed i visi attorno a lei non riuscivano ancora a risultare chiari, non permettevano ancora di comprendere dove fosse e perché lì fosse finita.

« … »

Cercò di parlare, per pronunciare una parola, un nome, ma nessun suono uscì dalle di lei labbra, nessun accentò fu formulato dalla di lei lingua. Si accorse in quel mentre di avere la gola riarsa e la bocca secca al punto tale che tentare di muoverla le fece male. Qualcosa, poi, le sfiorò le labbra ed una sensazione di quieto refrigerio le venne donata: un panno umido, un pezzo di stoffa bagnata, le stava venendo offerto. Impossibile per lei sarebbe stato bere acqua in quel momento ed anche poche gocce avrebbero potuto soffocarla non diversamente da un torrente in piena: però in quel modo poteva succhiare delicatamente quel liquido, combattendo la disidratazione che le aveva reso la gorgia simile ai deserti di Shar’Mohr.
Deglutendo a fatica, tentò nuovamente di parlare, per esprimere l’unica cosa che interessava conoscere in quel momento, più del luogo in cui era, più dell’identità delle persone attorno a lei, più della propria condizione di salute.

« C… Camn… »

Una mano fresca, piacevole, accarezzò la pelle della di lei fronte, bloccandola in quel gesto, quasi a ribadire la richiesta precedente di non agitarsi.

« Non abbiamo notizie di lei. » pronunciò piano, quasi in un sussurro, la stessa persona che prima le aveva richiesto quiete « Devi riposare. Non puoi fare nulla in queste condizioni. »

Midda chiuse gli occhi a quella notizia, non sforzandosi ulteriormente di comprendere il mondo attorno a sé. La sua protetta, il suo investimento rapito dalla Confraternita del Tramonto, era ancora in pericolo, ma una parte di lei era certa che comunque non le sarebbe stato offerto danno almeno fino a quando la giovane fosse risultata utile merce di scambio. Il biondo contro cui aveva lottato era stato chiaro: la Confraternita voleva qualcosa da lei, desiderava le gemme di Sarth’Okhrin che lei aveva recuperato dalla palude di Grykoo, e fino a quando ella non gliele avesse consegnate, Camne sarebbe stata l’unico mezzo utile a ricattarla. Qualcosa, però, non riusciva a tornarle chiaro in quel filo confuso di pensiero, difficile da mantenere nel delirio febbricitante in cui si trovava, con la testa martellante per il dolore e le carni in fiamme: se la Confraternita desiderava sfruttare Camne per ottenere qualcosa da lei, che senso poteva avere attentare alla di lei stessa vita? Che senso poteva avere cercare di ucciderla, soprattutto con un attacco a tradimento come quello da lei subito? Non vi era ragione, non vi era logica in quanto era accaduto. A meno che non vi fossero altri giocatori in partita, avversari di cui lei ancora non aveva avuto modo di conoscere identità e scopi. Solo in quel modo il tentativo di assassinarla poteva trovare una ragione, per quanto non ancora chiara.
Doveva riposare. Doveva rimettersi in forze, Solo in quel modo avrebbe potuto lasciare quel letto. Solo in quel modo avrebbe potuto cercare la ragazza rapita, la giovane che si era ripromessa di ricondurre a casa. E solo in quel modo avrebbe potuto cercare chi aveva attentato alla di lei vita, chi desiderava la sua morte al punto tale da non degnarsi neanche di affrontarla a viso aperto, ordendo alle di lei spalle, contro la di lei esistenza. E quando fosse riuscita a ritrovare Camne, l’avrebbe accompagnata fino a casa, fino alla sua isola sperduta nei mari del nord. E quando fosse riuscita a scoprire l’identità dei suoi nuovi nemici, li avrebbe uccisi.

« Regola… numero uno... » sussurrò, inudibile a chiunque, prima di abbandonarsi all’oblio.

lunedì 18 febbraio 2008

039


L’
oscurità avvolgeva completamente la donna guerriero. Un’oscurità psichica, emotiva, spirituale ancor prima che fisica. Come priva di una consistenza materiale, come liberata dai vincoli di un corpo mortale, ella si sentiva sospesa nel nulla, racchiusa nelle tenebre.

« Dove sono? » tentò di pronunciare.

Nessun suono però riecheggiò nell’aria attorno a lei: non la sua stessa voce, non altre voci. Non rumori di fondo, non un respiro, non un battito cardiaco: il buio che aveva rapito ogni senso di lei non le offriva alcuna percezione del resto del mondo. Ammesso che il mondo potesse essere ancora esistente per lei, ammesso che lei fosse ancora esistente per il mondo.

« Sono morta? » chiese ancora, senza riuscire però a rompere quel velo di silenzio.

Per un momento il panico si impossessò di lei: non aveva mai temuto la morte, considerandola parte fondamentale dell’esistenza, imprescindibile conclusione della vita, traguardo che tutti avrebbero prima o poi raggiunto. Era da sempre fermamente convinta che lasciarsi impaurire da essa avrebbe significato perdere la possibilità di godere di ogni giorno che gli dei le avrebbero concesso di vivere: l’umana esistenza, per quanto molti si potessero ritenere al centro dell’universo, era troppo effimera, troppo breve per potersi permettere il lusso di sprecare il proprio tempo nel timore del futuro, del confine ignoto rappresentato dal decesso. Anche per lo stile di vita che ella aveva scelto, per quel lavoro che la portava ogni giorno a svegliarsi con la consapevolezza che sarebbe potuto essere l’ultimo, ella amava pensare alla morte come ad una nuova avventura, all’ennesima impresa in cui si sarebbe avventurata con ardore e sprezzo del pericolo quando le sarebbe stato richiesto, a testa alta con la stessa fierezza con cui ogni giorno aveva affrontato la vita.
Nonostante la fermezza di quel suo pensiero, di quella filosofia che da anni l’accompagnava in ogni istante della propria esistenza, quell’oscurità le offrì un istante di smarrimento, di panico: poteva davvero essere quella la fine di ogni cosa? Poteva quell’oceano cupo ed indefinito essere la di lei ultima grande impresa? Aveva davvero vissuto tutta la propria vita, lottando ogni giorno con tutte le proprie forze, per quell’oblio eterno? Non voleva, non poteva accettare che quella fosse la morte. La morte non poteva essere l’annullamento della vita o l’esistenza stessa non avrebbe potuto avere valore in tale conclusione.

« Non sono morta. Non posso essere morta. » disse di nuovo o, per lo meno, cercò di dire, senza successo.

Per quanto l’oscurità si imponesse su di lei, in lei, facendo di lei stessa fredda tenebra, ella non volle abbandonarsi in quel vortice di non esistenza: ancora una volta la di lei volontà lottava con ogni forza, con ogni energia contro il destino avverso. Non poteva e non voleva accettare che quella fosse la morte, ma se tale si sarebbe dimostrata ella non l’avrebbe ugualmente accolta: in vita era riuscita dovunque chiunque altro aveva fallito, grazie alla propria perseveranza, grazie alla propria tenacia, grazie alla propria audacia. Viva o morta che ora lei fosse, non avrebbe chinato il capo anche laddove nessuna testa le potesse essere rimasta: avrebbe lottato.
Avrebbe lottato, come da sempre aveva fatto.
Avrebbe lottato per ciò in cui ella credeva.
Avrebbe lottato per il proprio diritto ad essere.

« Io non sono mort… aahhh!!! »

Un grido.
Ed in quel grido la voce. La di lei voce che per un istante, per un rapido istante, in un lampo di luce risuonò come un tuono in una notte di bufera. Per un solo momento, un momento fuggevole ed eterno, le tenebre di quell’universo oscuro in cui era finito si squarciarono in un bianco abbagliante, che accecò la di lei vista, mentre il corpo stesso, ritornando presente e vivo, le comunicò un incredibile, ingestibile dolore. Dalla non esistenza in cui era precipitata, improvvisamente le di lei membra sembrarono risorgere, forse come conseguenza del di lei desiderio di lotta e di vita, forse come reazione a qualche ignoto stimolo esterno: ogni fibra del di lei essere gridò di pena, in uno strazio tanto immenso quanto rapido. Quel dolore, quello spasmo di vita che a lei aveva ridonato la luce dell’esistenza, scomparve in una cascata di rosso sangue, che coprì ogni cosa.
Dopo quel momento, dopo quel dolore ingestibile, ella non ebbe neanche la forza di formulare un pensiero di senso compiuto. Per un tempo indefinito, forse pochi secondi o forse ore intere, restò sospesa ed inanimata in quel torrente di tenebra, lasciandosi trascinare nell’invisibile ed impalpabile corrente d’oblio.
Quel dolore, però, le offrì al contempo speranza laddove chiunque altro avrebbe trovato sconforto.
Ella era infatti consapevole di una realtà forse banale, ma che alla maggior parte delle persone sembrava sfuggire: solo i vivi potevano patire, soffrire, gemere e gridare. La vita stessa, dal momento della venuta al mondo, si legava da sempre al dolore ed al sangue, tanto per la madre quanto per il figlio: il primo atto, la prima azione di chiunque nel giungere alla vita, era rappresentato da un urlo ed un pianto e non da una risata di gioia, non da un felice inno cantato. Provare dolore significava vivere: nulla era certo nella morte, nulla era noto sul ciò che avrebbe atteso oltre la vita, tranne la fine sicura di ogni male, di ogni sofferenza, di ogni patimento. Laddove lei ancora provava dolore, laddove ancora il male imperversava attraverso le membra di cui non riusciva neanche più a sentire la presenza, allora non poteva essere morta, non poteva aver abbandonato l’esistenza.
Qualsiasi cosa le stesse accadendo, lei poteva, lei doveva ancora lottare. Lottare per vivere.

« Ce la farà? »
« Se riuscirà a superare la notte sì. »

Voci. Voci che giunsero confuse nell’oscurità in cui lei era perduta. Toni noti o forse ignoti, suoni estranei o forse familiari: quelle parole si mossero nella di lei mente in maniera caotica, indecifrabile, incomprensibile. Apparivano tanto vicine da risuonare come voci di giganti, ma al contempo tanto lontane da sembrare sussurri quasi impercettibili.

« Ho fatto tutto quello che mi era concesso: ora è nelle mani del destino. »
« No. Sbagli. E’ il destino ad essere nelle sue mani. »
« E’ una guerriera: la lotta è ciò per cui è nata. Lotterà. »

Destino. Guerriera. Lotta. Quelle parole erano le uniche che riusciva a comprendere. Le uniche che sembravano arrivare chiare anche nella quiete caotica in cui era avvolta, nell’oscurità che la incatenava, con maglie forti, avvolgenti, tanto strette da farle male, psicologicamente e fisicamente.
Le voci, di chiunque fossero, parlavano di lei. Parlavano di una guerriera. Una donna guerriero in lotta. Lotta per il destino. Per il proprio destino. Quella era la di lei storia, quella era la di lei vita, quella era la di lei esistenza: lei era donna e guerriero, in lotta per il proprio destino. Per creare il proprio destino, con la propria forza di volontà, con la propria energia interiore.

« Lotterò! » cercò nuovamente di gridare, a comunicare con le voci che udiva ed a cui voleva aggrapparsi, per emergere da quell’oceano di oscurità e morte.

E quella parola, quell’affermazione dal sapore di promessa, riuscì a risuonare nelle tenebre, in un sussurro.
Un sussurro di vita e di volontà di vivere.

domenica 17 febbraio 2008

038


S
arth’Okhrin: con il suo ultimo spasmo di vita, l’uomo aveva pronunciato quel nome, forse per tentare di rispondere alla domanda che Midda gli aveva posto prima dell’attacco finale. La Confraternita del Tramonto aveva così rapito Camne solo per poterla utilizzare come merce di scambio, al fine di impossessarsi delle mistiche gemme che la donna guerriero aveva recuperato nella palude di Grykoo. Ma quelle gemme non erano più in suo possesso e nel momento in cui essi sarebbero giunti a comprenderlo, la vita della ragazza non avrebbe avuto più alcun valore.
Per la donna guerriero ormai non era più solo una questione di ricompensa: certamente la giovane rappresentava per lei un investimento, un investimento che non desiderava perdere, ma di fronte a quel fatto la situazione si era spinta ben oltre ad una semplice e potenziale quantità di denaro. La Confraternita del Tramonto aveva deciso di sfidarla a viso aperto, forse stanchi delle di lei intromissioni nei loro affari o forse unicamente perché pagati per tale scopo, ed ella non poteva e non doveva ignorare la gravità di quel fatto. Se si fosse tirata indietro in quel momento, se avesse ceduto in quel frangente alla prepotenza della Confraternita, tutta la sua indipendenza, tutta la sua futura esistenza sarebbe stata segnata da tale scelta di ignavia: ancor peggio, quel di lei chinare il capo di fronte a tanta arroganza avrebbe contribuito all’ascendere del potere dell’organizzazione anche in Kriarya, l’unica città che ancora sembrava in grado di resistere al loro giogo. Era quindi in gioco molto di più della semplice quantità d’oro che aveva contato di ottenere nel riportare a casa la ragazza dai rossi capelli.

« Cani maledetti! » sussurrò a denti stretti, estraendo di scatto la lama dal corpo del proprio avversario per riprendere l’inseguimento degli altri due compari.

La donna guerriero aveva visto la coppia di mercenari continuare nella fuga sui tetti dirigendosi verso il versante settentrionale della città: il confronto con l’ormai defunto avversario le aveva fatto sicuramente perdere qualche minuto prezioso, ma era certa di poter ancora recuperare, di poter colmare il divario creatosi fra lei e le di lei prede. Dovunque essi si stessero dirigendo, ella li avrebbe raggiunti: era più agile, più veloce, più scattante di loro ed essi erano anche appesantiti dal fardello della loro vittima. Non avrebbero mai potuto sfuggire alla sua ira.
Con uno slancio controllato, ella si gettò oltre il tetto su cui era risalita diretta verso quello dell’edificio confinante, dove aveva visto saltare prima di lei i due membri della Confraternita. Il salto era breve, poco più di nove o dieci piedi, e la donna guerriero non avrebbe avuto difficoltà a compierlo se un imprevisto non fosse piombato contro di lei, nella forma di una freccia: con un colpo violento al punto da mozzarle il fiato un dardo la colpì a tradimento alla schiena, sulla spalla sinistra, insinuandosi con precisione chirurgica fra la scapola e le costole appena sotto l’altezza dell’ascella e giungendo quasi a trapassarle il corpo da parte a parte nel ritrovare la punta di ferro contro l’interno della di lei clavicola. L’impeto di quel colpo bloccò bruscamente il balzo di lei, deviandone la traiettoria ed impedendo la corretta conclusione del medesimo: come un uccello colpito in volo, ella si ritrovò a precipitare, muovendo in maniera scomposta il braccio destro per cercare di raggiungere un minimo appiglio, una minima possibilità di salvezza dall’impatto al suolo. Il metallo nero della mano generò scie di scintille nel graffiare la pietra della parete dell’edificio, tentando di rallentare la caduta, di afferrare in punto d’appoggio: il dolore del colpo, della freccia nel proprio corpo, offuscava però la mente della donna, paralizzandola parzialmente nel bloccarle completamente ogni possibilità di movimento del braccio sinistro.

« Thyres… » gemette la donna, temendo di essere giunta al termine del proprio cammino.

La collisione fu inevitabile ma gli dei, evidentemente, celavano ancora dei piani per la vita ed il futuro di Midda: non la compattezza delle pietre di una strada lastricata la accolsero, altresì la morbidezza umida e nauseante, ma mai piacevole come in quel momento, di un vero e proprio cumulo di rifiuti. Il vicolo che divideva i due edifici, infatti, veniva usato come deposito di ogni genere di immondizia, al pari di molti altri nella città: lì il materiale di scarto attendeva il momento in cui la gente non avrebbe più sopportato la presenza del medesimo, decidendo di raccoglierlo e trasportarlo nelle discariche fuori dalle mura della capitale. La donna guerriero, quindi, non urtò contro una superficie dura e piatta, ma affondò in un cumulo di rifiuti alimentari e biologici, che assorbirono completamente l’energia cinetica della caduta senza offrirle danno.

Per un lasso di tempo che non fu in grado di quantificare, la donna restò in bilico fra la lucidità e l’incoscienza, in una posizione quasi innaturale assunta dai propri arti, gettata come era in quell’ammasso informe non diversamente da vecchia bambola danneggiata. Il tutto era avvenuto così rapidamente, così simultaneamente, che la sua mente non era riuscita ancora ad elaborare in maniera completa gli eventi occorsi: una parte di lei era ancora convinta di essere in volo fra i due edifici, non conscia della freccia che, spezzatasi nella caduta, quasi le trapassava il corpo, tamponandole però al contempo la ferita ed evitandole per sua fortuna il rischio di morire dissanguata. Il dolore provato, comunque, riportò l’attenzione di lei alla realtà dei fatti: non era riuscita a compiere il balzo. Qualcosa, ignorando ma sospettando la natura del dardo, aveva interrotto il di lei salto in un attacco a tradimento, privo di ogni onore. Era caduta, era precipitata dalla cima dell’edificio, ma la vita non aveva ancora abbandonato il di lei corpo: Thyres le aveva concesso una possibilità di sopravvivenza e lei non doveva ignorarla. Doveva levarsi da quel fetido giaciglio, di cui però non riusciva a sentire l’odore tanto era lo stordimento nel di lei corpo: se fosse rimasta lì, sarebbe stata alla mercé di chiunque si fosse accorto della di lei caduta, di chiunque passando avesse visto le di lei forme mischiate a quel cumulo di immondizia. Si era forse salvata dall’impatto con il suolo, ma se non si fosse allontanata non sarebbe sopravvissuta alle insidie di Kriarya: nel migliore dei casi sarebbe stata derubata dei propri averi ed uccisa, nel peggiore dei casi si sarebbe ritrovata stuprata e ridotta in schiavitù. Non poteva accettarlo, non poteva sopportare l’idea di non essere morta solo per offrirsi a quegli ignobili destini.
Cercando di mantenere il poco di lucidità che le era ancora concesso, la donna guerriero richiamò a sé ogni energia, per riportare braccia e gambe in posizioni più naturali, per cercare di ritrovare il controllo sulle proprie membra ed ergersi da quella spazzatura: ma dove a stento riuscì a riportare le gambe ed il braccio destro ad una postura umana, il dolore alla spalla ferita non le permise alcun movimento per l’arto superiore sinistro né per il di lei corpo. Per quanto tentasse di contrarre gli addominali, il legno ed il metallo estranei nella di lei carne trasmettevano strazianti scariche di pura pena, che la stordivano come una serie di calci alle tempie, al cranio, togliendole anche la forza di gemere.
Tutta la di lei energia era impiegata nel tentativo disumano di restare sveglia, di mantenersi cosciente, di non abbandonarsi all’oblio che sembrava pretenderla. Ma per quanto ella fosse forte, per quanto la di lei volontà avrebbe piegato chiunque, le fatiche, le ferite subite durante l’ultima missione non erano ancora un ricordo lontano, presenti nella di lei carne, sulla di lei pelle, nel di lei animo: troppo poco tempo era passato dal compimento di quell’impresa senza eguali, in cui ella aveva portato il proprio essere oltre ogni limite, pretendendo una forza superiore a quella che possedeva, una resistenza quasi sovrumana da lei che era una comune mortale. Ed il prezzo di quell’ardire, il costo di quell’osare stava venendo preteso proprio in quel momento: se solo avesse concesso veramente al proprio corpo la possibilità di riprendersi, di ritemprarsi seriamente al di là del breve riposo concesso da un bagno e qualche ora di sonno, allora anche quella ferita, anche quella caduta sarebbero state sopportabili e lei si sarebbe potuta rialzare, per strapparsi a mani nude la freccia dal corpo e riprendere a combattere. Ma in quello stato, l’oscurità stava inesorabilmente calando sulla di lei mente, senza che ella potesse fare nulla per opporsi ad essa.

Mentre lo sguardo di lei perdeva lucidità, mentre i sensi lentamente la abbandonavano, lasciandola precipitare sola in un abisso mortale, una voce sopraggiunse apparentemente lontana alle sue orecchie. Parole che non riuscì ad ascoltare, a decifrare, nella confusione regnante nella di lei mente, ma che furono scandite da molto più vicino di quanto non potesse credere, con un tono sprezzante e quasi divertito.

« Questa sì che è una situazione paradossale. »