11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

venerdì 28 giugno 2013

1985


Sarebbe un giorno giunto un momento in cui, eventi allora presenti, istanti lì non soltanto attuali ma straordinariamente vividi, e anche, e peggio, terribilmente letali, sarebbero forse entrati a far parte di una canzone o di una ballata, di una cronaca o di un racconto, nel quale tutti coloro che a tale mortale giostra avevano partecipato, sarebbero stati idealizzati al ruolo di eroi, astratti quali personaggi, ancor prima che persone, nel confronto con i quali cercare di identificarsi, nei panni dei quali tentare di porsi, per rendere ancora più viva un’esperienza divenuta Storia e, per questo, necessariamente appassionante, alla quale bramare di poter prendere parte quasi fosse stata un giuoco invece che una battaglia, e una terribile battaglia, per delineare, lungo il labile confine fra la vita e la morte, chi sarebbe stato su un fronte e chi, diversamente, su quello opposto, chi sarebbe sopravvissuto, per raccontare ai posteri quanto realmente occorso, in una verità che pur si sarebbe necessariamente persa, e chi sarebbe morto, commemorato qual martire, vittima di crudeli, feroci e sempre impietosi avversari. E quando ciò sarebbe avvenuto, particolarmente ampia non avrebbe potuto che essere accolta la varietà di scelta loro presentata, in un numero di protagonisti sì elevato da poter trovare uno spazio adeguato, e un archetipo opportuno, per ognuno di loro, per quanto, forse e invero, distante da quanto, altresì, avrebbe dovuto essere ricordato esser stato, nel ritrovarsi drammaticamente tradito dal proprio stesso mito, dalla propria leggenda.
Vi erano i giovani apprendisti, l’uno scudiero, l’altro mozzo, Seem e Ifra, pressoché coetanei, ormai non più i fanciulli che avrebbero potuto vantar d’essere un tempo e, ciò non di meno, sempre tali agli sguardi di coloro che li avevano visti crescere al proprio fianco e che pur, mai, avrebbero potuto smettere di considerarli quali due ragazzi, con più anni da vivere innanzi a sé di quanti non ne avessero già vissuti alle proprie spalle e, ciò nonostante, non privati dello stesso rispetto allora dovuto a chiunque altro lì presente, lì pronto a combattere e morire, laddove se la morte fosse sopraggiunta, non avrebbe certamente offerto distinzioni, non si sarebbe indubbiamente concessa scrupolo alcuno, fra coloro che, nel confronto con le comuni aspettative di vita, avrebbero ormai potuto esser considerati anziani e loro due, che in alcuna misura avrebbero in tal senso potuto essere equivocati.
Vi era la fanciulla da salvare o, per lo meno, colei che un tempo era stata tale, Camne, la quale, ormai a sua volta cresciuta, maturata e temprata dagli eventi di una vita sicuramente inattesa e che pur l’aveva entusiasmata, non aveva più ambito a far ritorno alla propria tranquilla isola, nell’estremo nord occidentale del continente di Qahr, benché null’altro, un tempo, le avrebbe fatto più piacere, l’avrebbe vista più felice rispetto a simile prospettiva. Già una volta soccorsa, e ormai non più da soccorrere, ella aveva acquisito infatti ogni competenza, ogni conoscenza, per poter essere in grado di prestare autonomamente attenzione alla propria salute, alla propria sopravvivenza, non più disposta a disporsi inerme innanzi agli scherzi del fato, ai capricci della sorte, e altresì sol desiderosa di lottare, se necessario anche con le unghie e con i denti, per difendere il proprio diritto a essere, la propria libertà e i propri sogni, per così come, con sì indubbia forza, con tanta straordinaria energia, avrebbe sempre difeso.
Vi erano i due guerrieri spacconi, amici dal giorno della propria stessa nascita, fratelli di vita sebbene non di sangue, Howe e Be’Wahr erano da sempre stati agli opposti l’uno rispetto all’altro, e pur sempre straordinariamente uniti, legati l’uno all’altro in misura tale che né l’uno, né l’altro, avrebbero mai saputo immaginare la propria esistenza senza quell’incomoda, ma affezionata, presenza. L’uno alto e magro, l’altro più basso e muscoloso; l’uno sfoggiante la carnagione bronzea tipica dei figli del lontano regno di Shar’Tiagh, che pur mai aveva conosciuto, insieme a lunghi capelli neri composti in piccole trecce, l’altro pallido e biondo; l’uno più arguto, l’altro… meno; essi avevano affrontato insieme molte più battaglie e molti più pericoli di quanti chiunque avrebbe mai potuto supporre nell’incontrarli e nel rapportarsi con loro, probabilmente non riuscendo a trovare un equilibrio che potesse porre in giusta relazione il loro carattere allegro e spavaldo con, effettivamente, il coinvolgimento a tanti orrori quali pur essi avevano affrontato, potendo sempre fare affidamento l’uno soltanto sull’altro, ed entrambi solamente sulle proprie forze.
Vi erano i giovani amanti, Masva e Av’Fahr, tali resi non tanto per la propria età, ormai distante da qualunque ipotesi di fanciullezza, quanto per la freschezza del loro sentimento, del loro amore, appena scoperto, appena sbocciato, appena fiorito e pur, apparentemente, già destinato a una tragica conclusione, nella maestosa, trionfale e, pur, non di meno, drammatica, dolorosa sorte che, in quegli eventi non avrebbe potuto che essere loro promessa. E pur complice, addirittura galeotto, avrebbe dovuto essere comunque considerato tanto avverso fato, nell’averli costretti ad affrontare i propri sentimenti, le proprie reciproche emozioni, senza concedersi più alcuna insicurezza, senza riservarsi più alcuna esitazione, ignorando i timori di ciò che avrebbe o non avrebbe potuto essere, trascurando le paura di quanto avrebbe o non avrebbe potuto succedere, e limitandosi, semplicemente e straordinariamente, a vivere quell’ultima occasione loro offerta per amarsi, per baciarsi o, fosse anche e soltanto, per sfiorarsi, in una silenziosa promessa volta a rassicurarli che, anche nell’aldilà, si sarebbero sempre ricercati, sempre rincontrati.
Vi erano, ancora, i compagni fedeli, Noal e Hui-Wen, legati l’uno all’altro da un amore che, qualche stolto, avrebbe potuto giudicare contro natura, estraneo a ogni prospettiva di riproduzione e di sopravvivenza della specie, e che pur, nel proprio sentimento, nel proprio rapporto, capace di dolcezza così come di passione, di ascolto così come di complicità, avrebbero potuto vantare un’unione, un vincolo, tanto forte quanto stupendo, in una misura che, alla maggior parte delle altre coppie scioccamente definite normali, avrebbe potuto soltanto giustificare malinconica invidia, per quanto avrebbero voluto essere egualmente capaci di vivere, nella propria quotidianità, nella vita di tutti i giorni. Per entrambi, trovarsi, non era stato immediato, non era stato scontato, e pur, da quando si erano conosciuti, da quando insieme avevano giaciuto per la prima volta, mai più avevano supposto di potersi lasciare, nell’aver trovato, ognuno, nella controparte, quella felicità da sempre inseguita, da sempre agognata, e che pur era stata temuta qual crudelmente negata da un qualche dio bigotto. E se non gli dei si erano dimostrati sì superficiali da fermarsi alle forme dei loro corpi, allorché alla sostanza delle loro emozioni, nessun altro, uomo o donna mortale, avrebbe avuto ragione a dimostrarsi sì arrogante dall’esprimere una qualsivoglia condanna a loro discapito.
Vi era, poi, il forte mansueto, Be’Sihl Ahvn-Qa, colui che più, fra tutti, avrebbe potuto essere lì giudicato fuori dal proprio contesto, lontano dal proprio ambiente, nell’aver speso oltre metà della propria esistenza qual locandiere, e il valore del quale, ciò non di meno, alcuno avrebbe osato porre in discussione, nel riconoscere, in lui, un’energia sconosciuta anche alla maggior parte dei guerrieri, una forza ignota anche a quasi tutti coloro che, abitualmente, erano indicati qual possenti, un potere derivante dalla propria temperanza e dalla purezza del sentimento che pulsava da venti lunghi anni nel suo cuore, per difendere il quale si era dimostrato disposto, persino, a porre in dubbio non soltanto la propria vita ma, ancor più, la propria anima immortale, così come pochi altri, o forse nessuno, sarebbe stato egualmente capace di fare. E al di là del proprio aspetto medio, della propria altezza media, della propria corporatura media, nulla di mediocre avrebbe mai dovuto essere considerato in lui, non, per lo meno, in misura tale da permettergli di conquistare l’amore della donna da lui desiderata… della donna più straordinaria che mai, probabilmente, il mondo stesso avrebbe potuto conoscere.
E, infine, vi era proprio lei, il cavaliere errante, Midda Bontor, figlia prediletta di Tranith, signora a furor di popolo della città di Kriarya, in Kofreya, e cittadina d’ogni terra emersa entro la quale aveva sospinto i propri passi, in una insaziabile brama d’avventura, in un’apparentemente inappagabile esigenza di nuove sfide nelle quali porsi alla prova, nelle quali dimostrare il proprio valore e, in tal modo, sperar di offrire un significato alla propria stessa vita. Ella, di tale storia, di quella vicenda pur corale, sarebbe stata sicuramente la protagonista più importante, contraddistinta tuttavia da un carisma e da un’autorevolezza tale per cui, difficilmente, qualcuno avrebbe mai potuto realmente sperare di immedesimarsi in lei, più vicina all’incarnazione di un principio, ancor prima che a una vera e propria figura mortale, più prossima a un concetto, a un’idea, ancor prima che a una donna, umana e fallibile, così come, all’inizio di quella stessa storia, avrebbe potuto tanto chiaramente potuto dimostrare l’affilata lama fermamente premuta contro il suo collo, promettendole morte se soltanto avesse tentato una qualsivoglia ribellione.


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