Pur essendo nato e cresciuto entro le mura di Kriarya, veramente stupido da parte mia sarebbe stato ignorare i pericoli presenti in essa, non considerare la natura particolarmente nociva di determinati luoghi all’interno della città. La locanda di Be’Sihl, in fondo, rappresentava un’incredibile eccezione, non una regola, ed in molti altri luoghi simili, e neppure troppo lontani da essa, sarebbe stato estremamente dannoso per la salute di chiunque avventurarsi senza adeguate precauzioni, senza comprendere il destino a cui ci si sarebbe potuti condannare: del resto il lusso di poter riposare con entrambi gli occhi chiusi e senza stringere un pugnale in mano, non metaforicamente parlando, non si sarebbe concesso liberamente a chiunque per semplice spirito fratellanza universale, vedendo altresì il mio padrone richiedere in tal senso prezzi decisamente elevati, a compenso di quanto si poneva in grado di offrire al propri clienti. Per tale ragione, nel ritrovarmi costretto dal compito a cui mi ero votato, che volontariamente avevo abbracciato, ad inoltrarmi in alcune fra le peggiori zone della capitale, tutt’altro che entusiastico si propose essere il mio animo. Fortunatamente, nonostante da troppo tempo la mia vita aveva gravitato attorno alla culla protetta rappresentata dalla locanda di Be’Sihl, ciò che mi era stato dato modo di apprendere quand’ancora ero al servizio di lord Cemas non era stato dimenticato: discreto e rapido, così, riuscii ad attraversare l’urbe, raggiungendo illeso, senza essere coinvolto in alcuna rissa mortale, l’osteria indicatami dalla mercenaria prima della sua ripartenza. Un edificio invero non troppo diverso da quello in cui vivevo e lavoravo da anni, in forma squadrata, elevato su solo due livelli e presentante diverse finestre bifore nel tipico stile kofreyota, quel luogo avrebbe potuto per me essere teatro dell’inizio di un nuovo capitolo della mia vita: consapevole di ciò, senza indugiare oltre, mi costrinsi a dimenticare ogni altro timore, paura, per sospingermi a varcarne la soglia, alla ricerca in esso del mio futuro.
L’atmosfera all’interno dell’osteria non risultò assolutamente diversa rispetto a quella esterna ad essa o al resto della città del peccato: all’epoca, personalmente, non avevo mai veduto un’altra urbe, non mi era mai stata concessa consapevolezza dell’esistenza di realtà diverse da essa, e solo in ciò ero in grado di considerare normale quell’ordine costituito sul caos, quella società fondata sulle leggi più primitive e naturali, ossia quelle della sopravvivenza del più forte. Nel ritrovare uno spettacolo che per chiunque altro sarebbe stato desolante, simile ad un incubo più che ad un luogo di ristoro e riposo, nel concedere violenza e sesso allo stato più puro, più incontrollato, non ebbi alcuna reazione, non provai alcuna remora ad entrare, non attendendomi del resto nulla di diverso da quello che mi venne offerto: prostitute imperversavano in ogni angolo della sala comune, ponendo sotto lo sguardo di chiunque la propria particolare mercanzia, intrattenendosi a volte con uno o, anche, con più clienti contemporaneamente senza proporre alcun interesse alle età, alle nazionalità o ai generi sessuali degli stessi nell’unico metro di valutazione dettato dal loro denaro, dalla loro capacità di ricompensare ogni servizio reso; mentre coloro che non erano impegnati nella ricerca di effimero piacere fisico in tali prospettive, poi, si impegnavano molto meno costruttivamente in violenti scontri, a volte giustificati da un eccesso di alcool, altre per semplice diletto, nel corso dei quali più che naturale si poneva l’accumulo di qualche cadavere sui lordi pavimenti del locale. E tutto ciò, essendo pomeriggio inoltrato, si poteva considerare quiete nel confronto con quanto si sarebbe potuto ritrovare solo poche ore più tardi, all’imbrunire, al calare delle tenebre. Senza ritrosia, i miei occhi spaziarono con interesse mirato in un tale coacervo di corpi, alcuni sanguinanti altri estasiati, alla ricerca di colui che avrebbe potuto offrire soddisfazione al mio viaggio fino a quel luogo, così lontano dal mio ambiente, dal mio lavoro: egli si presentò in un angolo, stretto fra due prosperose e praticamente ignude compagne, innanzi ad un tavolo riccamente apparecchiato sul quale le caraffe di vino ed i boccali di birra, ovviamente svuotati, quasi non si riuscivano a contare nel loro numero eccessivo.

Incerto fra avvicinarmi ad un simile soggetto, soprattutto in un momento reso particolarmente critico dalla presenza delle due prostitute e degli alcoolici nel suo sangue, decisi di proseguire ugualmente nei miei intenti, laddove fatta così tanta strada sarebbe stato sciocco ritrarsi, rischiando di non trovare più volontà e occasione di raggiungerlo come altresì mi era stata concessa in quel momento.
« Maestro Degan? » domandai, giungendo innanzi a lui.
Egli, in un primo istante, parve ignorarmi, troppo intento ad intrattenere le proprie labbra ridenti contro il seno della compagna alla sua destra, salvo poi voltarsi di scatto nella mia direzione, squadrandomi con una serietà assoluta: in quegli occhi, in quell’analisi, mi parve di rivivere la stessa esperienza già provata innanzi allo sguardo di Midda, sebbene infinitamente diverso, totalmente opposto, si proponesse il ghiaccio degli occhi della Figlia di Marr’Mahew rispetto alle tenebre di quelli dell’uomo ora innanzi a me.
« Non mi può interessare alcun incarico da parte del tuo padrone, servo. » sentenziò, con voce appena rauca, ma chiara e decisa, tutt’altro che dominata dagli effetti del vino come già mi ero atteso di sentire « Torna alla torre dalla quale sei uscito, finché ti è concesso di farlo con le tue gambe… »
« Io… » tentennai, esitai, estraendo un rotolo di pergamena da sotto una manica della mia casacca, incerto su come procedere in quel frangente « Io non sono venuto per conto di alcun padrone, mastro Degan. »
Malgrado le due prostitute non si fossero mimicamente interessate alla mia presenza o alla momentanea distrazione del loro cliente, continuando ad offrirgli le proprie maliziose effusioni, egli mantenne la propria attenzione su di me, forse incuriosito da quella svolta inattesa, da quella risposta che contrariava quanto aveva creduto fosse il mio scopo in quel luogo, davanti a lui. In silenzio, così, attese che io riprendessi voce, senza offrirmi incitazione più del dovuto, laddove già eccessivo favore mi stava evidentemente concedendo nel non ignorarmi come aveva lasciato credere avrebbe fatto.
« Una donna mi ha invitato a pormi alla tua presenza… » enunciai, allungando con un lieve tremore la mano destra, e la pergamena, verso di lui, al di sopra del tavolo che ci divideva « Midda Bontor è il suo nome. E mi ha chiesto di consegnarti questa missiva in sua vece. »
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