11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

venerdì 13 gennaio 2012

1455


« P
er ora… li voglio vivi. »

Stanchi, demotivati, e non poco irritati, i pirati della Mera Namile avrebbero sinceramente preferito strappare le carni dalle ossa di quei tre avversari prestando la massima attenzione a mantenerli ancora in vita, a non imporre loro troppo rapida, semplice e pietosa occasione di morte solo per prolungare entro i massimi termini possibili la loro sofferenza. Ciò nonostante, le parole della loro signora avrebbero dovuto essere considerate legge e, in ciò, non avrebbero potuto essere ignorate, non avrebbero potuto restare inascoltate, sebbene ciò avrebbe potuto significare rinunciare al gradevole gusto della vendetta per i già troppi morti censibili nelle loro fila. Così, ubbidienti a colei che sola aveva avuto l'ardire e il carisma per giungere al ruolo di regina di tutti i pirati di quei mari, essi reindirizzarono nuovamente la loro attenzione in direzione dei tre obiettivi iniziali, decisi a chiudere quanto prima il discorso con i medesimi. Per loro sfortuna, però, anch'essi avevano già maturato la consapevolezza della necessità di una rapida conclusione, ragione per la quale, senza particolare desiderio di immolazione personale stavano lì cercando una possibile via di fuga.
Per quanto, infatti, Hui-Wen, Camne e, soprattutto, Berah si fossero sospinti sino al ponte della Mera Namile animati da una pur trasparente volontà di vendetta oltre che di semplice esecuzione della strategia concordata, alcuno fra i tre avrebbe potuto ignorare quanto, proprio malgrado, quello non avesse da giudicarsi il momento opportuno per conseguire un tal scopo, ove già estremamente grati avrebbero dovuto essere agli dei tutti per l'occasione di sopravvivenza loro accordata sino ad allora. Così, nel momento in cui apparve chiaro che Be'Sihl e la sua amata Midda si erano posti in salvo, o condannati a morte, difficile a dirsi in conseguenza della scelta dello shar'tiagho, senza bisogno di una sola parola i tre marinai della Jol'Ange votarono a favore di una repentina ritirata, cercando di abbandonare quello stesso territorio pur tanto faticosamente conquistato sino a quel momento. Una speranza, la loro, che, per un istante, parve ottenere nuovamente il beneplacito divino, nel concedere al compatto gruppo un generico disinteresse a proprio stesso riguardo, ove ogni attenzione si era ritrovata fortunatamente rivolta all'indirizzo del locandiere. Una speranza, la loro, che, ancora, malgrado la condanna emessa a loro stesso discapito, parve non poter essere ormai negata, non poter più essere ritrattata, ove già proiettati verso la goletta con tutte le proprie energie, con tutte le proprie forze, irrefrenabili, inarrestabili. Una speranza, la loro, che, purtroppo, si vide altresì essere spazzata via in conseguenza dell'intervento di coloro che soli, sino a quel momento, si erano riservati un ruolo di meri spettatori, e che, nel cogliere quella praticamente certa vittoria da parte degli avversari, decisero di prendere in mano il timone del loro stesso destino, spazzando con incredibile violenza e straordinaria rapidità ogni ipotesi di fuga sino a quel momento apparsa qual retorica.

« Dove pensi di andare, lurido figlio di Hyn dal muso giallo?!… » domandò capitan Dorf, nel mentre in cui, simile a un dardo, dalle sue mani venne proiettata l'ennesima cima armata di rampino metallico alla propria estremità, in questa occasione non tanto rivolta alla conquista di un contatto con la nave avversaria, quanto, e piuttosto, dedicata in tutto e per tutto al povero Hui-Wen, sì volgarmente apostrofato.

Proprio Hui-Wen, con un margine di un flebile fremito di ciglia, di un impercettibile battito di cuore, fu il primo a cadere in conseguenza di tale offensiva, ove, paradossalmente, egli si sarebbe potuto già considerare in salvo, nell'essere giunto sino alla balaustra e nel star già saltando in avanti, non tanto nella volontà di imitare l'azzardo proprio di Be'Sihl, quanto in quello di lasciarsi scivolare lungo una delle numerose funi lì tese sino alla propria cara Jol'Ange. Il figlio di Hyn, così come pur correttamente definito dal capitano pirata, venne infatti e allora superato dal triplice uncino lanciato con straordinaria maestria da Dorf, il quale, senza concedere neppure occasione di comprendere cosa fosse accaduto, richiamò a sé quella sgradevole forma metallica, lasciandole aggredire la spalla mancina dell'uomo e, in tal punto, in tal modo, conquistando una solida, e dolorosa, posizione in essa, non dissimile da un pesce preso all'amo. E se pur già slanciato in avanti Hui-Wen si era lì dimostrato, obbligatoriamente richiamato all'indietro si ritrovò in conseguenza di simile offensiva, ricadendo in parte all'esterno del perimetro della Mera Namile e li restando appeso, con un umano, e straziante, grido di dolore, e di rabbia, per quanto così impostogli.
Non solo, tuttavia, l'uomo della Jol'Ange si ritrovò così condannato, là dove quasi contemporaneamente a lui, se pur con un minimale ritardo utile a concederle visione di quanto già imposto a loro discapito, anche la giovane Camne si ritrovò arrestata nella propria corsa, nella propria fuga da quel ponte, non per effetto di una qualche azione contro di sé rivolta dal già impegnato Dorf, quanto, e peggio, dalla donna presente al fianco della sovrana dei mari, e non conosciuta qual, in passato, nota con il nome di Carsa Anloch.

« Ferma, cagnetta! » ordinò Tahara, nel contempo in cui i suoi terribili pugnali si riservarono occasione di rendere il proprio comando più incisivo, privando la propria supposta interlocutrice della possibilità di ignorarla, di sottrarsi a simile imperativo.

Se, infatti, l'arma abitualmente propria di Carsa era da sempre stata una poderosa ascia da battaglia, più sottili, agili e non meno letali pugnali sarebbero dovuti essere riconosciuti quali le lame preferite da Tahara all'inizio di quella che sarebbe dovuta essere riconosciuta quale un'opera di infiltrazione all'interno delle fila nemiche, di quelle stesse schiere nelle quali, poi, aveva evidentemente deciso di permanere e di riservarsi un ruolo di primaria importanza. Pugnali per mezzo dei quali, al servizio di Nissa, ella aveva già avuto occasione di abbattere un temibile, e ipoteticamente invincibile, ippocampo. Pugnali per mezzo dei quali, ancora, ella poté inchiodare, letteralmente, la propria nuova vittima dai rossi capelli al legno della balaustra della nave, trapassando entrambe le sue spalle in posizioni tali da non imporle ferite mortali ma, al tempo stesso, da procurarle non poco dolore e, peggio, da imporle un'impossibilità a qualunque ulteriore movimento, a qualunque evasione per così come sperata, per così come desiderata e bramata, concedendole qual sola libertà quella di gridare, a sua volta, la propria pena e la propria ira.

« Dannazione! » esclamò Berah, costringendosi a frenare il proprio cammino non tanto perché, al pari dei propri compagni colpita, ferita e resa inabile alla fuga, quanto, piuttosto, proprio in quanto, a differenza loro, ancora capace di muoversi e di agire, e, in ciò, psicologicamente impossibilitata ad abbandonarli, a lasciare alle proprie spalle coloro che sapeva non avrebbero potuto seguirla, non avrebbero potuto raggiungerla.

Fuggire in quel momento avrebbe significato lasciare indietro Camne e Hui-Wen, tradendoli in misura non inferiore rispetto a quanto, cinque anni prima, tutti loro erano stati traditi dagli emissari di Nissa Bontor. Ed ella, per amore verso se stessa oltre che verso i propri compagni di viaggio e di vita, non avrebbe potuto macchiarsi del loro sangue così come necessariamente sarebbe stato se solo non si fosse fermata, non avesse condiviso il loro fato, a prescindere da quale esso sarebbe potuto essere. Più di un rampino infilzato nel petto e più di due pugnali conficcati nella schiena, pertanto, sulla seconda figura di riferimento, di comando, della Jol'Ange poté il dolore, la pena dei propri compagni, coloro che mai avrebbe avuto l'egoismo di abbandonare, fossero essi persino già cadaveri qual pur, ancora, lì non erano.
Così, ove anche folle sarebbe stato per lei indugiare un istante di più su quel vascello, ella arrestò la propria ritirata e si voltò repentinamente in direzione della propria sola e reale avversaria, la propria nemica, colei che sola, fra l'altro, avrebbe dovuto essere condannata qual responsabile della morte del suo amato Salge. E, lasciando roteare la propria lama attorno ai propri fianchi, sancì in tal gesto e nelle parole che ne seguirono il proprio stesso futuro, la propria decisione volta a restare… e restare sino a quando, per lo meno, non fosse riuscita a uccidere quella donna o non fosse morta nel tentativo.

« Nissa Bontor! » ruggì, stringendo poi i denti come a prepararsi a un tremendo dolore « In nome di Salge Tresand, capitano della Jol'Ange, io avrò la tua testa! »

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