« Tu cosa credi? »
In quella retorica risposta, sostanzialmente priva di reali spiegazioni, di una pur qualche informazione fra le numerose che pur la donna non aveva mancato di reclamare nella propria concisa domanda, Carsa, disattendendo ogni possibile previsione da parte della propria interlocutrice così come di qualsiasi ipotetico spettatore, offrì chiara evidenza e terribile riprova di un assoluto distacco da parte propria nel confronto con quegli eventi, un’indifferenza in seria e sincera negazione a ogni concetto di umanità, ove chiunque, in un simile momento, nel rapporto naturale con quella che sarebbe dovuta essere palpabile tensione lì imposta da quella sfida psicologica ancor prima che fisica, avrebbe pur atteso una qualsivoglia reazione, fosse anche, banalmente, di definito odio.
« Stai forse cercando di imitarmi? » richiese Midda, aggrottando la fronte in conseguenza a quella fredda reazione nei propri riguardi, nel comprendere, nell’intuire, il gioco chiaramente scelto dall’avversaria, ove era sua stessa prerogativa, del resto, agire in tal modo, impegnarsi in simile direzione nel confronto con i propri avversari, i propri nemici, non volendo donare loro alcuna trasparenza sul proprio animo e, in questo, alcuna possibilità di previsione sulle proprie imminenti mosse.
« Sto ponendo in essere i tuoi insegnamenti. Dovresti sentirti fiera di ciò… » osservò la giovane, ora con malcelato sarcasmo, piegando appena il capo di lato, senza allontanare, senza distogliere, in ciò, il proprio caldo sguardo dalla compagna e, in simile ammissione, maestra di vita.
Se pur perfetto, ineccepibile, sarebbe potuto e dovuto essere considerato il comportamento proposto da Carsa in quel tentativo di imitazione di colei scelta qual propria nemica, per quanto alcun sentimento avverso fosse sì oggettivamente stato dimostrato, a lei effettivamente risultata assolutamente simile, quasi replica perfetta in dimostrazione del grande talento indiscutibilmente proprio di quella particolare figura, di quella mercenaria più confidente con l’inganno che con la guerra, mai ella avrebbe potuto, comunque, offrire riprova del medesimo carisma proprio della Figlia di Marr’Mahew, dello stesso terribile gelo di cui solo quest’ultima sarebbe stata in grado di concedere dono ai malcapitati che avessero meritato simile condanna. Impossibile, del resto, sarebbe potuto essere credere che quegli occhi castani, così dolci e caldi, quella pelle color della terra, così morbida ed accogliente, avrebbero mai potuto eguagliare, in tal senso, in simile misura, l’effetto che sarebbe derivato dall’incontro con gli occhi color del ghiaccio o la pelle pallida ed eterea della controparte: inevitabilmente, infatti, alla prima sarebbero, suo malgrado, stati sempre associati concetti di vita, quali la piacevole estate, così familiare e cordiale nei riguardi di ogni creatura mortale, umana, animale o vegetale che essa fosse, mentre alla seconda sarebbero stati, al contrario, riservati concetti di morte, come il cupo inverno, così nemico dell’idea stessa di sopravvivenza, di futuro.
Un’imitazione certamente perfetta, quindi, che pur si sarebbe ritrovata naturalmente limitata dalla dolcezza intrinseca di quella giovane combattente, del suo corpo, delle sue forme, tanto piacenti e piacevoli, rispetto a quelle della controparte, al punto tale da penalizzarla nel pur sciocco, forse addirittura infantile, desiderio così tanto dimostrato. E di questo, Midda, non mancò di impegnarsi a offrire inequivocabile manifestazione, segnale, nel concedere in reazione all’ex-compagna uno sguardo sul gelo che il proprio animo avrebbe realmente potuto donare al prossimo, lasciando annichilire ogni propria emozione, ogni proprio sentimento, per disporsi innanzi all’altra, non dissimile da una statua di ghiaccio o, forse, da una divinità delle nevi.
« Se pensi di potermi essere pari, è meglio che tu ti renda subito conto di quanta strada ancora tu abbia da compiere per raggiungere un tale traguardo. » definì, con tono assolutamente inespressivo ora, atono quasi non provenisse da gola mortale « Purtroppo per te, il mio non è semplice atteggiamento, quanto, piuttosto, un sincero stato interiore, qual solo potrebbe caratterizzare chi si è vista privata, troppi anni fa, della propria vita e del proprio futuro così come lo avrebbe gradito, così come lo aveva da sempre sognato. »
« Ancora una volta vuoi offrire dimostrazione della tua superiorità, vuoi imporre spazio al tuo ego. » storse l’altra le proprie labbra, in segno di disapprovazione per quell’intervento, per la risposta impostale « Possibile che nulla, al di fuori della grande e potente Midda Bontor, può aver senso d’esistere ai tuoi occhi? Possibile che nulla, oltre a te, può avere ragione d’essere nella tua concezione del Creato? »

« Di cosa stai parlando, Carsa? Cosa sta accadendo? Perché è stata data vita a questo assurdo carosello? Cosa cerchi… o cercate da me?! » insistette la Figlia di Marr’Mahew, ben conoscendo la sola replica che avrebbe potuto ottenere, quella anche già tanto chiaramente definita anche da parte di Onej’A, nella propria inevitabile natura.
« Lo sai. » asserì l’altra, senza ancora cedere a possibili distrazioni, a disquisizioni di sorta nelle quali, chiaramente, la donna guerriero sembrava volersi impegnare, dal suo personale punto di vista nella pavida volontà di non affrontare le proprie responsabilità, la conseguenza delle proprie azioni « Non svilire il tuo intelletto fingendo di non sapere. Te ne prego. »
Un’immagine, quella offerta da Carsa, allora così come in ogni altra occasione passata, che, per quanto pratica nel proprio apparire, non cedendo il passo a inutili sprechi di stoffa nelle proprie vesti, quali fronzoli di varia natura o abbondanti gonne avrebbero preteso, difficilmente avrebbe lasciato comunque intuire la sua professione e, soprattutto, la determinazione che stava animando il suo animo in quella sera, per un fine ultimo votato al sangue, al dolore e alla morte. Tale natura, comunque, al di là di ogni possibile dubbio, di ogni necessità di intuito e supposizione, sarebbe invero emersa senza fatica, senza sforzo, nella coscienza di qualsiasi suo spettatore, nel momento stesso in cui questi, superando la facciata anteriore, si fossero spinti a osservarla di spalle: solo in quel momento, essi avrebbero potuto denotare come, dietro la sua schiena, ancora una volta per semplici questioni di comodità prima che per un qualche desiderio di riserbo, di sorpresa, un’ampia e pesante ascia da battaglia stava trovando il proprio giusto posto, legata contro un’epidermide delicatamente tatuata, una pelle tanto dolce da risultare in assoluto, se non blasfemo, contrasto con la violenza intrinseca di quell’arma.
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