11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

domenica 24 novembre 2013

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« Sono… un esecutore… dell’ufficio dell’accusatore Pitra Zafral. » rispose l’altro, con una certa esitazione che, obiettivamente, avrebbe potuto essere imputata alla spiacevole condizione in cui si era venuto a ritrovare e alla sorpresa per la medesima, ma che pur, all’attenzione più esperta di Duva, almeno con quel particolare genere di questioni, venne a essere interpretata in altri termini… e in termini utili, allora, a permetterle di muovere obiezione innanzi a quell’affermazione, così come, sono sincera, io non avrei avuto cognizione di causa per potermi riservare opportunità d’azione, nel non avere neppure idea, in quel frangente, di cosa accidenti avrebbe potuto essere un esecutore.
« Menti! » contestò, quindi, la mia compagna, nel mentre in cui, in reazione a quell’accusa, gli artigli di Lys’sh fecero discreta comparsa alle estremità delle sue mani, spingendosi a far sentire la propria presenza sul braccio del nostro interlocutore, nell’affondare delicatamente nelle sue carni appena sopra al gomito, in misura sufficiente a strappargli un lieve gemito, oltre a un quasi impercettibile sussulto, dimostrazione di come, malgrado tutto, egli avesse a doversi riconoscere come qualcuno addestrato a fronteggiare un certo genere di situazioni e, soprattutto, le possibilità di dolore da essere potenzialmente derivanti « Un esecutore è costretto a identificarsi con nome e numero di matricola prima di procedere a un arresto… »
« … e tu non ti sei identificato in alcun modo. E continui a non farlo. » sussurrò l’ofidiana, stringendosi maggiormente a lui, tanto da concedersi la possibilità, oltre che attorno al suo braccio, di insinuare furtivamente i propri artigli anche a contatto con la sua schiena, a un’altezza pressoché equivalente rispetto a dove, poco prima, mi era stata proposta la sua ormai inutilizzabile arma.

Volendo essere obiettivi, sinceramente non so valutare per quanto, ancora, le mie compagne e io avremmo potuto permetterci di spingerci in là in quell’improvvisato interrogatorio senza attirare inopportune attenzioni da parte di eventuali testimoni, a dozzine lì attorno comunque presenti.
Ciò non di meno, alla Storia non è dato di conoscere come i fatti avrebbero potuto in tal direzione evolversi, dal momento in cui, nostro malgrado, quell’inchiesta non poté riservarsi alcuna opportunità di proseguire nei termini che, forse, ci avrebbero portato ad attrarre qualche attenzione di troppo da parte di qualcuno fra i presenti. Non laddove, con un nuovo colpo di polso, allora metaforico ancor prima che fisico così come era stato un attimo prima, per parti ebbero a doversi considerare ancora una volta invertite, nel vederci ritornare a essere, da predatrici a prede, e da inquisitrici a inquisite, da assedianti ad assediate, nell’avvertire, ognuna fra noi e simultaneamente, un corpo estraneo al centro della schiena… una nuova arma da fuoco lì premuta, nell’estremità della propria canna, allora non soltanto contro di me, ma anche a discapito delle mie compagne, le quali, pur, non erano state prese precedentemente in considerazione.

« A questo giuoco siamo capaci di prendere parte anche noi… » suggerì un’altra voce maschile, ancora una volta sopraggiungendo da dietro le mie spalle, là dove, il mio nuovo candidato carceriere aveva dimostrato sufficientemente ingenuità a porsi, soprattutto nel confronto con quanto pocanzi accaduto al proprio compagno.
« Se tutto ciò non avesse a doversi considerare particolarmente imbarazzante, potrebbe essere riconosciuto quasi divertente… » obiettò Duva, aggrottando la fronte e, nel compiere ciò, cercando di cogliere il mio sguardo con il proprio, per indirizzarlo verso un obiettivo che, evidentemente, dal suo punto di vista avrebbe avuto a doversi considerare importante, e che pur, almeno in quel primo istante, io non riuscii ad apprezzare qual tale, neppure ove in tal maniera quietamente servitomi « O, forse, solo grottescamente ridicolo…  »
« … chi siete?! » domandò Lys’sh, nel mentre di tale domanda pretendendo qual propria l’attenzione non soltanto dei nostri interlocutori ma, più che altro, di entrambe noi altre, Duva e me, facendosi carico di rispondere all’invito della nostra compagna e, in ciò, di accentrare allora su di sé, volontariamente, il compito che pur avrebbe dovuto essermi proprio, e nel confronto con il quale non mi ero pur dimostrata pronta, non difettando, in tal senso, di buona volontà, quanto e semplicemente, mio malgrado, di competenza e, nel dettagli, di competenza utile a comprendere il messaggio che avrebbe dovuto essermi in tal maniera destinato « … cosa volete da noi? » insistette a chiedere, nel mentre in cui, a mia imitazione, in quello stesso frangente tu lei che iniziò a scandire il tempo con il movimento delle proprie ciglia, in tre, perfettamente misurati, battiti.

Pur io stessa ancora ignorando, di preciso, cosa avrei dovuto attendermi al termine di quel conto, non mancò di essere mia premura quella volta a preoccuparmi dell’incolumità di Lys’sh allorché della mia, fosse anche, in quel frangente, qual giusto prezzo da pagare in cambio della disponibilità da lei resa propria a operare là dove io, pur, non ero arrivata a comprendere di dover operare.
Così, quando il conteggio si spinse al terzo battito, e con esso all’inizio di una nuova, fulminea, azione; con la mia destra non mi spinsi alla ricerca dell’arma puntata contro di me, quanto, e piuttosto, al cranio dell’ipotetico boia della mia compagna e amica, sul quale feci piombare tutta la violenza del mio pugno ben prima che egli potesse anche soltanto prendere in esame l’idea di aprire il fuoco. Un’idea che, altresì, non mancò di coinvolgere il mio nuovo, potenziale, carnefice, il quale, dimostrando meno autocontrollo di quanto non era stato in grado di compiere il proprio collega, premette il grilletto della propria arma, la quale fece fuoco rendendomi, dolorosamente, edotta nel merito della sua effettiva natura. E se, oggi, sono ancora qui, a offrire resoconto e testimonianza di quegli eventi, allorché innanzi al cospetto dei miei adorati dei, sempre ammesso di non essermi da sempre sbagliata in merito a questioni di ordine teologico, lo debbo, obiettivamente, soltanto al mio stesso gesto rivolto a preoccuparmi della salute della giovane ofidiana, e, parimenti, all’assassinio, senza esitazione alcuna, senza la benché minima incertezza, del suo possibile assassino; gesto in conseguenza al quale, il mio intero busto ebbe a traslare lateralmente, sottraendosi alla bocca di quell’arma quanto sufficiente da permettere al laser che da essa fuoriuscì, di limitarsi ad aprirmi un doloroso, dolorosissimo buco appena sotto il rene sinistro, allorché esattamente nel centro della spina dorsale, là dove, senza alcuna possibilità di sofferenza, si sarebbe semplicemente limitato a stroncarmi.

« Thyres! » imprecai, non trattenendomi dal gridare e neppure ipotizzando di trattenermi dal gridare.

E se, nell’esplodere di un cranio per effetto di un pugno di metallo abbattutosi come una mazza sul medesimo, nonché nel fuoco di un colpo di arma laser che, oltre ad attraversare la sottoscritta, si premurò anche di trapassare il centro nel petto del nostro primo ostaggio e, più in alto ancora, il soffitto del vagone su cui stavamo viaggiando, già sufficienti ragioni avrebbero allora dovuto essere per scatenare il panico fra la folla a bordo del treno; il risultato dell’opera di Lys’sh ebbe, paradossalmente, a coprire parzialmente gli effetti più disastrosi di quello scontro, nel distrarre l’attenzione di tutti nell’imporre su ognuno una ben diversa ragione di agitazione. Perché quanto io non avevo colto, né avrei potuto cogliere neppure nel momento in cui Duva si fosse impegnata a indicarmelo con un’enorme freccia disegnata su un cartello, avrebbe dovuto essere identificato, come scoprii allora ed ebbi possibilità di meglio comprendere soltanto in seguito, in un grosso pulsante rosso d’emergenza, volto a imporre l’arresto immediato del treno.
Un arresto che, secondo dinamiche a me del tutto, e ragionevolmente, sconosciute, ma con le quali le mie due amiche, invece, dovevano avere un minimo d’esperienza, utile a giustificare la loro immediata intesa sotto tale frangente, comportò non soltanto una brusca frenata, che, quasi, sbalzò ogni passeggero a gambe all’aria, ma, ancor più, l’immediato spegnimento di ogni traballante luce artificiale all’interno di quegli spazi, in favore di una serie di altri faretti minori posti in corrispondenza di ogni uscita disponibile, a migliore identificazione delle medesime per permettere, almeno nell’idea dell’inventore di tale sistema, una più semplice evacuazione del mezzo laddove necessario.

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