11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

venerdì 21 dicembre 2012

Speciale 21 dicembre 2012


A cosa pensate quando pensate alla fine del mondo? A quell’epico giorno in cui gli dei decideranno di distruggere quanto hanno creato, e l’umanità, così come ogni bestia o pianta, montagna o pianura, mare o fiume, cesseranno di esistere per così come sono da sempre esistiti e, ingenuamente, ci siamo illusi che per sempre avrebbero continuato a esistere?!
Pensate, forse, a una pioggia di stelle, che si abbattono sulla terra con violenza tale da distruggerla, come un’adultera scarnificata dalla violenza della lapidazione? Pensate, forse, all’acqua tramutata in sangue, alla terra trasformata in una distesa putrescente, simile alla morta carne di un lebbroso? O pensate, forse, ai morti di epoche antiche, che si levano dalle loro tombe per marciare, compatti e bramosi di condannare ogni creatura vivente alla propria stessa eterna dannazione?!
Forse uno fra questi è lo scenario da voi immaginato; o forse voi siete fra coloro che rifiutano di accettare l’idea che il Creato possa conoscere una conclusione; che tutto ciò che oggi è, domani possa non essere più tale; convinti di come, se anche così si potesse dimostrar essere, ben misera possibilità di azione ci potrebbe essere riservata per opporci, al punto tale da rendere vana qualunque preoccupazione in tal senso, superflua qualunque agitazione a tal riguardo. In tal caso, sappiate che anche io, fino a qualche tempo fa, la vedevo esattamente come voi, del tutto disinteressato al pensiero che, così come un giorno gli dei ci avevano dato la vita, un giorno ce l’avrebbero potuta togliere, senza addurre a difesa di ciò una qualunque particolare ragione. Poi, un giorno, la fine del mondo è arrivata e, mio malgrado, sono stato costretto a fare i conti con tutte le mie superficiali convinzioni… e a cambiare idea.
Il mio nome non è importante. Così come non è importante il nome del luogo scenario di questa storia. Perché il mio nome potrebbe essere il vostro. E il nome del luogo scenario di questa storia potrebbe essere quello della vostra città, del vostro villaggio, del vostro insediamento. Perché, dimenticando per un istante scenari epici, addirittura leggendari, la fine del mondo che io ho vissuto è stata sicuramente meno impegnativa rispetto a quanto la maggior parte di voi non potrebbe credere, per quanto, in tutto ciò, non meno tragica, non meno dolorosa e sanguinaria: non la fine del mondo in tutta la propria complessità, invero, quanto e piuttosto la fine di un mondo, del mio mondo. Mio e di tutti coloro che, come me, erano nati e cresciuti entro i confini del villaggio nel quale io sono nato e cresciuto, e che, per l’avvento di un’oscura minaccia, hanno visto il proprio futuro posto in drammatico dubbio dall’oggi al domani, quasi gli dei si fossero, improvvisamente, disinteressati al nostro fato.
Non è questo ciò che speravate di sentir narrare? Non è questo ciò che credevate avrei condiviso con voi?
Sciocchi. Sciocchi. Sciocchi. Tre volte sciocchi per l’ottusità che, in tal modo, state dimostrando. Per il pericoloso limite che state ponendo alla vostra capacità di comprensione. Perché, se è vero che forse mai giungerà l’epica, leggendaria fine del Creato per così come tutti lo conosciamo; è pur vero che la fine di un nostro mondo, della nostra quotidianità, potrebbe occorrere ogni giorno, non meno devastante, non meno orrenda, di quanto qualunque vostra perversione potrebbe spingervi a immaginare o, peggio, ad auspicare.
Anche io, vostro pari, non pensavo possibile che la fine del mio mondo potesse avere la stessa valenza della fine del mondo in generale e, così come non mi ero mai preoccupato della seconda, ancor meno interesse avevo offerto nei riguardi della prima. Ciò, per lo meno, fino a quando la prospettiva della fine del mondo, del mio mondo, non m si è offerta terribilmente reale, concreta e preoccupante, in una misura tale da non concedermi la benché minima possibilità di comprendere più la differenza esistente fra quella e l’altra ove, dal mio, egoistico, punto di vista, alcuna differenza avrebbe allora potuto sussistere.
Così, quando la Piaga giunse, nelle tanto semplici, quanto terrificanti spoglie dell’esercito di un regno avverso al nostro, la benché minima esitazione poté essere nel cuore di alcuno fra noi, nella sgradevole consapevolezza di quanto quella fosse la fine. Non “una” fine. Ma “la” fine. La fine rappresentata dalle grida disperate delle nostre donne, stuprate e assassinate, non sempre in tal ordine, ove ben poca differenza avrebbe potuto rappresentare per i nostri nemici. La fine rappresentata dal pianto isterico dei nostri bambini, macellati non diversamente da agnelli immolati sull’altare di un dio nel giorno della festa a questi dedicata, offrendo, tuttavia, loro minor rispetto di quello che sarebbe stato altresì rivolto all’olocausto. La fine rappresentata dalla totale impossibilità dei nostri uomini di opporsi a tutto quello, non soldati, non guerrieri, ma semplici contadini, allevatori e artigiani, allora facenti propria la stessa minaccia che avrebbe potuto offrire una pecora innanzi a un branco di lupi. La fine. Impietosa e insindacabile. Inarrestabile e irreversibile. La fine. La fine del mondo.
Pensate ancora che io stia esagerando? Pensate ancora che la mia descrizione sia eccessivamente enfatica? O, forse, le mie parole vi hanno spinto a riflettere, e a considerare quanto la crudeltà dell’uomo possa essere superiore all’indifferenza degli dei nel definire la fine di tutto?!
Perché, credetemi, assolutamente preferibile sarebbe allora stato, per chiunque di noi, assistere a una terrificante pioggia di stelle, osservare l’acqua tramutarsi in sangue e la terra trasformarsi in una distesa putrescente, o ritrovarci sommersi da armate di non morti, segno di quanto vana sarebbe stata ogni nostra preghiera, ogni nostra supplica agli dei; ancor prima di porci qual vittime di nostri simili, di altri uomini e donne come noi, ma contro di noi sospinti dalla follia della guerra, e dalla crudeltà dei propri cuori neri.
Quella era la nostra fine. La fine del nostro mondo. E, fra tutte le possibili epiche conclusioni della nostra quotidianità, permettetemi di dirlo, quella faceva veramente schifo.
Ma cosa mi ha permesso di essere qui, oggi, a rendervi testimonianza di questi eventi e a invocare, in voi, una riflessione, sul valore di ogni singolo giorno che gli dei, ancora, ci stanno concedendo di vivere in questa esistenza, in questa quotidianità, in questo mondo, così come, forse, non sempre ci riserviamo occasione di compiere, dando per scontato, per ovvio, quasi per banalità, tutto ciò che, invece, possediamo?
Il fatto che quella non fosse l’epica fine del mondo, ma solo la fine del nostro piccolo angolo di mondo? No. Anche perché, come già ho detto, alcuna differenza avrebbe mai potuto esistere fra tali concetti. Non, quantomeno, dal nostro personale punto di vista.
Il fatto che i nostri nemici non desideravano massacrarci completamente, invocando la nostra scomparsa qual una semplice necessità? No. Anche perché, fosse dipeso da loro, alcuno fra noi avrebbe mai potuto sopravvivere. Non nell’ubbidienza al fondamentale principio bellico secondo il quale l’unico nemico buono, sarebbe dovuto essere considerato il nemico morto.
Il fatto che un qualche dio misericordioso volse a noi il suo sguardo carico d’amore, e ci concesse l’occasione di sopravvivere a discapito della violenza rivoltaci? No. Anche perché, onestamente, in quel giorno sono certo che gli dei si impegnarono a ribadire tutto il proprio disinteresse per le sorti del genere umano. O, quantomeno, di quella nostra piccola rappresentanza.
No. No. No. Tre volte no per l’errore che, in tal modo, potrebbe essere compiuto nell’interpretare le ragioni di questa mia cronaca, di questa mia narrazione. Perché, se è vero che non tutti morimmo in quel giorno maledetto, è altrettanto vero che l’unica ragione per la quale qualcuno sopravvisse, fu per l’intervento, a nostra protezione, a nostra difesa, di una mercenaria che, inattesa e insperata, sorse in nostra difesa, a nostra tutela, impegnando la propria sensazionale lama bastarda, e il proprio temibile pugno di metallo, a difesa del nostro diritto a esistere, in opposizione alla fine del mondo.
Midda Bontor, tale il suo nome, intervenne in quella funesta ora, non soltanto per salvarci dal fato di morte che avrebbe contraddistinto tutti noi; ma, ancor più per educarci, per aprirci gli occhi su una verità tanto banale e pur, abitualmente, così distante da ogni nostra possibilità di intelligibilità. Una verità alla luce della quale ogni indolenza, innanzi a qualunque fine del mondo, fosse anche quella più epica e incontrovertibile, avrebbe dovuto essere dimenticata, avrebbe dovuto essere violentemente rinnegata. Perché, la verità che ella volle donarci, fu quella che trasmise con l’esempio delle proprie azioni, del proprio operato, del proprio impegno: la capacità, per chiunque, di prendere in mano il proprio fato, il proprio destino, anche in opposizione al volere degli dei, in grazia alla propria forza d’animo, alla fermezza del proprio cuore e della propria mente nel confronto con qualunque minaccia alla propria autodeterminazione.
Perché ella, pur straordinaria guerriera, incredibile combattente, nulla si offrì di più o di meno rispetto a noi o ai nostri avversari. Semplice donna, non immortale, non invincibile, così come comprovato dalle sue molteplici cicatrici, nonché dal terrificante sfregio nel bel mezzo del suo stesso viso; e pur capace di plasmare presente e futuro in sola grazia alla sua volontà, all’ardore del suo spirito, come chiunque fra noi avrebbe potuto essere capace di compiere, ma come, altresì, solo da lei compiuto.
Ed ella ci salvò. Non tutti, ovviamente. Ma ci salvò. Arrivando, persino, a scusarsi per non aver potuto fare di più, per quanto nulla di più avrebbe mai potuto essere preteso da lei.
Midda Bontor evitò la fine del mondo. Del nostro mondo. Così come, ho scoperto solo in seguito, aveva già evitato la fine di altri mondi. E così come, non ho dubbi, sarebbe stata capace di evitare la fine del Creato, nella propria accezione più amplia… e chissà che, un giorno, non debba anche dimostrarlo al mondo intero.
A cosa penso quando penso alla fine del mondo?
Penso ai volti delle donne, dei bambini e degli uomini che persero la vita nel corso di quella fine del mondo. Penso alla crudeltà degli uomini e delle donne che, allora, rappresentarono la Piaga mortale, destinata a distruggerci completamente. Io penso a tutto il sangue che, in quel giorno, intrise la terra sotto ai nostri piedi, trasformandola in un’oscena fanghiglia. Penso a quanto una sola donna, straordinaria certo e pur comunque mortale, poté compiere per evitare l’inevitabile, per arginare l’inarrestabile, per impedire l’irreversibile.
E pensando a tutto questo, non posso che rammaricarmi per l’indifferenza che, prima di quel giorno, mi aveva caratterizzato così come, sono certo, animi la maggior parte fra voi. Indifferenza non solo verso il pericolo della fine del mondo, quant’anche verso ciò che avrei potuto perdere in tal fine. Perché nulla di peggio vi può essere che ignorare un pericolo, se non ignorare il valore di tutto ciò che, in conseguenza a simile minaccia, potrebbe esserci negato.
Un’indifferenza, la nostra, complice di qualunque fine del mondo… e, in ciò, nemica dell’autodeterminazione utile a permettere a tutti noi di sottrarci a qualunque arbitrio umano o divino in nostro contrasto.
Perché, nell’esempio che Midda Bontor mi offrì in quel giorno, salvandomi la vita, ho compreso come la fine del mondo inizi dentro di noi, nei nostri cuori e nei nostri animi, ogni qual volta in cui ci arrendiamo: ci arrendiamo agli dei e ai loro capricci; ci arrendiamo ai mortali e alla loro violenza; ci arrendiamo a noi stessi e alla nostra indolenza.
A cosa penso quando penso alla fine del mondo?
Penso a quanto ancora devo compiere per guadagnarmi il diritto a esistere ancora in vita dopo quel giorno. Perché la prossima volta, alla prossima fine del mondo, dovrò essere in grado di salvarmi da solo.

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