11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

giovedì 14 dicembre 2017

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Midda Bontor ebbe modo di contare non meno di sei settimane di viaggio prima dell’arrivo a destinazione. E per quanto, ancora, non avesse ben confidenza con la geografia astrale, né, tantomeno, con le velocità di viaggio di un’astronave, e ancor meno dell’astronave sulla quale erano stati caricati giacché neppure ne conosceva la classe o le caratteristiche; ella non poté che sentirsi sufficientemente confidente del fatto che, in sei settimane di viaggio, essi potessero aver non soltanto cambiato sistema solare, ma, più in generale, angolo della galassia all’interno del quale aversi a dover riconoscere collocati. Un pensiero, quello così ipotizzato, che non avrebbe potuto in alcun modo rallegrarla… non, quantomeno, a confronto con la distanza che, in tal modo, avrebbe avuto a dover essere riconosciuta qual posta fra lei e la Kasta Hamina, con la sua nuova famiglia lì trovata nonché il suo sempre amato Be’Sihl, e a confronto con la consapevolezza di quanto, allora, avrebbe avuto a doversi considerare sempre più sola all’interno delle immensità siderali.
In effetti, benché il suo approccio alla vita non fosse particolarmente mutato da quando aveva lasciato il proprio pianeta, il proprio mondo natio e tutto ciò che, sino ad allora, aveva avuto ragione di considerare qual realtà; la Figlia di Marr’Mahew non poté ovviare a rendersi conto, alla luce di tali riflessioni, di simili pensieri, di quanto, probabilmente, ella avrebbe avuto a doversi confrontare in maniera diversa con la vita, con i propri compagni di vita e, ancor più, con lo spazio a sé circostante. Giacché, benché già un intero regno o un intero continente avrebbero potuto sembrare così vasti da smarrire, potenzialmente in maniera irrecuperabile, le tracce di qualcuno, in semplice conseguenza a un imprudente allontanamento qual quello che l’aveva veduta decidere di separarsi dai propri compagni per proporsi in aiuto a Tagae e Liagu; all’interno di un più amplio concetto di realtà, qual quello per lei allor circostante, tutto ciò non avrebbe potuto ovviare a essere enfatizzato, a essere moltiplicato, in maniera esponenziale, rendendo potenzialmente impossibile, per lei, trovare un modo di ricongiungersi ai propri amici, al proprio amato, o anche soltanto sperare di poter trovare un modo di ricongiungersi a essi, nella difficoltà, ancor obiettiva, di confrontarsi con le dinamiche proprie della realtà a lei circostante.
In altre parole… forse ella avrebbe avuto a doversi riconoscere troppo imprudente nel proprio rapporto con quel nuovo capitolo della sua esistenza. Un’imprudenza che, potenzialmente, le avrebbe potuto costare più caro di quanto non sarebbe stata disposta ad ammettere di essere pronta a pagare.
Fortunatamente, nella disgrazia delle proprie forse erronee scelte, la donna dagli occhi color ghiaccio e dai capelli color del fuoco non avrebbe potuto ovviare a considerare quanto, allora, ciò che ella aveva compiuto, speranzosamente, avrebbe avuto a doversi riconoscere qual a beneficio dei due bambini dei quali, in tutto ciò, si era ritrovata a essere protettrice e tutrice, quella coppia nel confronto con l’amore incondizionato della quale difficile sarebbe stato effettivamente riuscire a definire le proprie scelte qual sbagliate. Perché se ella, in quel giorno ormai sempre più distante, non avesse deciso di abbandonare Mars e Lys’sh sul treno diretto allo spazioporto, per gettarsi sulle tracce dei due pargoli, ancor pressoché sconosciuti e pur immediatamente intesi qual bisognosi di aiuto, di sostegno, di protezione; probabilmente ella sarebbe ancor stata in quieta compagnia dei suoi amici, del suo amore, e avrebbe comunque trovato occasione di mettere a repentaglio la propria incolumità, il proprio domani… ma, altrettanto probabilmente, Tagae e Liagu sarebbero finiti nuovamente nelle grinfie della Loor’Nos-Kahn, per essere destinati al ruolo di armi viventi per i quali entrambi erano stati da questi privati non soltanto della propria libertà o delle proprie vite, ma, anche, del proprio futuro.
E se anche pur, alla fine, malgrado tutto, nulla ella fosse riuscita a modificare delle loro aspettative future, del loro presente e del loro avvenire; quantomeno non avrebbe avuto a dover convivere con il rimorso di non averci neppur provato, di non aver tentato di fare qualcosa per cambiare quel fato, per permettere loro di essere gli unici autori del proprio destino, i soli padroni della propria stessa autodeterminazione.
A prescindere, poi, dal futuro, da qualunque conclusione quella storia avrebbe potuto alfine avere, in quelle sei settimane, certamente, qualcosa di positivo non avrebbe avuto a dover essere ignorato nella propria occorrenza, laddove, malgrado la cattività loro imposta, malgrado quella sgradevole e pericolosa prigionia così loro riservata, in tal arco temporale non soltanto ai due bambini era stata allor concessa occasione per ritrovare un’illusione di vita, e di vita vera, a confronto con una persona vera, e con veri rapporti umani; ma, anche, inutile negarlo, a lei era stata concessa l’opportunità di porsi a confronto, forzato e continuato, con un aspetto della propria esistenza con il quale, sino a quel momento, non si era mai rapportata o non si era mai voluta rapportare, quel surrogato di maternità a confronto con la quale, in fondo, avrebbe avuto ad ammettere un sincero timore di far molto peggio. E benché, ovviamente, non avrebbe potuto illudersi di aver a potersi considerare non soltanto una madre perfetta, ma anche e soltanto una madre, titolo che avrebbe avuto a dover essere riconosciuto di diritto soltanto a chi, il suo sforzo, il suo impegno, avrebbe saputo accettare di protrarre nel tempo non per sei settimane, e neppure per sei mesi o sei anni, ma per la propria intera esistenza; ella non avrebbe neppur avuto ragione di doversi colpevolizzare di particolari mancanze, nell’essersi comunque impegnata, e senza particolare senso di sacrificio, a compiere quanto nelle sue possibilità, quanto nelle sue risorse, per riservare a quei due bambini una purtroppo fugace, spiacevolmente effimera, illusione di serenità.

Alla fine delle sei settimane così contate, Midda e i bambini ebbero a comprendere di dover tornare a fare, proprio malgrado, i conti con l’evidenza della propria situazione, della propria condizione di prigionia, nel momento in cui quella loro cella che, in maniera sicuramente errata, ma non per questo meno che umana, avevano iniziato a considerare quanto di più prossimo all’idea di casa, e che, pur, tale era stata in quell’arco temporale, venne loro negata, venne loro sottratta per ricollocarli al punto di partenza, all’interno delle gabbie nelle quali, sin da subito, erano stati contenuti, con tutte le catene annesse e connesse per limitare le possibilità d’azione della donna guerriero, in quanto allora non avrebbe richiesto particolare sforzo per essere riconosciuto, necessariamente, qual un preparativo a un loro nuovo trasferimento, allo sbarco conseguente al raggiungimento della loro destinazione, ovunque essa fosse stata.

« Midda…?! » sussurrò verso di lei Liagu, da lei forzatamente separata dalle differenti gabbie nelle quali erano così stati nuovamente rinchiusi, a esprimere, in quel richiamo, non soltanto tutto il pur sincero e giustificabile timore per l’ignoto che avrebbe potuto allor attenderli, ma anche tutta la speranza che pur non sarebbe mai stata negata nei confronti di quella donna e della promessa di tutela con la quale ella si era a loro vincolata, una promessa che, in quel frangente, avrebbe avuto a dover essere considerata, forse, la sola speranza alla quale tanto la bambina, quanto il proprio fratellino, avrebbero potuto aggrapparsi, per riuscire a tener testa a tutto quello.
« Sono qui. » rassicurò la donna guerriero, tornata a parlare da dietro la pesante maschera impostale allo scopo di non garantirle la benché minima occasione di danno, nel non essere, evidentemente, mutato, da parte dell’organizzazione che li aveva catturati, che li aveva imprigionati, il rapporto di stima, e di legittimo timore, nei riguardi di quella figura troppo pericolosa, troppo letale, per poter essere sottovalutata anche da un simile punto di vista.
« … cosa ci accadrà ora…? » provò a domandare Tagae, senza retorica, pur consapevole di quanto, allora, la loro tutrice, la loro protettrice, non avrebbe potuto avere possibilità di offrire loro risposta a tale interrogativo, a simile questione a fronte della quale soltanto il tempo, e il tempo proprio di un futuro estremamente prossimo, avrebbe saputo rivelare.
« Continueremo a lottare come abbiamo sempre fatto… e come faremo sempre. » sancì l’ex-mercenaria, in un manifesto d’intenti a sua volta del tutto privo di retorica, laddove solo nella lotta ella era sempre stata in grado di esprimere la propria autodeterminazione e solo nella lotta, sempre, ella avrebbe continuato a farlo.

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