11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

martedì 1 settembre 2020

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Per Nissa e per gli altri ritornati, l’alba giunse in un clima di serena indifferenza. Un primo giorno d’assedio era trascorso, ma sarebbe potuta essere passata soltanto un’ora, o un anno intero, e non vi sarebbe stata differenza alcuna per tutti loro.
Alcuno fra loro ravvisava stanchezza. Alcuno fra loro ravvisava spossamento. Alcuno fra loro aveva subito ferite che, poi, comunque, non erano già state dimenticate, quasi nulla fosse effettivamente occorso. Erano lì da ventiquattro ore, eppure avrebbero potuto essere appena arrivati, per quanto il loro corpo avrebbe potuto suggerire loro. E sarebbero potuti restare lì per i prossimi ventiquattro giorni, o ventiquattro anni, come se nulla fosse, e senza che questo avesse minimamente a mutare il loro approccio con il mondo circostante.
Ciò fu, per loro, la prima, e più efficace, possibilità di scendere a confronto con la propria nuova condizione esistenziale. E la nuova condizione esistenziale di un’esistenza fine a se stessa, non più vittima, in alcuna misura, di tutti quei limiti propri della mortalità, di un tempo prefissato, di una scadenza incontrovertibile.
Essi erano. E sarebbero sempre stati. Vivendo non più in un qualche genere di progresso, in un qualche cammino evolutivo, sempre a metà fra un passato immutabile e un futuro imperscrutabile; quanto e piuttosto in una quieta staticità, un perenne progresso all’interno del quale ogni timore, ogni motivo di incertezza o esitazione, avrebbe cessato di esistere.
Una prospettiva che, se sotto molti punti di vista non avrebbe avuto a dover essere altro che intesa entusiasmante, soprattutto per chi ritornato dalla morte, per chi si era già visto una volta negata la propria esistenza e per chi, ormai, non avrebbe più avuto a correre un simile rischio; sotto altri punti di vista, sotto altri aspetti, avrebbe avuto altresì a doversi intendere quantomeno ragione di irrequietezza, se non, addirittura, di un vero e proprio terrore. Perché, a margine di tutto ciò, era stata loro anche negata la sola e unica certezza che, pur, avrebbe avuto a dover essere intesa qual propria di qualunque individuo: la morte.
Ovviamente, però, nella bolgia propria di quella battaglia, di quell’assedio, a nessuno avrebbe potuto venir in mente di riservarsi occasione per simili pensieri filosofici ed esistenziali: a prescindere da tutto, in quel momento loro avevano comunque uno scopo, avevano comunque una missione, e una missione indicata loro dalla loro comandante. Una missione che, allora, si sarebbero impegnati a condurre a termine fino alla fine, fosse anche e soltanto per dimostrare a se stessi, e al mondo intero, di esistere.

Indubbio, a confronto con tutto ciò, avrebbe avuto a dover essere inteso un pericoloso cambio nelle regole stesse della guerra. Perché se pur il mondo non avrebbe avuto a dover essere considerato privo di confidenza con la guerra e le sue dinamiche, tutto un altro discorso avrebbe avuto a dover essere inteso proprio per quanto, in quel momento, stava accadendo.
La guerra, dopotutto, era un concetto antico tanto quanto la civiltà. E, probabilmente, persino precedente a esso. Ma pur essendo qualcosa di così antico, e, di conseguenza, noto, non avrebbe avuto a dover essere frainteso qual nulla di assimilabile a quanto lì in corso. Non, quantomeno, ove contraddistinto da creature incapaci ad affaticarsi, incapaci a conoscere dolore o ferite, incapaci a concepire l’idea stessa della morte. Creature che, così facendo, avrebbero soverchiato completamente le dinamiche stesse della guerra, i suoi tempi, i suoi ritmi.
Kofreya conosceva bene la guerra. In guerra, Kofreya, era con Y’Shalf da molto prima che i nonni dei nonni di coloro lì allor impegnati a combattere sulle mura di Lysiath potessero essere nati. Ma la guerra sempiterna fra Kofreya e Y’Shalf, e quella guerra atta a falciare ogni giorni centinaia e centinaia di valorosi soldati su ambo i fronti, in un costo in termini di vite umane che sarebbe stato insostenibile se soltanto non avesse, altresì e paradossalmente, anche alimentato un tanto straordinario quanto cinico motore economico utile a entrambi i regni in conflitto; nulla avrebbe avuto a spartire con quella che, allora, Nissa e i suoi uomini avevano portato alle porte di Lysiath. Perché per quanto feroce avrebbe mai potuto essere la guerra fra Kofreya e Y’Shalf, non avrebbe potuto ovviare a essere cadenzata da quei tempi, da quei ritmi, propri dell’uomo, e di quei soldati che, pur pronti a morire per i propri valori, o, anche e soltanto, per la propria paga, non avrebbero certamente potuto rinunciare a vivere. E vivere, in ciò, avrebbe avuto necessariamente a significare mangiare, bere, andar di corpo e, sicuramente, dormire, irrinunciabili esigenze universali imprescindibili per chiunque. O, quantomeno, così era stato sino ad allora. Sino all’avvento dei ritornati.
I ritornati, generazione superiore di non morti rispetto a quanto mai quel mondo aveva visto prima, non abbisognavano, infatti, di adempiere a nulla di tutto ciò. Non necessitavano di mangiare, né di bere, né certamente di andar di corpo o, tantomeno, di dormire. Ragione per la quale, mai avrebbero avuto necessità di rallentare, necessità di frenare, concedendo, parimenti, ai propri antagonisti, occasione utile per farlo.
E questo, ineluttabilmente, avrebbe complicato di molto la questione per i difensori di Lysiath, costretti a una battaglia continua, a un incedere costante e impietoso, e un incedere costante e impietoso a confronto con il quale sarebbero dovuti resistere… o avrebbero dovuto accettare di morire.

Quella guerra, quindi, era qualcosa di nuovo. Qualcosa di inedito. E qualcosa a confronto con la quale un manipolo di uomini, un pugno di valorosi, stava cercando di tenere testa, affidandosi alla propria Campionessa. Ma per quanto valore, per quanta forza ed entusiasmo tutti loro avrebbero mai potuto dimostrare, semplicemente certa avrebbe avuto a doversi intendere la loro sconfitta a quelle condizioni, in quella situazione. Consapevolezza che non avrebbe potuto ovviare a rinfrancare gli animi dei loro antagonisti, e di quegli antagonisti che dalla propria avrebbero potuto vantare di possedere l’eternità.

« Il sole sta tornando a sorgere alle nostre spalle… » annunciò la voce di Nissa, riecheggiando fra le fila dei propri uomini « … ma a nessuno di noi ciò importa, non è forse vero?! »

Un grido collettivo, utile a offrire forma all’entusiasmo di tutti i presenti, ebbe lì a sollevarsi da quell’esercito, e quell’esercito del quale soltanto una minima parte avrebbe avuto a doversi intendere effettivamente ammassata ai piedi di quelle mura, mentre, nella propria percentuale predominante, avrebbe avuto ancora a doversi riconoscere a distanza, lì dove la stessa Nissa aveva chiesto loro di attendere, e di attendere che avesse a doversi intendere il momento giusto per intervenire.

« Qualcuno desidera forse fermarsi?! Qualcuno fra voi necessita forse di riposo o di cure…?! » domando provocatoriamente la donna, con una retorica evidente, che non avrebbe richiesto alcuna replica, e che pur, allora, non avrebbe avuto lì a doversi intendere del tutto priva del proprio valore, nella necessità di disorientare i propri antagonisti, quegli uomini e quelle donne che, dall’alto delle mura dietro le quali si erano arroccati, non avrebbero potuto ovviare a constatare la terribile situazione per loro lì proposta.

E se psicologicamente debilitante, per i difensori di Lysiath, avrebbe avuto a doversi intendere quella domanda, ancor più terrificante avrebbe avuto a doversi riconoscere la risposta, e quella risposta utile a esprimere tutto il feroce entusiasmo di quegli uomini, di quelle donne e di quei mostri che, in replica alla loro condottiera, non mancarono così di manifestare tutto il proprio dissenso a confronto con l’ipotesi di una pausa.
Nessuna pausa sarebbe stata loro necessaria. Nessun riposo sarebbe stato da loro richiesto.
Non, per lo meno, fino a quando quelle mura avrebbero avuto a riconoscersi ancora inespugnate. Non, per lo meno, fino a quando quella città avesse continuato a esistere in quanto tale, con i suoi abitanti, con la sua vita e la sua vitalità, e una vita e una vitalità quantomeno offensiva dal loro punto di vista, e dal punto di vista di chi, morto, si era visto dimenticato da tutti coloro ancora in vita, interessati soltanto a proseguire con le proprie esistenze, quasi nulla fosse realmente occorso.

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