Tante nazioni affollavano quel mondo. Tante civiltà si affiancavano, ognuna contraddistinta da una propria cultura, da proprie tradizioni, usi e costumi, così come da proprie religioni e, soprattutto, cosmogonie. Ogni popolo, in ogni tempo, aveva così cercato di trovare una spiegazione a tutto ciò che altrimenti non sarebbe stato in grado di comprendere, a ciò che lo avrebbe costretto a nascondersi tremante sotto una roccia aspettando la morte, a partire dalla mera alternanza fra il giorno e la notte, passando per la pioggia e i temporali, sino ad arrivare alle più grandi catastrofi. Molte fra tali cosmogonie, nel corso dei secoli, dei millenni, si erano poi evolute. Molte altre, altresì, erano quindi sfumate lentamente nell’oblio. E altre ancora erano mutate da credenze religiose a semplici miti e leggende, racconti con i quali avere, all’occorrenza, a spaventare i bambini per invitarli a comportarsi bene.
Per Midda Bontor e tutti coloro che, come lei, se non addirittura accanto a lei, condividevano quel particolare stile di vita, e quello stile di vita volto a tradurre l’impossibile in possibile, miti e leggende avrebbero avuto a dover essere riletti con un diverso sguardo rispetto a quello della gente comune. E lo sguardo di chi consapevole della semplice verità di quanto dalla conoscenza o dall’ignoranza di tale mito, a simile leggenda, avrebbe potuto derivare la propria sopravvivenza... o la propria condanna a morte. Non era mai accaduto, infatti, che un mito o una leggenda si fossero dimostrati infondati: inesatti, talvolta, imprecisi, sovente, ma mai infondati. Ragione per la quale, obiettivamente, la conoscenza di tali miti e di simili leggende avrebbe avuto a dover essere riconosciuto un prerequisito fondamentale per chiunque, loro pari, avesse deciso di dedicare la propria vita all’avventura. E, in tal senso, anche Be’Wahr aveva presto imparato quanto tutto ciò fosse fondamentale. E quanto, anche, fosse fondamentale riservarsi occasione di acquisire tali conoscenze attraverso fonti diverse, non limitante alla trasmissione orale. Così, benché un tempo egli non sapesse leggere né scrivere, e neppure immaginasse che leggere o scrivere avessero a servirgli quanto, se non più, rispetto alla capacità di aprire una testa a mani nude.
Fra i molteplici antichi miti narrati in quel di quell’angolo di mondo, fra Kofreya e Tranith, fra Y’Shalf e Gorthia, uno in particolare riguardava anche quelle stesse montagne e la loro origine, in quella così inconsueta catena montuosa che, troppo rapidamente, sfumava in pianura, quasi quelle enormi vette fossero lì state posizionate in maniera del tutto impropria, là dove non avrebbero avuto a dover essere. E secondo tale mito, in effetti, quelle montagne non avrebbero avuto a dover essere fraintese qual naturali nella propria genesi, quanto e piuttosto conseguenza di una guerra dimenticata, e una guerra di un’era antecedente a quella dell’uomo: l’era dei titani.
Secondo tale mito, tale leggenda quasi dimenticata dalla Storia, quelle montagne altro non avrebbero avuto a dover essere intese se non quali i corpi ammassati dei titani caduti, giganteschi elementali della terra a confronto con i quali quelli che avevano preso recentemente d’assedio la città di Kriarya e le sue colossali mura dodecagonali avrebbero avuto a dover essere considerati di minuscole dimensioni. Tali titani erano stati al centro di un furioso conflitto, e un conflitto la ragione del quale non avrebbe avuto a doversi intendere ben definita, quasi, in effetti, la bellicosità propria di quel territorio avesse a doversi riconoscere persino antecedente alla nascita degli stessi regni di Kofreya e di Y’Shalf e, probabilmente, utile a giustificarne in epoca moderna la sempiterna occorrenza: un furioso conflitto che, allorché trovare semplice occasione di risoluzione, aveva veduto quegli smisurati corpi accatastarsi gli uni sopra gli altri, dando così origine ai monti Rou’Farth.
Un mito fra tanti, quello relativo ai titani dei monti Rou’Farth, che non avrebbe avuto a potersi fregiare di maggior veridicità rispetto ad altri, e ad altri volti ad attribuire l’origine di quella catena montuosa a cause diverse. E, ciò non di meno, un mito che non avrebbe neppure avuto a poter essere considerato necessariamente meno veritiero, o potenzialmente tale, rispetto ad altri, nell’assenza, in fondo, di una conoscenza certa a tal riguardo. Ma se anche improbabile avrebbe avuto a doversi intendere l’idea che quelle montagne altro non fossero degli enormi cumuli di corpi di titani abbattuti, tutt’altro che improbabile avrebbe avuto a poter essere giudicata l’eventualità che, dietro a tale mito, a simile leggenda, avesse a doversi riconoscere qualche connessione fra quelle montagne e dei titani. Titani in contrasto ai quali, allora, né Be’Wahr, né M’Eu, né chiunque altro avrebbe mai gradito avere a ritrovarsi, nella certezza di quanto, altrimenti, la loro fine sarebbe stata sostanzialmente certa.
Animato dal timore di quanto, dietro a quel brontolio, dietro a quel sussulto della terra, altro non avesse a doversi riconoscere se non la presenza di un titano, in un’eventualità tutt’altro che remota nel considerare quanto, in fondo, l’inizio stesso di quella vicenda fosse stato contraddistinto dall’apparizione di ben dodici di tanto giganteschi e temibili mostri; il biondo mercenario ovviò a condividere tale dubbio, simile paura, con il proprio compare. E non tacque soltanto animato da scaramanzia, ma anche, e non meno importante, dal desiderio di non avere a inquietare la propria giovane spalla con idee del tutto prive di fondamento, o, quantomeno, di fondamento nell’immediato di quel corrente contesto.
Dopotutto, per quanto avrebbe potuto saperne, quel suono avrebbe potuto essere conseguenza di un qualche smottamento esterno dalla montagna; così come di una qualche frana interna a essa; e, comunque, di nulla che avesse a ricondursi non soltanto alla presenza di un titano, ma anche, e più in generale, di un mostro. E, del resto, la loro quota mostri, speranzosamente, aveva già avuto a dover essere considerata soddisfatta, almeno per quella giornata, nel confronto con la viverna.
« ... sento qualcosa... » esclamò improvvisamente M’Eu, arrestandosi nel proprio avanzare e, implicitamente, invitando anche Be’Wahr a fare altrettanto « ... tu non lo senti...?! »
E se, per un istante, Be’Wahr ebbe a temere una nuova riprova della presenza di un titano, e di un titano pronto a ucciderli, nel silenzio assoluto che ebbe a conseguire quel loro estemporaneo arrestarsi, egli ebbe effettivamente a udire qualcosa. Ma qualcosa che in alcun modo avrebbe avuto a dover essere riconosciuto in riferimento alla propria ragione di timore...
... il suono inequivocabile dello scorrere dell’acqua!
« ... sembra... acqua! » suggerì il biondo mercenario, dopo un istante di esitazione, nel non riuscire a comprendere il senso che avrebbe potuto riservarsi tutto ciò.
« Probabilmente è un qualche corso d’acqua sotterraneo... » ipotizzò il figlio di Ebano, ora aprendosi in un amplio sorriso « E sai questo cosa significa per noi...?! »
« Che potremo riempire le nostre borracce...? » domandò con aria necessariamente retorica Be’Wahr, non riuscendo a trovare alcuna differente ragione di possibile entusiasmo, benché, comunque, quella avesse a doversi intendere un’ottima notizia, nel ben considerare quanto ormai la loro scorta di acqua stesse iniziando a scarseggiare, in una situazione a dir poco paradossale nel considerare quanto, sino a poche ore prima, avrebbero avuto a doversi riconoscere immersi nella neve fino alla vita.
« Certamente... ma non solo! » annuì M’Eu, nel non negare l’utilità di quella cosa « Questo significa anche che potremmo aver trovato una via di uscita: se c’è un corso d’acqua interno alla montagna, da qualche parte dovrà pur giungere all’esterno! » spiegò, più che propositivo a confronto con tutto ciò.
Be’Wahr non si sarebbe potuto considerare così certo di fronte a quell’affermazione, nel non poter negare la propria più assoluta ignoranza a tal riguardo. Ma, parimenti, egli non si sarebbe potuto riconoscere meno che fiducioso nelle competenze proprie del suo interlocutore, e di quel giovane che, in fondo, fra quelle montagne era nato e cresciuto e che, per tale ragione, avrebbe avuto certamente a doversi che intendere decisamente accreditato per poter esprimere giudizi a tal riguardo.
Motivo per il quale, quindi, non poté mancare di accogliere quelle parole con condiviso e indubbio entusiasmo.
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