11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

martedì 16 ottobre 2018

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Per quasi quarantatré anni, Midda Namile Bontor aveva vissuto indomitamente la propria vita.
Quando era nata, nella piccola isola di Licsia, nell'arcipelago delle Licoseni, entro i confini della vasta estensione marina del regno di Tranith, suo padre aveva voluto chiamarla Midda, che significa “misura”, poiché il primo sguardo da lei rivoltogli, con i propri piccoli occhi color ghiaccio, avrebbe avuto a doversi considerare tanto intenso da apparir rivolto a soppesare il suo stesso animo. E proprio simile attenta ponderazione, Nivre Bontor, suo padre, aveva voluto enfatizzare in quello specifico nome, con l’augurio che ella potesse essere sempre in grado di ben misurare le proprie azioni, e le loro conseguenze, anche nelle situazioni più improbabili nelle quali ella avrebbe potuto ritrovarsi. Accanto a lei, la sua sorella gemella era stata altresì chiamata Nissa, che significa “vittoria”, nell’auspicio di una vita contraddistinta solo da straordinari trionfi, in qualunque direzione ella avrebbe mai desiderato spingere i propri passi. Purtroppo per il buon Nivre, umile pescatore di una piccola e serena isola del sud, mai nomi avrebbero potuto rivelarsi essere, di lì a qualche decennio, più azzeccati, e al contempo più sbagliati, rispetto a quelli così indicati.
Poiché, infatti, se pur Midda non aveva mai mancato di misurare attentamente i propri passi, e, soprattutto, i propri avversari; tale attenta valutazione le era sempre servita per cercare di spingersi oltre, per superare continuamente i propri stessi limiti e, in virtù di essi, di imporre la propria autodeterminazione, fisica, psicologica, emotiva e spirituale, innanzi a uomini e dei, vivendo, di conseguenza, ogni propria giornata, ogni proprio istante, oltre ogni possibile misura, al punto tale da divenire, ancor in vita, già una leggenda, tanto straordinarie, tanto incredibili, avrebbero avuto a dover essere considerate le sue gesta. E tanti erano stati i nomi che ella aveva accumulato nel corso della propria avventurosa esistenza, in conseguenza alle proprie sempre più improbabili e incredibili imprese: Figlia di Marr’Mahew, in onore alla dea della guerra venerata nei mari sud-occidentali; Campionessa di Kriarya, la città dove aveva posto la propria residenza, la popolazione della quale avrebbe avuto a dover essere riconosciuta quasi completamente costituita da ladri e assassini, mercenari e prostitute; Ucciditrice di Dei, in conseguenza allo straordinario trionfo da lei riportato a discapito del dio minore Kah; e molti altri, e ancor più altisonanti, ancora.
Parimenti Nissa, dal canto proprio, non aveva mai mancato di riportare vittoria in ogni propria azione, in ogni proprio intento, anche laddove tali intenti, per ragioni spiacevolmente complicate, l’avevano sospinta a dichiarare guerra alla propria stessa sorella gemella, e a riprometterle, e ripromettersi, di aver a rovinarle, per sempre, ogni singolo giorno della propria esistenza. Un trionfo, il suo, che era quindi stato pagato al prezzo del braccio destro della stessa Midda e della sua sterilità, nonché, ancora, al prezzo delle vite della maggior parte delle persone a lei più prossime, da lei amate, uccise una dopo l’altra nella sola volontà di imporle quanto avrebbe avuto a doversi considerare qual una vera e propria maledizione. Questo, per lo meno, sino a quando il suo cammino non aveva condotto la stessa Nissa, già ascesa a regina di una nazione di pirati da lei stessa creato, a incrociare un antico male imprigionato all’interno di una corona, e di una corona appartenuta, molti secoli prima, alla leggendaria Anmel Mal Toise, da qualcuno considerata qual la Portatrice di Luce, dai più ricordata qual l’Oscura Mietitrice: e proprio sotto l’empia influenza della regina Anmel, liberata involontariamente a opera di un’inconsapevolmente sciocca Midda nel corso di una propria impresa, Nissa si era quindi sospinta in un crescendo di follia, sino a giungere addirittura all’omicidio del proprio stesso primogenito, evento in conseguenza al quale, ritornata fugacemente padrona di sé, aveva preferito sancire la fine della propria esistenza lasciandosi trapassare dalla spada della gemella.
Tante erano state, invero, le gioie della vita di Midda Namile Bontor. E parimenti, e ancor più, tanti erano stati per lei i dolori. Dolori posta innanzi ai quali, pur, ella non si era mai tirata indietro, accettando con incredibile coraggio qualunque prova il fato, e sovente la propria caparbietà, la propria ostinazione, non avevano, né mai avrebbero, mancato di imporle.
In quei quasi quarantatré anni di vita, così, ella aveva così conosciuto più volte la gioia dell’amore, e più volte il dolore della separazione e del lutto. Aveva amato ed era stata amata: aveva perduto ed era stata perduta. Alcuni anni prima, addirittura, Midda Bontor si era persino sposata, invero non per sentimento, ma soltanto per obbligata necessità: necessità che l’aveva portata, quindi, a divenire moglie di un orrido semidio immortale di nome Desmair, dal quale, a dispetto di ogni proprio tentativo, di ogni proprio sforzo, non era riuscita a separarsi neppure dopo la morte del medesimo, giacché questi, troppo ostinatamente attaccato alla vita, aveva tempestivamente trasferito la propria coscienza, il proprio spirito, all’interno del corpo del compagno della propria stessa sposa, Be’Sihl Ahvn-Qa, un attimo prima della propria ineluttabile fine: una scelta, la sua, che non aveva mancato di dimostrare, in effetti, anche un malevolo sarcasmo nel decidere, fra le infinite alternative, in esatto favore di tale rifugio. E, ancora, nel corso di quell’ultimo anno della propria vita, quell’inarrestabile combattente, quella fiera guerriera, aveva persino accettato, forse tardivamente e pur con piena coscienza della propria decisione, l’idea di divenire madre, e di divenire madre di una coppia di orfani, Tagae e Liagu, l’esistenza dei quali era stata violentemente vuotata di ogni ricordo dei rispettivi passati nel momento in cui essi erano stati catturati da una crudele organizzazione criminale, la quale, attraverso disumani esperimenti, li aveva così trasformati in un’arma di distruzione di massa: di fronte alla loro dolcezza, di fronte alla loro forza d’animo, di fronte alla loro evidente necessità di una famiglia nella quale ritrovare quanto perduto, Midda non era riuscita a restare indifferente, e per quanto mai si sarebbe potuta immaginare nelle vesti di una genitrice, ella aveva così deciso di abbracciare simile scelta, e di abbracciarla con assoluta consapevolezza e decisa volontà.

Per quasi quarantatré anni, Midda Namile Bontor aveva vissuto indomitamente la propria vita. E mai, in tanti anni, ella aveva avuto occasione di dubitare della propria realtà.
Per quanto folle, per quanto assurda, per quanto contraddistinta da stregonerie e da negromanzie, da creature mitologiche e da divinità, tutto ciò altro non avrebbe avuto a doversi considerare che la propria quotidianità. E una quotidianità che ella si sarebbe impegnata a vivere, ogni giorno, con tutte le proprie forze, con tutto il proprio impegno, con tutta la propria passione.
Così, anche quando, quasi tre anni addietro, aveva accettato di lasciare i confini del proprio mondo, per volare, sulle ali di una fenice, verso l’immensità siderale; ella non aveva mai avuto occasione di dubitare della veridicità dei nuovi, e incredibili mondi nei quali si ritrovò a sospingere i propri passi, esplorando una vasta realtà prima inimmaginata, un complesso Creato che mai avrebbe potuto presumere esistere sino a quando non si era ritrovata posta innanzi a esso. E, prima ancora, anche quando le era stata rivelata l’esistenza di infiniti universi paralleli, piani di realtà fra loro alternativi, nei quali un’infinità di altre se stesse conducevano la propria quotidiana esistenza a volte in termini non dissimili dalla sua, altre in modalità a lei totalmente estranee; ella non aveva mai avuto ragione di negare l’evidenza delle riprove offertele, nell’incontrare, addirittura, alcune delle altre se stessa: altre Midda, o Maddie, o ancora differenti declinazioni del suo nome che dir si sarebbe potuto volere, nel confronto con le quali chiunque, al suo posto, avrebbe potuto ritenere di aver perso non soltanto la misura, ma, più in generale, ogni barlume di raziocinio, e che pur, nel confronto con l’incredibile avventura della sua esistenza quotidiana, ella non avrebbe potuto ovviare ad accettare per vero, qual vero tutto ciò non aveva avuto mai ragione di dubitare potesse essere.
Ciò, quantomeno, sino a quando quel marito da lei mai desiderato, Desmair, le aveva sorriso da dentro un nuovo corpo, e un corpo che gli avrebbe assicurato ancora una volta la propria immortalità, e le aveva rivolto una frase quasi banale, apparentemente insignificante, e pur, allora, una frase che avrebbe avuto a dover essere riconosciuta qual destinata a sovvertire, completamente, il proprio senso di realtà. Soprattutto nel confronto con quanto, di lì a un istante dopo, ebbe a occorrere…

« Tutto è bene quel che finisce bene… » aveva commentato non senza una certa soddisfazione, in chiaro riferimento al proprio trasferimento, alla propria riconquistata libertà… e una libertà per la quale, paradossalmente, avrebbe avuto anche a ringraziare la complicità della propria mai amabile moglie « … e, proprio per questo, mia sposa, è giunto il momento che tu abbia a risvegliarti! » aveva poi soggiunto, strizzando l’occhio sinistro verso di lei.

Un divertito ammiccare, il suo, che si era tradotto, innanzi agli occhi color ghiaccio della donna, in un’improvvisa esplosione di luce, e un’esplosione di luce nella quale tutto il mondo attorno a lei si era oscurato per un fugace istante, salvo, poi, riassumere, lentamente, e faticosamente, dei ben diversi contorni, contorni prima indistinti e confusi, così come indistinti e confusi avrebbero avuto a dover essere considerati i suoni destinati alle sue orecchie, e poi, poco alla volta, sempre più chiari, sempre più netti, e destinati a tradursi in qualcosa per lei di completamente estraneo.

« Qualcuno chiami un medico… presto! » stava gridando una voce a lei contemporaneamente, e paradossalmente, nota e pur estranea « Ha aperto gli occhi! Ha aperto gli occhi! » stava esclamando, con incredulità e con gioia, quasi tutto quello avrebbe avuto a doversi considerare incredibile, se non, addirittura, impossibile, per quanto, pur, chiaramente sperato, chiaramente atteso, e atteso da così tanto tempo da averne perso persino il conto « Un medico! Un medico, presto! »

Davanti allo sguardo di Midda Namile Bontor, ancora parzialmente annebbiato, ebbe così a delinearsi una stanza, e una stanza con pareti colorate a metà di bianco e di verde, l’uno nella parte superiore, l’altro nell’area inferiore, e adornata da un essenziale mobilio di plastica e metallo, oltre che dalla presenza di alcuni macchinari, alcuni schermi sui quali strani grafici, strani disegni, accompagnati di sordi cicalii elettronici, avrebbero voluto offrire allora un qualche messaggio, un qualche significato, pur, per lei, del tutto inintelligibile. Una tenda bianca, accanto a lei, le impediva di spaziare con lo sguardo al di là di pochi piedi a destra dalla propria posizione, la stessa direzione dalla quale, in quel frangente, stava provenendo quella voce eccitata; nel mentre in cui, sul fronte sinistro, una finestra con infissi di legno verniciato di bianco avrebbe offerto ai suoi occhi color ghiaccio di spaziare sino a un chiaro cielo azzurro, appena ornato da qualche nuvola sparsa.

« … es… » cercò di invocare il nome della propria dea prediletta, Thyres, signora dei mari, rendendosi tuttavia conto di non essere allora in grado di pronunciare verbo, quasi le sue labbra, la sua lingua, e il suo intero volto, fossero lì ancora addormentati, o peggio, e, in tutto questo, spiacevolmente incapaci a rispondere ai suoi voleri.

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