11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

lunedì 30 settembre 2019

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Midda Bontor era nata e cresciuta in un mondo in cui il valore di una vita avrebbe avuto a doversi soppesare in una misura inferiore a un soffio d’oro.
Nel pianeta da cui ella proveniva, l’atto di uccidere non avrebbe avuto a dover essere frainteso qual contrario a una qualche morale, beninteso che, in tale atto, fosse concesso al malcapitato una giusta occasione per definire il proprio fato. In ciò, quindi e a titolo esemplificativo, cogliere alle spalle qualcuno, sgozzandolo, avrebbe avuto a doversi intendere, a tutti gli effetti, un assassinio; nel mentre in cui, altresì, sgozzare qualcuno giungendogli innanzi e, in ciò, offrendogli, fosse e anche soltanto idealmente, la possibilità di difendersi, di evadere da quell’attacco, avrebbe avuto a doversi ritenere pressoché legittimo. Non che, in tal senso, camminando per strada, nel mondo dal quale ella proveniva, qualcuno avrebbe potuto arbitrariamente decidere di sgozzarti o, per lo meno, non che, in tal senso, la probabilità che ciò accadesse avrebbe avuto a doversi giudicare maggiore rispetto altrove: ciò, dopotutto, avrebbe potuto succedere ovunque, anche in quel di Loicare, o di altri mondi tecnologicamente progrediti, o dal mondo d’origine di Maddie e Rín, fondamentalmente a metà strada fra il progresso fantascientifico proprio di quei secondi e l’arretratezza medioevale del primo. Semplicemente, nel mondo proprio di Midda e di tutti i suoi amici, chiunque, per strada, non sarebbe partito dall’improprio presupposto di poter giungere serenamente al proprio obiettivo, senza rischiare, nel proprio percorso, di incappare in qualche malintenzionato e senza, in tal senso, essere pronto a difendersi, per il proprio diritto alla vita.
In un simile contesto generale, pur essendo nata e cresciuta, almeno nei primi dieci anni della propria esistenza, in un’isoletta ai stessi confini del mondo, e in un’isoletta così lontana da tutto e da tutti da potersi riconoscere, obiettivamente, qual una serena oasi di pace, estranea alla violenza del resto del loro pianeta, Midda Bontor aveva avuto ben presto a doversi confrontare con tale violenza, e con le dure regole proprie della sopravvivenza. E così, neppure un anno dopo la propria fuga da casa, ella aveva presto imparato a combattere e, per difendersi dai pirati, nemici naturali di qualunque marinaio, aveva presto imparato anche a uccidere: non qual atto negativo, non qual brutale negazione del diritto dell’altro alla vita, quanto e piuttosto qual estrema misura utile a preservare la propria esistenza in vita, e il proprio diritto a risvegliarsi, all’alba successiva.
Cresciuta, quindi, prima come marinaio, e poi come guerriera mercenaria, in un mondo decisamente ostile, e rivelatasi semplicemente straordinaria in ogni propria azione, in misura tale da entrare, di diritto, sin da subito nelle cronache dei bardi e dei cantori; Midda Bontor si era presto ritrovata anche e proprio malgrado a essere bersaglio di numerosi rivali, sfidanti animati dal desiderio di affrontarla e di ucciderla, in combattimento, non tanto per qualche profonda motivazione, quanto e piuttosto per rendere propria la gloria derivante dall’aver vinto una simile controparte. E più il mito della donna guerriero cresceva, nel susseguirsi dei propri successi, maggiormente cresceva anche il numero di persone desiderose di affrontarla e vincerla, in quello che, in effetti, avrebbe avuto a doversi ben apprezzare qual un riconoscimento del suo valore. Così, fra le sfide da lei lanciate a uomini e dei, e fra le sfide contro di lei lanciate da qualunque possibile avversario, ella non avrebbe potuto ovviare ad alimentare il proprio mito, in un continuo crescendo che solo si sarebbe interrotto in caso di sconfitta: un crescendo che, a un certo punto, ella non volle mancare di iniziare a moltiplicare in maniera iperbolica sostituendo, alla necessaria uccisione del proprio sfidante, una più umiliante sconfitta, e l’umiliazione propria del sopravvivere alla propria sconfitta, e, in tal senso, di poter essere testimonianza vivente della straordinaria bravura della stessa donna dagli occhi color ghiaccio. Giacché se già grande avrebbe avuto a dover essere riconosciuto il suo merito nel vincere contro i propri antagonisti, ancor maggiore avrebbe avuto a dover essere riconosciuta la sua bravura nel vincere senza neppure ucciderli, con quel fare annoiato proprio di chi, in fondo, consapevolmente superiore all’altro, e in ciò privo di qualunque motivazione utile a concedergli la grazia propria della morte come alternativa all’onta della vita.
Per questo, pur nata e cresciuta in un mondo in cui il valore di una vita avrebbe avuto a doversi soppesare in una misura inferiore a un soffio d’oro, Midda Bontor iniziò a voler valutare il proprio valore non nella misura degli avversari uccisi, quanto e maggiormente in quelli non uccisi, a palesare la propria sempre maggiormente leggendaria superiorità nei confronti dell’intero Creato, in una sfida, la sua, atta a permetterle di dimostrare, innanzitutto a se stessa, il proprio stesso merito. Cosicché, in una battaglia, ella si sarebbe riservata l’occasione di ricorrere all’omicidio sol quando necessario o ineluttabile, con l’amarezza propria di chi, allora, purtroppo meno brava rispetto a quanto non avrebbe gradito riuscire a dimostrarsi di essere, nell’essersi ritrovata costretta a una così indegna scorciatoia.
Un teorema di base, quello proprio della Figlia di Marr’Mahew, che, tuttavia, in più di un’occasione, soprattutto in quegli ultimi anni, si era visto riservare delle eccezioni, fra le ultime delle quali molte eccezioni, un’intera carneficina di eccezioni, in concomitanza agli eventi che avevano condotto alla pur successivamente mancata liberazione dei due pargoli che, di lì a qualche tempo, avrebbero iniziato a chiamarla “mamma” e che ella avrebbe iniziato a intendere qual propri figli: troppa emotività, unita a una certa disparità fra le forze in campo, infatti, avevano veduto la donna guerriero compiere una vera e propria mattanza sotto gli occhi dei due bambini, nell’intento di proteggerli, di difenderli. E quella mattanza, a distanza di qualche anno, non aveva smesso di gravare sul di lei cuore, per così come anche le sue intime riflessioni durante la pur breve permanenza all’interno della cella nella quale era stata rinchiusa a bordo della Rad Dak-Wosh non avrebbero potuto ovviare a testimoniare.
Quando ella, quindi, ebbe a ritrovarsi a confronto con il guardiamarina Vahn Hogi, nel proprio animo avrebbe avuto a doversi ancor riconoscere ben divisa fra due diverse esigenze: quella di assicurare al proprio gruppo una rapida conquista della nave, nella sconfitta della creatura mutaforma lì al comando sotto le false sembianze di Pitra Zafral; e quella di ovviare a trasmettere idee sbagliate ai propri figli, quali, prima fra tutte, che aver ad agire come una guerriera avesse a doversi intendere, necessariamente, qual qualcosa di entusiasmante. E se, nel confronto con la prima esigenza, probabilmente la via più rapida per raggiungere il proprio scopo sarebbe stata quella di eliminare ogni possibile minaccia rappresentata da quel giovane, innanzi alla seconda esigenza, probabilmente la via più corretta da perseguire sarebbe stata altresì quella di permettergli di sopravvivere, tratteggiando i confini di un dilemma binario di non facile risoluzione.
A fare, tuttavia, la differenza, e a permetterle di abbracciare in maniera ferma una decisione, fu allora lo sguardo che lo stesso sconosciuto antagonista, e potenziale vittima, ebbe allora a mostrarle nel porsi innanzi alla certezza della propria morte: uno sguardo colmo di disperazione, e colmo di quella disperazione propria di chi consapevole, in quel frangente, di star vedendosi negato, insieme alla propria vita, qualcosa di grande, qualcosa di ben più grande di sé… qualcosa come l’occasione di essere padre di suo figlio.
E nel confronto con quella disperazione, ella fermò la propria mancina, ovviando all’affondo che, altrimenti, avrebbe destinato dritto al cuore della propria vittima…

« Perché temi per la tua vita? » domandò quindi, aggrottando la fronte con fare critico a suo discapito
« … come…?! » esitò egli, incerto di aver udito correttamente la domanda da lei formulata, di averla effettivamente intesa, per così come non avrebbe potuto ovviare, altresì, a risultare quantomeno inaspettata in un tale frangente.
« Perché temi per la tua vita? Cosa hai da perdere?! » insistette ella, desiderosa di comprendere il perché di tanta disperazione e, in ciò, di concedere a quel giovane di argomentare una qualche arringa in proprio favore, a favore del proprio diritto alla vita, in quelle che, comunque, avrebbero avuto a potersi riconoscere qual, potenzialmente, le sue ultime parole.
« … perché desidero abbracciare ancora una volta mia moglie… e perché desidero che mio figlio possa conoscere il volto di suo padre… » dichiarò Vahn, con assoluta onestà, e quell’onestà che solo avrebbe potuto essere propria di un uomo innanzi alla morte.

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