11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

venerdì 11 gennaio 2008

001


D
ue occhi color ghiaccio.

Il primo particolare che risaltava in lei era quello: un azzurro chiaro al punto da sembrar brillare di luce propria, tanto di giorno quanto di notte; un azzurro intenso al punto da incantare in esso non solo gli amici ma anche i nemici; un azzurro perfetto al punto da non poter sembrare appartenere ad un comune mortale, ad un banale umano quale lei era.
Ma quegli occhi non erano semplici adornamenti, semplici pietre preziose poste ad offrire grazia e bellezza alla loro proprietaria: erano vigili nel loro scrutare, fulminei nei loro movimenti, precisi nelle loro valutazioni, spietati nelle loro condanne. Gli occhi come specchio dell'anima mostravano un'anima forte, forse anche troppo forte, un'anima che poteva far vacillare anche il cuore più saldo, un'anima che mai si sarebbe tratta all'indietro di fronte ad un pericolo.

Due occhi color ghiaccio troneggiavano sul di lei viso, adornato anche da un sottile naso e da rosee labbra. Una manciata di lentiggini apparivano quasi spruzzate sul naso, al centro di quel viso ovale leggermente appuntito verso il mento: il mento, poi, offriva una piccola fossetta che sembrava voler sottolineare un carattere ribelle in quella forma perfetta. Ma non era solo la fossetta a denotare qualcosa: sulla pelle chiara, quasi candida, uno sfregio appariva come blasfemia, posizionato nella forma di una lunga cicatrice verticale sull'occhio sinistro di lei.
Attorno al viso, non così corti da scoprirle le orecchie ma non così lunghi da celarle il collo tornito, erano capelli corvini, lucenti nei loro riflessi, incantevoli nella loro fluidità: essi si offrivano lisci e compatti tali da apparire come un unico manto, ma al tempo stesso quasi enumerabili singolarmente in ogni fremito del di lei capo. La maggior parte delle donne, e degli uomini, consideravano sprecato un simile tesoro in un taglio così poco femminile, così castigato, che non permetteva di porre in risalto quei capelli tanto meravigliosi, tanto attraenti: se solo fossero giunti fino alla schiena, se solo avessero offerto un velo maggiore attorno al di lei capo, sicuramente la di lei bellezza sarebbe apparsa decuplicata. Ma chi sfoggiava senza timori una cicatrice sul viso come lei faceva, evidentemente, non desiderava assolutamente porre in risalto la propria beltà.

Scendendo lungo il collo perlaceo, scoperto e disadorno da ogni gioiello, per quanto qualsiasi artefatto non sarebbe mai potuto stonare attorno a quella forma meravigliosa, veniva offerta una vista che non concedeva più dubbi sulla natura di lei: donna e guerriera.
La natura di donna era concessa dalla visione dei seni, forse prosperosi, impossibile dirlo, i quali si presentavano strettamente legati da una fascia di un colore indefinito fra l’azzurro ed il blu, a sua volta ricoperta dai resti sgualciti di una casacca grigio scura. Di entrambi i capi di abbigliamento non era comprensibile una precisa datazione ed ancor di più appariva difficile anche solo l’identificazione del tessuto e del suo colore: lo sporco ed il sudore impregnavano la stoffa in maniera tanto viva da sembrare averne preso il posto, segno di una vita che non voleva sottolineare ciò che normalmente era considerata femminilità in favore di altro.
La natura di guerriero si mostrava sulle di lei braccia, muscolose fin dalle spalle, così larghe e forti che non si sarebbero distinte da quelle un giovane cavaliere: il braccio sinistro sfoggiava con orgoglio un complicato tatuaggio tribale, nelle cui spire sembravano impresse mille immagini senza che nessuna fosse però chiaramente identificabile; il braccio destro, al contrario, si presentava scoperto fino a pochi centimetri sotto la spalla, apparendo viceversa coperto da una solida armatura da quel punto in giù. Il metallo dell’armatura era scuro, con tonalità tendenti al rosso: non un frammento di carne poteva essere visto, neppure nelle pieghe di congiunzione, neppure fra una lastra e l’altra all’altezza della mano.
E se le braccia, con le loro decorazioni e con i loro ornamenti, con i loro muscoli agilmente guizzanti sotto la pelle tesa e lievemente rigata dal sudore, non fossero state sufficienti a descrivere la loro proprietaria come guerriero più che come donna, nella mano mancina una spada era afferrata con vigore, lasciando scintillare la lama splendente di fronte a lei, in una lucentezza forse innaturale, una lucentezza inquietante non meno di quella dei due occhi color ghiaccio.

Guerriero ancor prima di donna, quindi, non celava però il proprio ventre, appena convesso e parzialmente scoperto dalla stoffa strappata della casacca superiore e sotto il quale si stringeva una sottile cinta a reggere i pantaloni: la stoffa, rosso scuro, non era ridotta in condizioni migliori della parte superiore dell’abito, e nella propria usura appariva forse fin troppo attillata attorno alle forme di lei, ponendo in risalto le gambe lunghe ed affusolate ed i glutei alti e sodi, forme scolpite nei muscoli, muscoli formati nel corso di forse troppe avventure.
I piedi, a completare il quadro, erano rivestiti da due calzari, troppo rovinati per essere definiti stivali, legati attorno alle gambe da strisce di stoffa per evitare di poterli perdere in modo inatteso.

Questa era Midda Bontor. Con piedi piantati solidamente nel terreno. Con gambe appena piegate mantenendo i muscoli tesi, pronti a scattare. Con addominali induriti a voler emergere sopra i pantaloni. Con braccio destro teso in avanti, a protezione meglio di ogni scudo. Con braccio sinistro appena girato sull’esterno, reggendo in posizione di guardia la spada. Con respiro ritmico e silenzioso appena denotabile da un leggero movimento del petto e dei seni su di esso. Con denti serrati sotto labbra appena dischiuse. Con sguardo serio e fronte corrucciata. Con capelli scompigliati al vento innaturale di quella palude insidiosa. Con dozzine di cadaveri putrefatti attorno a lei, frementi di una demoniaca ed innaturale forza vitale: forza per alzarsi, forza per muoversi, forza per combattere, forza per uccidere, forza contro di lei.

« E’ in momenti come questo che penso di non farmi pagare mai abbastanza… » sussurrò fra i denti.

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