Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.
Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!
Scopri subito le Cronache di Midda!
www.middaschronicles.com
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E siamo a... QUATTROMILA!
Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!
Grazie a tutti!
Sean, 18 giugno 2022
Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!
Grazie a tutti!
Sean, 18 giugno 2022
mercoledì 23 gennaio 2008
013
Avventura
001 - Il tempio nella palude
Arrampicandosi lungo la parete fangosa del precipizio in cui si era gettata per sfuggire alla morsa degli zombie, Midda aveva trovato una porta in pietra con un complicato bassorilievo alla sua base raffigurante la celebrazione di un oscuro e sacrilego rito. Quella scultura, che l’aveva attratta e per un istante quasi ipnotizzata in quell’estremamente curato lavoro di intarsio realizzato dal suo autore, sembrò prendere vita nel momento in cui ella balzò fuori dal pozzo, gridando selvaggiamente.
Il tempio, o per lo meno la parte del santuario in cui si ritrovò, era stato realizzato su pianta ottagonale, con lati di oltre cinquanta piedi di lunghezza ed altrettanti di altezza. La volta, come già nel bassorilievo, risaliva nelle forme di un’enorme cupola, di cui era praticamente impossibile scorgere la cima nella semioscurità che imperava a tale altezza: la luce delle torce e dei bracieri presenti all’interno, difatti, si diffondeva solo per pochi piedi, in un’innaturale oscurità dominante. L’intera struttura era edificata in pietra massiccia, in apparenza degli stessi marmi e travertini con cui il pozzo e tutti i sotterranei erano stati rivestiti. Diversamente da quanto già offertosi agli occhi della donna, però, quelle nuove pareti sembravano rilucere di strane tonalità sanguigne, venature rosso acceso di cui non riusciva a comprendere l’esatta natura: di certo, per quanto un primo istinto potesse far pensare veramente al sangue, quel vermiglio non poteva essere tale, date le tonalità troppo vive ed intense che lo caratterizzavano. Ad ogni spigolo delle alte pareti, poi, era distinguibile un’ampia colonna, a base anch’essa ottagonale, che dal terreno si levava a sostegno delle volte della cupola superiore. Su ogni colonna una statua era posta, scolpita in essa, quasi a voler apparire fuoriuscente dalla pietra stessa di quei pilastri: le otto statue, fra loro diverse, raffiguravano sagome similmente umane ma che, senza troppo impegno, dimostravano una natura mostruosa. Divinità, probabilmente, divinità oscure non diverse da quelle raffigurate sulle volte di ogni porta che lei aveva oltrepassato e sulle quali non aveva voluto soffermare lo sguardo.
La prima statua rappresentava una figura maschile, di proporzioni fisiche disarmoniche con una muscolatura eccessiva soprattutto nelle due braccia, enormi, quasi più grandi del resto del corpo. Solo un corto perizoma non rendeva evidenti le vergogne di quell’essere mostruoso, unico indumento che non lasciava scoperta la di lui pelle: una cute non regolare e non levigata, ma evidentemente ruvida, graffiante, fatta eccezione per l’addome ed il viso. Il volto della divinità, al centro di un capo troppo piccolo in confronto al resto del corpo, mostrava parvenze umane, con mento squadrato, naso corto ed appiattito, occhi piccoli, quasi invisibili sotto arcate sopraccigliari prominenti. Non capelli ad adornare quell’immagine, ma una corona di corte corna, disposte in circolo in maniera regolare attorno al cranio.
La seconda statua, come la prima, presentava un’altra figura maschile, questa volta più aggraziata ed equilibrata nel proprio corpo, presentante una muscolatura atletica e muscolosa, non eccessiva. Tali proporzioni, però, non era poste in evidenza, ma lasciate coperte, quasi da intuire, sotto una lunga veste, che l’avvolgeva completamente diventando, all’altezza delle gambe, una cosa sola con la colonna: solo volto ed arti superiori erano realmente evidenti in quell’opera. Le mani di quella scultura, in realtà, non mostravano dita degne di tale nome, ma lunghissimi ed affilati artigli che si spingevano aggressivamente in avanti, quasi a carpire i fedeli a lui adoranti. Il viso, poi, contornato da lunghissimi capelli, non offriva nulla di umano: il naso, al pari delle orecchie, era assente; gli occhi quasi impercettibili, in opposizione alla bocca che si presentava fin troppo estesa ed adornata da una fila di lunghi e sottili denti.
Della terza statua era impossibile definire una natura sessuale, insieme ad una vera natura assimilabile all’umanità: un corpo deforme, presentante lunghi ed arrotolati tentacoli al posto di mani e braccia, risultava rivestito da un’armatura lucente adatta più ad un uomo che ad un simile mostro. Fra i tentacoli che dovevano essere braccia e mani per tale creatura, due lunghe lance si estendevano verso il cielo, con picche simili ad arpioni più che ad armi da guerra. Il capo, a sua volta protetto da un elmo nella parte superiore e sui lati, proponeva nel viso l’unica fattezza umana: il volto di un anziano, segnato da profonde rughe e forme spigolose.
La quarta statua, l’ultima visibile in quel momento a Midda, era assolutamente ed indiscutibilmente femminile: praticamente nuda, presentava una stupenda donna, dai lunghi e morbidi capelli sparsi a celarle parzialmente i seni prosperosi e la schiena. Il volto di lei, quasi in contrasto con la propria bellezza indescrivibile, lasciava trasparire un’indicibile angoscia, una sofferenza disumana che per un istante chiuse la bocca dello stomaco della guerriera, nella veridicità di quella rappresentazione, più simile a carne che a pietra, più simile a vita che a statua. Le braccia e le gambe della divinità raffigurata, se tale era, apparivano circondate, avvolte, strette in lunghe e pesanti catene, che ne violentavano le carni, che ne torturavano l’anima, piagandone la pelle ed offrendo giustificazione per tanto dolore.
Le altre quattro statue, che la donna guerriero poteva solo supporre fossero alle sue spalle, non erano da lei visibili e non desiderava di certo cercarle: altre erano le di lei priorità in quel momento.
A pochi passi dal perimetro più esterno del santuario, una fila di basse e sottili colonne prive di volte superiori segnava il contorno di una breve scalinata in discesa, che lasciava affossare l’intero cuore del tempio. Se la zona fra le pareti esterne e quell’ornamentale colonnato appariva vuota, fatta eccezione per i bracieri posti a distanze regolari l’uno dall’altro, all’interno di quel margine un numero incredibile di uomini e donne erano presenti, gli adepti di quel culto blasfemo: vestiti tutti in tuniche bianche o beige, senza apparente regolarità in tali colori, celavano i propri capi sotto ampli cappucci, che non potevano però nascondere le espressioni stupite, se non anche sconvolte, come reazione alla di lei comparsa fra loro.
Tutti gli adepti sembravano stretti attorno a lei, ma più che al pozzo in realtà la loro concentrazione era rivolta, almeno fino a prima del suo ingresso, ad un altare, posto a pochi passi da lei in quello che era il vero centro del santuario. Sollevato rispetto al resto del tempio, si mostrava di forma squadrata, di almeno nove piedi di lunghezza e tre di larghezza, in pietra nera e lucente scolpita con cura non inferiore a quanto presente all’interno del gotico delubro e dei suoi sotterranei e raffigurante, probabilmente, altre empie scene. Midda, però, non ebbe attenzione da rivolgere all’arte di quell’oscena ara: tutta la sua concentrazione venne richiamata prima dalla vittima posta su di essa e, poi, dal di lei carnefice.
L’ostia, la vittima sacrificale, era una giovane donna, come già raffigurato nel bassorilievo. Ella presentava un corpo ancora fanciullesco, con pelle chiara e lentigginosa, lunghi capelli rossi scomposti e scure vesti squarciate che a malapena ne coprivano le intimità. Priva di sensi, forse per il terrore, forse per qualche droga o forse, peggio, perché già morta, era stata incatenata all’altare da lunghe catene avvolgenti, non dissimili da quelle della divinità raffigurata nelle colonne del tempio. La presenza di quelle spire metalliche poteva da un lato lasciare supporre che la vita non avesse ancora abbandonato quel corpo, inutile altrimenti sarebbe stato costringerla all’altare in quel modo, ma dall’altro non garantiva assolutamente tale ipotesi nella sua rassomiglianza con l’oscura e sofferente dea scolpita.
Sopra la vittima, poi, era la figura del celebrante, dell’officiante di quel blasfemo e violento credo.
E nei di lui occhi, la donna guerriero ritrovò la ragione della di lei missione in quel luogo sacrilego.
« Tre volte e mezza la ricompensa… » sussurrò fra sé, sfoderando la spada.
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