Il principale vantaggio nel lottare contro dei non morti del genere zombie, da sempre, era dato dalla lentezza fisica dei medesimi: i cadaveri rianimati, anche dalle migliori negromanzie, non potevano mai recuperare l’agilità che possedevano in vita. E più la loro putrefazione avanzava, meno le loro possibilità di movimenti e di riflessi erano presenti, in qualsiasi atto, anche nel più semplice come il camminare. Nel combattimento fisico qualsiasi vivente, anche non allenato come guerriero, avrebbe dimostrato una velocità maggiore rispetto anche al più rapido degli zombie.
Ma se la lentezza fisica, l’assenza di riflessi, l’impaccio di movimenti dati da un corpo privo di una propria anima erano il principale vantaggio nel lottare contro dei non morti simili, molte erano le difficoltà che avrebbero reso lo scontro improponibile anche al migliore dei combattenti.
Uno zombie non conosceva stanchezza, uno zombie non conosceva sconforto, uno zombie non conosceva dolore, uno zombie non si sarebbe mai arrestato se anche solo una minima possibilità di movimento gli fosse stata concessa. Se altri generi di non morti potevano essere vinti nella distruzione dei loro cuori o delle loro teste, fonti focali in un attaccamento alla vita anche oltre la morte, gli zombie non avevano di questi limiti, di queste debolezze: privati del cuore al pari che della testa stessa, essi sarebbero ugualmente avanzati inesorabili contro i propri avversari, contro le proprie prede, spronati dal desiderio di adempiere alla missione della negromanzia fonte per loro di rianimazione.
Oltre all’apparente invulnerabilità ed inarrestabilità, che già avrebbero reso un solo zombie un nemico temibile per il più forte dei guerrieri, gli zombie trovavano la propria principale forza nel numero: non agivano praticamente mai in unità singole, dato che tutti i malefici fonti di simili abomini erano da sempre destinati ad ampie schiere. Schiere che avrebbero rinfoltito le proprie fila ad ogni nemico abbattuto, ad ogni avversario ucciso.

Dalle gole di quei cadaveri, spesso straziate dai segni di una morte violenta, non un suono usciva né sarebbe mai uscito: non vi era aria nei loro polmoni, o non vi erano neanche i polmoni stessi, per permettere la produzione di qualsivoglia genere di suoni.
« Non credo che mi permetterete di giungere al santuario senza propormi l’annessione al vostro variegato gruppo… vero? » domandò la donna guerriero, cercando di mostrarsi sprezzante di fronte a quel mortale pericolo.
Alle proprie domande, Midda non attendeva ovviamente risposta: non solo non vi era possibilità di produrre suoni per quelle vittime del fato, ma neanche menti per generare eventuali risposte o, prima ancora, per comprendere i suoni sentiti.
Non era la prima volta per lei che si ritrovava in situazioni disperate, e ciò che ogni volta le aveva permesso di riportare a casa, quasi sempre per intero, il proprio amabile corpo era proprio il non permettere ai propri nervi di offrirle distrazione, non permettere alla propria coscienza di farle elaborare l’orrore che la circondava, tanto in quel momento come in un qualsiasi territorio di guerra: per ottenere quel risultato, a volte, rompeva il proprio rinomato silenzio per rivolgersi verso i propri avversari. Parlare con i propri nemici, ancor più quando essi non potevano comprendere o rispondere, era per lei un modo di considerarli comunque affrontabili e vincibili.
Lo zombie a lei più prossimo, muovendosi in maniera inarticolata e lenta, per quanto inesorabile, giunse ad accostarsi al di lei fianco destro, tendendo le proprie mani corrose dal lavoro dei vermi verso il di lei braccio. Midda restò immobile ad osservarlo, quasi per un istante con un sentimento di umana compassione: era stato, da vivo, un giovane soldato kofreyota, dai corti capelli ramati e dalla pelle resa bronzea dal sole delle pianure ove era cresciuto, era vissuto e forse aveva anche amato. La di lui uniforme, non ancora intaccata dall’azione del tempo, mostrava quasi con orgoglio i fregi argentati sopra il velluto scuro, color del mare più profondo: quei fregi si intarsiavano in lunghe e devote preghiere al suo dio, al dio per il quale aveva votato il proprio cuore ed il proprio corpo all’esercito, il dio per il quale sarebbe stato disposto a morire… per il quale, forse, era anche morto insieme ai suoi compagni in quella blasfema palude.
Midda socchiuse le palpebre nell’osservare i di lui occhi bianchi, privi di ogni luce di vita, privi di un’anima: quello che un tempo era stato il corpo di un giovane pieno di sogni e di speranze, era ora solo un involucro vuoto, rianimato dalla negromanzia, legato in eterno a quella palude, come guardiano dei tesori e dei segreti in essa custoditi. Che senso poteva aver avuto tutta la fede di quel giovane, tutta la voglia di vivere e di combattere per il suo signore e per il suo dio, se quella era la fine che la morte gli aveva riservato? Il metallo freddo del braccio destro di lei non si mosse sotto la presa di quelle dita prive di energia vitale, per nulla intimorita da ciò che la stava toccando. Ma quell’immobilità durò una frazione di secondo, il tempo di un battito di ciglia, dopo il quale, come una molla, il di lei corpo scattò forte, preciso, inarrestabile. Con un solo movimento verticale, la lama della spada di Midda guidata dalla di lei mano sinistra, percorse il corpo del primo avversario dal di lui capo al di lui inguine, tagliandolo di netto in due parti mentre la mano destra, ora ripresasi, si mosse a spingerlo all’indietro per liberare la lama stessa e renderla disponibile al prossimo nemico.
Lo scontro aveva avuto inizio…
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