11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

lunedì 23 settembre 2013

2047


Qualcuno ritiene forse che io stia esagerando?
Che provi, costui, a non essere più in grado di distinguere la realtà dalla fantasia, non per una qualche follia, non per una mera perdita di senno, quanto perché, in tal direzione, indotto dalle crudeli allucinazioni prodotte da un empio semidio animato da un feroce desiderio di vendetta nei propri riguardi, in misura tale da ritrovarsi ad aprire il fianco della persona amata nel non essere più in grado di riconoscerla in quanto tale, nell’essere stata trasformata, a propria insaputa, in un orrendo mostro necrofago, soltanto desideroso della sua morte. Che provi, costui, tale esperienza non soltanto per pochi istanti, ma per lunghi giorni, arrivando a dubitare, in conseguenza di ciò, di tutto e di tutti, e continuando a farlo anche al termine dell’inganno, dopo essere stati liberati da tale malvagia influenza, nel non potersi più considerare realmente certo delle proprie percezioni, della propria capacità di intendere il mondo attorno a sé. Che provi, costui, a vivere con il timore di addormentarsi e di ritrovarsi, anche nel sonno, perseguitata dal mostro al quale è stato strappato il giuramento di non imporgli alcuna ferita, alcun danno, e che pur, per quanto in tal modo limitato, si dimostra capace di colpire, e di colpire più profondamente e violentemente di quanto altrimenti non sarebbe potuto essere capace, uccidendo più e più volte, in sogno, tutti i suoi cari, tutti i suoi affetti e i suoi amori, per il semplice gusto di osservare il terrore più incontrollato dipingersi sul volto della sua sola, effettiva e reale vittima.
Che provi, costui, tutto ciò. E che, dopo averlo provato, si riproponga la domanda di cui sopra: qualcuno ritiene forse che io stia esagerando?!

« Siamo arrivati… » annunciò la seconda guardia, intervenendo esplicitamente per la prima volta e, in tal senso, ignorando quello che intese essere un qualche ringraziamento di natura pagana, nel dimostrare di preferire liberarsi quanto prima di me, forse per mero disinteresse nei miei riguardi o, forse, per una qualche sensazione di disagio che non desiderava dimostrare alla mia presenza, indubbiamente contraddistinto dalla medesima consapevolezza che aveva imposto silenzio durante il viaggio che mi aveva condotto sino a quella luna dimenticata dagli dei, così come l’aveva pocanzi descritta Desmair « Questa è la sua cella. » soggiunse, accostandosi a una parete di vetro, o apparentemente tale per quanto vetro non sarebbe di certo potuto essere, per lì digitare alcuni comandi su un piccolo pannello di controllo, in quello che compresi essere il meccanismo di apertura di una soglia per me lì ancora non distinguibile.
« Ehy… ma’am… le abbiamo portato compagnia. » non perse occasione di parlare la prima guardia, in quel momento, tuttavia, non rivolgendosi direttamente a me, quanto a qualcun altro all’interno della cella, là dove non avevo ancora diretto il mio sguardo nell’essermi interessata a tentare di studiare le azioni del suo compare, nel voler iniziare sin da subito a porre le basi per la mia fuga, per quando questa sarebbe potuta divenire realtà « A quanto pare, avete dimostrato di andare d’accordo… e non sia mai che la giustizia di Loicare impedisca a due vecchie amiche di consolarsi a vicenda, all’interno delle proprie strutture di lavoro. »

Ancora una volta, il tono adoperato, ipoteticamente sornione, risultò altresì animato da un profondo sarcasmo, in un’intima, immotivata e pur naturale avversione di quel secondino per i propri prigionieri, per i detenuti con i quali, proprio malgrado, stava condividendo una pena mai imputatagli. Ma, come già poc’anzi, lo ignorai in maniera più assoluta, motivata dal consueto interesse a ovviare a gratuite possibilità di complicarmi ulteriormente l’esistenza e, allora, aiutata anche dalla curiosità di identificare chi potesse essere la mia vecchia amica lì dentro già presente e in mia attesa, benché, obiettivamente, la scelta avrebbe dovuto essere considerata estremamente limitata nella propria gamma di possibilità.
E, difatti, a riposo su una branda non troppo diversa da qualunque altra branda sulla quale avevo avuto passata occasione di riposare all’interno di una cella, identificai immediatamente gli occhi dorati di Duva Nebiria, sul volto della quale non mancò di allargarsi un sorriso amichevole nei miei riguardi…

« Ma guarda un po’ chi si rivede… la rossa tutto pepe che mi conosce! » commentò, levandosi a sedere nel mentre in cui, al centro della parete trasparente, si aprì un varco, vedendo scorrerne una sezione verso l’alto giusto per lo spazio utile a lasciarmi entrare « E dire che avrei giurato tu fossi mora, l’ultima volta che ci siamo viste. Starò iniziando a invecchiare…?! »

… rossa?!
Fu questione di un attimo e i miei occhi mutarono la propria messa a fuoco, abbandonando il volto della mia interlocutrice, per concentrarsi sulla superficie trasparente e lucida della parete esterna della cella che, in quel momento, stavo per oltrepassare, a cercare in tal punto un’occasione di riflesso, uno specchio dal quale ottenere la mia immagine, sino a quel momento francamente ignorata. E fu in quel momento che, in un’immagine pur non perfettamente definita, mi resi consapevole di quanto, a dispetto degli ultimi vent’anni della mia esistenza, i miei capelli, pur inalterati nella propria media lunghezza e nel proprio ingestibile disordine, non si stavano più mostrando contraddistinti dalla propria consueta tonalità corvina, alla quale li avevo costretti per tanto tempo al fine di differenziare il mio aspetto da quello della mia gemella, per non subire ulteriori condanne in sua vece, quanto e piuttosto dalla loro naturale tonalità rosso fuoco, alla quale non mi sarei, tuttavia, potuta più considerare propriamente abituata e che, in ciò, non mi sarebbe potuta che risultare addirittura estranea, aliena anche in misura maggiore rispetto al nuovo arto destro che mi era stato recentemente impiantato. Per un istante, addirittura, non fui neppure in grado di riconoscermi nella donna lì presentatami, non tanto per le vesti carcerarie che mi erano state offerte, un abito da lavoro di un giallo incredibilmente intenso; non tanto per il nuovo arto cromato, che sembrava addirittura rilucere tanto, ancora, era il suo splendore, non dissimile da una lama ben lucidata; e neppure per l’espressione di sincero disorientamento allora presente sul mio volto, al centro del quale pur capeggiavano inalterati i miei occhi color ghiaccio e lo sfregio in corrispondenza al sinistro… no, niente di tutto questo. La ragione per la quale, in quel mentre, apparvi qual un’estranea anche a me stessa altro non fu che quella diversa tonalità, quel colore per me pur naturale e dal quale, ciò non di meno, mi sentivo ormai una perfetta estranea.
Ma se, qual immediata reazione, mi ritrovai sul punto di protestare e di pretendere che fosse ripristinato il colore nero corvino che mi aveva contraddistinto nei miei precedenti due decenni di vita; fu sufficiente l’intervallo scandito da un semplice battito di ciglia per costringermi a rimembrare quanto, ormai, la minaccia rappresentata dalla mia gemella non avesse più a considerarsi tale, nella morte della stessa. Ragione per la quale, ormai, avrebbe potuto essere riconosciuto il tempo, per me, di riappropriarmi, quanto meno, di quella parte di me alla quale ero stata costretta a rinunciare troppo tempo addietro. Una parte di me forse banale, forse e addirittura sciocca, nel considerare quanto altro avevo perduto a causa della mia antagonista; e, ciò non di meno, pur sempre una parte di me.
Così, riappropriandomi del mio autocontrollo, estemporaneamente perduto, offrii alla cara Duva il più ampio sorriso di cui fossi capace, riprendendo ad avanzare all’interno della cella che avrei condiviso con lei, nelle strane dinamiche di un fato che sapevo non essere scritto e pur, non per questo, sì incapace di dimostrarsi carico d’ironia, come me ne stava venendo offerta evidente riprova…

« Midda Bontor… per servirti. » mi presentai, offrendole entrambe le mani, con i palmi rivolti verso l’alto, in maniera istintiva, nel saluto che, nel mio mondo, viene riservato alle persone più care, ai famigliari più intimi, ai quali si desidera dimostrare fiducia assoluta, nel presentarsi in tal modo palesemente disarmati e potenzialmente indifesi a eventuali aggressioni.
« Addirittura vuoi servirmi, sorella?! » sorrise Duva, per tutta risposta, saltando giù dalla branda soltanto per allungare verso di me la propria destra e stringere la mia mano di metallo nella sua di carne e ossa, in un gesto che mi risultò del tutto estraneo « Non so chi ti abbia parlato di me, ma, evidentemente, mi ha fatto ottima pubblicità se questo è il risultato. » osservò, in tono inevitabilmente ironico, pur senza sarcasmo a mio discapito « Comunque sia: Duva Nebiria… per servirti. » concluse, presentandosi, anche ove non necessario, e restituendomi la cortesia dimostrata con il mio esordio verso di lei.



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