11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

www.middaschronicles.com
il Diario - l'Arte

News & Comunicazioni

E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

venerdì 27 settembre 2013

2051


« Dannazione, Midda Bontor! » esclamò, scuotendo appena il capo nello scandire quelle sillabe, o qualunque altra sillaba fosse sostanzialmente da lei stata scandita per definire il significante del significato per me tradotto in tale termine « Se tu fossi pazza, saresti la più straordinaria pazza con la quale io avrei mai avuto a che fare! » definì, in quello che volli intendere quale un complimento, benché volto a non escludere, ancora e completamente, simile ipotesi, a dispetto di quanto già detto e ripetuto a tal riguardo « Davvero hai inchiodato un uomo a terra con la sua stessa spada…?! »
« … anche più di uno, a essere onesta. » ammisi, rifiutando di sentirmi in imbarazzo per ciò « Spero che questo non ti risulti eccessivamente sgradevole. »
« L’idea che un dannato stupratore sia stato ammazzato in maniera particolarmente violenta dovrebbe apparire sgradevole? A me?! » aggrottò la fronte, a evidenziare assoluta sorpresa « Stai scherzando…?! » insistette, prima di gettare la testa all’indietro per poter liberare, verso il soffitto sopra le nostre teste, una sonora risata, quasi come se, a restare in una diversa postura rispetto a quella, avrebbe potuto correre il rischio di vedere il proprio intero capo deflagrare, sotto l’azione impetuosa di quella risata.
« Ehm… » esitai, non riuscendo a cogliere le ragioni di una reazione tanto enfatica, addirittura eccessiva, nel considerare, comunque, l’argomento oggetto di conversazione fra noi in quel particolare frangente « Ho la vaga impressione di essermi persa qualcosa. Mi sento come quando ci si avvicina al fuoco per ascoltare il cantore e questo sta già raccontando la battaglia finale. »
« Da queste parti diremmo: come quando si entra in un… e la proiezione è già iniziata. »  mi corresse ella, cercando di calmarsi, preoccupata, probabilmente, all’idea di potermi porre altrimenti a disagio con tanta ingiustificata ilarità.
« Quando si entra… dove?! » la interruppi, prima che potesse proseguire con eventuali spiegazioni, nel non volermi smarrire completamente in un discorso nel quale, malgrado il supporto del traduttore, ancora troppi erano i riferimenti a contorno, culturali e non, nel merito dei quali difettavo, rischiando, in conseguenza a ciò, di allontanarmi, metaforicamente, troppo da Duva per riuscire ancora a essere in grado di seguirla nell’evoluzione di quello stesso dialogo.
« In un… » ripeté ella, pronunciando una parola che, purtroppo, compresi, non stava riuscendo a essere riadattata in alcuna di mia pregressa conoscenza da parte del traduttore, in una misura tale per cui, alle mie orecchie, stava venendo addirittura silenziata, quasi una censura imposta a sfida della mia personale, e purtroppo lì resa incredibilmente palese, ignoranza.

Fu in quel momento, in quel contesto di confronto sostanzialmente privo di qualunque profonda implicazione, ove, in fondo, di mera chiacchiera su un tema fondamentalmente futile, qual quello di un modo di dire, che mi fu infatti chiaro quanto grata avrei dovuto considerarmi nei confronti degli scettri del faraone. Perché laddove, in grazia a quegli antichi e potenti manufatti, per loro intercessione, mi era stato possibile essere perseguitata, per molte notti, per intere settimane, da un solo, ricorsivo e quasi ossessivo sogno, ambientato in una realtà per me del tutto estranea; ciò non di meno, per merito esclusivo di quella particolare intermediazione onirica, delle dinamiche proprie del sonno e dei sogni, e di sogni così ricorrenti, era divenuto sempre più familiare, sempre più consueto, finanche a poter essere considerato addirittura normale, al pari di qualunque altro aspetto della mia vita quotidiana. Una familiarità, quindi, quella per me anticipatamente maturata con quanto allora, alfine, era divenuto effettivamente reale, indubbiamente concreto, che mi stava chiaramente concedendo la possibilità di un minore sconvolgimento nel confronto con tante novità, con tanta estraneità, innanzi alla quale, altrimenti, sarei potuta essere persino giustificata a perdere il senno.
E se fu in quel momento, in quel contesto, che giunsi a tale conclusione; fu egualmente in quell’attimo, in quel frangente, che un moto di angosciata preoccupazione non poté che crescere nel profondo del mio cuore e del mio animo al pensiero di colui che avevo trascinato con me in quella nuova, assurda avventura oltre ogni limite mai conosciuto a quella che per noi era sempre stata umanità: il mio amato, e pur estemporaneamente abbandonato, Be’Sihl.
Come avevo potuto essere stata tanto egocentrica da non prevedere quell’obbligato sviluppo? E, ancora, come avevo potuto essere stata tanto egoista da non essermi minimamente preoccupata di quanto il mio compagno avrebbe potuto ritrovarsi in profonda difficoltà a rapportarsi con tutto quello, nel mentre in cui io, a modo mio, mi stavo addirittura divertendo, benché rinchiusa in una prigione lunare?!

“Thyres…” ricordo che pensai, nel mentre in cui una dolorosa contrazione morse il mio ventre, uno spasmo di rimorso nel merito del quale, comunque, mi sforzai di non offrire eccessiva evidenza alla mia interlocutrice “Se solo sopravvivremo abbastanza da rivederci, avrò molto di cui farmi perdonare. Malgrado Desmair…”
« Mi spiace… ma temo che il traduttore automatico non riesca a trovare, nel lessico della mia lingua, un termine adeguato per adeguarsi a quanto stai dicendo. » commentai poi, in risposta all’ultimo tentativo, da parte della mia interlocutrice, di condividere con me quella particolare informazione.
« Ah… ottimo… » scosse il capo con aria contraddetta « Probabilmente l’hanno tarato in maniera affrettata e non hanno preso in esame la possibilità di un’incompatibilità linguistica. » inarcò un sopracciglio, a evidenziare un tono di critica a tal riguardo « Non ti preoccupare, però. Su questa luna, l’omni-governo di Loicare, ha radunato un gruppo estremamente variegato di detenuti. E ho già in mente chi, domani, potrebbe darci un occhio per sistemarlo. » soggiunse, facendo spallucce a considerare già conclusa la questione, un problema in tal modo già divenuto inconsistente.

Comprendo come, ribadire ora il concetto, potrebbe apparire quale un superficiale tentativo, da parte mia, di subliminare la mia effettiva colpa nei confronti del mio buon locandiere, amato e, ciò non di meno, anche in quel momento, abbandonato, così come sempre era, suo malgrado, finito per essere nei lunghi anni della nostra relazione, prima qual semplice amico, non diversamente come amante. Tuttavia, ancora una volta, il senso di colpa mi strinse le viscere nel confronto con la conclusione raggiunta dalla mia interlocutrice. Una conclusione semplice, addirittura un legittimo banalizzare il problema e, mio malgrado, un modo per ribadire quanto i miei “problemi” avrebbero potuto trovare facile possibilità di soluzione, al contrario di quelli del caro Be’Sihl, il quale, oltre a essersi ritrovato solo a confronto con una realtà assolutamente aliena per lui, avrebbe anche dovuto arrangiarsi per cavarsela, in termini che, a me, non sembravano altresì essere pretesi qual necessari.
Per sua fortuna, come ebbi occasione di scoprire soltanto qualche tempo dopo, ogni mia angoscia, ogni mio senso di colpa, pur doveroso e, anzi, tale da rendermi imperdonabile in sua ipotetica assenza, avrebbero dovuto essere riconosciuti quali del tutto infondati. Perché, così come aveva giustamente fatto notare Desmair nella nostra prima, e unica, conversazione su Loicare, il mio compagno era sempre stato contraddistinto da una squisita capacità di adattamento, tale da permettergli, e non è poco, di sopravvivere una volta giunto, ancora ragazzo, in quel della città del peccato dalla sua lontana e ben diversa terra di origine, e, addirittura, di trovare persino di che vivere, avviando con le proprie sole forze, fisiche e non, un’impresa autonoma là dove, altresì, alcuna autonomia sarebbe mai potuta essere tollerata. Ritenere, pertanto, che Be’Sihl potesse essere, in quel momento, in una situazione di intima crisi, psicologicamente perso nel confronto con tutte le novità a lui circostanti; per quanto doverosa preoccupazione da parte mia, avrebbe dovuto anche essere considerata quale un ingiusto discredito delle sue effettive, e più volte dimostrate, capacità. Capacità che, unite a una mente lucida e a un cuore saldo, difficilmente gli avrebbero negato la possibilità di giungere ovunque avesse desiderato, di conquistare qualunque obiettivo avesse mai voluto…
… me compresa. Così come, del resto, era stato.


Nessun commento: