Se Duva Nebiria avesse avuto possibilità di immaginare che l’essersi levata gli stivali e averli gettati dietro di sé, all’interno di quella zona d’ombra, avrebbe avuto a potersi considerare tanto utile per la propria compagna d’arme, e utile al punto da salvarle potenzialmente la vita nel confronto con quel trabocchetto, ella avrebbe avuto di che essere più che felice per aver compiuto tale scelta, rimproverandosi soltanto, al più, di non essere fisicamente entrata anche lei in quella zona d’ombra, condannandosi a vagare nell’oscurità e, ciò non di meno, riservandosi la possibilità, in ciò, di ricongiungersi ad H’Anel.
Purtroppo, e proprio malgrado, Duva Nebiria non avrebbe potuto vantare la benché minima consapevolezza a tal riguardo. E, anzi, dal proprio punto di vista, ella si era limitata semplicemente a perdere i propri stivali, non senza, in tal senso, un certo rammarico, soprattutto nello scoprirsi sempre più con i piedi ghiacciati a contatto con la gelida roccia del pavimento.
« Dubbio numero uno: ma in questo posto non avrebbe dovuto esserci della lava da qualche parte...?! » commentò parlando con se stessa, per nulla soddisfatta della situazione corrente « Perché ora come ora, più che un forno, tutto questo assomiglia a un congelatore... »
Ovviamente ella era consapevole che la lava non avrebbe avuto a dover essere riconosciuta al suo livello. Anche perché, allo stato attuale delle cose, ella non aveva ancora trovato una via utile a discendere, e a discendere verso i piani inferiori di quel tempio sotterraneo, e quei piani inferiori al termine dei quali avrebbe allora avuto ad attenderla il fiume di lava di cui Midda le aveva parlato.
Ciò non di meno, ella non avrebbe neppure potuto presumere che il pavimento potesse essere tanto freddo a contatto con la pianta dei suoi piedi, in termini tali, inizialmente, a farle perdere la sensibilità e, con il passare del tempo, a indolenzire la sua muscolatura, contraendola talvolta in violenti crampi. Continuando di quel passo, forse, la pelle dei suoi piedi avrebbe persino iniziato a spaccarsi, per la contrazione imposta da quel gelo, in termini che avrebbe reso tutto ciò sempre più spiacevole.
« Dubbio numero due: ma gli shar’tiaghi come accidenti fanno ad andare in giro sempre a piedi nudi...?! » si domandò ancora, volgendo il pensiero ai due figli di Shar’Tiagh di sua diretta conoscenza, Be’Sihl e Howe, i quali, nel rispetto delle tradizioni della loro gente, mantenevano sempre i piedi scoperti, come atto di umiltà innanzi agli dei « Al posto della pianta dei piedi avranno quantomeno uno zoccolo di un paio di dita... » ironizzò, aggrottando la fronte al pensiero.
In effetti ella non si era mai concessa occasione di soffermarsi su tal particolare in passato, pur avendo convissuto per cinque anni con Be’Sihl a bordo della Kasta Hamina, i pavimenti metallici della quale non avrebbero avuto probabilmente a potersi fraintendere propriamente temperati. Eppure Be’Sihl non aveva mai dimostrato il benché minimo disagio, né lì, né altrove... con la sola eccezione di una volta in cui, sospintosi in un’area ghiacciata di un pianeta, contraddistinta da temperature obiettivamente improbe, era stato alfine costretto a rinunciare al rispetto di tale tradizione come obbligata alternativa a rinunciare ai propri piedi e, forse, alla propria vita. Nulla di paragonabile, comunque, a quanto da lei ora vissuto, là dove quel pavimento, per quanto spiacevolmente freddo, non avrebbe avuto a potersi porre a confronto con il gelo concreto di quell’esperienza.
« Va bene voler esser... »
Duva stava ancora scandendo tale frase, insistendo sul per lei incomprensibile approccio shar’tiagho all’incedere scalzi in qualunque condizione, quando il corridoio innanzi a lei ebbe a dividersi in due, volgendosi verso direzioni fra loro del tutto opposte.
« ... diamine... » commentò, trattenendo una piccola imprecazione.
Tanto alla propria sinistra, quanto alla propria destra, la situazione appariva pressoché assimilabile, presentando il proseguo del corridoio tanto da un verso, quanto in quello opposto, senza apparenti indizi utili a comprendere quale delle due alternative potesse avere a ritenersi quella corretta... ammesso, ma non concesso, che avesse a esistere effettivamente un’alternativa corretta e una sbagliata.
« Giuro che appena metto le mani su un fanatico della Progenie della Fenice, gli pelo la testa a scappellotti se non mi spiega come accidenti facciano a orientarsi qui dentro... » sospirò, scuotendo appena il capo con aria di disappunto.
Che i membri della Progenie della Fenice dovessero avere una mappa, o comunque un modo per poter essere in grado di orientarsi all’interno di quel luogo, e di quel luogo oltretutto instabile a livello dimensionale, era ovviamente soltanto un’ipotesi. E pur un’ipotesi non necessariamente priva di fondamento, nel confronto con l’ovvia necessità, da parte loro, di non avere a rischiare la vita in ogni momento entro i confini di quella che, per inciso, avrebbe avuto a dover essere riconosciuta pressoché pari a una casa da parte loro.
... e fu proprio nel mentre in cui scandiva simili parole, contemplando alternativamente il corridoio alla propria destra e quello alla propria sinistra, che la vide. O, per essere precisi, si vide.
Era lontana da lei, probabilmente all’estremità opposta di quel corridoio, in termini tal per cui, almeno all’inizio, ella non avrebbe potuto considerarsi effettivamente sicura di quanto stesse osservando o di chi stesse osservando. Tuttavia, dopo un primo istante di esitazione, ella non ebbe a riservarsi dubbio alcuno a confronto con il pensiero di star osservando se stessa, come in uno specchio.
E laddove anche sul volto dell’altra Duva ella ebbe a cogliere un’espressione di stupore sicuramente comparabile a quella che doveva essere in quel momento impressa sul proprio volto, tutt’altro che fine a se stessa avrebbe avuto a doversi ritenere l’idea di uno specchio, per quanto, comunque, non fosse certamente tale. Non, per lo meno, senza voler prevedere la possibilità, per uno specchio, di avere a proporre un abbigliamento leggermente diverso dal proprio ma, soprattutto, delle ciocche dorate intrecciate alle proprie scure sui capelli, in un effetto non necessariamente sgradevole nel proprio insieme e che, tuttavia, ella non era certa di non riuscire a considerare leggermente pacchiano. Troppo per i propri gusti. O, quantomeno, per i propri gusti nella propria dimensione, là dove, chiaramente, in un altro mondo, in un altro universo, un’altra Duva avrebbe avuto a doversi intendere così acconciata... oltre che, per di lei fortuna, ancor in possesso dei propri stivali.
« Ehylà! » provò a salutarsi, non sapendo valutare se ciò avesse a potersi intendere un’idea buona o no, ma, in fondo, non avendo neppure a poterla discriminare necessariamente qual un’idea sbagliata... fosse anche e soltanto per un discorso di educazione nei propri stessi riguardi.
L’altra Duva, allora, chiaramente sorpresa da quel saluto, accennò a levare la propria destra nella sua direzione, per replicare in tal maniera. E, nel contempo di ciò, alle sue spalle ebbe a comparire un giovane guerriero, l’identità del quale ella non ebbe esitazione a riconoscere qual quella di M’Eu: evidentemente, in quella versione alternativa della loro storia, per dirigersi al tempio della fenice non si era offerta H’Anel, quanto e piuttosto suo fratello.
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