Se cinque o dieci anni prima le avessero detto che, un giorno, ella avrebbe avuto a comandare sulla città di Kriarya, come unica signora della stessa, regina della città del peccato, Midda Namile Bontor sarebbe scoppiata a ridere, escludendo radicalmente tale possibilità.
Ella, a differenza di quanto poi dimostrato dalla propria gemella Nissa, non avrebbe potuto vantare alcuna velleità di comando su chicchessia. E anche ai tempi della propria giovinezza, quando insieme a Salge Tresand aveva ridato vita alla Jol’Ange, non aveva minimamente preso in considerazione l’idea di agire da capitano, né da suo vice: già la sua amica, la sua sorella Duva, ritrovandosi a vivere in una situazione non dissimile dalla sua, a bordo della Kasta Hamina in compagnia del proprio allor marito Lange Rolamo, non aveva disdegnato la carica di primo ufficiale, fosse anche e soltanto per avere la possibilità di far valere la propria opinione, la propria volontà. Alla futura Figlia di Marr’Mahew, invece, ciò non era mai interessato. A lei interessava vivere la propria vita, senza avere a doversi preoccupare della vita di altri e, piuttosto, avendo a concentrare tutto il proprio interesse, tutta la propria attenzione, su di sé e sulle proprie esigenze, prima fra tutte quella di avere a definire inequivocabilmente la propria piena autodeterminazione.
Eppure, in quel momento, ella comandava sulla città di Kriarya, come unica signora della stessa, regina della città del peccato. E, addirittura, ella avrebbe avuto a doversi riconoscere fondamentalmente in guerra con l’intero regno di Kofreya, come conseguenza, o forse motivo, di quella stessa ricerca di indipendenza, di emancipazione rispetto a un governo centrale da lungo tempo, secoli addirittura, del tutto indifferente alle necessità e agli interessi di quel luogo e delle persone che, in esso, vivevano.
Se cinque o dieci anni prima le avessero detto che, un giorno, ella avrebbe avuto a convivere e cooperare quotidianamente con la progenie di Desmair, una schiera di semidee immortali, avendo addirittura a educare all’arte della guerra una porzione delle stesse, Midda Namile Bontor sarebbe scoppiata a ridere, complimentandosi con la fantasia di chi in grado di elaborare un simile, complesso scenario.
Ella, in effetti, fino a due giorni prima ignorava, addirittura, l’esistenza di una qualsivoglia progenie del proprio sposo, e di una progenie condannata a marcire in eterno nella prigione che la stessa Anmel Mal Toise aveva forgiato per intrappolare il proprio figliuolo immortale, e quel figlio con il quale, obiettivamente, non avrebbe voluto avere nulla a che fare. Ma anche ipotizzando di essere informata dell’esistenza di un’intera popolazione di desmairiani, ella non avrebbe avuto a ritenere possibile l’idea di una qualche collaborazione fra loro... anzi: il pensiero dell’esistenza di altre creature simili al proprio tanto odiato sposo l’avrebbe sicuramente condotta a riconoscerli quali propri antagonisti, e a impegnarsi con tutta se stessa per tentare di cancellarli per sempre da quel piano di realtà, o, quantomeno, per assicurarsi di mantenerli imprigionati sino alla fine dei tempi e oltre nella loro dimensione tasca natale.
Eppure, in quel momento, ella stava organizzandosi proprio al solo scopo di convivere e cooperare quotidianamente con la progenie di Desmair, una schiera di semidee immortali, avendo addirittura a educare all’arte della guerra una porzione delle stesse, in qualità di proprie allieve. E nulla di tutto ciò la turbava. Al contrario, ella non avrebbe potuto che riconoscersi francamente sollevata all’idea dello straordinario aiuto che avrebbe potuto derivare da quell’imprevista e imprevedibile nuova risorsa, e una risorsa offerta nella sua vita e nella vita della stessa città di Kriarya senza che alcuno di loro avesse fatto nulla per meritarsi simile, prezioso dono.
Se cinque o dieci anni prima le avessero detto che, un giorno, ella avrebbe avuto a impegnarsi insieme alla sua gemella Nissa a tentare di ricostruire un clima di serenità e di collaborazione, con buona pace di tutti coloro che pur avrebbero potuto avere a pretendere la testa di lei come giusto prezzo per tutte le atrocità dalla medesima commesse, Midda Namile Bontor sarebbe scoppiata a ridere, e a ridere amaramente per l’ingenuità di chiunque potesse presupporre qualcosa di simile.
Ella, nel proprio complesso rapporto con la propria gemella, e in quel rapporto venutosi a degenerare a seguito dei loro dieci anni, e della sua fuga notturna dalla casa natale in cerca di avventure, non aveva mai avuto a ravvisare alcuna possibilità di quieta soluzione per quella faida, per quella guerra, animata dalla consapevolezza che l’unico finale possibile, fra loro, avrebbe avuto necessariamente a prevedere la morte di una delle due. E quando, alfine, la morte era sopraggiunta, ed era sopraggiunta per Nissa, difficile sarebbe stato definire, per la stessa Midda, se essere più appagata o dispiaciuta per tutto ciò, là dove, in fondo, la propria morte avrebbe avuto soltanto a lasciare amici e affetti, mentre quella della sua gemella, purtroppo, aveva avuto a lasciare orfane due bambine, e due bambine la responsabilità della quale non si sarebbe potuta considerare pronta ad assumersi. Quando, poi, Nissa aveva fatto ritorno, e aveva fatto ritorno in quella propria negromantica versione, la Campionessa di Kriarya e, successivamente, anche di Lysiath, non aveva potuto che interpretare tutto ciò qual un terribile incubo, e un incubo divenuto realtà, in parole che troppo facilmente avrebbero potuto apparire qual una retorica metafora e che pur mai come in quel frangente avrebbero avuto a dover essere considerate concrete e motivate.
Eppure, in quel momento, ella stava seriamente abbracciando l’ipotesi di impegnarsi insieme alla sua gemella Nissa a tentare di ricostruire un clima di serenità e di collaborazione, con buona pace di tutti coloro che pur avrebbero giustamente avuto a opporsi a tutto ciò. Coloro i quali, per inciso, avrebbero avuto a doversi intendere fra le poche persone al mondo a cui ella aveva realmente a tenere, e che mai avrebbe voluto contrariare in tal maniera... e non, certamente, per difendere la propria antica antagonista.
Era passato poco, pochissimo, dalla propria vecchia vita. E da quella vita alla quale, in fondo, ella aveva ipotizzato di poter quietamente fare ritorno nel riportare la propria quotidianità entro i confini del proprio mondo natio, dopo quel lustro trascorso a vagabondare fra le stelle del firmamento, esplorando mondi lontani e scoprendo la reale vastità del Creato, e di un Creato nel quale tutto il suo intero pianeta d’origine avrebbe avuto a doversi intendere nulla di più di un granello di sabbia.
Eppure della propria vecchia vita non era ormai rimasto nulla. O, quantomeno, nulla che ella avrebbe avuto a poter vivere o, forse e persino, a voler vivere.
La propria nuova vita, in effetti, non avrebbe potuto ovviare ad apparire strana, bizzarra e, a tratti, persino paurosa. Una vita sulla quale ella non avrebbe potuto avere a vantare alcun genere di controllo. E una vita i possibili sviluppi della quale ella non avrebbe potuto avere a prevedere in alcuna maniera.
Una nuova vita popolata di responsabilità inimmaginate e di nuove sfide, di non morti coscienti di sé e di semidee immortali, e di tante persone che ella amava e che, tuttavia, avrebbe probabilmente finito per ferire con le proprie azioni, con le proprie decisioni, e con quelle decisioni che, difficilmente, essi avrebbero avuto a poter accettare, per così come ella stessa, al loro posto, non avrebbe mai accettato.
Certo: la volontà di fuggire non avrebbe avuto a poter essere considerata poca. E, anzi, visioni avute in un passato remoto e relative a un proprio ormai non lontano futuro, in effetti, non l’avevano più collocata in quel della città di Kriarya, e neppure del regno di Kofreya, e neppure nel continente di Qahr, partita in maniera imprevedibile alla volta del continente orientale di Hyn, per avere lì a vivere una nuova vita e nuove avventure incredibilmente simili a quelle proprie della sua vecchia vita.
Sarebbe bastato poco per tradurre in realtà quella visione. E non sarebbe stata, certamente, la prima volta nella quale ella non avrebbe avuto a dimostrare esitazione nell’abbandonare tutto e tutti per cercare lontano il proprio destino, per inseguire altrove la propria brama di autodeterminazione.
Eppure ella non desiderava offrire seguito a quella volontà. Ella non desiderava avere a sottrarsi all’apparente follia che, nel tempo presente, era divenuta la sua realtà quotidiana.
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