11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

giovedì 7 aprile 2011

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Q
uella che Nass'Hya faceva fatica a considerare qual vita, dal giorno del truce e insensato assassinio dell'amato sposo per mano di colei considerata quale propria unica amica, confidente e complice, era sovente caratterizzata, suo malgrado, da momenti di grande debolezza nel merito della natura dei quali non sarebbe stata in grado di esprimersi. Considerando come, oggettivamente, trascorresse quasi intere giornate perduta in lunghi periodi di profondo, e pur mai sereno, sonno, difficilmente avrebbe potuto ritenere tale stato qual conseguenza di un affaticamento fisico,di uno stress materiale imposto al proprio corpo, malgrado la cura dell'infante le richiedesse presenza costante, cura continua e quasi ossessiva, caratteristica propria e naturale di ogni madre, soprattutto in mesi tanto importanti quanto pericolosi quali quelli attualmente propri del suo dolce erede. In ciò, probabilmente e inevitabilmente, ella avrebbe dovuto ritenere la propria stanchezza di natura psicologica, forse addirittura emotiva, a riguardo della quale, dopotutto, alcuno avrebbe potuto negarle ragione.
L'amore che, era cosciente, aveva riversato, in vita, verso il marito, in morte, ora, lo stava trattenendo egoisticamente a lei, in un legame probabilmente blasfemo, e al quale, però, non riusciva a rinunciare, ove, altrimenti, avrebbe nuovamente e definitivamente perduto il proprio signore… separazione per affrontare la quale, umanamente, non si sentiva ancora pronta. Ma, al tempo stesso, se ella non era ancora disposta a offrire il proprio ultimo saluto a colui per unirsi al quale aveva posto in dubbio tutta la propria esistenza, il proprio passato, il proprio presente e, anche, il proprio avvenire, senza esitazione, senza incertezza alcuna, forse, in ciò, sospinta da ideali sin troppo romantici per un mondo quale il loro, il mantenimento di quella relazione, di quel malato e innaturale rapporto, non era in grado di garantirle la stessa serenità che, un tempo, aveva pur caratterizzato la loro unione. Brote, il suo amato, era morto e ritrovarlo ancora accanto a sé innanzi alla culla del loro piccino o, ancora, nell'intimità del loro talamo, alleviava la sua sofferenza nella stessa, identica, misura in cui, altresì, la fomentava, lasciando struggere, straziare il suo animo in una violenta e intima contesa fra gioia e dolore, patimento ed estasi, fiducia verso il domani e totale disperazione per il proprio presente.
Una condizione sì stancante, sì stressante, nel rapporto con la quale, a lungo andare, ne era consapevole, ella avrebbe probabilmente perduto il senno, e che pur, ancora, non l'aveva spinta ad accarezzare tragici, e forse comprensibili, sogni di morte per se stessa, quale occasione per raggiungere il proprio perduto sposo e, in ciò, trovare finalmente la pace, unicamente in conseguenza ai propri obblighi verso il figliolo pur smisuratamente amato e adorato, doveri che sentiva di avere non solo in conseguenza della propria condizione materna, ma, addirittura, anche del proprio doloroso stato di vedovanza. Quell'infante, così ignaro degli orrori del mondo a sé circostante, inconsapevole di esser rimasto orfano di padre ancor prima di aver avuto occasione di conoscerlo, di amarlo o rispettarlo, incarnava infatti in sé il solo, reale e importante retaggio di Brote, il suo naturale investimento per un comune sogno d'immortalità, d'eternità, che ella non avrebbe mai potuto ignorare o trascurare, in nome dell'amore ancora e sempre vissuto per il proprio sposo. In tutto ciò, sino a quando la sua permanenza fra i vivi sarebbe stata utile a tutelare il futuro del frutto dell'unione d'amore fra lei e Brote, ella non avrebbe mai potuto volontariamente sottrarsi a tale impegno, a simile incarico: per la morte, e per ritrovare pienamente e eternamente, il proprio sposo, del resto, il tempo non le sarebbe comunque mancato in futuro, quando, finalmente cresciuto, suo figlio non avrebbe più avuto una così pressante e assoluta esigenza di lei.
In un contesto generale di costante affaticamento, di perenne stanchezza, tuttavia, quell'ultima nottata sembrava aver voluto sancire un primato prima sconosciuto, mai raggiunto né, tantomeno, ricercato. Nulla, neppure la presenza dell'ombra del proprio amato accanto a sé nel loro letto, era stato in grado di alleviare tale condizione, il peso che sentiva gravare dentro di sé. E quando, unire al danno anche la beffa, il piccolo aveva iniziato a innalzare al cielo i propri lamenti, ella era stata sul punto di cedere a una crisi isterica, scoppiando in lacrime e invocando il perdono degli dei tutti per le sue colpe, colpe che non era in grado di individuare ma che, evidentemente, essi dovevano aver deciso di farle espiare in maniera tanto crudele.

« No, amor mio. Calmati… non vi è ragione per agitarsi tanto. » aveva ripetuto la voce del marito verso di lei parole non dissimili da quelle da lei stessa pocanzi pronunciate verso il pargolo, privo, in ciò, di intenti canzonatori, e animato, sinceramente e trasparentemente, dalla volontà di ritrovare serenità sul volto della propria sposa, straziato dal dolore intimamente provato « Calmati… te ne prego. »

Fortunatamente, sebbene il mondo fosse parso crollarle attorno, per quanto persino la terra sotto ai suoi piedi le fosse sembrata tanto instabile da ipotizzare prossima rovina per l'intera torre unico rifugio rimasto loro, le affermazioni così dolcemente e premurosamente scandite per lei dall'amato Brote, avevano permesso alla povera Nass'Hya di ritrovare un minimo equilibrio, precario, certamente, e pur, ancora, indubbiamente tale, in grazia al quale riuscire, a propria volta, a donare al figliolo adorato quella pace sufficiente a calmare le sue grida e, forse, anche a tentare di riprendere il sonno prematuramente interrotto e non nella pur abituale esigenza di alimentarsi o di essere ripulito.
Così, alfine, mantenendo ancora il piccolo quietamente stretto al proprio seno, cullandolo con dolcezza, con delicatezza, al solo scopo di rammentargli, in tal atto, di essere da sempre e per sempre accanto a lui quando ne avesse avuto bisogno, qual amorevole custode, immancabile protettrice, ella si era ritrovata a essere silenziosamente sola, seduta nella camera del figlio, a osservare le sin troppo poche stelle presenti in quella cupa notte, come divenuta sua abitudine mai rivolgendo lo sguardo al suolo, alla città sotto di lei, quanto, piuttosto, al firmamento, all'infinità sopra tutti loro. Nonostante, al di là di ogni naturale pregiudizio, ella non avesse mai avuto modo, né tantomeno ragione, di muovere critica alla famigerata città del peccato, in effetti, dalla morte di Brote un qualunque confronto diretto con essa era divenuto quanto di più doloroso da immaginare, da supporre, non in nome di una qualche pur legittimo e umano timore per quanto la sua sopravvivenza, in quelle vie, sarebbe potuta essere posta in dubbio, quanto, piuttosto, per la vivacità intrinseca di quelle stesse strade, uno spirito tanto effervescente, vivace, con il quale, ormai, non sentiva di poter aver più nulla a che fare, quasi, nella scomparsa dell'amato, anche una parte di lei fosse dipartita con lui, estraniandola da tutto ciò che avrebbe potuto essere indicato come vita. Ragione per la quale, anziché all'umana terra, preferiva anelare con le proprie emozioni, con i propri sogni, al divino cielo, verso il quale, sperava, un giorno avrebbe potuto concretamente sospingersi, per lì ritrovare nuova e reale occasione di completa comunione con il proprio amato, lo sposo che, per quanto non l'avesse ancora abbandonata, non avrebbe realmente più potuto essere insieme a lei.
Quanto sarebbe stato necessario attendere, ancora, per quel dolce momento? Quanto sarebbe stata costretta a soffrire, ancora, prima di potersi liberare dalle catene di una vita non vita, quale la sua era divenuta, e, in gloria agli dei tutti, conquistare un'eternità di amore e di pace accanto all'uomo al quale si era votata in vita e desiderava restare votata anche in morte? E, soprattutto, per quanto, ancora, avrebbe potuto trattenere egoisticamente a sé lo spirito dell'amato, prima che l'intero Creato potesse decidere di punirli per una tale violazione a ogni legge divina, al principio stesso di vita e di morte?
Similmente perduta nei propri pensieri, in ormai consueti percorsi mentali da cui ad alcun risultato l'avrebbero condotta se non a quello di sprofondare, maggiormente, nell'ormai propria e onnipresente depressione, dalla quale, puntualmente, sarebbe sol scaturita nuova ragione d'ira in avversione a colei che unica, di tutto ciò, avrebbe dovuto essere considerata causa, Midda Bontor, Figlia di Marr'Mahew, la quale avrebbe persino voluto considerare quale propria sorella e ispiratrice, e che, altresì, era divenuta per lei sol fonte di dannazione, Nass'Hya non si riservò inizialmente alcuna pena alcuna per soffocato, quasi impercettibile, suono di leggeri passi provenienti da dietro di sé, dalla porta d'accesso a quella stanza prossima alla cima della torre, ritenendo che, a essi, avrebbe dovuto associare l'identità di Duclar, fida guardia personale di Brote sin da prima che ella ne divenisse moglie e, ora, suo personale e fedele difensore, sempre pronto a soddisfare ogni sua esigenza, ad accondiscendere a ogni suo capriccio, ove pur, invero, nessun capriccio avrebbe da lei più preso forma.

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