Ma se, in quel grido, in quel ruggito, per un istante parve
riproporsi, tragicamente, quanto già occorso a potenziale discapito di Be’Sihl,
quella quasi condanna a morte sol ovviata, sol evitata, in quel momento passato,
in grazia all’intervento di quel demoniaco semidio; in tale, nuova occasione, a
scongiurare l’ineluttabile, a impedire allo sviluppo degli eventi di volgere
nei termini peggiori, ebbe inaspettatamente, imprevedibilmente, a essere l’intervento
di un’angelica figura. E un’angelica figura che, levandosi in volo in grazia a
una coppia di meravigliose e candide ali piumate, precipitò una pesante arma,
una gigantesca scure, su quell’enorme polso, attraversandolo quasi fosse burro
caldo, e dividendo, in tal maniera, la mano dal resto del braccio. Un braccio e
una mano che, in ciò, ebbero letteralmente a polverizzarsi, a tradursi in una
cascata di nera sabbia vulcanica, dalla quale, sicuramente frastornati,
certamente spaventati, e, ciò non di meno, ancora vivi, Tagae e Liagu ebbero a
ricomparire, solo per rischiare di ricadere in tal maniera al suolo, e ricadere
da un’altezza notevole, che difficilmente avrebbe avuto a potersi considerare
gradevole.
Prima, tuttavia, che il peggio potesse in tal maniera anche
solo essere elaborato, anche solo essere preso in considerazione, animando
negativamente i cuori, le menti e gli animi di coloro che, in tal maniera,
avrebbero appena potuto riprendersi dal timore di quella duplice tragedia solo
per essere, quindi, posti a confronto con una nuova, terrificante, e purtroppo
non particolarmente diversa, eventualità; i due bambini vennero, tuttavia, nuovamente
soccorsi dalla loro sconosciuta salvatrice e, nel suo protettivo abbraccio, venendo
accolti in esso con straordinaria delicatezza, con mirabile dolcezza, per poi,
in tal maniera, essere condotti dalla loro genitrice, da colei che, con volto
sconvolto dalla sempre crescente follia di quegli accadimenti, stava
chiaramente iniziando a dimostrare tutti i propri più umani limiti, soprattutto
nel confronto con l’idea della morte di coloro a lei più cari, dei propri
amici, del proprio amato, della propria famiglia.
Una possibilità pericolo, un’eventuale minaccia, che,
sicuramente, non avrebbero potuto essere equivocati qual nuovi, certamente non
inediti, e che pur, in quel momento stranamente quieto della propria vita, in
quella parentesi per lei insolitamente felice, non avrebbe potuto che rievocare
quella condanna, quella maledizione contro di lei scagliata, molti anni prima,
lustri addietro, decenni addirittura, dalla propria gemella, da Nissa Bontor,
nel suo impegno a negarle, per sempre, qualunque occasione di gioia, qualunque
speranza di serenità, come giusta punizione per quanto ella aveva compiuto, ancor
bambina, abbandonando la quiete, la felicità che avrebbe potuto avere con lei,
e con la loro famiglia, per impegnarsi lungo le vie dei mari, alla ricerca di
una qualche possibilità di avventura. Ma se non soltanto difficile, ma,
addirittura, improbo, avrebbe avuto a dover essere riconosciuto, da parte sua,
da parte di colei che pur avrebbe potuto essere considerata una leggenda
vivente, la Figlia di Marr’Mahew, l’Ucciditrice di Dei, la Campionessa di
Kriarya, scendere a patti con quel proprio intimo demone personale, quell’ormai
intrinseco timore nei confronti della serenità propria nell’amore di una
famiglia, e di una famiglia non soltanto qual avrebbe potuto allor avere con Be’Sihl
e con i bambini, ma, anche e più in generale, qual avrebbe potuto allor avere
con l’equipaggio stesso della Kasta Hamina, così come con Howe, Be’Wahr e Seem,
propri antichi compagni di ventura; l’avvento tanto improvviso, quanto
improbabile di quella figura angelica, di quella donna alata armata di ascia,
parve comunque volersi ergere, per lei, a dimostrazione concreta di quanto, se
soltanto lo avrebbe desiderato, avrebbe potuto comunque farcela, avrebbe potuto
comunque riuscire a ottenere la propria vita, la propria possibilità di gioia e
di serenità, non temendo per la sorte di coloro a lei circostanti, ma,
addirittura, affidandosi a essi per tale scopo, in una non semplice, non
immediata inversione dei ruoli, da salvatrice a salvata, che pur, quell’angelo,
sembrava volerle concretamente comprovare, semplicemente con la propria assurda
esistenza in vita, in quel mentre, innanzi ai loro occhi, al loro sguardo…
« Dei… » gemette, sorpreso e sconvolto, Be’Wahr, in tal
condizione mentale non soltanto per gli eventi in tal maniera occorsi, quanto e
ancor più per l’identità di quella creatura alata, identità che, per quanto folle
tutto ciò avrebbe avuto a doversi ritenere, ad alcuna altra immagine, ad alcuna
altra persona avrebbe avuto lì a poter essere ricondotta se non a quella da
lui, così, immediatamente riconosciuta.
« Non… è… possibile… » balbettò, in un non diverso stato
emotivo, il giovane Seem, ancora aggrappato al braccio del proprio
ex-cavaliere, ancora fondamentalmente appeso nel vuoto, in conseguenza allo
sconvolgimento causato dalla fugace apparizione di quel gigantesco pugno di
sabbia nera, e, ciò non di meno, in quel momento dimentico di tutto ciò,
dimentico di ogni altra cosa, nel confronto con la splendida immagine di una
donna che non avrebbe potuto essere lì, e che, soprattutto, non avrebbe potuto
essere lì in tale forma, con quelle meravigliose ali dischiuse dietro la schiena,
tali da concederle di volare, e di volare fra di loro, sopra di loro, con una
naturalezza disarmante, quasi nulla di più ovvio avrebbe potuto lì occorrere.
« Come diamine…?! » tentò di elaborare, di razionalizzare,
più in basso, Be’Sihl, assistendo anch’egli all’evolversi degli eventi e anch’egli
null’altro potendo fare se non palesare tutta la propria più evidente
confusione innanzi a quella donna alata, a quella donna che tutti loro avevano
riconosciuto, in quanto da tutti loro ben conosciuta, e, parimenti, da tutti
loro considerata morta.
Nel mentre di tutto ciò, nel contempo di tanto
sconvolgimento, con un movimento leggiadro, l’esile, e pur squisitamente
tonico, corpo di quella figura angelica, ebbe a posare i propri piedi innanzi a
Midda, a lei riconducendo i due pargoli, straordinariamente illesi malgrado la
condanna che, per un fugace istante, era parsa essere loro imposta.
E se, immediatamente, la donna guerriero ebbe a risollevare
dal baratro sotto di loro Seem, in quel mentre quasi considerato privo di peso
da parte sua, soltanto per avere possibilità di muovere le proprie braccia ad
accogliere quella coppia, ad accogliere a sé e i propri figli, stringendoli
delicatamente e sforzandosi, in tutti i modi, di trattenere le calde lacrime
che, pur, costrinsero i suoi gelidi occhi a brillare quasi fossero stati
ricoperti di stelle; tanta commozione non avrebbe mai potuto ovviare, anche da
parte sua, all’interrogativo che, allora, aveva già animato le menti di tutti
gli altri: un interrogativo al quale, tuttavia, non ebbe il tempo di offrire
formulazione, prima che fosse la medesima donna alata a prendere voce, con un
tono caldo e carezzevole…
« Ciao, sorellona… » sorrise, nel mentre in cui le due
grandi ali bianche, alle sue spalle, sembrarono rimpicciolire, fino a
scomparire dentro la sua schiena, sulla quale l’unico segno visibile che rimase
di quanto lì un istante presente, altro non fu che un semplice tatuaggio, un
elegante tatuaggio sulla sua meravigliosa pelle color della terra, appena
visibile attraverso la lunga chioma castana che, pur raccolta in un’alta coda
sulla cima della sua nuca, riusciva lì a ridiscendere sin quasi all’altezza dei
suoi glutei « … ne è passato di tempo, non è vero?! »
commentò, quasi nulla fosse accaduto, quasi ella avesse a doversi ancora
considerare viva, o, quantomeno, esistente, benché da anni, di lei, alcuna
traccia era rimasta nella realtà… o, quantomeno, nella realtà dalla quale
avrebbero avuto a dover essere riconosciuti lì provenienti tutti loro, con la
sola, ovvia eccezione di Maddie e Rín.
« Ah'Reshia…? » domandò la donna
dagli occhi color ghiaccio, sollevando lo sguardo verso di lei e, ciò non di
meno, restando ancora abbracciata ai due bambini, quasi nel timore che,
lasciandoli, qualcosa sarebbe potuto accadere loro.
« … va bene che ne è passato di tempo… ma il fatto
che tu non ricordi neppure il mio nome, potrebbe un pochino offendermi. »
replicò l’altra, aggrottando appena la fronte ed esprimendosi con tono che, al
contempo, avrebbe potuto essere inteso qual ironico, e, ciò non di meno, anche
un po’ risentito, per l’errore così commesso da parte della propria
interlocutrice « E io che ero convinta di essere stata la tua miglior nemica… o
forse la tua peggior amica, difficile a dirsi, a volte! » soggiunse, ora
apertamente critica verso se stessa, e verso il loro comune passato, un passato
che considerare controverso sarebbe equivalso a un’eccessiva banalizzazione.
« … Carsa. » dichiarò quindi la Figlia di Marr’Mahew, in
quel nome che non avrebbe mai potuto dimenticare, e che non aveva dimenticato,
e che pur non aveva allor espresso nell’impossibilità della stessa a essere lì,
in quel luogo, con quella particolare identità.
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