Quando non aveva neppure dieci anni, Midda Namile Bontor aveva preso la discutibile decisione di abbandonare la propria famiglia, la propria casa natale e la pacifica isoletta sulla quale era nata e cresciuta sino ad allora, per imbarcarsi clandestina a bordo di una nave mercantile. Ragione alla base di simile scelta era stata l’infantile, e indubbiamente avventata, brama di poter vivere nella realtà quelle epiche ballate di cui tanto adorava sentir narrare dalla voce dei cantastorie, miti e leggende colmi di pericoli, di mostri spaventosi, di indicibili minacce e, ciò non di meno, di grandi eroi, e di grandi eroi in grado di riuscire a sopravvivere a ogni orrore.
Una scelta, quella da lei compiuta, che avrebbe potuto condurre, nel peggiore dei casi, a un infausto destino, vedendola scegliere la nave sbagliata con un equipaggio tutt’altro che ben disposto nei confronti di una clandestina, e, per lo più, di una bimbetta decisamente troppo esuberate. Fortunatamente per lei, comunque, ciò non era accaduto. E allorché terminare prematuramente, e magari drammaticamente, la propria avventura, ella aveva così avuto soltanto a iniziare il proprio cammino e un cammino che negli anni successivi l’avrebbe sospinta verso traguardi sempre più straordinari, avvicinandola molto più di quanto mai ella avrebbe potuto immaginare ai miti della propria infanzia e, persino, finendo col superarli.
Alla base di ogni sua azione, tuttavia, non avrebbe avuto a dover essere fraintesa una qualche insana brama di gloria. A muovere i di lei passi, se non da bambina, certamente negli anni successivi, e, soprattutto, negli anni successivi al proprio primo, violento scontro con sua sorella Nissa, nel contempo divenuta capitano di una ciurma di pirati, scontro nel quale non soltanto si era vista sfregiare il volto e amputare il braccio, ma nel corso del quale le era anche stata negata qualunque possibilità di avere dei figli; era stato soltanto il desiderio di avere a dimostrare a se stessa di essere la sola autrice del proprio destino, in aperto contrasto a ogni idea di predestinazione o fatalismo. Ella, semplice figlia di comune pescatore, priva di ogni qual genere di altisonanti retaggi o di peculiari profezie atte a definirne un cammino di gloria, desiderava potersi riconoscere in grado di compiere tutto ciò che mai avesse desiderato, in sola grazia alla propria forza di volontà, alla propria determinazione, al proprio impegno, e con buona pace di qualunque eventuale idea di impossibilità della cosa.
Così, in effetti, era stato. E sebbene la gloria non avesse a importarle, essa non aveva potuto che conseguire in maniera spontanea a tutti i suoi incredibili successi, in lotta contro qualunque antagonista, umano o mostruoso che esso avesse a doversi intendere. E anche laddove, in quel di Kriarya, la città del peccato punto di riferimento per ladri e assassini, mercenari e prostitute di tutta Kofreya e non soltanto, ella inizialmente non aveva potuto che essere accolta con ironia e sfiducia, ritrovandosi suggerito un ben diverso percorso professionale rispetto a quello con il quale ella si era presentata; ben presto il suo nome non poté che essere legato a quello di una straordinaria avventuriera mercenaria, in grado di condurre a compimento qualunque missione per il giusto prezzo.
In una tale situazione, in un simile contesto, Midda Bontor non avrebbe avuto a illudersi che la sua vita fosse la migliore delle vite possibili. Al contrario. Ciò nonostante, ella non era mai stata insoddisfatta della sua vita, anche e soltanto a confronto con l’evidenza di quanto, malgrado tutto, la sua vita ancora fosse tale, per così come non avrebbe avuto a dover essere considerato scontato avesse a essere.
Nel condurre uno stile di vita come il suo, nel porsi in giuoco contro minacce e antagonisti come quelli contro i quali ella si impegnava quotidianamente, a partire dalla sua stessa gemella addirittura divenuta regina di un’intera nazione pirata da lei stessa fondata, assolutamente ovvio sarebbe stato per lei morire. E morire di morte violenta. Ragione per la quale ogni singolo istante di vita, in fondo, avrebbe avuto a dover essere celebrato come una straordinaria conquista, un epico risultato forse e persino più importante di ogni altro più famoso traguardo da lei raggiunto nel corso della propria vita.
A confronto con tutto ciò, quindi, ella non avrebbe avuto a doversi considerare solita lamentarsi della propria vita, né inseguire l’idea di una vita diversa, di una vita migliore, concedendosi la non banale opportunità di scoprirsi più che felice per quanto posseduto. E, ciò nonostante, nel corso del tempo, ella era comunque riuscita a trovare occasioni utili a migliorarsi: tornando, per esempio, a stringere legami dopo che per anni la paura derivante dall’idea della ritorsione della propria gemella a discapito di ogni persona a lei vicina l’aveva sospinta a crearsi terra bruciata attorno; così come concedendosi, altro esempio, l’occasione di un nuovo grande amore con Be’Sihl Ahvn-Qa, il suo bel locandiere shar’tiagho; o addirittura, ultimo esempio, la possibilità di scoprirsi madre, nell’accettare nella propria vita due meravigliosi figli adottivi come Tagae e Liagu.
Insomma: Midda Namile Bontor non soltanto era felice di quanto aveva ma, in aggiunta a ciò, sembrava poter essere destinata ad avere ancor più di quanto non avrebbe mai potuto sperare...
... almeno fino a quando il fato non aveva chiaramente deciso di sconvolgerle la vita e, soprattutto, la mente, nel porla in rapida successione a confronto con una serie di tremende prove, e di tremende prove che non avevano potuto ovviare a mutarla nel proprio animo più di quanto non avrebbe mai potuto immaginare sarebbe stato possibile.
Innanzitutto, il viaggio nello spazio siderale, sulle ali della felice. Un viaggio che ella aveva accolto volontariamente, per il quale si era spontaneamente candidata, ritrovandosi anche accompagnata dal proprio amato Be’Sihl, all’inseguimento dell’ombra di Anmel Mal Toise per tentare di chiudere quel discorso involontariamente aperto una decina d’anni prima con il recupero di quella corona perduta. E un viaggio che, malgrado le avesse donato molte gioie, prima fra tutte proprio i suoi figli adottivi, Tagae e Liagu, ma anche le sue due sorelle di vita Duva Nebiria e Har-Lys’sha, l’aveva anche costretta a uno sforzo incommensurabile per riuscire a scendere a patti con una realtà non soltanto estremamente più amplia, ma anche completamente aliena a quella che per lei era sempre stata la propria realtà, e una realtà nella quale, troppo facile, sarebbe stato per lei avere a perdere completamente il senno se soltanto non fosse stata la donna straordinaria che comunque era.
In secondo luogo, la trappola psichica ordita dal suo sposo Desmair, e quella trappola psichica nella quale l’aveva costretta a vivere una vita non sua dopo averla spinta a credere che la sua vita fosse stata soltanto un’illusione, l’onirico delirio derivante da uno stato di coma. In tale realtà alternativa, e una realtà inesistente, seppur largamente ispirata a quella propria della stessa Madailéin Mont-d'Orb, ella non aveva avuto vita facile, non aveva avuto immediata occasione di trovare il proprio spazio. Ma quando alla fine ciò era avvenuto, ella si era ritrovata a essere obiettivamente felice di quanto stava vivendo, quietamente integrata in una società fondata su valori decisamente lontani da quelli propri della sua civiltà natale, e valori che non avrebbe poi potuto rimuovere dalla sua mente, dal suo cuore e dal suo animo con un semplice colpo di spugna.
E ancora, l’accettazione del potere di Anmel Mal Toise, e quel potere da lei sì alfine accolto qual proprio anche e soltanto per poter fronteggiare la temibile minaccia impostale da un Progenitore, un essere divino la collera del quale avrebbe altresì potuto spazzare via l’intero universo se soltanto non fosse stato contenuto, e non fosse stato contenuto, per l’appunto, in grazia ai poteri egualmente divini della Portatrice di Luce e dell’Oscura Mietitrice. Tuttavia, con l’accettazione di quel potere, ella non aveva accolto soltanto esso, quanto e ancor più, e ancor peggio, l’ombra stessa di Anmel Mal Toise, fondendosi con essa, e ritrovandosi, in un modo o nell’altro, a essere qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso, e qualcosa che, francamente, non era certa avrebbe voluto essere.
Infine, ideale goccia utile a far traboccare il metaforico vaso del suo equilibrio interiore, era sopraggiunta l’ascesa dei ritornati, fra i quali una rediviva Nissa, qual nuova, e terrificante, rivoluzione non soltanto della sua vita, ma del suo intero mondo natale, conseguenza dei suoi stessi poteri, e di quei poteri dei quali, se soltanto avesse potuto, si sarebbe ben volentieri disfatta. Ritornati con i quali era riuscita, alfine, a trovare un accordo, o, per lo meno, con una buona parte degli stessi, in un reciproco impegno di integrazione quanto più possibile controllata e pacifica. E, ciò non di meno, un’integrazione che, in breve, aveva già iniziato a sconvolgere ogni cosa... aggiungendo nuova follia a quella totale insensatezza che sembrava essere divenuta la propria stessa quotidianità.
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