Har-Lys’sha non avrebbe potuto asserire di possedere, in fede, alcuna particolare motivazione per porsi in antagonismo a quei non morti. Ella non aveva avuto con loro alcun rapporto quando erano in vita, né mai avrebbe potuto averne nel considerare le diverse epoche nel corso delle quali erano vissuti. Ed ella non avrebbe potuto neppure disapprovarne l’esistenza allo stato attuale delle cose, avendo, a buon titolo, persino a trovare gradevole la loro quieta presenza, rispetto alla maggior parte delle altre creature e, più in generale, alla maggior parte delle civiltà.
Per chi dotata come lei di un sensibilissimo udito, in fondo, qualunque genere di aggregazione civilizzata non avrebbe potuto ovviare a sottoporla a una difficile prova di sopportazione, e una prova di sopportazione che, in fondo, ella si era abituata ad affrontare sin dalla propria più tenera età, al pari di qualunque ofidiano, o feriniano, o canissiano... o altro esponente di diversa specie contraddistinta da un eguale sensibilità uditiva. E se già abbandonare i mondo fra le stelle, nei quali era nata e cresciuta, in favore di quella realtà così primitiva era stato indubbiamente utile a rimuovere da quell’assordante equazione molto frastuono, anche in quel mondo, anche nelle sue città, non avrebbe potuto mancare ragione di che scoprirsi stanca e provata. Ma in quella necropoli, e in quella necropoli predominata dalla morte e, soprattutto, dai non morti, ella non avrebbe potuto che scoprirsi piacevolmente rasserenata, e rasserenata dal silenzio a lei circostante, e quel silenzio finalmente realmente riconoscibile in quanto tale. In ciò, quindi, ella non avrebbe avuto a poter muovere alcuna personale accusa a discapito di quelle presenze, e di quelle presenze che, sotto molteplici aspetti, avrebbero avuto quindi a doversi intendere persino più gradite rispetto agli uomini e alle donne della Progenie della Fenice.
Proprio malgrado, però, in quel particolare momento, in quel particolare contesto, anch’ella non avrebbe potuto ovviare a muovere le proprie armi in contrasto a quegli zombie, riversando contro tutta la propria più genuina violenza nella necessità di aprire la via innanzi a sé. Una sfida, comunque, impari, quella in siffatta maniera formulata, a confronto con la quale ella non avrebbe mai potuto avere a concedersi possibilità di sconfitta, a meno di qualche improbabile errore, fosse anche e soltanto per la differenza di velocità fra gli uni e l’altra. Una lentezza, quella intrinsecamente propria degli zombie, che già avrebbe potuto facilitare la vita di qualunque antagonista umano e che, innanzi a un’ofidiana non avrebbe potuto che risultare a dir poco intollerabile. E a ben vedere, anzi, se soltanto ella non avesse avuto a doversi preoccupare anche allo scopo di liberare la via al proprio amato Howe, forse avrebbe potuto anche pensare di scivolare impunemente fra quelle creature, sospingendosi al proprio obiettivo senza colpo ferire.
La propria premura verso il proprio compagno d’armi, comunque, non avrebbe avuto a doversi riconoscere sol limitata al non risparmiare allora i propri colpi a discapito dei loro estemporanei antagonisti, quanto e piuttosto a premurarsi costantemente di non averlo a lasciare troppo indietro rispetto a sé, là dove, in quell’oscurità, ella ne era consapevole, egli non avrebbe più potuto avere alcuna possibilità di orientarsi. E così, allorché raggiungere nel minor tempo possibile la propria metà, ella non mancò di accertarsi, costantemente, che Howe fosse dietro di lei, rallentando quando necessario in termini utili da ridurre la propria efficacia ed efficienza combattiva a livelli adeguati a quelli dell’uomo da lei comunque amato, impegnandosi, in ciò, a non lasciarlo trasparire, per così come era certa che, altrimenti, avrebbe rappresentato un duro colpo per il di lui amor proprio.
« Siamo arrivati. » comunicò alfine, raggiungendo il muro da lei individuato come potenziale via di accesso ai sotterranei controllati dalla Progenie della Fenice.
« Dove... di grazia?! » domandò Howe, non riuscendo a comprendere quanto ella desiderasse allor intendere e non desiderando neppure avere più a consentire troppi sottintesi fra loro, a confronto con l’evidenza del risultato degli ultimi.
« Dobbiamo abbattere la parete davanti a noi. » spiegò quindi, sempre e soltanto in un alito di voce « Non potremo evitare di fare rumore, ma una volta aperto il passaggio, anche gli zombie si riverseranno lì dentro e la Progenie della Fenice sarà troppo impegnata con loro per avere a interessarsi di noi, non sapendo neppure della nostra esistenza. »
Una tattica sicuramente ardita, quella così elaborata dalla giovane donna rettile, a confronto con la quale, certamente, sarebbe stato ormai tardi ipotizzare di ritirarsi. Tuttavia, in assenza di alternative migliori, anche quell’idea ardita avrebbe avuto il proprio indubbio valore innanzi al giudizio di Howe, il quale, dopotutto, qual vecchi compagno d’armi di Midda Namile Bontor non avrebbe potuto certamente negare di essersi dovuto impegnare in molte, altre, egualmente ardite tattiche, e tattiche in grazia alle quali non aveva mai mancato di riportare a casa la propria pellaccia brunita.
Per questa ragione, quindi, egli non ebbe a sollevare alcuna obiezione innanzi a tutto ciò, benché, a conti fatti, la via individuata da Lys’sh avesse a doversi intendere tutt’altro che diretta per conseguire i propri scopi. E con buona pace di ogni prudenza, ebbe a schierarsi accanto all’amata, pronto a compiere quanto sarebbe stato necessario.
« Vado...?! » domandò egli, appoggiando il palmo della propria sinistra sulla parete innanzi a loro.
E Lys’sh, che ben conosceva le potenzialità dell’amato e, soprattutto, ben aveva compreso lo spessore di quella parete e la resistenza che essa avrebbe potuto offrire alla di lui sollecitazione, tenendone accuratamente conto in quella che non avrebbe avuto di certo a doversi fraintendere qual una scelta potenzialmente suicida a loro discapito; si limitò inizialmente soltanto ad annuire, salvo poi rendersi conto di quanto quel suo gesto non avrebbe potuto che passare inosservato alla di lui attenzione, spingendola a una soluzione decisamente più diretta...
« Vai! » confermò verbalmente.
Il braccio sinistro di Howe, o, per lo meno, quello con il quale egli era nato e cresciuto, gli era stato negato diversi anni prima a opera della crudeltà di Nissa. Ciò non di meno, chiunque in quel momento avesse avuto occasione di osservarlo, non avrebbe avuto possibilità di comprendere quanto accaduto, di cogliere l’evidenza di quella mutilazione, là dove, se qualcosa di buono egli aveva riportato dal proprio breve viaggio nelle vastità siderali, tale avrebbe avuto a dover essere intesa una protesi di ultima generazione: non un braccio da lavoro, come quello che, al contrario, Midda Bontor aveva preferito mantenere, dopo esserselo visto impiantare all’interno di un carcere come strumento utile a garantire la sua efficienza ai lavori forzati; quanto e piuttosto una fedele replica meccanica dell’arto perduto, il movimento della quale era sì garantito da piccoli servomotori alimentati da un nucleo all’idrargirio al pari di quelli della Figlia di Marr’Mahew, ma che, nella propria superficie esterna era stata ricoperta di un tessuto artificiale in tutto e per tutto assimilabile alla pelle umana, tanto da un punto di vista passivo, quanto e ancor più da un punto di vista attivo. Un surrogato perfetto del suo perduto arto, quindi, che gli aveva restituito la propria piena indipendenza, oltre che tutta la propria integrità fisica, in termini incontrovertibilmente piacevoli e, per l’appunto, addirittura migliori a confronto con quelli ricercati dalla propria vecchia amica per se stessa. Ovviamente, la differenza fra il suo arto e quello di Midda, avrebbe avuto a dover essere inteso anche dal punto di vista delle prestazioni e delle prestazioni in termini di forza: forza, quella della donna guerriero, che in grazia a tale protesi era cresciuta in maniera smisurata, ma che, al contrario, per lui era rimasta quasi normale...
... quasi laddove, comunque, in momenti di necessità, egli avrebbe potuto concedersi occasione di sollecitare in maniera maggiore i propri servomotori, per garantirgli quella spinta in più necessaria, a esempio, a far crollare un antico muro di pietra.
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