Fu questione di un istante. Un istante fuggevole, un istante effimero, un istante quasi impercettibile e che, tuttavia, sembrò durare un’intera eternità. E, forse, ancora di più.
« … no… » gemette Seem, quasi soffocato, impegnandosi oltremodo al fine di non morire a propria volta nel semplice pronunciare quell’unico verso, quella sorta di grido pur incapace di ergersi qual tale.
In quell’istante, Seem, lo scudiero della Figlia di Marr’Mahew, temette che tutto fosse finito, che il Creato stesso, per così come da lui apprezzato, avesse perduto di qualunque significato, di ogni valore.
Egli, che tanto aveva ammirato e, forse, amato quella donna guerriero, quella leggenda vivente al punto tale da spingersi a mettere in gioco la propria esistenza, la propria quotidianità, il proprio presente e, con esso, il proprio avvenire per lei, accanto a lei, sulle orme di lei, nell’assistere, inerme, all’immagine di quel magnifico corpo tanto brutalmente violato da un duplice colpo, dalla violenza di un tanto brutale attacco, non poté che essere sopraffatto in misura tanto straziante dalle proprie emozioni al punto tale da non potersi neppure permettere un semplice grido, un urlo di dolore, di raccapriccio e, forse, di rifiuto, nel quale, pur, avrebbe voluto allora impegnarsi. Tanto, tuttavia, fu per lui l’orrore al punto tale da non saper più neppure ipotizzare alcuna possibilità di controllo sul proprio corpo, fosse anche e soltanto per una reazione pur istintiva, pur spontanea e naturale qual, sicuramente, quella sarebbe allor stata. Nulla di meno, del resto, avrebbe potuto contraddistinguere la fine di un sogno, e, con esso, di ogni speranza, qual pur ella aveva saputo incarnare con il proprio costante esempio quotidiano: un sogno di riscatto, una speranza per una vita migliore, per un’esistenza all’insegna di qualcosa di più della mera sopravvivenza, del lasciarsi vivere, giorno dopo giorno, attendendo quasi impazientemente la fine di tanta condanna, il momento in cui gli dei tutti, nei quali pur egli neppure credeva, avrebbero deciso di graziarlo. Con lei, in quell’istante, in quell’attimo così terrificante e angosciante, stava ai suoi occhi morendo ogni cosa, ogni aspetto dell’esistenza per come ritenuta degna d’essere vissuta. E dopo di lei nulla sarebbe rimasto se non la desolazione di una vita priva di vita, forse, dopotutto, neppure effettivamente considerabile qual vita, non in misura maggiore, quantomeno, rispetto a quella di una negromantica creatura.
Una considerazione nell’aver occasione di ascoltare la quale, certamente, ella si sarebbe arrabbiata, si sarebbe irata in suo contrasto, a sua condanna, non desiderando concedergli la possibilità di soffocarsi nel proprio rimpianto, nella propria pena così come stava sembrando tanto ansioso di compiere… e pur, malgrado ciò, una considerazione che egli non avrebbe potuto evitare di compiere, non, quantomeno, nel voler evitare di mentire in un momento come quello, nell’angoscia allora derivante da tanta disperazione, da tanto, frustrante, smarrimento. Una disperazione, uno smarrimento, che non avrebbe allora avuto la fortuna di perdurare per un solo istante, ma che si sarebbe, sicuramente, protratto per l’intera eternità. E, forse, ancora di più.
« … no… » gemette Nessuno, sconvolto, impegnandosi al fine di riservarsi un’apparenza di contegno, un’ultima possibilità di dignità, anche laddove, di lì al successivo istante, nulla di tutto quello avrebbe più avuto valore… a incominciare dalla sua stessa esistenza.
In quell’istante, Nessuno, Rimau Coser, maturò la consapevolezza di aver perduto. Aveva giocato, aveva tentato, aveva sperato e aveva perduto. E nel perdere non aveva perso semplicemente una battaglia, ma la guerra intera. Perché, benché le sue spade avessero finalmente trafitto quel corpo tanto odiato quanto, forse, desiderato, benché la sua vittoria fosse alfine sopraggiunta seppur con qualche anno di ritardo, benché Midda Bontor fosse stata finalmente condannata a morte, tale momento non sarebbe mai effettivamente arrivato e, in ciò, egli non avrebbe più avuto alcuna occasione in sua opposizione, a suo discapito. Non allora, né mai più.
A dispetto di quanto agli occhi di Seem e di tutta la rappresentanza della popolazione di Kriarya radunatasi attorno a loro, avrebbe potuto credere, infatti, egli non avrebbe potuto illudersi stolidamente di poter rendere propria una qualsivoglia speranza qual conseguenza di tutto ciò, né, tantomeno, sarebbe stato in grado di accettare con assolutismo e rassegnazione l’evidenza apparentemente propria di quella morte. E non perché i suoi gesti non fossero stati reali, e non perché le sue azioni non fossero state concrete, e in ciò capaci di arrogarsi il risultato proprio di gesti tanto forti, sì letali, quanto e piuttosto perché, in conseguenza al gesto di cui ella, evidentemente, aveva pianificato sin dall’inizio la necessità, soltanto certo avrebbe allor dovuto essere al pensiero che la propria avversaria sarebbe sopravvissuta e, peggio ancora, in questa occasione, a quell’inversione di ruoli, ella avrebbe balzato a ritroso nel tempo, rammentando perfettamente quanto avvenuto, mentre egli sarebbe stato costretto a restare vincolato al proprio stesso corpo, vittima in questa occasione, e per la prima e probabilmente ultima volta, dei poteri di quel monile, di quello straordinario oggetto tanto generosamente regalatogli e, purtroppo, tanto negativamente gestito, nelle proprie potenzialità, nei propri poteri. Se anche, pertanto, la sua vita non si fosse conclusa allora, non avesse veduto apparente immediata minaccia al proprio domani, quasi prevedibile avrebbe dovuto essere considerata la condanna che pur presto o, anzi e ancor meglio, prima ancora, gli sarebbe stata riservata, per mano della medesima donna che lui, in quel momento, stava ipoteticamente uccidendo e che pur non sarebbe mai riuscito a battere, così come, dopo troppa fatica, dopo troppo impegno, nell’evidenza di quanto, dopo troppi sforzi forse addirittura vani, oramai non avrebbe più potuto che .accettare, che accogliere, quasi una grazia dopo tanto, superfluo impegno, in senso opposto.
Un solo istante, quello che ancora lo sperava dall’eternità caratteristica dei morti, e che pur, allora, non poté che apparire a propria volta eterno, nell’obbligata e inerme attesa per quanto allora sarebbe avvenuto.
« … oh, sì… » sorrise lievemente Midda Bontor, senza voler in alcun modo risultare indifferente nel confronto con l’evidenza dei fatti e, in essi, della propria vittoria.
In quell’istante, Midda Bontor, Figlia di Marr’Mahew, Campionessa di Kriarya, Vedova di Kah, fu certa di aver reso propria l’ennesima scommessa sul futuro, sull’indomani, affidando la propria sopravvivenza, il proprio destino, a una stregoneria, così come già troppe volte, nel corso della propria esistenza, aveva avventatamente compiuto.
Per una donna guerriero qual ella era, per un’avventuriera e una mercenaria qual aveva deciso di essere, troppo di sovente ella aveva abbracciato una tanto discutibile scelta, una tanto pericolosa decisione, mai, invero, venendo in tal senso gratificata dall’evidenza dei fatti. Al contrario, in ogni occasione, in conseguenza a ogni scelta in estemporaneo favore all’impiego di poteri mistici a proprio supporto, a propria difesa, ella si era ritrovata costretta a offrire qual tributo, qual giusto compenso per espiare la propria colpa, un pegno, sempre equilibrato, sempre corretto, e pur, anche e ineluttabilmente, sempre sgradevole, in una misura tale per cui difficilmente avrebbe potuto accogliere l’eventualità di una simile, nuova possibilità con soddisfazione, con gioia, con entusiasmo. Purtroppo per lei, tuttavia e comunque, allora come in passato ella non aveva avuto alternative a prendere parte a quel giuoco, abbassandosi a giocare, in ciò, con regole che pur non l’avrebbero potuta riconoscere qual soddisfatta, qual entusiasta, e che pur l’avrebbero allora mantenuta in vita e le avrebbero permesso di conseguire una vittoria, altrimenti, difficilmente auspicabile. E, del resto, se solo ella non avesse accettato in alcuna misura l’idea di servirsi di quel potere stregato per preservare la propria quotidianità e il proprio futuro, non avrebbe neppur dovuto compiere il primo salto temporale in compagnia del proprio antagonista o, comunque, non avrebbe dovuto insistere nei successivi, così come, pur, aveva compiuto e avrebbe continuato a compiere finanche alla fine dei giorni, se solo ciò le avesse concesso l’opportunità di ostacolare la vittoria di quello spadaccino monco, di Nessuno che, fra tutti i propri avversari, avrebbe dovuto essere considerato l’ultimo, e che pur, paradossalmente, in quella lunga notte, forse addirittura interminabile, aveva reso propria la prerogativa del primo fra tutti… il solo che, obiettivamente, era persino giunto incredibilmente prossimo a ucciderla.
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