11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

venerdì 22 marzo 2013

1887


E la Figlia di Marr’Mahew, la leggenda vivente che aveva affrontato e vinto mostri di ogni natura, creature appartenenti al mito, evocazioni negromantiche e, persino, un dio, seppur minore, accolse quel comando scandito con apparente furore, quasi con rabbia, con assoluta serenità, quasi con entusiasmo; non soltanto in quanto consapevole che, nell’esprimersi in simili termini, Noal nulla stava compiendo al di fuori del proprio dovere in quanto capitano, quanto e ancor più in quanto obiettivamente allietata da quello stile di vita e da tutto ciò che, in esso, le stava venendo e le sarebbe mai stato offerto, momenti preziosi da lei per troppo tempo soltanto agognati e che, quando, in tutto ciò, nuovamente concessile, non sarebbero mai stati sprecati dietro a inconsistenti rimostranze per simile linguaggio, per i toni così impiegati, a buon titolo addirittura moderati rispetto a quelli che altri capitani le avrebbero, e in passato le avevano, rivolto per esprimere un concetto equivalente.
Così, in una straordinaria e quasi sensuale danza, inebriante non di meno rispetto a quella che avrebbe potuto essere offerta, per ben diversi scopi, dalla più esperta odalisca d’Y’Shalf, ella si mosse con rapidità ed efficienza fra i due alberi della goletta, un istante prima inerpicata sul pennone più alto di quello di maestra, un attimo dopo ciondolante fra il trinchetto e il bompresso, per porre in essere quanto richiestole, per eseguire quegli ordini con la stessa straordinaria perizia che tanta fama, tanta gloria le era valsa nel corso del tempo, nel corso degli anni, conquistata nel corso di infinite battaglie e nel sangue di un numero ormai incalcolabile, privo d’ogni speranza di censimento, di nemici uccisi. Solo in tal modo, dopotutto, ella amava agire, amava spendere la propria quotidianità, mai risparmiandosi, mai minimizzando i propri sforzi ma, anzi, compiendo tutto il necessario al fine di poter offrire sempre di più, di potersi spendere in misura sempre maggiore, per essere sempre la migliore, in tutto ciò non sospinta banalmente da un capriccio di primato, quanto e piuttosto dalla consapevolezza di come, in caso contrario, difficilmente avrebbe avuto la possibilità di sopravvivere alla propria stessa vita, all’esistenza che aveva voluto rendere propria, nel bene così come nel male, nel trionfo quanto, ancor più, nella sovente inevitabile sofferenza verso la conquista del medesimo.
Solo in ciò, in effetti, avrebbe dovuto essere considerato il segreto del suo successo, avrebbe dovuto essere riconosciuta la formula alla base del suo trionfo. Non in una troppo banale benevolenza divina a suo sostegno; e neppure in un’ancor più semplice predestinazione, un fato per lei e prima di lei scritto nelle stelle del firmamento: ella era divenuta colei che era, la donna guerriero, l’avventuriera, la mercenaria più celebre di quell’angolo di mondo, solo in grazia alla propria costanza, alla propria determinazione, al proprio impegno, nel quale mai si sarebbe concessa una qualsivoglia occasione di indolenza, una pur effimera possibilità di annoiato confronto con la propria quotidianità e le sfide in essa celate, fossero esse ipoteticamente impossibili, fossero esse consuete, comuni, normali, addirittura elementari e, in ciò, prive di qualunque ragione di gloria. Perché soltanto in conseguenza a tale predisposizione psicologica, nell’assunzione di una simile forma mentale, ella avrebbe potuto educarsi in maniera adeguata anche a tradurre l’assurdo in realtà, qual pur, ormai, per lei avrebbe dovuto essere riconosciuto qual consueta occupazione. Ragione per la quale, anche nel semplice cazzare o lascare una vela, operazione che qualunque marinaio avrebbe potuto considerare naturale e spontanea non di meno rispetto allo stesso respirare, ella non avrebbe accettato di evitare di impegnare tutta se stessa, quasi da ciò sarebbe potuta dipendere la propria stessa sopravvivenza. Un’esagerazione, forse, e pur non completamente gratuita così come un qualunque non figlio del mare avrebbe potuto fraintendere fosse, ove, oggettivamente, anche dal semplice cazzare o lascare una vela, in particolari contesti, primo fra tutti quello proprio del cuore di un tempesta, avrebbe potuto effettivamente dipendere la vita, e la sopravvivenza, non solo propria ma anche di tutti i propri compagni, dei propri fratelli e delle proprie sorelle qual tutti, ineluttabilmente, si diveniva una volta saliti a bordo di una comune nave.

« Cazzato il trinchetto e lascato randa e controranda, capitano! » esclamò dopo non più di una mezza dozzina di battiti del proprio stesso cuore dal momento in cui le era stato impartito l’ordine, esprimendosi in tal senso non senza un certo moto d’orgoglio, fierezza conseguente alla consapevolezza di aver, ancora una volta, agito al meglio delle proprie possibilità, in misura tale da attrarre, addirittura, molti sguardi stupiti da parte dei propri compagni di viaggio… e, in particolare, da parte di coloro che, con i gesti da lei appena compiuti, avrebbero potuto vantare un’effettiva confidenza, tale da permettere di apprezzarne realmente la straordinaria celerità.
E benché fra coloro che a lei rivolsero sguardi stupiti non mancò lo stesso capitan Noal, questi non le volle concedere occasione utile a gongolare eccessivamente, così come il suo successivo commento si offrì più che trasparente a tal riguardo: « Se ti aspetti un qualche stramaledettissimo riconoscimento, Midda, quando finirai il tuo turno in coperta potrai darti anche una pacca sulle spalle! Ma ora muoviti a risalire su quelle dannate sartie e a sistemare il marciapiede del pennone di velaccino… »

Un’assenza di riconoscimento, quella in tal modo formalmente rivoltale, alla quale ella non si sarebbe potuta dire abituata, non si sarebbe potuta più definire solita; nell’essersi addirittura ritrovata a essere, sotto molti aspetti, addirittura viziata, come mai in vita propria, nell’ultimo periodo trascorso all’interno della città del peccato, di Kriarya, prima della ripartenza verso sud, verso Tranith e verso il mare, da parte di una popolazione di mercenari e assassini, ladri e prostitute, dimostratasi a lei incredibilmente grata per quanto compiuto nel proprio ruolo di Campionessa. Un’assenza di riconoscimento, tuttavia, che non le dispiacque assolutamente, non le offrì alcuna ragione di torto; vedendola, anzi, più che soddisfatta di quella ritrovata dimensione umana, gradevolmente utile a non permetterle di scordarsi non solo le proprie origini, ma anche e ancor più la propria stessa natura, che, in quanto compiuto e in quanto ancora avrebbe dovuto compiere, avrebbe rischiato di essere troppo facilmente obliata.
Non che ella si fosse mai illusa di essere una dea o quasi tale, al di là di ogni riferimento al proprio grado di parentela con la dea Marr’Mahew. Ciò nonostante, nell’essersi ritrovata con eccessiva insistenza, in tempi recenti, coinvolta con questioni divine o quali tali, con antagonisti divini o quali tali, troppo semplice sarebbe stato per lei cadere in falsi presupposti e in errate considerazioni, tali non tanto da illuderla di essere più di quanto non sarebbe mai potuta divenire, né oggettivamente avrebbe avuto desiderio di divenire, ma anche, e peggio, tali da vederla troppo facilmente condannata a morte al momento dell’ultima, grande battaglia, nel corso della quale rammentarsi della propria fragilità umana, della precarietà della propria esistenza terrena, sarebbe stato per lei solo un vantaggio, solo un fattore di forza, tale, quantomeno, da impedirle di compiere troppe sciocchezze.
In tutto ciò, ancora una volta, ella scattò ubbidiente e rapida ai comandi del proprio nuovo capitano, tornando ad arrampicarsi con l’agilità di una scimmia, o di un ragno, lungo le sartie legate all’albero di trinchetto, malgrado l’assenza della propria destra a fornirle quel pieno sostegno che pur avrebbe potuto esserle particolarmente utile in quel momento. Perché, ovviamente, a rendere ancora più eccezionale la sua velocità e la sua agilità, in quei movimenti, in quell’impetuosa conquista del pennone indicatole, avrebbe dovuto essere considerata la mutilazione imposta la suo braccio destro, duplice dal momento in cui, oltre ad aver perduto oltre vent’anni prima il proprio avambraccio, ella aveva recentemente perduto anche la mano, l’estremità stregata in nero metallo dai rossi riflessi lì posta a rimpiazzo dell’originale, e accanto a lei perdurata per così tanto tempo dall’aver acquisito ormai, nel rapporto con le sue emozioni, e con il suo stesso corpo, la stessa dignità di qualunque altra sua membra, rendendo, in ciò, non meno spiacevole la reiterata mutilazione subita. Ma ella non sarebbe mai divenuta la Figlia di Marr’Mahew, la Campionessa di Kriarya e, più in generale, la leggenda vivente che era, se solo avesse potuto permettere a una pur tanto sgradevole menomazione di esserle d’ostacolo, di limite… ragione per la quale, alcun freno ella si pose, né si sarebbe mai posta, nel gettarsi in quell’arrampicata, e in qualunque altra acrobazia le sarebbe stata richiesta a bordo della Jol’Ange o, più in generale, nel corso del resto della propria vita.


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