Ovviamente la domanda dello shar’tiagho avrebbe avuto a doversi intendere del tutto retorica, laddove non avrebbero potuto avere possibilità alternative a riprovarci.
Per tale ragione, dopo aver concesso a Nóirín un momento per guardarsi attorno e scendere a patti con la propria inattesa nostalgia per casa, e per un mondo in cui difficilmente avrebbe avuto occasione di tornare, Be’Sihl si rialzò in piedi, per riprendere il controllo della questione e, soprattutto, per tentare di riuscire, in qualche maniera, a rintracciare la propria amata all’interno del tempo del sogno, pur consapevole di non poter avere alcuna certezza nel merito della sua effettiva presenza in quel piano di realtà.
Tornando a chiudere gli occhi, egli cercò quindi di focalizzarsi come già pocanzi, e meglio di quanto non avesse già fatto pocanzi, sull’idea di aver a raggiungere la propria amata: non su un ricordo di lei, non su un’immagine di lei, ma sulla sua volontà di ricongiungersi a lei ovunque ella potesse essere. Ne avevano passate così tante insieme, avevano affrontato più volte la morte e, soprattutto, avevano deciso di confrontarsi con la vita, e con la vita quotidiana, insieme, e in tutto ciò egli non avrebbe potuto che vivere con assoluta sicurezza quel desiderio, e il desiderio di avere a ricongiungersi quanto prima con lei, ovunque ella fosse, qualunque cosa stesse facendo.
E benché l’impossibilità incontrata da Rín a stabilire un contatto con lei avrebbe anche potuto essere interpretata come evidenza di quanto ella potesse non essere più in vita, per Be’Sihl tale eventualità non avrebbe potuto essere contemplata o contemplabile. Anche perché, obiettivamente, la Figlia di Marr’Mahew era sfuggita alla morte così tante volte da poter davvero credere che gli dei avessero a temere di poterla incontrare al termine del suo percorso mortale, in termini tali da concederle di restare nel regno dei vivi più a lungo possibile, per posticipare tale evento al più tardi possibile.
Animato, quindi, dalla certezza che ella non potesse essere morta, egli tornò a concentrarsi. E, lentamente, attorno a lui e a Rín, tornata a stringersi al suo braccio per non rischiare di finire in un’altra piega del tempo del sogno, quell’immagine della città natale della donna dai capelli color del fuoco e dagli occhi color del ghiaccio ebbe a svanire, per lasciare allora spazio a qualcos’altro.
“Mmm...”
Per quel forse breve, o forse interminabile, lasso di tempo nel quale il mondo attorno a loro tornò a presentare tutta la propria più assoluta indeterminatezza, Nóirín si ritrovò quasi a trattenere il fiato, nel timore che anche e soltanto il proprio semplice respiro avrebbe potuto avere a interferire con la concentrazione di Be’Sihl e con il non facile compito che egli si stava lì riservando.
Ma quando, dall’apparente nebbia attorno a loro, iniziò a delinearsi la sagoma di un donna, e la sagoma sufficientemente inconfondibile di Midda Bontor, ella non si lasciò coinvolgere da facili entusiasmi, nel ricordo più che recente di quanto qualunque esultanza avrebbe avuto a doversi intendere prematura, nel confronto con la forse improba difficoltà propria di quella sfida.
Per questo motivo, quando l’immagine ebbe a meglio delinearsi innanzi al suo sguardo, palesando allora la presenza di una Midda Bontor incappucciata, immediatamente il suo sguardo corse alla ricerca di quei più evidenti segni visivi utili a discriminare la sua identità. Segni visivi che ebbe a incontrare in una ciocca di neri capelli corvini facente capolino a lato del suo volto, al di sotto del cappuccio, e, ancora, nell’invariato braccio di nera armatura dai rossi riflessi la sagoma del quale, pur idealmente celata al di sotto dello stesso manto da lei indossato, avrebbe avuto a doversi intendere palesemente riconoscibile nella propria forma.
Non la Midda da loro ricercata, quindi, ma ancora una volta una Midda proveniente dai ricordi di Be’Sihl, e una Midda ancor un po’ più giovane della precedente, per così come avrebbe potuto essere dedotto scrutando con attenzione il suo viso, benché, in verità, non più di due o tre anni avrebbero avuto a separarla dalla sua altra incarnazione.
« Niente da fare... » sussurrò quindi, in direzione di Be’Sihl, per avvisarlo di quanto da lui ancor non veduto, nel star mantenendo chiusi gli occhi per conservare la massima concentrazione.
Una volta definita l’immagine della Figlia di Marr’Mahew, anche il resto del mondo attorno a loro tornò rapidamente ad assumere forma, quasi come se quella realtà avesse a essere plasmata in conseguenza diretta all’evocazione di una di quelle sue versioni passate, andando di volta in volta a sincronizzarsi nella maniera più adeguata possibile alla figura proposta.
Così, da quell’indistinto candore a loro circostante, in breve ebbe a comparire l’immagine di un edificio bruciato, e, in particolare, di una camera completamente carbonizzata. Una camera, e un edificio, che ella non avrebbe potuto in alcun modo riconoscere neppure nel caso in cui l’incendio non fosse occorso, là dove, in fondo, quel luogo ormai non esisteva più in quel di Kriarya, o, per lo meno, non esisteva più in quelle sembianze, nell’essere stato ricostruito per intero a spese della stessa Midda Bontor dopo che, comunque per causa sua, era andato in fumo per più di metà della sua superficie.
« Questa è la mia vecchia locanda... » commentò allora lo shar’tiagho, il quale, dopo esser in tal maniera stato informato del proprio nuovo fallimento, non aveva mancato di riaprire gli occhi, per avere a verificare in prima persona che cosa stesse accadendo attorno a loro « ... prima che assumesse il nome de “Alla signora della vita”. »
Di questo evento, in effetti, Nóirín aveva sentito parlare in più di un’occasione, là dove il ricordo di tali eventi era mantenuto ben vivo non soltanto da Be’Sihl, ma anche da Howe e da Be’Wahr, come esemplificazione di quelle decisioni prese con un po’ troppa leggerezza dalla donna guerriero in quel periodo della propria esistenza. Un periodo evidentemente contraddistinto da una certa piromania latente, nel non collocarsi quell’incendio a troppi anni di distanza da un altro incendio di proporzioni maggiori, e l’incendio in conseguenza al quale la grande Biblioteca di Lysiath era andata perduta, insieme al suo patrimonio incommensurabile di sapere.
« Mi dispiace per la locanda… » prese voce ella, dimostrando un certo nervosismo, e un nervosismo in tutto e per tutto conseguente al confronto con Be’Sihl.
Un nervosismo, quello di Midda, che non avrebbe avuto a dover essere in nulla e per nulla giustificato dall’espressione impressa sul viso dell’uomo in quel momento, ma che, evidentemente, avrebbe avuto a dover essere inteso conseguenza della sua involontaria rievocazione dai di lui ricordi, e da quei ricordi dai quali, in quel momento, era emersa esattamente così come doveva essere allora.
« Non è un problema. » scosse il capo egli, reagendo quindi in linea con il proprio attuale stato d’animo, e quello stato d’animo quieto e pacato, del tutto indifferente tanto alla distruzione della locanda, quanto e più all’idea che ella potesse essere morta, e quell’idea che, al contrario, all’epoca di quegli eventi lo aveva straziato in maniera indicibile, portandolo a una ben diversa risposta verso di lei, e una risposta palesemente irata per quanto accaduto, e per averlo costretto a soffrire il lutto della sua perdita allorché avere a degnarsi di informarlo del fatto che, in effetti, tutto ciò era stato soltanto una macabra messinscena, nel tentativo di individuare il mandante dietro l’attentato da lei subito nel cuore della notte entro i confini della propria stessa camera da letto « Non è un problema, amor mio. Questa locanda è solo pietra e legna: tutto ciò che è andato perduto si ricostruirà e tornerà a essere persino migliore rispetto a prima. » la tranquillizzò, in quella che, in effetti, avrebbe avuto a dover essere inteso qual un’anticipazione dal loro futuro, per lui ormai passato « Ciò che conta è che tu stia bene. Solo questo, amor mio. Solo questo. »
Nessun commento:
Posta un commento